Il Secondo Eroe 15115n

Alessandro Spocci

Il secondo eroe

EEE-book

Alessandro Spocci, Il secondo eroe © Edizioni Esordienti E-book Prima edizione: marzo 2015 ISBN: 9788866902461

Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi. Copertina di Giacomo Garrò.

Poesia

Cerco di trovare pace anche quando non si deve, quando tutta la mia mente non è altro che una foto, di quello che ho voluto, di ogni momento. Non serve un poeta per dirmi chi eri, mi basta voltarmi e trovarmi da solo.

Non so ancora spiegarlo, è come la mia vita, quando penso di aver tutto, in un attimo ti ho persa. Ma cercarti ancora a fondo mi fa sempre stare a galla,

come se non fosse nulla a tormentare le giornate, e in un buio ti rivedo per poi perderti di nuovo nel sapore ancora fresco di quel bacio che mi hai dato.

A Caterina...

Questo libro è dedicato a mio padre…

Solo

“Chi sei?” “Non sai chi sono?” “No, figlio di puttana...” “Sei malinformato...” È il mio ultimo momento di gloria. Ci vorranno pochi secondi prima che i suoi uomini riempiano la stanza e mi mettano definitivamente in trappola. “Chi sei?” “Alessandro Vinci...” “Sei un idiota” mi dice. “Davvero?” “Arriveranno i miei uomini...” “Lo so...” “Tu sei pazzo!” “È vero anche questo” gli rispondo senza guardarlo in faccia. La moltitudine dei suoi uomini non tarda ad arrivare. Quaranta, o forse cinquanta brutti ceffi mi sono di fronte, riempiendo in qualche secondo la stanza.

Non penso di aver mai avuto così tante armi puntate addosso. L’unico motivo per cui non sono ancora morto è che mi sto facendo scudo con il loro capo. “Il primo che spara è come se uccidesse anche lui!” Premo forte la pistola contro la sua testa. “Non sparate!” grida Al Jadir, con le gocce di sudore che gli scendono dalla fronte sporca. “Non sparate!” insiste ancora. Il suo sudore bagna la pistola. Poi si rivolge a me. “Dove credi di arrivare?” mi domanda. “I miei uomini ti uccideranno comunque, Vinci.” So bene che le sue parole sono vere. “Hai ragione ancora una volta...” Non capisce il mio gesto, e non potrebbe essere altrimenti. “Pazzo!” mi urla. “Pazzo figlio di puttana!” È terrorizzato, più di me. Sono solo e non ho la minima speranza di uscirne vivo: ci vorrebbe un colpo di scena, uno di quelli che salvano il protagonista quando tutto sembra perduto.

Capitolo 1

Mi riparo dal freddo con la giacca sempre troppo leggera. Mi sembra di essere appena stato investito da un treno in corsa senza nessuna possibilità di frenata. Il grigio intorno a me non mi rallegra, mentre ogni automobile mi incrocia con indifferenza nella strada dei quartieri residenziali della Londra per bene. Sento già rumori, come se la notte fosse trascorsa in un momento e il sole, impaziente, non avesse atteso nemmeno un minuto a risorgere negli occhi delle persone. Vorrei avere capelli più lunghi a coprirmi il viso bianco. Chissà ora, terminata questa estenuante guerra, cosa sarà della mia vita, quali macabre atmosfere mi attenderanno a Roma. La mente è stanca, forse ancora più di quello che rimane del mio corpo acciaccato ed esausto. I miei occhi scuri sono stanchi di rimanere aperti e vorrebbero lasciarsi andare alla gioia di un vero sonno. L’ho avuta la mia seconda occasione: eccome se l’ho avuta. Non ce l’ho fatta, ancora una volta. Ho tentato tutto quello che dovevo, a contatto con i più potenti boss mafiosi di questa città odiosa, senza conoscere l’inglese, senza il minimo alleato, senza una sola persona a darmi man forte. Ero solo e lo sono rimasto anche dopo aver vinto la mia personale battaglia

contro il sistema. Peccato che la mia tristezza non sia cambiata di una virgola. Non è un lieto fine, anche se sono rimasto vivo. Vincere è una questione soggettiva, e dipende principalmente da come si sente la persona che è arrivata in fondo. Ho freddo. I miei vestiti si dimostrano di nuovo inadeguati per questo clima rigido che mi sta tormentando insieme alla coscienza. Avrei potuto prendere un giubbino a casa di Fred, ma non l’ho fatto. Il mio aereo partirà tra quattro ore ed io sto solo aspettando un taxi per farmi portare via al più presto. Che strana la sorte: prenderò lo stesso aereo che avevo promesso ieri a Caterina, nonostante nel frattempo sia successo di tutto. Sono stanco di questo: delle prostitute, del sangue, del freddo che non ho mai odiato tanto in vita mia. Anche ora, con le prime luci dell’alba, non riesco a trovare un aspetto positivo nel grigio di questi palazzi troppo alti, nella frenesia delle persone che cominciano la loro laboriosa giornata. Non mi sento così. Voglio tornarmene a casa mia, nella stessa misura in cui volevo andarmene prima di lasciarla. Non penso sia il luogo il problema della mia condizione. Non nascondo di aver pensato molto in quell’appartamento. Dare la pistola a Kelly in quel momento, rimanendo senza la minima difesa, è stato poco meno di un suicidio.

Se sono vivo non è per mia scelta. Non so se qualcosa cambierà ora che mi sono ritrovato con le spalle scoperte e tragicamente fragili. Se me ne fossi andato, non avrei lasciato nulla a questo mondo, se non uno stupido libro, una scia di morti e tanti errori in serie. Sono un eroe o un fallito? Finalmente vedo un taxi. Lo fermo alzando la mano. La macchina accosta, ricevendo un insulto da quella che lo segue per la manovra compiuta nel momento di girare a sinistra. C’è già confusione alle sei del mattino, ma non mi pare diverso dalla mia Roma, caotica e affollata. Salgo e chiudo la portiera con forza. Dico al tassista di portarmi al motel per recuperare il mio bagaglio a mano, scarno e leggero. Ovviamente è un inglese del cazzo. Viaggiamo con la calma olimpica che contraddistingue questa gente. Sono così diversi che quasi mi fanno stupire, anche se, dopo quello che ho visto in questi ultimi giorni, mi risulta difficile... “Aspettami qui davanti...” gli dico prima di scendere. È uno di quei signori anziani, che riconosci immediatamente perché vestono da inglesi con quegli stupidi giubbini lisci di colore indefinito. Insipido. Non mi piace il suo accento.

Mi dice che mi aspetterà con un tono indifferente di chi forse sta già lavorando da diverse ore. Entro e non va meglio. La mia stanza è uno schifo di disordine dopo solo pochi giorni di permanenza: non sono mai stato un maestro in questo, ma qui mi sono superato. Raccolgo le mie cose e le metto alla rinfusa dentro la valigia nera, chiusa con una cerniera difettosa. Nascondo sotto i vestiti anche la pistola, inizialmente, ma poi la mia intelligenza mi porta a riflettere. Come farei a are i controlli in aeroporto con una pistola in mio possesso e senza l’aiuto di nessuno? È impossibile. La guardo con nostalgia, come un cagnolino prima di essere abbandonato in autostrada. La sigla sull’impugnatura ancora una volta mi ha portato fortuna. A C. Alessandro Caterina. Mi piange il cuore a pensare di separarmi da lei, ma non posso fare nient’altro, purtroppo. Mi manca solamente essere arrestato in Inghilterra. Forse era destino che dovessi lasciare proprio in questa città un pezzo importante di me stesso. La butterò nell’immondizia, anche se non è la fine che meriterebbe una così gloriosa compagna di viaggio. È finita.

Caterina mi ha chiamato diverse volte, ma proprio non ce la posso fare a sentirla adesso. So di sbagliare. L’ho delusa ancora una volta. Non ho resistito al corpo di quella ragazza come non ho mai resistito a nessuna tentazione, nonostante il prezzo da pagare fosse la cosa più cara che avevo al mondo. Avrei voglia di rivederla, di darle un bacio, ma non lo farò, così come non risponderò al cellulare. Non ha senso mentirle di nuovo. Quelli come me non cambiano. Quante volte ho sentito dire questa frase, dagli amici, dai colleghi, alla televisione o nell’ultimo libro che ho letto. Banale ma maledettamente vero. Ripenso al bacio che le ho dato, appena due giorni fa: l’emozione più grande degli ultimi anni. Che bella che sei, Caterina. Nemmeno Dio riuscirebbe a cambiare quello che provo per te, anche se purtroppo rimango me stesso. Volerla così tanto non mi è bastato a tenerla stretta, a non provocarle l’ennesima delusione. Cosa ci avrà poi trovato in me? Mi guardo riflesso sulla vetrata del motel e non ci vedo altro che un uomo solo e disperato, senza più un motivo per andare avanti. I capelli sporchi non mi donano, per niente.

Caterina è il mio opposto: pulita, casta, pura come la madonna, a costo di diventare blasfemo. Nella hall triste di questo motel squallido, i colori dominanti sono il rosso spento e il blu. Ma come faccio a dormire in posti del genere? È una mancanza di rispetto verso me stesso, abituato una volta a frequentare un altro genere di luoghi. L’uomo che sta seduto alla reception mi dice che il conto è già stato pagato dal signor Couture. Bella la vita. Pagarmi l’albergo è stata l’ultima cosa che ha fatto prima di essere ammazzato proprio da me. È difficile pensare che quello che consideravo il mio migliore amico in realtà fosse solo l’ennesimo ostacolo alla mia libertà. Ci si affeziona alle persone in anni, a volte decenni, e poi è sufficiente qualche minuto per cambiare ogni cosa. Questo esito mi lascia ancora più solo di quando sono arrivato. Fred era un punto di riferimento nella mia vita e sapere di essere stato ingannato dal primo istante in cui l’ho conosciuto mi fa pensare di essere molto più fragile e vulnerabile di quanto credessi in precedenza. “Va bene grazie” rispondo al portiere. Mi guarda come se non avesse capito una parola di quello che con calma e chiarezza gli ho appena detto. Maledetti inglesi. Loro e il loro tono altezzoso. Sono razzista come i tifosi di calcio.

Non mi vergogno ad ammetterlo: dipendesse da me al mondo ci sarebbero solo uomini italiani. Fanculo gli inglesi, ma anche i si e anche i tedeschi. Non sopporto i neri, i mulatti, i gialli e nemmeno gli indiani, anche se non ne ho mai conosciuto nessuno. Forse è colpa di mio padre. Lui e il suo attaccamento alla patria. Mi ha lasciato in eredità qualcosa di cui non riesco a fare a meno. L’Italia con tutti i suoi difetti rimarrà sempre lo stato migliore al mondo. Il cestino fuori dal motel non è il cimitero perfetto per la mia bellissima pistola che abbandono con le lacrime al cuore. Mi dispiace sul serio. Quando la mollo, sento una leggera scossa sulla mano, come se mi avesse salutato un’ultima volta, ma probabilmente sono solo molto impressionabile. È finita anche con te. Ritorno dal tassista che puntualmente mi ha aspettato lì di fronte. Mi siedo dietro senza dire una parola, sul tessuto un po’ squarciato che quantomeno trattiene il calore. Mi accorgo di essere rimasto con due sole sigarette dentro al pacchetto bianco e rosso da venti. Ho perso il conto di quante ne ho fumate. Ripenso a questi giorni, intensi come pochi nella mia vita. Ripenso a Kelly. A quella stanza.

Non ha smesso di scoparmi, con la pistola puntata alla mia testa, con la certezza più che l’impressione da parte mia che quel colpo sarebbe partito da un momento all’altro. Non ha sparato. Mi ha fatto godere in modo unico e poi si è alzata spensierata e soddisfatta, come la più brava delle attrici. Non ricordo neppure dove sia venuto, quali danni abbia potuto commettere preso dall’eccitazione. Che momento. Che idiota. Ha posato la mia pistola sul letto. Non avevo mai scopato rischiando di morire. Ero ancora sdraiato ansimante quando ha cominciato a vestirsi. Ha sciolto le trecce bionde come se finalmente si fosse tolta la maschera indossata per tanti giorni. Le ho invidiato quell’istante. Avrei voluto cancellare e ricominciare da capo, come stava facendo lei. Non sembrava seccata dalla mia presenza lì dentro. Era a suo agio. L’ho osservata in ogni movimento. È stato diverso guardarla con gli occhi di chi sa come stanno le cose, con la lucidità giusta. Non era più una prostituta in difficoltà, ma un’attrice meravigliosa che si è presa gioco di me.

Ha perso un fascino ma ne ha guadagnato un altro di molto superiore. Quante parole buttate al vento tra di noi. Non saprei quantificare le bugie ascoltate in questi pochi giorni, ma la considero comunque la persona più piacevole incontrata nella mia breve permanenza in Inghilterra. È stato così, nella più spontanea delle situazioni, che lei, bellissima anche dopo l’amore, mi ha detto: “Allora io vado, Vinci...” Non mi sono alzato dal letto. Non so se per pigrizia o per mancanza di stimoli, a dire il vero. Non ci è rimasta male. Ho domandato l’unica cosa che m’interessava sul serio, con una curiosità che avrei voluto soddisfare. “Non mi dirai se sei un’attrice, vero?” Lei ha atteso un attimo a rispondere, ma non mi è sembrata avere dubbi sulla risposta da darmi. “No, e nemmeno quanto sono stata pagata, cosa penso, e se mi sei piaciuto per davvero...” Sorrido. Mi prendeva in giro anche lì, in un momento in cui avrebbe potuto smettere di parlare e dirmi una frase di circostanza. Non l’ha fatto e mi sono reso conto di conoscerla ancora meno. “Lo immaginavo” le ho risposto io. Era bella anche dopo il sesso, con il trucco che un po’ le era colato sulla pelle liscia e luminosa.

Respiravo un’atmosfera particolare. I suoi occhi sono difficilmente dimenticabili, in uno sguardo che sono riuscito a notare nella meraviglia di curve e sapori. Non era perfetta, non in quel momento, e proprio questo me l’ha fatta piacere così tanto. “Allora te ne vai?” “Dovresti andartene anche tu, c’è un cadavere in questa stanza...” Nessuno dei due si è voltato verso Fred. “Sì...” “Comunque grazie per non avermi sparato” aggiunge. Era lei a sorridere in quell’istante. “Grazie a te...” Siamo rimasti a guardarci a distanza per qualche secondo, in un assoluto silenzio che mi piaceva ed eccitava. Tutto così strano. “Allora vado...” L’ho assorbito solo in quel momento. Sarei tornato solo, come poche ore prima. Non volevo farle pesare il suo volersene andare, perché in fin dei conti era giusto così. Dovevo rimanere solo. Mi guardava a malapena. Era il momento.

“Addio Kelly...” Mi sono grattato la tempia, sintomo di nervosismo evidente che cercavo di nascondere in modo goffo. “Addio Ale...” Prima di uscire dalla porta, lasciandosi alle spalle tutto me stesso, mi si è avvicinata, sul bordo del letto. All’inizio non capivo. Ha tirato fuori dalla tasca una piccola scatolina che ha poi appoggiato sulla mia pancia mossa dal continuo inspirare ed espirare che mi aveva creato tutto il nostro incomprensibile rapporto. Era coperta solo da un piccolo adesivo vecchio. L’ho presa in mano, con la paura di romperla e nessuna idea di cosa potesse contenere. L’ho aperta di fronte a lei. Una collanina. Non sapevo se fosse d’oro, o semplicemente dello stesso colore, né se il suo gesto fosse dettato dalla pietà nei confronti di una persona distrutta come me, o dal volermi ringraziare di essermi comportato come un gentiluomo. Non era importante. L’ho osservata bene, facendola are davanti al mio sguardo curioso. L’ho fatta scorrere in mezzo alle mie dita lunghe e ruvide per sentirla meglio. Ho guardato poi lei. “Cos’è questo?” Mi ha sorriso e mi ha detto solo una frase prima di darmi un bacio lento appoggiando le sue labbra alle mie immobili, e andarsene.

“È un portafortuna che mi diede mia madre: è tutto quello che hai di me...” Non l’avrei dimenticata, ne sono stato certo. Non ho fatto in tempo a dirle nulla che lei, leggera come una brezza provenzale, già era fuori. La guardo ora la collana, su questo taxi, e la tocco con la voglia di conservarne il ricordo, con la stessa intensità di quei momenti. Non puoi capire se non l’hai vissuta. Sono sicuro che di Kelly non potrò mai dimenticarmi. Sento il suo odore sulla mia pelle sporca e mi piace. Non era amore, e nemmeno qualcosa di simile: era Kelly. Non saprei descriverla in un altro modo. Finalmente la macchina accosta e mi ritrovo davanti all’aeroporto brutto e grande di Gatwick. Questo blocco di cemento, imponente e spaventoso al tempo stesso, mi attende come la morte un attimo prima dell’ultimo respiro. È tutto grigio e spento, e gli unici colori sono quelli dei vestiti e degli zainetti di ragazzi giovani e turisti appena arrivati o pronti a ritornare. Saranno sicuramente più spensierati di me. Pago centoventi sterline al tassista, di cui fra pochi secondi dimenticherò il viso e i capelli e i lineamenti. “Good bye...” “Ciao...” Non mi rimangono più molti contanti. Ne ho appena per pagare il biglietto aereo.

L’aeroporto è triste, come il mio umore in questi istanti lunghissimi di malinconia e riflessione. Vorrei svagarmi un po’ prima di rimettermi seduto, ma non ho interessi di nessun genere. Che schifo di momento. Sento solo un grosso vuoto nello stomaco, come quando stai attendendo la notizia più importante della tua vita, anche se nel mio caso non ho più un solo scopo che mi aiuti ad andare avanti. Magari m’iscriverò a un movimento politico, o a qualche sport, giusto per darmi un senso che in questo istante non riesco a trovare. Dovrò cercare un lavoro. Non ho più molto da parte di tutta la mia fortuna. Non è bello essere me. Un uomo mi si avvicina a chiedermi l’elemosina e io gli metto sulla mano destra gli ultimi penny che mi sono rimasti in tasca. Serviranno più a lui che a me. Mi ringrazia come se gli avessi salvato la vita e poi torna a supplicare qualcun altro in giro per la sala d’attesa. Attendo due ore prima partire. Giro come un turista spaesato per i negozi e le profumerie dopo i controlli. Faccio in tempo ad annoiarmi tantissimo prima di salire finalmente sull’aereo e abbandonare definitivamente questa città che tanto mi ha dato e tutto mi ha tolto. Non sono sereno, ma va bene anche così. Sono stanco. Non dormo da chissà quanto tempo ormai, costretto a rimanere sveglio dal

pericolo che non ha smesso di seguirmi. Dovrebbe essere tutto tranquillo, ora. Guardo l’aereo decollare e alzarsi da terra con una naturalezza che ogni volta mi pare incredibile. Che vita meravigliosa. Chiudo gli occhi e dormo, almeno ora che non ho più nulla da aspettarmi.

Kain: la Faina

I tre si avviano verso l’albergo, convinti di aver fatto l’affare della vita ad accettare quell’incarico. Le strade buie sono illuminate solo da qualche lampione vecchio qua e là, in un’atmosfera resa più inusuale dal caldo insopportabile della nottata egiziana. Si spingono e festeggiano, felici come adolescenti in vacanza, spensierati anche troppo. “Io mi voglio fare un’auto nuova, magari una Porsche...” “Non ci pagherai un bel cazzo con la tua parte...” “Ne ho anche altri...” “Al massimo comprerai una 207...” Il più alto dei tre, quello che ha dato l’ultima parola prima della firma, è l’unico ancora sobrio e scampato al pericolo di rum ed erba. “Che cazzo fate?” urla, girandosi verso gli amici che si fermano accanto ad un cestino della spazzatura a urinare. “Che fretta hai, Marco?” gli rispondono quasi in coro. “Non è sicuro ora stare qui: muovetevi, cazzo!” “Siamo in tre e tutti grandi e grossi!” “Muovetevi e basta!” È teso e attento, perché i dettagli in certe situazioni sono fondamentali.

Fa caldo, un caldo insopportabile. Marco Giovalli si chiama, un ragazzo giovane che ha cominciato a entrare nel mondo delle bische solo da pochi anni, sufficienti a capirne i meccanismi e i trucchi per restare fuori dai problemi. Eppure qualcosa non lo tranquillizza, stasera. La notte è così silenziosa che quasi gli fa pensare al marcio, alla trappola. Fissa gli amici idioti e spensierati che continuano a urlare e gli paiono prede facili e indifese. “Ragazzi, veloci!” Non lo stanno neppure ad ascoltare mentre litigano e giocano a chi la fa più lontano. Non tira un filo d’aria. Non fa in tempo a voltarsi, che se lo ritrova a una decina di centimetri, senza nemmeno essersi accorto dei suoi i. È come se avesse camminato nell’aria, senza emettere il minimo rumore. Come cazzo avrà fatto? Il ragazzo, alto quasi il doppio di lui, muove la mano verso la tasca per prendere un coltellino, unica arma a sua disposizione. Mai mossa fu più errata. Il piccoletto fa molto prima di lui e gli conficca un cacciavite nello stomaco, girandolo dentro al suo corpo con una velocità disarmante. Mette la sua mano sporca sulla bocca dell’altro, per impedirgli di emettere un qualunque suono. Il ragazzo non fa nemmeno in tempo a cadere a terra che subito il piccoletto se lo mette in spalla e lo appoggia al muro di una via ad angolo.

Gli altri due non si accorgono di nulla fino a quando non hanno finito e riallacciato la cintura. “Dobbiamo spenderli a puttane!” “Pensi solo alle puttane...” “Sei frocio?” “No, ma tu sei malato...” “Quelli con loro sono i soldi spesi meglio, vero Marco?” Silenzio. “Marco?” Non lo vedono da nessuna parte. “Marco dai, vieni fuori!” Si guardano intorno, con la vista un po’ annebbiata da tutto quello che hanno ingerito, e completamente in balia degli eventi. “Non lo vedo!” “E quello chi cazzo è?” Eccolo lì, in mezzo alla strada. Quei due ragazzi ingenui e ubriachi non rappresentano certo un pericolo per lui. “Chi sei?” domanda uno dei due. Non risponde. “Ti ho chiesto chi sei!” Si decentra, andando a perdersi nel buio della via dove si trova il cadavere del terzo.

I due polli lo inseguono lentamente, e la loro preoccupazione si trasforma in terrore quando trovano il corpo di quello più in gamba, appoggiato a un muretto. Non fa in tempo a dire “cazzo” il più stupido, che già la Faina gli è dietro, e con lo stesso cacciavite appena usato, lo colpisce alla colonna vertebrale. Probabilmente nemmeno si accorge del momento in cui muore. Il corpo crolla a terra. Non ci sono molte speranze, ora. Il terzo e unico sopravvissuto è in preda al panico, ormai completamente sicuro di non avere possibilità di salvezza. Se solo fosse un po’ più lucido. Prende in mano un piccolo pugnale, che nel suo immaginario dovrebbe proteggerlo dal nemico, mentre allunga solo di qualche secondo la sua sopravvivenza. Lo agita a vuoto, convinto di sentire il suo respiro addosso. È dietro! No! Falso allarme. Dove si sarà nascosto? Non ha la lucidità per capire che in quel vicolino senza la minima visuale non ha speranza di farcela. Dovrebbe spostarsi in fretta ma non lo fa. Per la Faina, spietata e silenziosa, è un gioco da ragazzi colpirlo alle spalle e piantargli il solito strumento sul collo. Il cacciavite si colora di sangue, mentre il poveretto s’inginocchia a terra e muore lentamente, costretto a guardare in faccia il suo assassino, basso, con il

viso brutto e segnato e una cattiveria fuori dal comune. Esala l’ultimo respiro e si accascia. Anche questa è fatta. Il caldo umido della notte egiziana nasconde ogni rumore e curiosità, mentre accade semplicemente quello che doveva, quello che tutti si aspettavano. La Faina comincia a rovistare nelle tasche di tutti e tre. Uno ha solo duecento euro, l’altro centocinquanta, mentre il plico da diecimila è nella tasca dell’ultimo. Bottino totale: 10.350 euro in banconote arancioni, facilmente smerciabili. Tre omicidi facili per una buona ricompensa. Kain, la Faina.

Capitolo 2

L’atterraggio non è per nulla morbido e mi sveglio bruscamente. Probabilmente il pilota sarà una donna. Comincio a sorridere da solo mentre penso alle battute stupide che ogni tanto mi vengono in mente. Ho un leggero senso di vomito che mi a solamente quando le piccole ruote toccano terra. Il viaggio ha fatto schifo. Questo aereo è scomodo come pochi altri al mondo, tanto che mi sembra di aver ato un’ora e mezza seduto sopra a uno scalino. La schiena è a pezzi, e come se non bastasse mi sono accorto di avere dei piccoli taglietti sulle braccia, probabilmente risalenti ancora alle colluttazioni avvenute a Londra. So che per i viaggi più lunghi esistono aeroplani con sedili reclinabili che diventano all’occorrenza delle specie di sdraio, con la televisione e addirittura la play station a disposizione di ogni eggero. Costano un mucchio di soldi, ma il viaggio almeno è più confortevole. Per fortuna ci siamo. Ho male ovunque, dalla schiena alle spalle fino al collo, e questo è uno dei motivi per cui non amo viaggiare. I miei occhi stanchi e socchiusi scrutano intorno a me molti dettagli che nell’ora e mezza appena trascorsa non avevo notato.

Le scritte di sicurezza in inglese e tedesco, la linea verde dietro ai sedili centrali, la polvere accumulata in tutti i viaggi da chissà quanto tempo. Non serve a rianimarmi. Noto solo ora la presenza di una hostess che ci invita a restare accomodati al nostro posto fino a quando non si accenderanno le luci. È una delle poche hostess brutte che abbia visto in vita mia: cicciottella, con la faccia segnata da acne rossa che la dipinge malamente. Orribile. Sarà un’inglese. Con la sua voce squillante e irritante al tempo stesso, mi risveglia bruscamente dal torpore che sto vivendo con la testa appoggiata alle mani e la bocca impastata di quando dormi poco e male. È italiana. Ho voglia di farmi una doccia calda, anzi bollente. L’idea di dover ritornare in quello squallido monolocale disordinato e sporco mi fa aumentare il senso di nausea. Probabilmente devo avere qualche rata dell’affitto arretrata perché non ricordo di aver pagato ultimamente. Il proprietario, uno di quei ragazzini grassi, pieni di soldi, che si approfittano del denaro dei genitori per vivere di rendita, non sarà per nulla contento. Posso scommettere che troverò qualche lettera nella mia cassetta inutilizzata e chiusa da mesi. Non me ne frega niente. Ho problemi più grandi a cui pensare. Devo rimettermi in piedi.

Accanto a me sono seduti un uomo e la sua bambina, che avrà a occhio e croce sei anni. È bella. Non ho mai pensato a come sarebbe stato diventare padre, e probabilmente ora è troppo tardi anche per immaginarmi in un ruolo che non mi è mai appartenuto veramente. Le ha tenuto la mano nel momento dell’atterraggio e solo ora gliela lascia. Si volta verso di me con un sorriso spensierato e felice che le invidio dal profondo del mio cuore. Le sorrido anch’io, con un po’ di timidezza per la mia non abitudine ad avere a che fare con i bambini. “Cosa hai fatto all’occhio?” mi chiede con una vocina alta e dolce come quelle che si sentono nei film. La voce del padre subito s’intromette. “Non disturbare il signore, Matilde...” Non ricordavo di avere un livido sull’occhio destro. “Non si preoccupi… Camminavo guardando per terra e ho sbattuto contro un lampione” rispondo io. “Non sei stato attento” mi dice ancora. “Hai ragione, Matilde...” Le sorrido. Lei si mette a ridere. Devo essere molto buffo ai suoi occhi e la cosa non mi dispiace per niente, anzi mi fa sentire più umano. Il breve dialogo con questa bambina è il momento più felice di oggi.

Finalmente le luci si accendono ed è ora di scendere. Prendo in mano il mio bagaglio senza troppa fretta, atteggiamento classico di chi ha poco da fare. Lascio are il padre e la bambina, che mi guarda ancora una volta con il suo sorriso . “Grazie” mi dice. Li vedo allontanarsi insieme e mi sale ancora di più questa strana malinconia a comando. Sono le sei di sera. Mi trascino svogliato fino alla scaletta. Appoggio i piedi a terra e va già meglio. Se non ci fosse tutta questa gente, mi metterei due dita in gola per togliermi il pensiero. Sulla pista c’è puzza, e un vento caldo spostato dai motori di aerei appena arrivati o in fase di accensione. Guardo l’orologio. Alla fine sono arrivato con una puntualità disarmante. Me ne rendo conto dopo essermi recato all’uscita e trovato di fronte lei, in tutta la sua bellezza. È un miraggio visto nel deserto, uno strano questionario alla parte più profonda di me. Caterina. Oh mio Dio. Forse è una visione: non può esserlo.

Non pensavo che sarebbe venuta comunque a prendermi in aeroporto: non le ho più risposto alle telefonate. Forse non mi sto rendendo conto di quello che accade seriamente: lei è qui di fronte a me. La vita è strana. È meravigliosa. Ovviamente mi riferisco a lei e non alla vita, questa volta. Mi guarda e mi accenna un sorriso leggero, come se volesse dirmi “eccomi qui davanti a te...” Le vado incontro con la mia valigia trolley nera che viene trascinata lungo il pavimento liscio e sporco dell’aeroporto, mentre lei mi attende immobile. Ci guardiamo per un paio di secondi. Questo è il tempo in cui la mia coscienza mi vorrebbe spingere a fare la cosa giusta, almeno per lei. È il mio ennesimo bivio. Da una parte la mia felicità a scapito della sua, dall’altra il ritorno a quello che sarebbe un inferno per me, abbandonato ai miei vizi, al termine di tutti i miei propositi, a una solitudine inevitabile. Ognuno è libero col suo destino. Mi sarei aspettato timidezza, indecisione e una confusione che da parte sua sarebbero più che giustificate. Mi tira uno schiaffo. Forte e deciso. Non me ne aveva mai dati prima. Non dico una parola, ma mi tocco la guancia come se volessi mostrarle di averlo

sentito. “Perché non mi hai risposto?” Non so che dire. La verità? “Sono state ore molto difficili...” “Non hai avuto neanche un minuto per me?” “Mi dispiace...” Non riesco a capire cosa ci sia dietro a quello sguardo fisso. Non so nemmeno perché sia venuta fino a qui: forse voleva solo mandarmi via per sempre. In ogni caso avrebbe ragione lei. Giuro che ho provato ad aprire la bocca per dirle la verità, ma lei per prima ha interrotto il silenzio. “Voglio tornare a casa con te...” Mi ha fatto fermare il cuore. Non l’ha detto con una voce dolce, né speranzosa. Sembra piuttosto uno sfogo, una frase che la stava strozzando e doveva uscire per farla star meglio. È come se il buco nello stomaco fosse stato riempito in un momento solo di tutto quello che mancava della mia vita. È decisa, nascosta da una maschera di sicurezza che non riesce ad indossare molto bene e la rende irresistibile ai miei occhi e a tutti gli altri sensi. Cazzo.

Ma come mi sono ridotto? Non ho neppure accennato a Kelly, a tutta la storia sporca londinese appena trascorsa. Ho ancora l’odore e il sapore di un’altra donna addosso, ma non posso rinunciare a lei dopo essermela trovata così vicina. Il modo in cui mi guarda mi fa stare male, e pensare al fardello che dovrò portare per chissà quanto tempo, è una tortura. Come si fa? Non pensare. Non perdere tempo a pensare. La tua vita è ora, Ale: la tua vita è ora. “Lo voglio anch’io...” è l’unica frase che riesco a dire. Cerca di non sorridere, ma mi si mostra già più sollevata. “Cosa dovrei fare ora?” mi chiede un po’ imbarazzata. “Non lo so...” Non accenna ancora a muoversi dalla sua posizione. Rimango in prestito. “Non voglio più soffrire!” aggiunge con quel suo tono, tornato già dolce e tenero. Vorrei poterlo promettere. “Lo so” mi limito ad aggiungere. So solo che è tenerissima. “Non farmi più soffrire!” mi ripete questa volta con la voce più alta.

Non posso prometterlo, ma glielo prometto. Fa quello che più mi piace, l’unico gesto che mi regala serenità. Mi abbraccia forte, come forse non aveva mai fatto. È più di qualche secondo, è un temporale di benessere che annienta ogni tipo di disperazione. La stringo forte anch’io. È l’unica famiglia che abbia mai avuto, il pensiero fisso di una vita trascorsa insieme, il mio bellissimo essere selvaggio e in un attimo addomesticato. La sento. La sento forte. Solo dopo qualche istante e migliaia di pensieri ci stacchiamo. “Vuoi una mano con la valigia?” Le rispondo di farcela da solo. Usciamo dall’aeroporto e anche il minimo elemento mi scalda il cuore: che bello non dover prendere un taxi, ma camminare fino alla sua auto parcheggiata a centinaia di metri di distanza. Mi tengo a tratti la schiena, come se il contatto con la mia mano potesse aiutarmi a lenire il dolore. Lei lo nota, ma almeno per ora non vuole farmi domande. Non ci diciamo una parola fino alla macchina e noto una strana timidezza tra noi, di quelle piacevoli. È come se stessimo ricominciando tutto da capo. Le centinaia di automobili parcheggiate intorno mi danno un senso di sporcizia e frenesia da cui vorrei allontanarmi.

Mi piacerebbe prenderla per mano e andarmene insieme a lei in qualche posto diverso da questi. Trascorrere anche un solo momento in una delle campagne del Vermont, o essere sorpresi da un acquazzone in un’immensa distesa di verde dello Yorkshire, o anche più semplicemente godermi il silenzio della nostra intimità. Partirò con lei: ne sono certo. Non so per quanto riuscirò a convivere con il senso di colpa per quello che ho fatto a Londra, ma voglio cambiare e diventare l’uomo che si merita. È facile avere buoni propositi, lo so fin troppo bene. Non lo penserei se non ci credessi. Mi siedo nel posto del eggero. Ho male alla schiena, quasi come se fossi bloccato. Devo ammettere di aver risentito di tutto questo. Ho dormito poche ore in questi giorni, su materassi scomodi, e spesso nemmeno su letti veri. Ho preso botte e sono riuscito a darne una in più per rimanere vivo, a godermi il quotidiano traffico romano insieme alla mia anima gemella. Che sensazione. Rompe il silenzio con una domanda la cui risposta mi risulterà davvero molto difficoltosa. “Allora?” “Allora cosa?” “Pensi di non dirmi nulla, o mi racconterai cosa è successo a Londra?” “Certo...”

Faccio un sorriso amaro. “Non come mi aspettavo...” aggiungo. “Cosa significa?” mi chiede in modo interessato. “Sono rimasto vivo e questa è l’unica nota positiva...” Non è abituata a sentirmi parlare in questo modo. La vedo agitata. “Certo che sei rimasto vivo… In che casino ti sei ficcato?” “Ora è tutto finito...” “Sì, ma non mi hai detto cosa è successo...” “Ora ti spiegherò tutto...” “E Fred?” Trascorre un secondo di silenzio. Non è facile dirle quello che sto per dirle, ma devo e così prendo coraggio per emettere queste due parole. “È morto...” Lei inchioda. Fortunatamente l’auto dietro alla nostra è sufficientemente lontana da riuscire a non tamponarci, ma lei sembra non avvedersene. Il guidatore suona il clacson imprecando contro di noi e ci supera, probabilmente facendo qualche brutto gesto, ma nessuno dei due se ne cura. “Cosa?” Solo ora accosta in uno spiazzo.

È scioccata. “Cosa è successo?” Non so dove abbia trovato l’istinto per dirlo, ma quello che le confesso un secondo più tardi è molto peggio. “L’ho ucciso io...” Mi guarda con occhi increduli. “Cosa stai dicendo, Ale? Come è possibile che tu lo abbia ucciso? Mi stai prendendo in giro, vero?” Non capisco se abbia intenzione di uscire dall’auto e scappare, o colpirmi o chiamare la polizia: non fa nulla di tutto questo. Ho agito come dovevo, non devo sentirmi in colpa. “Non era chi credevamo fosse...” Mi sento come un pazzo da manicomio che cerca di convincere i medici della sua sanità mentale. “Cosa vuoi dire?” È sempre più nervosa. Le spiego nel modo più chiaro, lento e completo possibile tutto quello che è accaduto, senza omettere i particolari della sua morte, senza dimenticare di specificare che si trattava del fratello di Scott Murphy. Ho raccontato la storia esattamente come è successa, con l’unica eccezione di Kelly a cui non ho mai fatto riferimento. Ho parlato dei luoghi e dei boss mafiosi, e della prima chiamata ricevuta e delle prostitute e di tutto il trascorso. Per me è come riviverle quelle scene, in un modo confusionale e spaesato, come se stessi scrivendo un libro senza un ordine temporale ben definito.

Quanto è dura. Nella mia testa rivedo la lotta con Koller, e la mia quasi certezza di essere già morto mentre mi stritolava togliendomi il respiro, il cadavere di una prostituta, Steven Mint lo psicopatico, e poi Gordon e Galletti, e la vita di Jack Norton. È tutto come in un film, una storia così assurda da sembrare incredibile se non vissuta direttamente, sulla propria pelle. È sconvolta. Non penso sia solo la morte di Fred a lasciarla così attonita. Non mi ha mai visto in questa veste. Per lei sono sempre stato un poliziotto, punto e basta. Non le ho mai voluto parlare delle mie missioni, né delle sparatorie, né dei brutti ceffi con cui sono venuto a contatto. È strano parlare della morte di una persona che conosci così bene, però penso che lei stia capendo. Ha una sensibilità che non ho mai trovato in nessun’altra. Non parla per qualche minuto, ma non è un silenzio rabbioso, sembra piuttosto un non volermi colpevolizzare più di quanto non abbia fatto io stesso con le mie tante parole. È premurosa anche in questo. Mi sento più in colpa per essere andato con una puttana che non per aver ucciso un amico. Di una cosa sono certo: andrò all’inferno. L’unica parola che pronuncia, ripartendo con l’automobile, è una che forse non ho mai sentito uscire dalle sue labbra. “Cazzo...”

Mi fa quasi sorridere sentirglielo dire. Continua a guidare fino a casa sua, magari un giorno, di nuovo, casa nostra. Non siamo in centro, in mezzo alla confusione. Abbiamo una villetta fuori città, un piccolo giardino e soprattutto un garage privato che è di una comodità estrema. Il prato lo tiene lei. Mi sembra di vedere una minuscola oasi felice di piccole piante, siepi e fiori di ogni colore. Non lo ricordavo più. Era da così tanto che non entravo qui dentro, quando ancora mi consideravo il marito e l’uomo ideale. C’è un profumo che conosco, di casa. Parcheggia facilmente. Portiamo la valigia in casa in modo lento, nonostante la mia impazienza di entrare. Non pesa molto, anche se faccio ugualmente fatica a sollevarla per riuscire a superare il gradino. Eccomi qui. Sono di nuovo dentro. Non mi sembra cambiato nulla da allora. “È tutto in ordine, senza di te!” mi dice, con un’ironia che apprezzo davvero. “Dimenticalo” le rispondo. “Ti conviene rigare dritto...”

“Altrimenti cosa succede?” “Potrei farti dormire in giardino con il cane…” “Cosa?” Un cane? Io odio i cani. È la prima volta che ne sento parlare e non mi pareva nemmeno di averlo visto ando per il giardino. Forse è una piccola cosa, ma per un uomo senza equilibrio, anche questi dettagli possono essere importanti. Non so se potrò mai abituarmi all’idea di avere un cane che gira libero per casa, mettendo in disordine tutto quello che attraversa. In fondo ci sono già io a incasinare tutto. “Ti sto prendendo in giro!” continua. “Che stronza...” Ride di gusto prendendomi in giro, come se fossi un bambino, come se mi conoscesse più degli altri. Mi piace da morire. Accarezza i miei capelli spettinati e li incasina ancora più di quanto già non siano. Deve alzare molto il braccio per arrivarci. “Sei piccolina...” “E tu sei troppo alto!” Le finestre e i due divani del salotto, il tavolo, le sedie in legno, la televisione piccola, il pianoforte marrone con cui si esercitava.

È proprio quest’ultimo ad attirare la mia attenzione. Mi ci avvicino, come ipnotizzato dalla forma, dal colore, dall’eleganza di quello strumento che avrei voluto imparare a suonare. Non l’ho mai fatto. Lei sì. “Lo suoni ancora?” le chiedo. Si volta e mi vede lì, con la mano sulla superficie liscia. È come se lo stessi accarezzando. “Non molto spesso” mi risponde. “Suonalo ora...” Lo guarda. “Suona per me!” So che la sua timidezza le farà rispondere di no. Infatti è così. Mi fa un sorriso piacevole e solo dopo la terza richiesta, aprendole il piano e sistemandole lo sgabello, la convinco. “Sei a casa da un minuto e già insisti...” “Sono un bambino, lo sai...” Appoggia le dita su quel pianoforte con una leggerezza che mi pare impossibile per un’altra persona. Io sono in piedi lì accanto. Deve essere un pezzo di Beethoven o forse Mozart.

Non li distinguo mai. A essere onesto non distinguo nessun compositore, ma ricordo che in ato suonava sempre quei due. Posso solo dire che mi piace sentire quelle note, come se non fossero mai esistite prima che le sue dita toccassero i tasti. Mi fa sognare. L’ho accompagnata a un concerto una volta, proprio qui a Roma, al Teatro Argentina, e lei l’ha amato. L’ho resa felice, e solo per questo mi sentivo un uomo. Sono dietro di lei. Le appoggio le mani sulle spalle. Per qualche secondo gliele massaggio, sento le vibrazioni del suo corpo, respiro la musica che è dentro di lei e la possiede totalmente come in un atto d’intimità estrema. Sta sognando. Proseguo nella sua corda, di note, accordi e carezze, fino a quando la melodia non è terminata e lei porta una delle mie mani al viso e la bacia. Questa è l’atmosfera di casa che non ho saputo respirare altrove. “Sei bravissima, come ricordavo...” Lei arrossisce. “Non è vero!” “E poi sei così bella...” “Smettila! M’imbarazzo se dici così...” Mi piace metterla in imbarazzo.

“Suoni meglio di Beethoven...” “Sì ma questo era Mozart...” Cazzo, sapevo che avrei sbagliato. Lei si mette a ridere e questo mi basta. Sono a casa! Casa mia. Non ne ho più avuta una vera, così come non ho più avuto una vita vera. Cosa sono senza di lei? È come se mi leggesse dentro. Mi faccio una doccia. Mi prepara con premura l’asciugamano, il sapone e persino una piccola stufa per tenere caldo il bagno: nulla a che vedere con le docce fredde e solitarie del motel in Inghilterra. Loro e le loro moquette in bagno, e i loro lavandini alti e nemmeno un bidet per lavarsi il culo. Sporchi e altezzosi. Non ci tornerò mai più. È come vivere in paradiso e doversi muovere per peggiorare. Qui ho tutto quello che mi serve per essere felice. Rimango sotto l’acqua per molto tempo perché mi sembra di depurarmi sotto al getto caldo. È come se lo sporco di quello che ho fatto scivolasse via con l’acqua bollente e purissima.

Penso al fuoco della casa di Fred, alla tanica di benzina che ho usato per bruciare tutto e cancellare ogni prova che potesse ricollegare il suo omicidio a me. Io lì non esisto. Nessuno sa della mia permanenza inglese, se non dei cadaveri. Già immagino i giornali e le televisioni che ricostruiranno il tutto, pensando a qualche banda mafiosa che seguiva lui. Mi dispiace per sua moglie, che per me resterà in ogni caso una persona pulita e per bene. Non è una colpa sposare un farabutto. Nessuno sa nulla dell’accaduto a parte Kelly che non ha il minimo interesse a parlarne. In quella casa ho perso quello che ho considerato il mio più grande amico, ed è stata proprio la mia mano a premere il grilletto. So che dovevo, ma non è facile comunque. I flash mi si alternano in testa con una frequenza spaventosa. Lo vedo crollare a terra. Mi servirebbe uno strizzacervelli o forse un prete, o magari solo una camomilla. Ci vorrà tempo per sentirsi meglio, anche se so che non lo dimenticherò mai, perché certe cose rimangono. Ho lei. Esco dalla doccia, coccolato dal caldo della piccola stufa. Dopo tanti anni, finalmente mi sento a casa.

Capitolo 3

“Ale, sei pronto?” Sto finendo di allacciarmi i polsini della camicia bianca e blu che non mettevo da chissà quanto. Ho già addosso i pantaloni neri e le scarpe che mi ha regalato lei pochi giorni fa. Viene a vedermi in camera per capire a che punto sono e si mette a ridere trovandomi in difficoltà. Mi prende il polso in fretta e allaccia in un secondo i bottoni che mi stavano dando così tanti problemi. “Sei un disastro!” esclama senza guardarmi in faccia, ma con l’attenzione rivolta all’orologio. Sono riuscito ad ammazzare cinque persone in meno di un minuto eppure non riesco a vestirmi da solo. Che mondo incredibile. Mi dà un bacio veloce sulla bocca, che mi lascia un piacevole sapore di frutta e di fresco. È vestita con un abito bianco e stretto che mette in risalto il suo corpo magro e slanciato. Sembra quasi che debba andare a una serata di gala per qualche particolare cerimonia. Ha un profumo particolare.

Non lo dimenticherò. Ci ha messo mezz’ora abbondante a truccarsi mentre io guardavo il finale di un film in televisione e mi riducevo a prepararmi all’ultimo secondo. Me l’ha detto più di una volta di cominciare, ma come sempre ho fatto di testa mia e il risultato è lei pronta con me ancora qui in affanno. Mi porge un maglione viola nuovo che mi veste largo e mi fa sentire comodo. Lo abbiamo comprato qualche giorno fa, e lei ha insistito perché prendessi la taglia in più: come accade molto spesso, aveva ragione. “Dai sbrigati, Ale, che siamo già in ritardo...” Solo dopo essermi messo la giacca e tre spruzzate di profumo, usciamo da casa e ci avviamo. Chiudo la porta a chiave. La destinazione è casa di Antonella, la migliore amica di Caterina. È una serata importante. A casa sua, ci presenterà il suo nuovo fidanzato, di cui ha già parlato un migliaio di volte a Caterina. Sono contento anch’io di andare. Non che m’interessi particolarmente conoscere quest’uomo, ma rivedo volentieri Antonella dopo forse due anni, e inoltre sono affamato e spero che abbia cucinato per l’occasione qualcosa di buono. Magari carne. Di lei ho un bel ricordo: è simpatica e brillante, probabilmente la mia preferita tra le amiche di Caterina. Di lei ricordo l’arrosto. È con ferma convinzione che sostengo sia il suo piatto forte, e forse per questo

ho pochi dubbi sul fatto che sarà proprio questo il menù della serata. Quando non compi certe azioni da molto tempo ti sembrano più piacevoli di quanto forse non siano realmente. Guido la mia bella Carrera grigia per chilometri per le strade verdi della periferia romana. Lei, al mio fianco, è eccitata da quello che stiamo per fare e non è brava a nasconderlo. È la prima uscita che facciamo insieme da quando sono ritornato: quello che si merita. A momenti mi torna in mente il segreto che le nascondo, ma riesco ancora a tenerlo per me senza esplodere. Kelly non esiste più se non nei ricordi angosciati del ato. Mi sembra di sentirne il profumo per qualche secondo, ma non è altro che la mia immaginazione. Arriviamo in questo paese in provincia che mi sembra distante migliaia di chilometri dalla confusione della città. È abbastanza alberato, con pochi rumori e villette a schiera e qualche casa sparsa qua e là. “Ti ricordi dov’è?” “Sì bambola ma non ti agitare!” “Non sono agitata...” Mente. Lo è, e io lo so. È emozionata per tutta questa situazione. Parcheggio di fronte a casa di Antonella senza il minimo problema e la cosa mi

sorprende, viste le mie abitudini. Suona lei il camlo. Nella mano destra tiene una borsa con all’interno una crostata di marmellata di albicocche preparata nel pomeriggio. Io ho una bottiglia di vino spumante. Probabilmente sono ridicolo in questa circostanza, vestito a festa con il regalo messomi in mano da Caterina. Non importa. ando per un piccolo ma grazioso giardino entriamo nella villetta. “Ciao!” Si abbracciano sembrandomi due ragazzine invece che donne di quasi quarant’anni ma penso sia un aspetto positivo. L’uomo le guarda e si volta verso di me solo per un istante, senza dire una parola, ma aspettando con un sorriso timido e di circostanza il suo momento per presentarsi. “Ciao Ale” mi dice solo ora Antonella. Mi saluta abbracciandomi, già aggiornata nei dettagli sulla situazione da Caterina per telefono. Non sembra comunque molto interessata a noi stasera. Finalmente lui fa un o avanti. “Piacere, Lorenzo...” Mi stringe la mano con una bella forza. Porge la mano anche a Caterina. Restiamo in piedi nell’ingresso per un paio di minuti, forse con un piccolo

imbarazzo generale. La sala è grande e, con la tavola apparecchiata nel mezzo, lo sembra ancora di più. I divani sono bianchi con decorazioni blu, in stile marinaro. Lo sorprendo a guardarmi un paio di volte. Chissà, forse vuole studiarmi. Devo ancora inquadrarlo, come penso anche lui. Antonella ci fa accomodare a tavola, dove mi rendo conto con forte delusione che la cena non sarà a base di vitello, bensì del piatto peggiore per me. No! Il mio stomaco brontola al solo pensiero. Caterina sorride e mi guarda non appena lo scopre. Mi mette la mano sulla gamba come se volesse dirmi di portare pazienza. Ci sono cose peggiori. Certo è che il sushi è uno degli alimenti più rivoltanti che abbia mai mangiato in vita mia. Come sempre, al tavolo credo di essere l’unico a pensarla in questo modo. Caterina cerca di porgere qualche domanda generale all’uomo nell’attesa che Antonella porti la cena in tavola. “Sono di Milano, ma vivo qui da tre anni.” “E come mai ti sei trasferito?” gli chiede lei. “Per lavoro: sono un avvocato...” Non si sofferma sui dettagli, tranne quelli essenziali, e in questo modo riesce a

catturare la mia attenzione, normalmente poco costante. Mi sembra un ragazzo sveglio. “Mi fanno paura gli avvocati” gli dico. “E hai ragione a temerli!” risponde. Sorridiamo tutti e tre. Il suo racconto viene interrotto solamente dal vassoio bianco pieno di quadratini colorati che Antonella appoggia sul tavolo. “Servitevi pure...” Odora di porto. Come sempre ho fatto in queste situazioni, annego tutta la mia porzione nella salsa di soia per evitare di essere sorpreso da qualche sapore insopportabile. Diciamo che uso le mie precauzioni, probabilmente dando nell’occhio e attirando i sorrisi degli altri. Ne prendo un pezzo, non senza fatica, con quelle bacchettine di legno che mi fanno venire il nervoso. Anche questa è una cosa che mi manda in bestia. Mi domando come sia possibile che la nostra civiltà, che ha inventato le posate centinaia di anni fa, si riduca a usare queste bacchettine. Tanto varrebbe usare le mani. È sgradevole esattamente come l’ultima volta in cui l’avevo mangiato, ma a essere sincero, mi piace l’atmosfera a tavola. È questo il motivo per cui non mi lamento pubblicamente, ma tengo tutto dentro per me. Antonella sembra entusiasta, lui mi sta simpatico a pelle e Caterina mi dedica ancora più attenzioni sapendo che sto mangiando controvoglia.

Il mio silenzio garbato resiste solo fino al secondo pezzo di sushi, bagnato e impossibile da tirare su. “Posso avere una forchetta?” chiedo nel modo più gentile che posso. “Certo...” Chiamatemi all’antica ma mi piace difendere le mie tradizioni e soprattutto rischierei brutte figure. Antonella insiste un paio di volte per insegnarmi come si fa, ma dopo poco desiste, capendo l’impossibilità della sua missione. Muove le dita in modo non naturale, e sono sicuro di non voler arrivare a tanto per mangiare. “È la prima volta che mangi giapponese?” mi domanda Lorenzo. “No, ma ogni volta è come se lo fosse!” incalza Caterina. “Anche a me non piaceva, ma ormai mi ci sono abituato e non mi dispiace per niente” continua. “Magari un giorno...” Bevo un altro bicchiere di vino rosso. Li osservo dall’esterno e mi sembrano star bene insieme. Lei parla più di lui, ma vanno d’accordo e hanno il tempo giusto. Mi spiego meglio: il tempo giusto è il sincronismo tra due persone che si rapportano tra loro; la distanza tra una parola e l’altra, tra un silenzio e l’altro, tra chi parla e chi ascolta. Loro l’hanno giusto. Antonella non si arrabbia neppure quando le sporco la tovaglia bianca con una macchia di salsa di soia, e questa per me è la prova più tangibile della sua felicità.

Anche se non la vedo da diversi anni, mi è sempre rimasta impressa la sua pignoleria e il modo in cui se la prende per dei piccoli dettagli. Lorenzo è un po’ come me: lascia più spazio alla sua donna nei racconti e nell’organizzazione dei momenti, ma ascolta con attenzione, interessato. Probabilmente mi sta simpatico a pelle proprio perché mi ricorda me stesso. È solo quando Caterina e Antonella si alzano da tavola per sparecchiare che ho l’occasione di parlarci un po’ e conoscerlo. “Fumi?” mi chiede. “Sì...” Mi offre una sigaretta che andiamo a fumare fuori in giardino. Lo faccio accendere. Il clima è piacevole, non troppo freddo per il mio abbigliamento. Parliamo di qualche idiozia banale, prima che sia lui a dirottare il discorso. “Allora qual è la tua impressione?” “Su cosa?” rispondo io. “Su me e lei...” Forse pensava di spiazzarmi con questa domanda, o semplicemente sente di potersi già fidare di me. “Se ti comporterai bene con lei, sono sicuro che potrà funzionare...” “Sì...” Do un altro tiro alla sigaretta. La notte è di quelle silenziose, fatte apposta per rimanere in casa al caldo e alla luce di lampade ben in vista.

Scruto con lo sguardo i fili d’erba che si ripetono a migliaia, fino a perdersi sotto il cancelletto dell’ingresso, e le ruote delle poche auto parcheggiate qui fuori. Di fronte a me c’è una bellissima Mercedes Slk Grigia, parcheggiata proprio dietro alla siepe bassa e verde. Mi ci avvicino. “Ti piace?” mi domanda Lorenzo. “È tua?” “Sì...” “È uno dei miei modelli preferiti...” “Anche a me piace molto: sai l’ho comprata l’anno scorso pagandola diecimila euro più del suo valore...” Le guardo la fiancata larga e i fanali posteriori importanti e inconfondibili. “E perché ti sei fatto fregare?” “Non mi sono fatto fregare: sapevo il suo valore, ma l’ho voluta comprare lo stesso per non aspettare un mese in più prima dell’arrivo di un’altra uguale...” “Hai pagato diecimila euro in più per averla un mese prima?” “Esatto...” “Tu sei pazzo...” “È quello che mi ha detto chi me l’ha venduta!” Ci lasciamo andare a una risata, prima che lui mi domandi di nuovo. “E tu?” “Cosa vuoi sapere?” “Mi ha detto Antonella che sei il suo ex marito, giusto?”

“È una lunga storia...” “Sono un buon ascoltatore...” “Ma io non un gran parlatore...” Sorride. Butta fuori dal giardino la sigaretta finita. “Se ti comporterai bene potrebbe funzionare” mi dice sempre sorridendo. La butto anch’io. “Lo spero...” “E si vede cosa provi” aggiunge. “Cosa?” Non so se prenderlo come un complimento o offendermi e dirgli di farsi gli affari suoi. È un uomo particolare. “Ho detto che si vede che ci tieni...” “Davvero?” “Penso che per lei ti butteresti anche nel fuoco...” Che frase a effetto. Non me l’aspettavo. “Come fai a dirlo?” “Si vede da come la guardi...” “Sono felice che si veda...”

Alla fine se l’è cavata. Dicono che tra bastardi ci si trova bene, e io spero dal profondo del mio cuore che lui sia diverso da me almeno in qualcosa. Rientriamo in casa, dove ci attende il dolce. Ho il timore che, vista la cena, potrei trovarmi di fronte delle banane fritte, ma fortunatamente è qualcosa di classico. Oltre alla crostata di Caterina, Antonella tira fuori due vaschette di gelato alla crema e alla frutta. Mangio di gusto. “Da quanto vi conoscete?” gli domando. “Te l’hanno già detto prima!” incalza di nuovo Caterina. “Però io ancora non l’ho capito...” “Due mesi” interviene lui. “E tu sei uno di quelli che festeggiano tutti i mesi, tipo i quattordicenni al primo rapporto?” chiedo scoppiando a ridere. Solo lui capisce la mia ironia e mi segue nella risata, mentre le donne si guardano tra loro come se ci considerassero due idioti. Mi diverto più del previsto. Nel resto della serata decidiamo di non uscire, ma ci accomodiamo sul divano e cominciamo già a fantasticare su una possibile futura vacanza insieme. “Magari quest’estate potremmo fare una settimana via insieme” propone Caterina senza nessun imbarazzo. Loro due si guardano come se volessero fare gli scongiuri e sperare di non essersi già lasciati per quella data. “Forse” risponde lei.

Io e Lorenzo non diciamo una parola In ogni caso respiro una bella armonia qui dentro. Prima di salutarci, alle undici e mezza, quando il buio della notte viene spezzato solo dalla luce della luna piena, ci ripromettiamo di vederci presto. Mentre le donne si abbracciano come prima di un addio, saluto Lorenzo con una stretta di mano. “Ci vediamo...” “A presto...” Lo guardo negli occhi con la sensazione che lo rivedrò ancora. Lasciamo quella casa con una strana serenità addosso. Mi sento in lei, e di conseguenza entra in me. Finalmente dopo anni abbiamo vissuto una serata in compagnia, proprio come quando eravamo felici.

Capitolo 3bis

Mi prepara una lista come se mi servisse per forza per potermi ricordare quelle quattro cose che devo comprare. La mia intelligenza non sa se sentirsi offesa o abbandonata in questo momento. Scrive in corsivo, con una calligrafia che fatico a comprendere e di conseguenza non mi aiuta molto. “Posso fidarmi?” mi domanda con un sorriso appena accennato. “Secondo te?” “Secondo me no...” “Al massimo tornerò con la roba sbagliata...” Mi porge la lista e mi dà un bacio prima di tornare in cucina a preparare la torta al cioccolato che ha cominciato di mattina presto. Lo fa quando è felice. Nei momenti di serenità le è sempre piaciuto cucinare dolci. “Non fare tardi” mi dice senza più guardarmi in faccia. “Ok.” Esco di casa con le chiavi della macchina in una mano e questo biglietto bianco nell’altra. Il supermercato più vicino è a un paio di chilometri da qui e l’unica cosa che mi conforta è che i parcheggi sono molti.

Accendo la radio e ascolto, per la cinquantesima volta negli ultimi giorni, la canzone nuova dei Modà, che non smette di torturarmi su tutte le radio. Fuori fa freddo, parecchio. Trovo parcheggio vicino all’entrata e scendo dall’auto con un mal di testa accennato, probabilmente colpa della canzone melensa di qualche secondo prima. È una domenica stupida da are in un supermercato per acquistare queste quattro sciocchezze. Non prendo il carrello, ma uno di quei cestini da tenere in mano, più che sufficiente per l’occasione. La lista dice: Scottex, mele, pasta, sugo e candeggina. Ce la posso fare. Mi metto a ridere da solo immaginandomi visto da fuori con la lista in una mano e il cestino rosso nell’altra. Non mi trovo per nulla tra questi scaffali e mi viene in mente che saranno anni che non metto piede in un supermercato. Come fanno le donne a venirci di continuo? Sono di fronte al reparto frutta, con sguardo indagatore, quando sento qualcuno chiamare il mio nome. “Alessandro?” Mi giro alla svelta, senza la minima idea di chi potrebbe essere. È Lorenzo, il ragazzo di Antonella, che a prima vista mi pare nella mia stessa situazione. “Stai scherzando?” gli domando, guardandolo con occhi sorpresi. “Anche tu fai il casalingo?”

“Sì...” Facciamo due i verso le mele, mentre parliamo delle prime cose che ci vengono in mente. “Come ha fatto a convincerti?” gli chiedo. “Buon sesso...” Sorrido. “È il miglior modo...” “E tu?” “Io senza nemmeno quello!” Scoppia in una risata sincera e di gusto. Per un paio di secondi la mia attenzione è distratta dal fondoschiena di una ragazza bionda che mi a accanto, dopodiché ricomincio ad ascoltare Lorenzo. “Comunque Caterina mi sembra una ragazza molto per bene” è l’ultima frase che percepisco. “Sì lo è...” Cominciamo ad avventurarci nella zona delle bevande, dove mi spiega di dover comprare una cassa di acqua naturale e due bottiglie di vino rosso se che pare vendano solo qui. È una delle prime volte in cui vengo a far la spesa e risulta evidente. Prende in mano le bottiglie di vino. “Questo è il preferito di Antonella...” “Sì? È buono?” “Non è male, anche se per me una bella birra doppio malto non ha eguali...”

“Sono d’accordo con te, amico...” “Se non ci capiamo tra noi...” Proseguiamo il nostro tour itinerante nel reparto tovaglioli e senza il minimo dubbio prendo una confezione da quattro rotoli di Scottex. “Guardi la gara stasera?” mi chiede. “Sì penso proprio di sì...” “Allora, forza Ferrari!” Non ho il coraggio di confessargli che non tengo per la Ferrari, così lo assecondo, per la prima volta da quando lo conosco. La pasta c’è, le mele e il sugo pure, e con la Scottex sono a posto. Dopo un quarto d’ora ato più a chiacchierare che non a guardare gli scaffali, saluto Lorenzo. “Senti, lasciami il tuo numero, Ale, magari un giorno ci andiamo a bere una birra...” “Certo...” Glielo detto e mi metto in fila alla cassa. Lo saluto con un abbraccio prima di vederlo scomparire in mezzo alle casalinghe sole e alle famiglie rumorose che riempiono tutto il supermercato. Mi ha fatto piacere incontrare Lorenzo. Mi a di nuovo accanto la bionda con il fondoschiena sporgente. Almeno ho fatto tutto senza annoiarmi in maniera eccessiva. Ho mal di schiena e non vedo l’ora di essere a casa mia con Caterina, magari a mangiare una fetta della sua torta al cioccolato. La domenica a casa con lei mi piace da morire, e questo mi rende ancora più

impaziente di andarmene da qui. È solo dopo aver pagato, essere uscito e aver avviato la macchina che mi si accende la lampadina. “Cazzo, la candeggina!”

La partenza di Flora

“Lui è bello” insiste la madre, con tono più rispetto a pochi istanti prima. “Non è solo questo, mamma...” “Sì, amore mio, perché se non fosse bello non avresti nessun altro motivo per continuare a seguirlo...” “Non è vero!” Inizia ad avere una voce più debole rispetto a prima, come se stesse per cedere alle lacrime da un momento all’altro. “Non è intelligente, non è simpatico e non ha nemmeno un lavoro!” “Ma io ne sono innamorata...” “È per il tuo bene...” “Non puoi impedirmi di vederlo!” “È per il tuo bene” si limita a ripetere la madre. Flora apre la porta d’ingresso. “Dove vai?” Non risponde e comincia a correre fuori da quella casa che da qualche tempo le sembra diventata una prigione. In mezzo alle piantagioni di caffè che si ripetono per distese infinite. Non vuole più viverci.

L’umidità dell’aria le increspa i capelli, normalmente curati e lisci, mentre le lacrime bagnano le guance e gli zigomi. Cosa spinga una ragazza ricca, bella e colta a correr dietro a un disgraziato squattrinato, non è dato sapere. Scappa più lontano che può, già consapevole della meta. La zona in cui vive è tra le più ricche del Brasile, anche perché in caso contrario non potrebbe permettersi di uscire da sola. Qui non ci sono delinquenti, né pericoli per la sua incolumità, ad eccezione dei serpenti che si nascondono in qualche angolo. Adriano. Lui è l’unico motivo della disperazione, l’uomo della sua vita, un disoccupato, mezzo criminale, che fa uso spasmodico di cocaina. Eppure, c’è un eppure. È bello, come riconoscono tutti, e le donne impazziscono per lui. Flora dice di essere diversa dalle altre. Lei ne è innamorata da sei anni, nonostante le continue prediche della madre e degli amici, e di tutti quelli che la conoscono, vedendola così in crisi. Non crede al fatto che la tradisca, anche se non ne può essere certa, ma il suo amore incondizionato le copre gli occhi come la nebbia dei paesi freddi. Quando l’ha conosciuto era tutto diverso: la buona volontà non gli è mai appartenuta, ma aveva un grande cuore, quello che lei ancora non riesce a dimenticare. Continuava a fissarla, mentre lei, attaccata alla madre, non aveva il coraggio di avvicinarsi. “Siete tutte così belle nel quartiere ricco?” le aveva domandato subito. Era la prima volta che le aveva rivolto parola.

Fu in quell’istante che capì di amarlo. La madre gli tirò un’occhiataccia, ma forse il suo scopo era proprio quello di allontanarlo. Flora sorrise. “Posso sedermi cinque minuti qui con lei e sua figlia?” domandò, sempre con quel suo tono al limite tra il serio e l’ironico. Si sedette solo dopo la risposta un po’ scocciata della madre e non si alzò più per tutta la sera. Da quel 7 marzo, non era più ato un giorno senza che si sentissero. Misterioso, pieno di brio e gioia di vivere, ora è ospitato a casa di un amico disadattato che per mantenersi ruba orologi ai turisti nei quartieri ricchi. Una bella coppia. Come ci si riduce in quel modo? Flora conosce a memoria quella casa, ed è convinta di arrivarci a piedi nonostante i cinque chilometri che la distanziano dalla sua villa grande e pulita. Cammina con le sue scarpe bianche in mezzo all’erba alta, senza paura né il minimo dubbio. Non è una ragazza stupida, ma è convinta di poterlo cambiare, di renderlo un uomo, senza la cocaina, senza quella gente che lo ha reso un fallito. È l’unica persona con cui vorrebbe stare. Il cielo è blu, uno di quei blu in cui nessuna nuvola si azzarda a inserirsi e l’aria è pura, purissima. È con il fiatone e il corpo prosperoso e sudato che arriva finalmente di fronte alla casa dell’amico di Adriano. È un rudere.

“Joe!” comincia a urlare. “Joe!” Nessuna risposta. La porta è chiusa, ma non è per nulla difficile per lei forzarla e aprire quel pezzo sottile di legno. “Adriano...” Ancora il silenzio. “Adriano...” La puzza e il disordine si coprono l’un l’altra, mentre una strana pesantezza occupa l’aria. Teme il peggio. Perché non c’è nessuno? Ci convinciamo in tutta una vita che la persona giusta sarà sempre al nostro fianco, pronta a difenderci senza riserve. Ci confondiamo in mezzo a migliaia di coppie, convinti che ci sia qualcosa nella nostra che funzioni meglio di tutte le altre. Ci promettiamo sincerità e abbracci, che nemmeno un uragano dovrebbe riuscire a spazzare via. E poi la realtà le appare, esattamente come è. È in mezzo a quella confusione che la coda del suo occhio intravede qualcosa di familiare. Un corpo. La siringa è sbattuta per terra, proprio a pochi centimetri dal braccio, in cui i buchi si mostrano senza ritegno, e una riga di sangue seccata ha smesso di scorrere.

Non ha il coraggio di parlare, Flora. Si siede accanto al corpo, già convinta che nessun dottore lo potrebbe più salvare. Adriano non c’è più, e non c’è nulla che lei ora possa fare per cambiare il destino bastardo.

Capitolo 4

Due mesi più tardi…Quasi una vita…

Dicono che difficilmente le persone possano cambiare da un momento all’altro, ed io fino a poco tempo fa ne ero convinto. Eppure qualcosa è accaduto. Londra è lontana chissà quanti giorni. Ho ricominciato a vivere in modo reale, come una persona normale, senza più gli incubi delle notti insonni. Ho sempre considerato la strada della redenzione un qualcosa di terribile e difficile, come se il demonio venisse bagnato dall’acqua santa. Sono stato convinto che redenzione volesse dire sofferenza e pianto e perché no, anche rimpianto. Non è così. È come una dolce tregua, accompagnata da un angelo che mi accudisce e mi aiuta a lasciarmi alle spalle tutto il pezzo d’inferno che ho avuto la sfortuna di incrociare e vivere. Non lo puoi capire finché non i dall’altra parte. Quando mi guardo allo specchio, riesco solo a vedere un uomo troppo vecchio per quello che faceva, con il viso stanco di continue lotte, con la voglia e il desiderio impellente di tornare alla vita vera.

Forse ce la sto facendo. Il sonno non mi aiuta e le scene di sesso vissute con tutte le altre donne mi accompagnano tuttora nei momenti di fragilità in cui anche le mie barriere calano inevitabilmente. Kelly è stata il peccato finale, quello di cui mi ricordo per primo quando devo farmi assalire dai sensi di colpa. Vorrei che le ferite venissero lenite dal tempo e dalla forza di volontà della nuova persona che sto scoprendo di essere. Lo faccio per il motivo più importante. Caterina è fantastica. Ogni giorno, quando torna da lavoro, ha il tempo e la premura di occuparsi di me, come se fossi un bambino. Non so perché io le piaccia così tanto, ma è uno di quei misteri che spero di non svelare mai. Io la aiuto, per quanto mi è possibile, negli orari in cui sono libero. Quasi dimenticavo: ho cambiato lavoro. Ho smesso con la violenza, l’azione a tutti i costi, il desiderio di adrenalina a rischio della vita. A voler essere più preciso ho smesso di non far nulla, ovvero la mia attività principale da due anni a questa parte. Ho sentito il bisogno di rimettermi in gioco a trecentosessanta gradi, e guardarla negli occhi come un vero uomo. Sono tornato nella polizia ma questa volta il mio ruolo è molto più tranquillo. Mi occupo della parte amministrativa, dietro a una scomoda quanto sicura scrivania in un ufficio con la finestra che dà sul caos di una delle vie principali della città.

Non è la California ma mi ci sono già abituato. Anche in questa scelta lei è stata fondamentale: non avrebbe sopportato di vedermi lontano da casa, a rischiare la mia vita in giro per la città negli orari più assurdi, a contatto con le facce peggiori. Quel tempo non lo vuole più vivere. Mi ha perso così tante volte che non posso far a meno di capirla, di sentire la sua apprensione come mia. Ho smesso anche di scrivere. Non che lo fi moltissimo prima, ma mi sono messo in testa che non è quello che voglio davvero. Solo ogni tanto mi capita quando sono da solo di buttare giù qualcosa, mai più di una pagina, e la maggior parte delle volte è un ringraziamento al destino per essere di nuovo qui. Non diventerò mai uno scrittore. Insomma, non sono riuscito a cogliere la mia seconda possibilità ma Dio me ne ha concessa un’altra ancora. Che cosa penso della mia vita? Non posso mai dare nulla per scontato: è questo che ho imparato tante volte sulla mia pelle. Ho smesso con la droga, non con le sigarette. Penso di potermi concedere almeno questo vizio. Sono orgoglioso di me. Sto contando i giorni e mi pare di essere in una fase migliorativa. Devo essere sincero: se non fosse per la donna che ho di fronte ora, sicuramente sarei a un punto di non ritorno, o forse chi lo sa, già morto in qualche stradina mal frequentata della periferia di una grande città.

Questo è ciò che amo. Il rientro a casa alla sera è il momento che preferisco di tutta la giornata: lei è sempre lì ad aspettarmi. Sudo perché lo sbalzo di temperatura tra dentro e fuori è notevole. Ci sono così tanti oggetti all’esterno che a rifletterci un momento mi pare incredibile averli visti tutti. Ho concluso una pratica noiosa oggi in ufficio e litigato con un collega, ho dimenticato di lavare la mia auto, e tutto questo solamente nel desiderio di arrivare a casa, di godermi i momenti in cui abbandonarmi al piacere. “Come stai, amore?” mi domanda mentre poso la mia giacca nell’armadio, senza appenderla. È ancora truccata in quel modo leggero, come in tutti gli altri giorni. “Bene, ma pensi che poi la giacca si appenda da sola?” “Di solito funziona così: io la butto nell’armadio e il mattino dopo me la trovo appesa come per magia...” “Allora, se non vuoi che la magia finisca, appendila tu!” “Sì signora...” Prendo un omino e in venti secondi la giacca si trova esattamente dove dovrebbe essere. A pensarci bene non è un gesto così faticoso. La bacio. “Ho cucinato per te stasera...” Non so dove trovi le energie per fare tutto quello che fa. Lavora otto ore al giorno e nonostante questo si inventa il tempo di prepararmi la cena con voglia.

La tavola è apparecchiata in modo semplice, quasi come per quelle cene che si fanno tra ragazzi giovani davanti alla televisione. Ci sono solo piatti freddi, non complicati, ma che non cambierei nemmeno con una pizza alle acciughe, mio piatto preferito, perché questa sera è perfetta così. Mi piace l’atmosfera. Mangio benissimo, come in tutti i giorni dal mio ritorno a casa. Una donna che ti prepara da mangiare con amore è una fortuna rara, di quelle da apprezzare sempre. Tra un boccone e l’altro, divisi dallo spicchio di tavola apparecchiato solo per noi, mi nasce spontaneo interrompere il silenzio, nell’assoluto bisogno di comunicarle qualcosa che le faccia capire ancora di più quanto mi sembri incredibile aver raggiunto questo stadio con lei. Ho perso molto della mia brillantezza o almeno credo. Non m’interesso di fattori esterni, di notizie alla televisione, di persone che frequento. Vorrei are tutta la giornata in sua compagnia. “Perché?” è l’unica parola che mi esce dalla bocca. “Perché cosa, Ale?” “Perché mi sopporti ancora?” Le fa piacere la mia domanda, anche se cerca di non darlo a vedere e fingersi imbarazzata. La conosco, ma nonostante il mio tono dolce, la domanda è vera, pura come la curiosità. Mi sembrano are tanti minuti prima di ascoltare le sue parole che realmente arrivano quasi subito. “Perché sto bene con te...”

“Tu mi rendi migliore...” “Lo so...” “Lo sai?” “Sì, ed è proprio quando diventi quella persona che m’innamoro di te...” Mangio un altro boccone. “Spero di non renderti mai più infelice...” “Lo so...” Si fanno così tante promesse a vuoto. Indossa ancora la camicia bianca della giornata e il suo solito sorriso timido e imbarazzato. I suoi capelli corti mostrano appieno tutta la bellezza del viso, ne risaltano gli occhi scuri e le fossette che spuntano come per incanto quando sorride. Mi piace. La prendo in braccio. “Cosa fai, Ale?” “Ti rapisco...” “Prima bisogna sparecchiare la tavola...” “Non possiamo farlo dopo?” “No!” Dannazione. Perdo quasi una decina di minuti ad aiutarla a sparecchiare, prima di riuscire finalmente ad averla tutta per me.

Ora la riprendo in braccio, senza resistenza da parte sua. Ho già perso la mia imprevedibilità ma lo faccio comunque. “E dove mi porti?” “Nella mia tana segreta!” La accompagno fino alla camera, mentre lei stringe le braccia al mio collo, coperto ancora dal bianco della camicia. La appoggio sul letto. “Ed ora?” mi chiede. Mi calo i pantaloni. Slaccio i bottoni della sua camicetta con ansia che cerco di nascondere nel migliore dei modi, ma inutilmente. Sembro un avvoltoio in volo che non vede l’ora di impossessarsi della sua preda invitante. La bacio, intensamente. Solo dopo diversi minuti in questo modo le sfilo le mutandine bianche e faccio l’amore con lei. Era da tanto che non usavo questa espressione. È dolce, come solo con lei in tutta la vita. La banalità di dire che sembriamo un corpo solo non mi lascia scampo e così ecco uscire l’espressione tanto temuta. Sento la forza nelle parole, e non posso fare altrimenti per parlare di queste sensazioni. Mi muovo lentamente per paura di poterle far male, di rovinare un corpo che mi sembra divino, tanto è perfetto, con queste gambe, questo viso e i capelli e tutto il resto.

Non esiste un poeta in grado di descrivere tutto questo, e anche se ci fosse non sarei io. Lo abbiamo fatto così tante volte. Mi viene da riflettere. Escludendo lei, non credo di aver mai fatto sesso con altre donne per più di un paio di volte. Forse solo con Kelly. Non so nemmeno come sia questa sensazione, di fianco a un’altra. Qui è tutto più facile, più buono. Sapere che le piace mi fa godere ancora di più. Voglio che goda: è il mio unico piacere. Inizia ad ansimare e poi a tenermi più forte. Il mio sesso è sempre dentro di lei, a suo agio come se non fosse mai stato altrove, incontrollato come nel più grande dei piaceri. Mi stringe la schiena, mi abbraccia in modo intenso e poi urla e si lascia andare sempre di più. Non mi fermo mentre lei m’implora di andare avanti. “Non smettere!” mi urla. “Non smettere!” Non mi fermerei per nulla al mondo. La adoro. Raggiunge l’orgasmo. Solo ora, appagato e felice della sua contentezza, posso concedermi il mio

piacere finale. È grande. Il momento è grande. Wow. Non ci credo. Vengo tanto e per tanto tempo, più di quanto potessi anche solo lontanamente immaginare. Con il fiatone mi metto di fianco a lei, soddisfatto come se mi trovassi nel mio angolo di paradiso. Anche lei respira così. iamo in silenzio i momenti successivi. “Non so come farti uscire dalla mia testa” mi dice ancora. Non è bello sentirsi dire queste parole, in nessun momento e specialmente ora. È come se io fossi la malattia con cui deve convivere. Odio sentirmi così. “Non devi farmi uscire...” “Lo spero...” “Devi esserne sicura...” Vorrei ripetere queste giornate per il resto della mia esistenza. La chiave della mia felicità è lei. Non posso dire di avere problemi, escludendo quelli di lavoro, e dei dolori che ogni tanto mi vengono alla schiena, conseguenza di troppe battaglie combattute in solitudine.

Ho una moglie straordinaria, un lavoro tranquillo e una casa grande da condividere solo con lei. Non mi dispiacerebbe avere un figlio, ma non so se sono ancora in tempo. Ho quasi quarantaquattro anni. Sarei un padre vecchio e comunque immaturo. Caterina dovrebbe badare a due bambini, e non penso che sarebbe possibile nemmeno per una paziente come lei. Ma non è il caso di pormi il problema: si vede che non era destino. Qualche conto con la coscienza mi è rimasto e ritorna ogni tanto, ma nulla di più. La perfezione, si sa, dura poco. Il tempo sta provando in tutti i modi a lenire la ferita lasciata aperta nella mia testa a Londra. Non so se potrò abituarmi all’idea di tenerle nascosto quello che ho fatto per tutta la vita. È sempre la solita storia. Le conseguenze dei miei errori mi seguono anche ora. Sono turbato, e questo si accentua quando mi accorgo che lei, con i suoi occhi grandi e belli, mi sta guardando. “Cosa c’è, amore?” mi domanda. Rimango in silenzio a fissarla, perso nella profondità del suo sguardo e della sua tenerezza. Gli inglesi la chiamano “deep”. È una delle poche parole che invidio a quella lingua.

Penso che il suono dia l’idea del suo significato. È deep. Caterina è deep, tutto quello che vivo con lei è deep, dal minimo incrocio di sguardi al momento più intimo. Devio per l’ennesima volta dalla sua domanda, con una maestria che non mi stupisce più. Non le mento quando le confesso con un filo di voce di amarla. Non mi vergogno a dirlo, è palese. Anche questa è una parola che non spendo molto di frequente. Vorrei solo che fosse tutto più semplice. Vorrei che nessuno leggesse questo di me. Non sento più il bisogno di altre donne e questo è fantastico per un uomo malato e con poche speranze. Io ero malato e forse non lo sono più. Non lo sono più. Non so se sia una situazione temporanea, o abbia trovato il mio equilibrio permanente, ma è bello pensare che si può vivere sperando. La televisione accesa trasmette senza volume uno spezzone di Stanlio e Ollio alle prese con un conto da pagare al ristorante e nessuna banconota a portata di mano. Mi fanno sorridere, nonostante l’età di quegli spezzoni, più vecchi persino di me. Io ho una speranza. Mi abbraccia. Questi momenti mi danno una strana sensazione di benessere e di calore

familiare di cui sono stato privato troppo presto. Vorrei portarla in giro per il mondo, stare con lei in ogni momento, coprirla di regali e abbandonarmi ai piaceri della vita soltanto in sua presenza. Gli amici? Non ne ho, o almeno non stretti. Non esistono altri individui con cui vorrei rimanere. Ci sono luoghi e atmosfere che solo con la sua persona potrei apprezzare fino in fondo. Vorrei vedere il Vermont, girare Parigi, perdermi nelle cittadine dei paesi scandinavi, il tutto mano nella mano. È un chiaro di luna dopo tanti giorni di buio. Con il are del tempo ci si ritrova sempre più soli, si perdono le persone più care fino a quando un giorno ci si ferma e ci si guarda accanto: avere Caterina è quello che mi tiene ancora vivo. Mi sono accorto nelle mie tante battaglie che il tempo trascorre in un momento e quello che ho lasciato indietro lo rimpiango ancora oggi. Lei non deve essere il mio rimpianto. Non lo sarà mai, perché m’impegnerò con tutto me stesso a farla rimanere il mio presente e il mio futuro. Anche futuro è una parola che non uso molto di frequente a essere sincero, eppure eccomi qui a parlare in questo modo, a ragionare finalmente come un adulto che sente la testa sulle spalle. Nella città grande il sole è già tramontato, la confusione non cessa ora e nemmeno più tardi. Noi stesi sul letto come due innamorati rimaniamo fuori da tutto quel rumore di automobili e voci che disturbano il silenzio.

Ci addormentiamo abbracciati. “Buonanotte, amore mio...”

Capitolo 4 bis

Nella strana atmosfera di rilassamento e dolcezza che respiro in questa casa, i miei sogni sono completamente diversi da quelli di prima. È come se finalmente sentissi la sua voce. Non so se si tratti di Caterina, di un angelo o addirittura di Dio. È maledettamente bello. Tutto il mio corpo è avvolto da uno strano velo che mi protegge da quello che c’è là fuori. La coperta è più lunga, ora. Ci sono emozioni che vengono apprezzate appieno solo dopo aver raggiunto una certa maturità e forse io posso dire di essere arrivato a questo punto. Mi rendo conto che quello che vedo intorno non è assolutamente reale, ma mi godo ogni istante del sogno, fino a quando non sarà Dio in persona a strapparmelo con forza dalle mani. Sento il respiro della mia donna addosso. Mi piace. È come uno di quei venti caldi che provengono dall’Africa e inondano con la loro consistenza il nostro sistema. Non mi muovo di un o, ma rimango in attesa di qualcosa di più chiaro, che mi possa dare finalmente il permesso per entrare in paradiso lasciandomi questo dolce purgatorio alle spalle.

Se solo fosse semplice. È solo dopo il terzo squillo, udito molto lontano, che comincio a svegliarmi dal torpore. Non è Dio. Apro gli occhi a fatica. È già svanito tutto in un brevissimo istante che nemmeno sono riuscito a considerare mio. Strana la vita. Nel buio seguo l’intuito addormentato per arrivare alla mia meta rumorosa e assillante. Prendo il cellulare lasciato colpevolmente durante la notte. Schiaccio il pulsante di risposta per farlo smettere. Maledizione. Vado fuori dalla camera nel tentativo di non svegliare Caterina, ma abbastanza convinto di averlo già fatto. Leggo l’orario sul display un attimo prima di avvicinare il piccolo cellulare al mio orecchio. “Pronto...” Ho una voce stanchissima. “Pronto Ale...” Non riconosco immediatamente la persona con cui sto parlando, ma probabilmente ora non riconoscerei nemmeno un fratello. È un uomo. “Chi sei?”

“Sono Luca...” Faccio mente locale. “Luca chi?” “Il fiorista...” “Ah sì, Luca!” Solo ora mi ricordo di lui. Un vecchio amico. Saranno diversi mesi che non ci vediamo. Mi fa piacere sentirlo, anche se immediatamente non mi preoccupo del fatto che mi stia chiamando a quest’ora della notte. Luca è un amico che ha un negozio di fiori non lontano dal monolocale in cui vivevo prima. Abbiamo un rapporto molto particolare. È una brava persona, eppure quando ci siamo conosciuti non navigava in buone acque. Ha sempre avuto il pallino per il gioco d’azzardo e qualche anno fa gli diedi una grossa mano a uscirne. Non posso dimenticarlo. Lavoravo ancora alla polizia e con anche il suo aiuto riuscii ad arrestare sette persone che controllavano un giro illegale di scommesse. Mi è sempre stato riconoscente e allo stesso modo la sua famiglia. Quante volte mi ha regalato i fiori da portare a Caterina per le ricorrenze che puntualmente dimenticavo? Almeno una decina.

Mi ha sempre capito e trattato in modo apprezzabile. Ha una voce sconvolta. “Scusami per l’ora ma mi è successa una disgrazia e non sapevo chi altro chiamare...” Ho un brutto presentimento ma sono ancora troppo addormentato per fargli domande al telefono. Non so come comportarmi esattamente. Gli dico di are a casa mia per raccontarmi tutto l’accaduto. “Arrivo subito” sussurra prima di mettere giù il telefono. Devo vestirmi. Mi viene da ridere a pensare di accoglierlo in questo modo, con addosso solo i miei boxer neri e blu. Probabilmente ha problemi più importanti e non se ne accorgerebbe nemmeno. Caterina sta dormendo. Non la sveglio. Sono il più silenzioso possibile e accosto la porta della camera, per evitare di disturbarla. Lei ha un respiro profondo, una via di mezzo tra quello normale e il russare leggermente. Non penso che stia fingendo di dormire. È coricata a pancia in giù, con la faccia affogata nel cuscino azzurro e bianco a quadretti. Mi fa impazzire. Non resisto alla tentazione di darle un bacio silenzioso sulla fronte.

Tu dormi, amore, che al resto penso io. Prendo un paio di pantaloni e una maglia nera. Nel salotto rimango in piedi, per paura di riaddormentarmi nell’attimo in cui appoggiassi il corpo al cuscino del divano. Prendo dal frigorifero una lattina di Coca-cola e mi metto a guardare fuori dalla finestra. Deve esserci freddo. Non ho un buon presentimento. Ho paura che il ato tornerà a bussare per chiedermi di pagare il conto lasciato in sospeso. Bevo un sorso. Mi guardo intorno e l’ordine delle cose, delle carte, di ogni singolo oggetto, mi fa riflettere sulla stabilità del mio presente. Sul pianoforte c’è uno degli spartiti di Caterina. È bianco, intitolato Melodia di Mozart. Non sono mai stato in grado di studiare uno strumento musicale, nemmeno il flauto, che dicono sia il più semplice. A scuola, quando facevamo gli spettacoli di fine anno, la maestra mi diceva di muovere le dita ma non soffiare e limitarmi a fingere. Sul momento la cosa non mi dispiaceva. Apprezzo chi è in grado di suonare, almeno quanto chi dipinge o scrive un libro o recita una poesia. Mi sarebbe piaciuto fare di più della mia vita, ma non sono sicuro di avere molto tempo per raggiungere i miei obiettivi. Non sono in molti ad esserci riusciti e forse non si rendono nemmeno conto del

talento che possiedono. Mi ritengo intelligente anche se troppo incostante. Sono realista. È tutto splendido ora, ma chissà se avrò la fortuna e l’intelligenza di farlo durare per sempre. Poso lo spartito. Comincio a diventare impaziente. Apro i pensili della cucina un po’ a casaccio, senza sapere esattamente cosa cercare. Vedo dei piccoli sacchetti di patatine e per un attimo mi viene voglia di mangiarne uno. È la vista della pancetta che ho messo su ultimamente a frenarmi. Da quando ho ricominciato a vivere seguendo canoni normali mi sono accorto di essere ingrassato qualche chilo, tutti proprio sul girovita. Non sono più affascinante come una volta, ma devo rendermi conto che il tempo a per tutti. Non fa eccezioni nemmeno per me. Richiudo tutto. Non vedo nulla d’interessante che possa farmi distrarre ancora e così ritorno in salotto. Il citofono della porta suona finalmente dopo un’altra decina di minuti trascorsi nell’agitazione. Vado ad aprire in punta di piedi. Eccolo lì, di fronte a me.

Non lo vedevo da un po’. Mi sembra invecchiato, anche se forse è solamente l’effetto dell’agitazione che ha questa notte. La faccia è sbattuta e gli occhi lucidi. Luca: è ato così tanto tempo. Cazzo. Posso vedere il dolore ancor prima che apra bocca. “Ehi...” Lo faccio sedere sul divano bianco del salotto. “Cosa ti è successo?” Mi mette una mano sulla gamba e stringe con forza. “Ehi Luca: cosa è successo?” Prende un respiro profondo prima di parlare, come se gli costasse sforzo fisico confessarmi ciò che deve. Provo a tenerlo calmo. Le sue parole sono un macigno. “Hanno rapito Adele...” Oh mio Dio. Non posso crederci. “Cazzo...” Non dice nulla. Ho fatto il padrino al suo battesimo.

La mia mente va subito alle scommesse, al poker e a tutti i casini da cui pensavo fosse uscito definitivamente. Non vedo altri motivi per cui avrebbero dovuto rapire una bambina di cinque anni, figlia di un fiorista. “Che cazzo hai fatto?” gli domando con aria di rimprovero. “Non ho fatto niente...” Mi riesce difficile credergli subito nonostante non sia una persona bugiarda, e ho i miei motivi per dubitare. “E allora perché l’hanno rapita?” Continuo ad avere quest’aria di rimprovero che non mi piace ma mi esce automaticamente. Attendo solo di essere zittito. “Gli uomini che hai fatto arrestare sono usciti...” “Ma se saranno ati tre anni?” “Sono usciti...” mi ripete. Ha lo sguardo rassegnato mentre pronuncia queste ultime parole. La giustizia in Italia è questa. Un automobilista che supera il limite di velocità in autostrada subisce una punizione peggiore di un criminale pluriomicida. Non me ne capacito. Quest’uomo è uscito dal giro da anni e ancora oggi si ritrova risucchiato dai suoi errori ati. Non può essere sempre tutto così marcio. “E cosa vogliono?”

“Vendetta...” “Cioè?” “La mia vita...” “Cazzo...” “Non so che fare, Ale...” “E io come posso aiutarti?” “Sei l’unica persona che conosco abituata a cose del genere...” Sono “abituato a cose del genere” dice. Mi pare assurdo. Cosa posso fare per aiutarlo? Non sono un mago. “Dove l’hanno portata?” “A Nama Bei...” “E dove sarebbe? In Marocco?” “È in Egitto…Un piccolo paese...” “Come fai a saperlo?” gli domando. “Il boss dell’organizzazione sta lì, ed è stato lui a ordinare il rapimento...” “Tra quanto vi vedrete?” “Non lo so ancora...” “Ti chiameranno loro… E tu dovrai essere lucido...” Mi fa segno di sì con la testa.

“Se aspettiamo di essere contattati da loro, siamo già morti...” Lui mi fissa. “Cosa vuoi dire?” “Bisogna anticiparli...” Continua a guardarmi con aria interrogativa, come se parlassi in un’altra lingua, difficilmente comprensibile per lui. “Dimmi cosa devo fare, Ale...” “Bisogna prendere il primo volo per l’Egitto...” “Prima che mi chiamino?” “Certo: quando loro crederanno di starci davanti, noi saremo già vicini...” Annuisce. “Quella è brutta gente...” aggiungo colpevolmente e senza rendermene conto. Scoppia a piangere. Devo stare attento a non pronunciare parole che lo possano far crollare perché in questo momento Luca è appeso a un filo e mi serve che sia lucido per provare ad avere più informazioni possibili. Questa sua espressione disperata mi fa venire in mente la mia, uguale anche nei dettagli. La mia vita è stata piena di sofferenza, anche se, la maggior parte delle volte, la colpa è stata unicamente di una persona. Commettiamo errori che ci segnano, che cambiano il modo in cui la gente ci tratta e noi stessi ci guardiamo. Lui si sente colpevole. Lo posso leggere.

Eccomi qui di nuovo a scegliere tra giusto e sbagliato. Ho ritrovato la mia vita da così poco, eppure è già ora di andarmene. È un amico; è disperato. Potrei fregarmene come farebbero in tanti, chiamare la polizia con la certezza che Adele verrebbe uccisa ancora prima che loro possano individuare il luogo in cui si trova. So già come mi comporterò. Partirò con lui perché è questo che devo fare. Caterina? Deve capire. La donna della mia vita deve capire. Non c’è un secondo da perdere, e in fondo sapevo che sarebbe durata poco. So cosa state pensando: faccio promesse a vuoto, apro la bocca solo per darle fiato, non capisco più quale sia la realtà. Non posso negare la veridicità di queste parole, eppure so che non posso comportarmi altrimenti. Caterina è una martire. Dico a Luca di incontrarci al mattino alle sei per partire. “Davvero?” “Sì...” “Non so come ringraziarti, amico...” Mi abbraccia intensamente, mettendomi in imbarazzo. Gli do un paio di pacche sulla spalla per fargli capire che possiamo staccarci

dalla presa. “Va bene, Luca...” Lo capisce. “Sì, scusa” mi risponde immediatamente agitato. Come si fa a rapire una bambina? Meriterebbero la sedia elettrica. Non sono niente più di uomo normale, con due braccia, due gambe, un cervello e tanti acciacchi diversi. Non sono niente più di un amico che aiuta un amico. Non sono niente più di una persona arrabbiata, orgogliosa, che andrà in capo al mondo per fare la cosa giusta nel momento peggiore possibile. “Non preoccuparti” gli dico io. “Sono nelle tue mani...” “Lo so...” Lo accompagno all’uscita cercando di non farmi scappare promesse che non sono sicuro di poter mantenere. Mi guarda cercando qualche sorta di conforto, ma non sono nella condizione di dire nulla. “Farò il possibile...” Chiudo la porta. Voglio godermi l’ultima notte insieme a lei. Non le ho neanche chiesto cosa ne pensa, ma tanto non servirebbe a farmi tornare sui miei i, nonostante il vuoto che mi lascia nel cuore la partenza.

È troppo importante. La amo e questo non cambia. Non cambierà mai nulla di quello che ho qui dentro. La mia meraviglia sta ancora dormendo, ignara di tutto quello che ho appena scoperto e deciso nel giro di pochi minuti. Lo so, Caterina, succede di nuovo. È sbagliato e giusto al tempo stesso, ne sono ben cosciente, ma cosa avrei potuto dire? Perché sei tornato? Perché il ato è tornato? Sono triste come non ricordavo più, come nelle notti londinesi da solo. Mi sento già abbandonato. Penso a come sia paradossale il fatto che un gruppo di malavitosi possa portare via una bambina su un aereo senza che nessuno se ne accorga, mentre i metal detector dell’aeroporto suonano anche solo per la cintura dei miei pantaloni. Ogni parola andrà a spostare l’equilibrio della mia relazione di porcellana con una donna che ha fatto ogni cosa per riavermi. Mi ama. La amo. Il mio cuore piange, e lo sento, perché spesso l’elemento più importante non è sufficiente. Cazzo. Lo devo fare. Cazzo.

Non vorrei andarmene perché non c’è nessun altro posto che sento più mio di questo, insieme a lei.

La partita

L’odore di fumo è nauseante, come se coprisse per intero i volti delle altre persone sedute al tavolo. Non ci sono più tutte le luci di qualche ora fa, sintomo evidente che si deve essere fatto molto tardi. Luca distoglie lo sguardo dalle sue carte solamente dopo aver terminato questa ennesima mano. Sente un fastidioso dolore alla testa che non gli impedisce di fumare un’altra sigaretta. Intorno non è rimasto più nessuno ad eccezione di un paio di uomini in silenzio vicini alla porta d’uscita e i tre con facce bruttissime seduti con lui a questo tavolo rotondo e verde. “Ehi, fiorista, tocca a te!” esclama uno dei tre guardandolo in faccia con un sorriso distante. È vestito male, il classico uomo che si può incontrare solamente in un centro scommesse o in una bisca. Il suo sorriso evidenzia la mancanza di qualche dente nella parte inferiore della bocca. Dicono che una volta abbia cercato di fregare la persona sbagliata: probabilmente questo è il motivo della sua perdita. Non gli è servito essere pestato per perdere il vizio. Ha una barba bianca tenuta male e il suo malsano odore è coperto solo in parte dal fumo del sigaro che tiene in bocca.

È un povero disperato, alla ricerca della serata buona per cambiare il resto della sua vita. Potrebbe spendere un patrimonio di un milione in meno di ventiquattro ore, e forse è proprio per la sua propensione alla sconfitta che si sente il benvenuto in queste occasioni. Lo hanno soprannominato “Gianni Mani Bucate”. Una persona a posto. Luca mescola le carte per qualche secondo prima di appoggiarle sul tavolo e guardare alla sua sinistra verso il ragazzo seduto accanto a lui. Si chiama Ahmed Lajula, ma nessuno usa mai il suo nome. “Alza” lo invita Luca. Lui rimane fermo immobile. “C’è qualche problema, negro?” interviene Gianni, che assiste alla scena da pochi metri. Ahmed alza solo una carta e la mette sul tavolo. Luca le riprende in mano e serve. La tensione della partita è combinata a quella per il razzismo che fa parte del carattere di Gianni. È probabilmente una delle persone più intolleranti mai esistite in questo mondo ipocrita. Ricorda un po’ uno di quei pastori dell’Inghilterra di una volta, contadino di campagna con la fobia per il diverso. Dicono non si sia mai tirato indietro a darle e a prenderle. Sembra abituato ad arrivare alle mani, ma forse questo non è il contesto migliore per combattere.

Le puntate cominciano subito forti, e prima ancora di cambiare le carte, sul piatto si trovano già 7000 euro. Non tutti al tavolo posseggono grandi cifre. Anzi, dei quattro l’unico ad avere soldi liquidi è il quarto giocatore, Armando Finetti, ricco di famiglia e anche lui con il pericoloso pallino del gioco. La moglie lo ha lasciato due anni fa, dopo che lui si era giocato centomila euro al Casinò di Montecarlo, mettendo un’ipoteca sulla casa. Prima di lei, Armando Finetti ha avuto altre due mogli, entrambe perse per la stessa ragione. Ad ogni modo di soldi ne ha ancora abbastanza per potersi permettere serate così, insieme a gente come questa. Tutti gli altri sono teoricamente scoperti. Ahmed è però protetto da un gruppo di persone non certo raccomandabili che si occupano di lui. È nipote di uno dei principali personaggi di una banda di criminali specializzati in traffico di armi e gioco d’azzardo. Nessuno dubita del pagamento dei debiti da parte del ragazzo. Diverso è il discorso per gli altri due: sia Luca il fiorista che Gianni Mani Bucate hanno famiglia e questa è la migliore garanzia per sapere che non cercheranno mai di fare i furbi. Luca osserva con attenzione le sue carte e sembra pensare a una mano positiva, di quelle rare. Ha tre otto, accompagnati da carte mediocri. È il momento di cambiare le carte sperando di far entrare qualche combinazione che possa consentire di vincere il gruzzolo posato sul tavolo. “È tardissimo...” dice guardando l’orologio.

Sono già le tre ed anche per stasera ci saranno improbabili scuse da raccontare alla moglie. Adele ha appena due anni. Suo padre non la vede quasi mai. Come si finisce in una situazione del genere? Si pensa che non sarà sempre così, e senza accorgersene ci si abitua a un tenore di vita diverso. Luca è ridotto in questo stato da quasi tre anni. Ha perso molti soldi da quando ha cominciato, sicuramente più di quanti ne abbia vinti. E se questa fosse la mano giusta? Non è mai la mano giusta in certi posti. Il piatto è molto ricco. Armando Finetti cambia due carte, stessa mossa per Gianni, mentre Ahmed solamente una. Luca scruta le due carte appena pescate, sperando in qualcosa che possa rafforzare il suo punto. Sono due tre. Ha un full in mano, e in questo gioco non è certo facile. Senza scendere in inutili tatticismi, si può dire che con un full, nel poker all’italiana, si abbia circa l’80% di probabilità di vittoria. I rilanci non si fanno attendere e il montepremi sale nel giro di un minuto a venticinquemila euro. Armando Finetti lascia la mano.

Rimangono a giocare gli altri tre. L’ultimo rilancio di Ahmed è di quelli da capogiro: cinquantamila in più per andare a scoprire le carte. Gianni, nonostante il suo soprannome, sceglie di lasciare la partita. Persino lui si rende conto di non potersi rovinare per sempre. Ora sta a Luca. Per guadagnare cinquantamila gli ci vorranno anni di lavoro. Eppure in mano ha un full, un punto di quelli giusti. Probabilmente questo ragazzino sta solo cercando di spaventarlo per portare a casa tutto il resto. È facile quando hai della gente che ti finanzia alle spalle. Sono attimi infiniti. Luca pensa alla sua famiglia, alla vita che potrebbe compromettere con la sua prossima scelta. Non è facile decidere. Se vincesse la mano guadagnerebbe quasi centomila euro, un’infinità per chi di mestiere fa il fiorista. “Allora?” “Lascialo pensare, negro” interviene di nuovo Gianni. Probabilmente non parla per difendere Luca ma solo per la sua antipatia nei confronti del ragazzo. Sembra che stia cercando il pretesto per litigare. Solo Dio sa la lezione che vorrebbe dargli.

“Tu stai rischiando...” risponde Ahmed senza nemmeno guardarlo. “Ah sì? Vuoi farmi vedere cosa rischio?” Gianni è già in piedi, pronto per alzare le mani. Non gli interessa sapere che solo toccando il ragazzo si troverebbe contro tutta la banda che lo difende. È simpatico a modo suo. L’incoscienza è spesso accompagnata da debolezza e suscita simpatia in chi osserva da fuori. “Sei ridicolo...” Non sta più nella pelle. Le mani gli prudono e il desiderio di andare fuori con il ragazzo si fa sempre più irresistibile. “Vedo” interviene Luca, interrompendo la discussione e concentrando tutta l’attenzione su di sé. Non aveva mai giocato tanto in vita sua. Cinquantamila euro. È un rischio estremo. Ahmed ride. Anche Gianni si risiede, come se si fosse già dimenticato della rabbia di qualche istante fa. È come se si sentissero tutti partecipi di un momento che cambia la vita. “Cos’hai?” domanda Luca agitato come mai in precedenza. “Uno, due, tre e quattro due… Poker!”

Rimane basito. Il suo punto non è sufficiente, per niente. Il 20% si è materializzato come il peggiore degli spettri. Gianni abbassa lo sguardo, come se avesse ben presente la sensazione che si prova in un momento come questo. Armando Finetti non perde la sua freddezza proverbiale e sembra già pronto a preparare un’altra partita. È un disastro. Luca ora è davvero nei guai. Non troverà mai una somma del genere e la casa non è ancora pagata, nessuno ascolterà le sue scuse. Il sorriso di quel ragazzino marocchino gli rimarrà impresso per tutta la vita. Lascia cadere le sue carte e non alza più lo sguardo. Quei quattro due sono solo l’inizio della fine.

Capitolo 5

Il mio unico pensiero è come dirlo a Caterina. Non sono più abituato a queste situazioni. Non so come possa reagire, o forse, ed è questo che mi spaventa maggiormente, lo so fin troppo bene. Il sole è ben lontano dal sorgere. Sta ancora dormendo e non voglio svegliarla adesso, nel cuore della notte. Non ci sono molte cose da fare in queste poche ore che mi separano dall’ennesima verità scomoda. Il buio profondo non mi aiuta. Torno in camera. Giuro che potrei are tutta la notte a guardarla dormire, ancora completamente candida e lontana dal pensiero del male. I suoi occhi chiusi m’ispirano viaggi mentali che non saprei descrivere, tanto si susseguono veloci. In un attimo mi vedo con lei in qualche posto deserto, e subito dopo in una stanza sporca a condividere un letto scomodo con il mio eterno mal di schiena. Ho paura. Non mi sono mai sentito in questo modo. Migliaia di chilometri ci divideranno nuovamente e non so se questa volta resterà ad aspettarmi.

So già che perderà quel suo sorriso sereno non appena aprirò bocca domani, quando non potrò far altro che annunciarle la mia decisione. Qualunque sarà la sua reazione non potrò biasimarla. Lei ha ragione, io ho torto, non c’è molto da aggiungere. Eppure. Eppure c’è un eppure. Forse sono solo un egoista, anche nel mio processo di cambiamento e miglioramento costante. Non si può cancellare tutto con qualche mese di buona condotta, nonostante mi trovi in Italia. All’inizio è solamente un’idea entratami in testa per caso, ma con il are dei secondi si materializza come sempre più reale. Non voglio salutarla tenendomi dentro il mio segreto. Kelly. È lei che dovrò nominarle per la prima volta. Sarebbe giusto o sbagliato? Lo farei solo per pulirmi la coscienza? Vorrei che rimanesse sempre così, con quella serenità invidiabile. Il suo respiro delicato fa da sottofondo al mio ragionare continuo su come poter salvare la bambina. Non uscirò mai da una situazione del genere. Quella gente non scherza. La mia testa va all’ultima notte di sesso con Kelly, al suo corpo prosperoso sopra al mio, al movimento dei fianchi, alla voglia incontrollabile di farmi possedere

da quella donna. Perché non riesco a togliermelo dalla testa? Se potessi tornare indietro rifarei le stesse cose? Perché mi sto punendo in questo modo? Non riesco a rimanere lucido come vorrei in un frangente delicato e forse ultimo della mia vita. C’è tanto in gioco, forse più di tutte le altre partite che mi sono trovato mio malgrado ad affrontare. Voglio salvarla. Devo salvare me stesso. Ho già rischiato tante volte e fino ad ora è andata sempre bene, ma chissà per quanto la fortuna continuerà a baciarmi. Non sono sicuro di tornare a casa mia. La mia coscienza diventa più forte e i sensi di colpa si moltiplicano pensando a Londra, a quell’ultima notte. Non voglio morire con questo peso sullo stomaco. Mi ripeto in testa le solite cose. Quante donne hanno conosciuto il lato più selvaggio di me, alle spalle della mia Caterina? Sono senza speranze. Le accarezzo i capelli, con la sempre più ferma convinzione che non lo potrò più fare dopo. Ho paura di morire, e temo l’inferno, e Dio, e soprattutto la lontananza, la solitudine che regnerà di nuovo.

Sono imperdonabile. Sembra disegnata, tanto è bella. Dolce come solo la mia donna è capace di essere. Sono troppo agitato per dormire e penso che anche riuscendo ad addormentarmi incontrerei solamente incubi e proiezioni ciniche e inanimate della realtà che sto vivendo. Non voglio sprecare in mezzo agli spettri la mia ultima notte insieme alla donna che ho sempre amato. Perché non può essere più semplice? Perché non ho ancora imparato? Mi sento soffocare ora e non riesco a rimanere qui dentro ancora in questa condizione. Mi stacco dal suo viso sereno e spensierato solo per uscire a fumare una sigaretta in solitudine. Ne ho bisogno ed è in momenti come questo che capisco cosa significhi dipendenza da fumo. Se non avessi la possibilità di fumare ora credo che darei di matto, non riuscirei a sfogare tutta questa agitazione. La estraggo dal pacchetto e la accendo finalmente. A ogni tiro migliaia di pensieri si accavallano nella mia mente, senza un senso o un ordine alcuno, tutti destinati a rendere ancora più difficile quello che sto per fare nel pieno possesso delle mie facoltà. Chiudo gli occhi per vedere meglio le proiezioni che mi appaiono veloci in testa, come dei fasci di luce continui e poi alternati e poi di nuovo continui fino a farmi esplodere la testa. Tutti, troppi.

Non sono pronto, non sono maturo, non sono neanche un lontano parente di quello che vorrei. È già finita. Ne accendo subito un’altra. La sola luce della sigaretta illumina la notte, sfondo perfetto per il mio stato d’animo attuale. Il sole è ben lontano dal sorgere, ma questo l’ho già detto. Intorno alla campagna, vedo il verde incontaminato e qualche casa completamente buia circondata da siepi troppo alte per guardarci attraverso. La mia donna è lì, forse per l’ultima volta nel mio letto, ed io sono fuori da solo, oppresso dal fardello pesante della verità. Idiota. Mi odio. Non faccio in tempo a ritrovare la mia serenità che subito mi trovo riassorbito da tutto questo. Perché non ho più la forza per mentirle? Almeno non la farei soffrire un’altra volta. Mi sento come un cane, e non potrebbe essere altrimenti, visto quello che le farò provare. Basta farmi male. Anche la seconda sigaretta dura molto meno di quanto avrei voluto e così la butto lontano da me, più che posso, in mezzo alla strada completamente deserta. La guardo spegnersi sempre di più, fino a nascondersi nella notte. Mi pulisco la mano da un piccolo brandello di cenere che si è posato lì, tra l’indice e il medio.

Non si vede nulla fuori. Mi domando quante cose staranno succedendo proprio in questo istante al di fuori della mia villa. Probabilmente una donna starà subendo violenze, mentre in un’altra casa una bellissima coppia si è addormentata insieme. Sto impazzendo. È stata una bella giornata. Chissà se il nuovo fidanzato di Antonella è un bravo ragazzo, o magari solamente un bugiardo che la prende in giro senza cattiveria, un po’ come me. Penso sia buono, in ognuno dei due casi. Penso che non lo capirei. Chiudo la porta della nostra villetta e torno in camera, silenzioso come ho imparato a essere in anni di menzogne e rientri ritardati con il fiato sul collo e l’odore della notte sulla pelle. Tra poche ore incontrerò Luca. Se penso a quello che sta provando lui, tutto mi sembra meno grave, ma non per questo poco importante. Trascorro tutto il tempo che manca alle cinque, senza chiudere occhio, abbracciato a Caterina come in un ultimo momento di dolcezza. Non sono comodo, per nulla. Il braccio sinistro è schiacciato dal mio corpo e ogni dieci minuti mi s’informicola, mentre il destro la abbraccia nel modo più leggero possibile. Pensavo che il tempo sarebbe volato via in un attimo, invece i minuti sono lenti e i miei pensieri tanti. È come trovarsi nella stanza del purgatorio, in attesa del colloquio più importante della propria vita.

Da una parte vorrei durasse per sempre, dall’altra è un’agonia silenziosa e inarrestabile. Respiro piano. Sento il suo respiro e mi piace. M’infonde speranza, quella che mi ci vorrebbe adesso per provare a uscirne in qualche modo con la testa alta e le ossa intatte. La sua pelle è liscia e profuma della crema che si è spalmata prima di coricarsi, di un odore di vaniglia. Casa nostra è calda come dovrebbero essere tutte le case del mondo. Quanto mi mancherà questo caldo? E il profumo di pulito, e l’ordine difficile da cancellare persino per me. È solo alle cinque e venti, quando comincia ad albeggiare, che la sveglio nel modo più delicato possibile. Non si può più attendere. Non so se sperare che si accorga di me oppure no. È un maledetto respiro di tensione. Apre lentamente gli occhi, in quel modo che è naturale e spontaneo come solo in questi momenti. Mi guarda confusa. “Che ore sono?” domanda. “È presto ma ti devo parlare...” Prende coscienza della situazione, quasi subito. “Cosa è successo?”

Il suo tono è già diverso. Sento la preoccupazione nelle sue parole. Quando lavoravo nella polizia, era abituata a essere svegliata nel cuore della notte per sentirsi dire che sarei partito per una qualsiasi destinazione. Non sempre era la verità. Ha lo stesso sguardo di allora, quando i suoi occhi non mi facevano capire se davvero credesse alle mie parole o semplicemente le lasciasse scivolare via nella più totale rassegnazione. Certe cose non cambiano mai. “Però cerca di stare tranquilla...” “Cosa mi devi dire?” Le prendo la mano. Non mi sono preparato un discorso, mi sembrava sciocco prima, anche se ora forse mi sarebbe servito per capire quali parole evidenziare e quali no. “Mi ha chiamato Luca, il fiorista...” Annuisce. Penso che sappia a chi mi sto riferendo, seppur senza troppa confidenza. “Hanno rapito sua figlia Adele...” “Oddio!” “Sì è una tragedia...” La sua emotività si fa già più composta. Non lo conosce a tal punto da farsi prendere dal panico, e così riesce a rimanere lucida per chiedermi le informazioni che le servono.

“E tu cosa c’entri?” “Lo devo aiutare...” Non è molto sorpresa. “Come pensi di aiutarlo?” “Andando a cercare i rapitori...” “Dove?” “È un’organizzazione che opera in Egitto...” “Andrai in Egitto?” È con la certezza dell’errore che le rispondo. “Sì...” Tace. È come se stesse pensando a come reagire in una situazione che non sente completamente sua. Ha lo sguardo fisso. Lo conosco. È a metà tra la furiosa e la comprensiva. “Ehi tesoro?” Provo in tutti i modi a essere carino, nella speranza che le sue parole non siano quelle che invece mi dirà. “Hai deciso senza dirmi niente?” Me lo aspettavo. “È venuto poche ore fa e non volevo svegliarti...”

“Sei una brava persona ma non puoi decidere di andare a rischiare la vita a migliaia di chilometri da qui senza parlarne con me...” “Lo so amore, ma cosa avrei potuto dirgli?” “Non lo so, ma qualcos’altro!” “Non potevo far altro che dirgli sì...” Rimane in silenzio. La conosco. Non è facile da capire, ma so che lo farà. Lentamente e in modo inevitabile se ne farà una ragione e si abituerà all’idea di vedermi andar via di nuovo. Non voglio nasconderle più nulla. So che non esiste momento peggiore, né situazione peggiore, né tono peggiore per dirle ciò che sto per dirle, ma non ho scelta. Non so se avrò altre occasioni. Ci ho riflettuto tutta la notte e sono certo che sarà questo, più della mia partenza, ad allontanarla definitivamente da me. “Ti devo parlare anche di un’altra cosa...” Lei non risponde. Ha lo sguardo di chi sta per esplodere da un momento all’altro. Voglio guardarla per un attimo ancora indossare quella maschera prima di perderla per sempre. “Dopo il funerale di tua madre, al mio ritorno a Londra, è successa una cosa di cui ti avrei dovuto parlare prima...” “Sì?”

È come se avesse già capito. “Sono andato a letto con un’altra donna...” Ho usato un tono deciso e in pochi secondi il peso è stato tolto dal mio stomaco, graffiando tutto il resto. Alza le sopracciglia. È arrabbiata come raramente l’ho vista nel corso degli anni. “Bravo...” “So che penserai di tutto ,ora...” Mi interrompe. “Bravo...” “Ti prego, non arrabbiarti...” Che frase del cazzo le ho appena detto. Come posso pretendere che non si arrabbi? Cosa farei a parti invertite? Cerco di toccarla ma mi sposta il braccio. “E tu mi dici questo solo ora che stai per andartene?” Ha la voce bassa, delusa più che arrabbiata. Mi sento male. “Sì… Non ne ho avuto il coraggio, prima...” “Tu sei una merda...” Cerco di avvicinarmi a lei per calmarla ancora, ma proprio mentre sto per afferrarla per i fianchi, mi allontana in modo violento.

“Non mi toccare!” mi urla. Faccio un o indietro contemporaneamente a lei. Il suo urlo mi terrorizza. “Mi dispiace tanto, Caterina...” Che vigliacco che sono. Non ho il coraggio di guardarla negli occhi. “Volevi partire con la coscienza pulita?” Pochi metri ci dividono ora. “Sì...” “Sono una stupida...” Vorrei fare qualunque cosa, ma non ho una minima idea di come migliorare questa situazione. “Sono solo una stupida...” ripete rivolta a se stessa, con un tono più rassegnato e cosciente di prima. Cominciano a scenderle lacrime dagli occhi. “Volevo dirti la verità...” “Tu non cambierai mai!” “Se non fossi cambiato non te lo avrei confessato...” “Tanto devi partire, no?” Non rispondo. “Così non mi dovrai più raccontare balle...” “Ti prego, non fare così...”

Non mi ascolta più. Potrei dire qualunque cosa ora, ma non servirebbe a nulla. Mio Dio. La luce nei suoi occhi. “Vattene… Non ti voglio più vedere...” Ha il tono convinto e fermo dell’altra volta, quando al mio ennesimo errore decise di lasciarmi. Rivedo quegli occhi furiosi anche ora. È bella. Provo a dirle l’ultima frase che spero possa avere un qualunque effetto su di lei e la sua rabbia furiosa. “Non so se uscirò vivo da tutto questo… Sei sicura di volermi salutare così?” Avete presente quando arriva il momento in cui si capisce di aver perso definitivamente la partita? “Sì...” Si volta dall’altra parte. Nulla le può far cambiare idea, ora. Lo sapevo. “Va bene...” Non dirà più nulla. Raccolgo le mie poche cose e me ne vado come un ladro da quella che ormai stavo considerando di nuovo casa mia. La guardo un’ultima volta ma lei è girata.

Mi sembra una bambina che viene abbandonata dai genitori, in un’immagine che mi sembra troppo triste per essere vera. Non posso averla ridotta io così. Se mi guardassi dall’esterno vorrei solo picchiarmi forte, con tutta la rabbia che ho in corpo, perché non è possibile in una vita così fortunata perdere qualcosa di così importante. Pugni e calci. Me ne darei così tanti. Vorrei sanguinare per lei. Gli occhi, le mani, i capelli. È impressa nei miei occhi in modo indelebile e non penso che questo cambierà nemmeno quando sarò lontano, in un altro continente. Migliaia di chilometri ci divideranno d’ora in poi. Sono un idiota, ma anche questo l’ho già detto. Mi lascio alle spalle la cosa più bella, ancora una volta. Ti amo, Caterina, ti amo maledettamente e questo è il motivo per cui mi fa così male perderti. Ti lascio indietro ma questo non cambia.

Solo pochi minuti

Non ricordo esattamente il nome del bar, ma sono abbastanza sicuro che ci trovassimo a Roma. Fino a pochi anni fa amavo questa città, piena di storia, di cultura, di teatri e monumenti, di gente con il modo di parlare unico al mondo. Mi piaceva sul serio. L’ho sempre collegata a una parte felice della mia vita. Era subito dopo il matrimonio. Da sposati, io e Caterina uscivamo spesso la sera. Ricordo il nostro tavolo, di quelli marroni, di legno vecchio, e lungo fin troppo per le quattro persone che eravamo. Un’atmosfera che nell’immaginario di chi l’ha creato voleva essere quella di un pub irlandese. D’irlandese aveva poco, a essere sincero. Non ho mai visitato l’Irlanda, ma ho conosciuto una volta una ragazza di Belfast di cui adoravo l’accento. Era viva, una delle persone più vive mai incontrate in vita mia, ma questa è un’altra storia. Forse il fatto che quel pub non me la ricordasse per nulla mi porta a pensare che sia lontano dall’idea di Irlanda e irlandese. Poco importa.

Di fronte a me, con una camicia nera attillata e un paio di pantaloni da azionista di Wall Street, c’era Giovanni Salli, un ragazzo con cui uscivo solamente perché fidanzato con una delle migliori amiche di Caterina, Diana. Mi faceva ridere il modo in cui si vestiva anche semplicemente per andare a mangiare una pizza, o bere una birra. Come se qualcuno di esterno lo stesse vedendo o giudicando in qualunque momento della sua giornata. E così eccoci in una serata piacevole e quasi estiva a sorseggiare quattro boccali di birra al doppio malto. Caterina la beveva ogni tanto, anche se normalmente era più una ragazza da vino bianco. Ricordo molti dettagli con una chiarezza che mi lascia sorpreso. Deve avermi in qualche modo segnato. È come uno di quei film che vedi una volta soltanto ma di cui non scordi più nemmeno una parte. Era solo una serata. I bicchieri avevano stampato sopra l’immagine di un maialino rosa che beveva birra coricato in una carriola. Sotto al disegno era scritto “Festa della birra 2001”. Mi fece simpatia. Giovanni Salli, con il suo tono da uomo che sta per conquistare il mondo, mi parlava di uno strano progetto che stava cercando di mettere in piedi insieme ad alcuni amici, se non vado errato riguardo all’esportazione di un tipo di materiale che funzionava come una colla. Tutti conoscono almeno una persona così: a tutti i costi appariscente, con una voce grossa e un po’ rauca che dovrebbe trasmettere senso di fermezza e potere, e orologio evidente al braccio, probabilmente pagato a rate.

Io annuivo, già con altre due birre in corpo, e guardavo Caterina coinvolta nel parlare con Diana, forse del viaggio che avremmo dovuto fare insieme la prossima estate in un posto speciale. Ascoltavo di più le donne rispetto a lui e se avessi potuto gli avrei detto chiaramente di tacere e non rompermi i coglioni con quelle storie. Non lo feci. Per qualche istante ricordo con chiarezza di essermi perso a guardare Caterina seduta lì di fronte. Le ho scrutato ogni particolare, ogni singolo tratto che poteva essermi sfuggito nel tempo ato. Era bella, anche se divento monotono quando ne parlo. Lei mi guardava solo a tratti, e sapere di avere catturato la sua attenzione m’induceva ancora di più a comportarmi in questo modo. Vedevo il sorriso. Quel modo di sorridere che aveva solo lei. Era senza dubbio la parte che più mi prendeva della serata. “Te ne intendi?” mi chiese a un tratto Giovanni, mentre non avevo la minima idea dell’argomento a cui fosse arrivato. Sono sempre stato bravo a mentire. “Non molto” fu la risposta, nel cercare di non dare a vedere la mia totale disattenzione. “Peccato” mi rispose, o qualcosa del genere. Caterina sapeva e capiva tutto. Non era esattamente l’uomo con cui amavo are serate spensierate, ma lo facevo, per lei.

Lo ha sempre apprezzato. Giovanni Salli mi parlò ancora per diversi minuti, e di quei tratti posso affermare di non ricordare neanche una parola. Finii anche la terza birra. Ne avrei bevute ancora. La birra è in assoluto la bevanda che berrei di più al mondo. Ha un sapore meraviglioso. A un certo momento, fu Diana a farmi una domanda. Diana. La classica persona buona, di quelle che quando cercano di farti ridere creano silenzio ma che allo stesso tempo sono rare per onestà. Non era particolarmente divertente e la maggior parte delle volte fingevo un sorriso di circostanza per levarmi dall’imbarazzo di qualche sua battuta. I capelli mossi non le donavano, ma penso che anche una pettinatura liscia non avrebbe cambiato di molto la situazione. Cercava sempre di coinvolgermi, come se a casa le mancassero le attenzioni di un uomo, e guardando il suo ragazzo mi spiegai molte cose. “Quando la porterai in America?” fu la domanda, posta con un tono di amicizia fraterna. Non sapevo cosa rispondere, e soprattutto non avevo idea del motivo per cui l’aveva chiesto. “Non lo so...” “È un peccato non averla mai vista...” Continuava curiosa, e mi causava un leggero fastidio.

Non mi scomposi comunque. “La porterò presto...” “È un posto meraviglioso” insistette. Mi sarebbe venuta voglia di risponderle qualcosa come “e tu perché non ti fai gli affari tuoi?” Non ho detto nemmeno questo. Capii solo successivamente il motivo delle sue domande, e la risposta era nel suo sguardo. L’unica ragione era avere la possibilità di raccontare la loro vacanza. Partì con il giro nella macchina sportiva, continuando con nomi americani che personalmente ignoravo, o comunque non collegavo a nessuna immagine nitida e definita. Tra vari canyon e strade, e ristoranti e insegne luminose, non riuscì in alcun istante a catturare la mia attenzione o farmi venir voglia di visitare uno qualunque di quei luoghi. Incalzò con la sua parlantina inarrestabile. Non so come la pensasse Caterina. Fu uno dei momenti più noiosi della serata, quello giusto per alzarmi e andare in bagno. Non sono mai stato un grande oratore e tanto meno un ascoltatore. Fui contento di non doverla ascoltare più, almeno per pochi minuti. “Vado in bagno...” Sapevo già che Caterina una volta da soli mi avrebbe ripetuto per l’ennesima volta quanto fossi maleducato e che non ci si dovrebbe alzare mentre qualcuno parla, ma pensai anche che sarei sopravvissuto alla predica.

Mi alzai dalla sedia e m’incamminai, attento a non urtare contro niente, per i pochi metri che mi separavano dal bagno. Ci arrivai, non senza qualche problema. Era occupato e rimasi incuriosito a vedere che la porta dell’unico bagno del locale aveva appese le foto di un lupo e di una pecora, per evidenziare il fatto che fosse sia per uomini che per donne. Sorrisi. Mi trovavo da solo in questa specie di antibagno, con di fronte a me uno specchio in cui potevo guardarmi e notare le brutte occhiaie che avevo. Quelle mi hanno sempre accompagnato. Ero comunque molto più in forma di ora. Le braccia erano più dure, la pancia non esisteva ed io mi sentivo a mio agio in ogni situazione. Sentii un rumore di porta, convinto che si sarebbe aperta quella che aspettavo, mentre con mia sorpresa e delusione fu quella collegata al bar. Una ragazza mora, non tanto alta e nemmeno bella, entrò nell’antibagno. “Occupato?” mi chiese. “Sì...” Rimanemmo in silenzio per i due minuti successivi, ma ci scambiammo gli sguardi un paio di volte. Mi sorrise. Finalmente dal bagno uscì il ragazzo che lo occupava da così tanto. Lo guardai. Non ricordo nessun dettaglio di lui, nemmeno se fosse moro o biondo, alto o basso o grasso.

Nulla. Feci per entrare e la ragazza mi disse. “Fai presto che me la sto facendo addosso...” Mi fece sorridere sul momento. Mi dava l’impressione di essere notevolmente ubriaca. “Ok...” Ci misi meno di un minuto. Aprii la porta tirandomi su la cerniera dei pantaloni e lei fu lì ad aspettarmi. “Sono stato bravo?” Mi si avvicinò fino ad arrivare a pochi centimetri dalla mia bocca. “Sì...” Non so perché. Non riesco nemmeno ora a realizzare il motivo che mi abbia spinto a comportarmi come mi sono comportato. La lasciai avvicinare in modo pericoloso. Non trovò nessun ostacolo fino al contatto con la mia bocca. Tirai fuori la lingua e la baciai. Lei mi saltò in braccio facendomi retrocedere fino al bagno. Diedi un calcio alla porta con l’intenzione di chiuderla, ma alla fine si appoggiò soltanto. Lo spazio era stretto e le birre che avevo in corpo non mi aiutarono per niente in quel momento.

Le sfilai le mutandine con fatica e goffaggine che normalmente, da lucido, non mi appartengono. Con l’aiuto di un braccio solo slacciai i miei pantaloni e li tirai giù, sotto al ginocchio. Mi sentivo leggerissimo. La appoggiai contro una parete, senza evidenti difficoltà, aiutato dall’alcol che mi faceva girare leggermente la testa senza farmi pensare alle leggi fisiche per cui sarebbe stato difficile restare in equilibrio. Entrai in lei. Non avevo alcuna protezione ma non ci pensai nemmeno. Lei, che dallo sguardo mi sembrava fatta oltre che ubriaca, iniziò a urlare per il piacere dopo pochi secondi, mentre io la baciavo per farla smettere e non farmi sentire da nessuno. Non penso di essere stato così bravo da farla godere in quel modo: probabilmente fingeva o forse era solo l’effetto della droga o dell’alcol. Forse iniziò anche a fare la pipì. Non lo saprò mai con certezza, ma forse è meglio così. A un tratto le tappai la bocca con la mano, rendendo ancora più difficili i miei movimenti. Cominciai con forza a sbatterla contro il muro, con la paura di essere sentito che mi eccitava ancora di più. Continuavo vigoroso, e dentro di me pensavo che sarei potuto andare avanti senza sosta per tutto il tempo che volevo. Dosai i miei movimenti a piacere, sentendola più come una spugna che non come una donna. “Ti piace?” le chiesi, attraversato dal piacere.

“Sì...” “Urla...” “Sì!” La sentii gridare forte. Non diceva parole, ma emetteva solo versi che aumentavano il mio piacere. Solo in quel momento mi accorsi che i rischi di essere sentito aumentavano a ogni secondo. Non mi sentivo in me. Ogni movimento era finto, come se non avessi atteso altro che la fine di quel rapporto nato malissimo. Forzai il ritmo. Dopo l’ennesima botta, finalmente arrivai all’orgasmo. Feci almeno attenzione a uscire in tempo dal suo corpo, ma mi tolsi la soddisfazione di farla inginocchiare a leccare tutto quello che era rimasto della mia eccitazione ata. Lei lo fece senza nessun problema. Mio Dio. A vederla mi eccitai come un folle. “Brava” le dissi, mentre con la mano le guidavo la testa avanti e indietro. Leccò per qualche secondo, guardandomi negli occhi. Mi piacque da morire. Mi resi conto che era ato più di qualche minuto. Non era durata molto, ma tra l’attesa precedente e tutto il resto cominciava a

diventare sospetto. Tirai su i pantaloni e la aiutai a rialzarsi. A osservarla dopo, capii che era anche più brutta dell’immagine che mi ero stampato in testa appena vista. Che idiota. Sembra strano pensandoci ora, ma dopo averla coperta di tutto ciò che ho di più intimo in corpo, il nostro saluto fu quello di due persone che neppure si erano conosciute. “Ciao...” Mi guardò con la bocca ancora bagnata di me. Si lasciò andare al sorriso di una persona che pensava di averla fatta grossa. “Ciao...” Era una ragazzina. Non aveva sicuramente più di venticinque anni. Uscii dal bagno con una strana sensazione e guardare Caterina negli occhi mi fece male, come sempre. “Quanto ci hai messo” esclamò Giovanni. “C’era coda...” Me la cavai così. “Noi stavamo parlando dell’America...” Non era cambiato nulla. La serata continuò, senza altri momenti scioccanti, senza grossa attenzione alle parole di chi si trovava al tavolo con me, ma con il battito del cuore che non si normalizzò per parecchio tempo.

Non guardai Caterina, o almeno lo feci il meno possibile. Non ne andai fiero, nemmeno per un secondo. L’avevo tradita a pochi metri di distanza, e questo non lascia spazio a nessuna giustificazione. Giovanni continuava nei suoi interminabili discorsi che quasi mi parevano ciambelle di salvataggio in quella tempesta che vivevo dentro. Fu a un tratto che vidi l’altra ragazza uscire dal bagno e, con mia grande sorpresa, andare ad abbracciare il suo ragazzo, seduto a pochi tavoli dal nostro. Lui era uno dei classici sfigati vestiti in modo strano, con tatuaggi e orecchini sparsi un po’ dappertutto. Fantastico. Non potevo crederci. Non l’avevo mai immaginata dall’altra parte. Anche lei lo aveva appena tradito a cuor leggero. Mi vergognai. Se Caterina l’avesse fatto a me? Sarei diventato matto. Se già lo fe senza dirmi nulla? Vorrebbe dire che esiste un’ombra di giustizia in questo mondo sporco e criminale di gente come me. No, è impossibile. In questo modo continuammo entrambi le nostre serate, come se nulla fosse successo in quel bagno, come se nemmeno ci fossimo visti in quei pochi minuti.

Capitolo 6

Guido la mia Carrera grigia. Vado piano per strada, ma il suo rumore è incoraggiante, come se volesse dimostrarmi di poter raggiungere qualunque velocità. Il solo toccarla mi fa stare meglio. Il posto del eggero è tristemente vuoto. È stata una mia scelta, proprio come quella che già me l’ha fatta perdere tanto tempo fa. Non sono un granché con le decisioni. Non so se il problema sia il modo, o il momento, o il luogo in cui sbaglio i miei atteggiamenti, ma l’epilogo è sempre triste. Sono incontrollabile e solo, come un tassista dopo aver lasciato a terra l’ultimo eggero. Le strade dei quartieri residenziali non hanno nulla a che vedere con quelle del centro, in cui ogni movimento viene reso impossibile dal traffico. Potrei anche fermarmi e fare un’inversione a U che nessuno mi suonerebbe il clacson. Finalmente, dopo pochi minuti di guida arrivo di fronte a casa sua. Luca è già lì pronto. Immagino come possa sentirsi un padre in una situazione al limite dell’umano come questa.

La scena è cambiata in un attimo. Come trascorre in fretta. Laura è accanto a lui. Una donna che mi pare non essere mai cambiata negli anni, sempre con lo stesso viso un po’ vecchio, scavato dall’età e dalle preoccupazioni che si sono ripetute nel corso di una vita. È sempre stata paziente e l’ha perdonato, anche quando non doveva. Gli occhi chiari, di un color grigiastro più che azzurro, mi guardano come quelli di un soldato che ne ha già vissute tante di battaglie prima di questa. È sciupata, senza la persona a cui più tiene al mondo. Non li avevo mai visti in queste condizioni. Lei mi saluta trattenendo a stento le lacrime mentre Luca, tenendole sempre la mano, aspetta solo un cenno da parte mia. Mi avvicino a lei, come se mi sentissi in obbligo di dirle qualcosa per farla stare tranquilla. È esile, forse più del solito. Non ci sono molte parole in situazioni come questa, in cui ogni problema a in secondo piano. Sono forti e in ogni caso saranno uniti. “Ehi...” “Ale!” Mi guarda negli occhi. “Faremo tutto il possibile, Laura...” Lei mi guarda piangendo.

“Salvala...” “Ci provo...” “Salvala!” ripete. La abbraccio forte. Non abbiamo un rapporto strettissimo, ma in questo momento mi sento la persona al mondo più vicina a lei. Ci proverò. Non voglio dirle nient’altro. Forse nella sua testa ha già pensato che uno dei due lo perderà. È la vita di Adele per quella di Luca. Si baciano senza trasporto, prima di staccare le loro mani: non li invidio per questo momento. Ci allontaniamo da lei nel modo più deciso possibile, per provare a evitare ulteriori sofferenze a tutti. Laura non smette di guardarci rendendoci tutto più difficile. Prendiamo la macchina e andiamo in aeroporto. Luca ha già guardato i voli: ce n’è uno che parte alle dieci e trenta. Abbiamo tempo ma nonostante questo ci rechiamo immediatamente all’aeroporto di Fiumicino. Anche se sembra inutile, preferiamo essere al posto giusto per non sentirci in prestito in questa situazione surreale. È teso, questo ragazzo di ormai quasi cinquant’anni. Siamo così uguali eppure così diversi.

A guardare me si intuirebbe immediatamente che sono trascurato, con i capelli neri e corti senza una linea, la barba lasciata crescere quel tanto che basta a notare che su una guancia è lunga più che sull’altra, e la mia maglietta nera con cui potrei tranquillamente dormire, stropicciata e forse sporca, coperta da una giacca poco rigida che cerca di mascherarmi di leggera eleganza. Lui è il contrario: pettinato e profumato, nonostante le occhiaie per la notte appena trascorsa senza dormire. Ha occhi chiari, bellissimi, nonostante lui non sia un bell’uomo, e sono certo siano proprio quelli ad aver fatto innamorare sua moglie. In auto non parliamo e così la mia mente ha modo di pensare nei minimi dettagli a quanto accaduto a casa. Non riesco ancora a togliermi dalla testa il modo in cui le ho detto addio, ma dovrò essere molto più lucido di così se vorrò essere d’aiuto al mio amico. L’ho persa sul serio. Questa volta non ho i sensi di colpa del ato: sono stato sincero e averla persa era forse la cosa più giusta. Lei è la donna della mia vita, ma con ogni probabilità io non sono l’uomo giusto per lei. Ad ogni metro della macchina le sono sempre più distante e non riesco a non farmelo pesare. Era il presente che speravo di riavere e in un attimo sono tornato alla vita di prima. Così, tutto d’un tratto, mi ritrovo schiacciato dagli stessi problemi, quelli che ero convinto di poter eliminare dal mio io con una bacchetta magica di buoni propositi. La cura è finita: si torna alla realtà. Attraversiamo le strade che a quest’ora sono ancora poco trafficate.

Tra un’auto e l’altra faccio in tempo a guardarmi intorno, a tirare un po’ il motore del mio giocattolo. Schiacciare l’acceleratore mi aiuta a sfogarmi, a riacquistare di nuovo la lucidità necessaria. È Luca a rompere il silenzio dei miei pensieri. “Cosa hai intenzione di fare, Ale?” È ridicolo partire per una missione del genere, con una posta così alta, senza il minimo piano in mente. È quasi imbarazzante confessarlo a Luca. “Dovremo improvvisare...” mi limito a rispondergli. Improvvisare. Ma cosa sto facendo? Cosa mi fa pensare di essere la persona giusta per una situazione così difficile e delicata? L’unica pensata che ho avuto è stata quella di anticipare i tempi e prendere un maledetto aereo per arrivare in fretta là, in mezzo ai nemici. Non so nulla della bambina, ma posso solo sperare che la chiamata che presto Luca riceverà ci porterà da lei. È assurdo. So benissimo di non poter fare nulla più di chiunque altro, ma sono io l’unico vero amico che ha. Sono certo che lui avrebbe fatto lo stesso per me. Non sono mai stato fortunato nelle mie amicizie, ma lo stimo moltissimo. È un brav’uomo, di questo sono certo.

La conferma mi arriva dalle sue parole. “Io mi fido di te.” Un uomo disperato che non ha nessun altro. So quanto deve essergli costato mostrarsi così in difficoltà ai miei occhi, ma se ha deciso di farlo è perché non aveva davvero nessun’altra scelta. Ho il suo totale appoggio ma la cosa non mi tranquillizza un granché, ad essere sincero. Lui mi vede come un salvatore dopo quello che sono riuscito a risolvergli in ato, ma erano altri tempi. Era un’altra situazione. Avevo l’appoggio di tutto il mio distretto e sapevamo il luogo e l’orario, e non avevamo il problema di un ostaggio da salvare. Andò bene: andò alla grande. Li prendemmo tutti. C’era Ahmed Lajula, il ragazzo che aveva fregato Luca, che fu l’unico che riconobbi immediatamente. Gli altri li identificai solo in commissariato in un secondo momento: un uomo basso sulla cinquantina che chiamavano Kain, che successivamente scoprii significare “Faina” in arabo; poi ricordo i due fratelli giapponesi Baiko e Bairei Ishitoa, che conoscevano a memoria le arti marziali, e che in occasione della nostra retata riuscirono a mandare in ospedale due poliziotti per la frattura di diverse ossa; gli altri poliziotti spararono a entrambi, e in seguito uno dei due perse un braccio: è l’unico segno che li differenzia. Tra loro trovai anche con mio grande dispiacere un italiano di nome Matteo Sinigaglia, un poliziotto. La notizia che ci fosse un infiltrato nella polizia era già trapelata da un po’, ma quando lo trovammo lì in mezzo fu un brutto colpo per tutti.

Non lo conoscevo personalmente, però mi dispiacque dal profondo del cuore. L’ultimo arrestato fu Gael Dominov, psicopatico pluriomicida che al momento dell’arresto aveva già nel suo curriculum tredici morti: uno che in un altro paese sarebbe sicuramente stato mandato sulla sedia elettrica o impiccato. Di lui mi rimasero impresse due cose: la faccia assente di quando fu catturato, come se fosse stato posseduto da qualcosa nel momento dell’arresto, e un tatuaggio, che gli andava a coprire tutta la schiena fino alla vita, raffigurante un dragone verde. Uno scalmanato fuori di testa. Tutta questa bella gente fu catturata in un colpo solo in un’operazione che occupò la bellezza di cinquanta uomini tra cui il sottoscritto. Fu uno dei colpi migliori di tutta la mia carriera, eppure non ci volle molto a far sì che la giustizia italiana li rimettesse in libertà. Il loro capo non fu mai scoperto, ma sapevamo che si trattava di un arabo che in Italia non si azzardava a mettere piede. Il burattinaio di tutta questa situazione. Ora è tutto da rifare. Sarà una guerra. Non mi troverò in Italia, e questo sarà terribile. Devo sapere il più possibile. “Sai qualcosa che io non so?” gli domando. “So solo che ci saranno tutti quelli che hai fatto mettere dentro...” “Il capo?” “So chi è” mi risponde come se fosse la notizia più importante del mondo. “Sai il nome del boss?”

“Sì: Al Jadir Houssain...” Rimango in silenzio a pensare. Deve essere lui. Non ho mai avuto la sfortuna di vederlo. “Come fai a saperlo?” “Me lo ha detto lui...” “Lui ti ha detto il suo nome?” “Sì...” Perché cazzo un uomo nella sua posizione, che non si sporca mai le mani, avrebbe dovuto rivelare la sua identità a lui? Qualcosa non mi torna. “Perché ti ha detto il suo nome?” gli chiedo, in preda ad un’angoscia in continua crescita. Sento puzza di trappola. Eppure non ho scelta: devo agire. “Non lo so, Ale...” Mi concentro di nuovo sulla guida. “Cosa pensi che le faranno?” mi chiede ancora. Che brutta domanda. Cosa posso rispondere a un padre che in questa situazione mi pone una domanda del genere? Non sono un granché a fare il consolatore.

“Bisogna riflettere molto...” Mi ascolta come un allievo con il maestro. “Intanto dobbiamo partire dal presupposto che noi non sappiamo nulla e partiamo nella più totale disorganizzazione...” “E quindi? Non possiamo procurarci dei soldi?” mi chiede ancora. Beata ignoranza. “Pensi che con dei soldi cambieresti le cose?” “E allora cosa facciamo?” “Devi calmarti!” M’infastidisce il suo modo agitato di chiedermi qualsiasi cosa. Non posso nemmeno immaginare come si senta, però l’agitazione non lo porterà da nessuna parte. “Scusa...” “Probabilmente questa gente non si accontenterà della tua vita...” “Cosa vuoi dire?” “Sono uomini che hai fatto arrestare...” “E cos’altro vogliono?” Nelle situazioni di disperazione le persone diventano più ingenue oltre che deboli. Preferirei evitargli queste parole, ma deve essere pienamente consapevole di quello a cui sta andando incontro. “Non credo abbiano intenzione di risparmiare quella di tua figlia...” Si mette le mani in faccia.

Vederlo così non mi aiuta per niente. Mi costringe a snaturare il mio carattere per indossare la maschera del consolatore che non riesco a portare nel modo giusto. Gli appoggio la mano sulla spalla. “Devo essere sincero e dirti tutte le possibilità...” “Lo so...” Eppure non smette di piangere. “Ce la faremo a venirne fuori...” Piange come un bambino. Le lacrime scendono dai suoi occhi, attraversano le guance e piovono sulle mani prima di scomparire nell’aria. Il suo viso, scavato e depresso, è l’immagine più rappresentativa di quello in cui ci troviamo. È un brav’uomo, non meriterebbe questo, ma in ogni caso non potevo parlargli diversamente. Lascio la mia auto nel parcheggio dell’aeroporto. Non m’importa molto di quelle che saranno le spese di permanenza al momento del mio ritorno. Chissà se tornerò. Ti prometto che, se ritornerò vivo, ti laverò, mia bella Carrera. In fondo vorrebbe dire avercela fatta. Lui si è ammutolito. Smette con fatica di singhiozzare.

In aeroporto ci sono le solite code che ho sempre detestato. Faccio strada e il tempo trascorre lentamente prima di arrivare alle dieci e trenta del mattino. Ora che l’ho messo di fronte a tutte le possibilità, possiamo imbarcarci sull’aereo e partire. I sedili sono stranamente comodi. Nulla a che vedere con quelli della Ryan Air. Di fronte a me appare all’improvviso, proprio mentre mi sono appena seduto, una figura che non riesco a ignorare. Ha capelli neri raccolti da una coda, divisa bianca e blu e molto fondotinta su quel viso bello e spudorato. Sta ando per tutti i posti a controllare se le cinture sono allacciate e i bagagli riposti nei loro scaffali. Mi a a pochi centimetri per controllare. A un tratto è come se si bloccasse. Mi guarda con attenzione come se già mi avesse visto da qualche parte. Conosco questo momento: l’ho vissuto centinaia di volte. Continua con le mani a sistemare il bagaglio sopra di me, ma non mi toglie lo sguardo di dosso. Forse mi ha riconosciuto ora. Si avvicina a me. “Scusa, ma tu sei Alessandro Vinci?” “Sì...” “Posso chiederti un autografo?”

“Certo...” Le scrivo su un pezzo di carta un complimento e poi la mia firma. Lei si allontana soddisfatta. Durante le quasi due ore di viaggio l’ho sorpresa a guardarmi almeno una decina di volte, ma non importa, non ora. È proprio strano trovare una forza di volontà così dentro di me, proprio ora che Caterina l’ho persa di nuovo. Per tanti di voi può sembrare normale non lasciarsi andare con una bella donna in un momento così delicato, ma per me è tutt’altro che scontato. Mi trattengo più per rispetto nei confronti di Luca che per mancanza di voglia di lei. Accavalla le gambe, coperte da collant scuri che mi farebbero eccitare anche sul letto di morte. Sa di piacermi. Il suo sorriso vale già più di tante parole. Smetto di guardarla prima di arrivare a un punto di non ritorno. Dopo due ore ate a ingannare il tempo con ogni tipo di stratagemma, arriviamo finalmente a destinazione. Mi metto gli occhiali da sole. Fuori dall’aeroporto mi trovo sorpreso da una ventina di tassisti litiganti per trasportare le persone. “Italiano!” “Italiano!” Sembrano tutti uguali.

Urlano come bestie e mi fanno aumentare il nervosismo. Uno di loro, molto particolare, ci porta fino al nostro hotel di Nama Bei. Puzza. Emana un odore forte di sudore e fritto. Penso che questa non sia una sua particolarità. Fortunatamente i finestrini sono giù. Indossa una camicia di lino che in principio doveva essere bianca e ora sembra più tendente al beige, e un paio di pantaloni verdi. Qui guidano tutti come pazzi e si scaldano per qualsiasi parola o nome banale sentano. Quando ad esempio gli dico “Schumacher” si galvanizza e comincia a guidare ancora più veloce e convinto. Mi strappa un sorriso. Dopo poco riesco a vedere anche il mare, bello come me lo avevano descritto alcuni amici. Luca paga il taxi. Scendiamo in questo piccolo paesino che mi riesce difficile descrivere. In una via grande e larga le luci si accavallano, tra insegne di negozi, locali e pubblicità. Un fiume di persone cammina nella stessa direzione e nel senso opposto, talvolta scontrandosi. A entrarci sono quasi spaventato di poter perdere Luca. Le altre vie trasversali neppure si vedono, ma il mio occhio attento nota subito gruppi di egiziani e marocchini con facce losche, nascosti dalle luci della finzione.

Mentre cominciamo il nostro primo giro di perlustrazione, il telefono di Luca suona all’improvviso. Cerchiamo di metterci in un posto appartato per sentire bene la voce al telefono, sicuramente quella tanto attesa. La prima via sulla sinistra è perfetta. “Pronto...” “L’appuntamento è domani...” Ha un volto sconvolto. “Come sta mia figlia?” “Alle ventitré...” “Dove?” “A poche vie dalla principale, c’è un magazzino abbandonato...” “Come lo trovo?” “Chiedi del magazzino dei ferrivecchi...” “Come sta mia figlia?” “Vieni, se vuoi rivederla...” “Fammi parlare con lei!” Dall’altra parte hanno già riagganciato. Mi guarda. Mi riferisce subito orario e luogo d’incontro. “Come facciamo, Ale?” Non ho molte idee.

Siamo io e lui, in mezzo all’Egitto, contro una banda violenta e senza scrupoli. Dobbiamo essere in grado di attaccarli e per farlo dobbiamo procurarci delle armi, cosa di cui al momento siamo sprovvisti. L’unica mossa che mi viene in mente non sembra affatto stupida. Attraverso la folla e m’imbuco in uno di quei vicoli loschi in cui i turisti non si azzardano a entrare. Non sono solo. Quelli potrebbero fare al caso nostro. Sono accanto a una vetrina chiusa da una saracinesca. Chissà cosa c’è lì dietro. Mi avvicino a un gruppo di quattro individui con le facce da galera e i denti di uno strano colore lontano dal bianco che conosciamo noi europei. “Cosa vuoi?” Hanno un odore irrespirabile. “Fare un acquisto...” Il primo ad avermi rivolto la parola sembra volermi aggredire, ma quello di fianco, che mi pare il più sano di mente, lo ferma. “Cosa ti serve?” “Una pistola...” “E a cosa ti serve una pistola?” mi domanda con il suo accento odioso. “Non ti riguarda questo...” Si mette a ridere. “E i soldi ce li hai?”

“Certo...” Tiro fuori dalla tasca un plico di banconote da venti euro legate da un elastico sottile. Non è una gran somma, ma per loro sì. Mi fa cenno di seguirlo. Luca mi sta appiccicato come un francobollo. iamo attraverso bancarelle e mercatini nell’indifferenza generale, fino a quando, dietro ad un negozio di borse, con raffigurata la città di Mantova, veniamo condotti in un piccolo stanzino in cui si trova un vecchio a cui tutti sembrano portare rispetto e ammirazione. Qui dietro di turisti non ce ne sono. Se volessero, potrebbero ammazzarci in un attimo senza che nessuno là fuori se ne accorga. Non lo faranno. Questi paesi vivono di turismo, e la scomparsa di stranieri non sarebbe certo una buona pubblicità per loro. Mi guardo in giro curioso di vedere dove arriveremo. “Buonasera” gli dico entrando. “Vi serve una pistola?” “Sì...” Fa aprire da un altro una coperta e la stende davanti a noi. Comincia ad appoggiarci sopra, una dietro l’altra, molte armi da fuoco che con gentilezza mi fa provare a tenere in mano. Mi ci vogliono pochi minuti per scegliere quella giusta.

Una molto simile alla mia. È una calibro 22 che tengo con facilità in mano e riesco a estrarre velocemente dalla fondina. Mi torna in mente la mia bella pistola, abbandonata colpevolmente in un cestino della spazzatura a Londra. È uno di quei gesti di cui mi pentirò per tutta la vita. Fanculo il ato. “Quanto costa?” gli chiedo. “1500 euro...” So benissimo che potrei trattare per far abbassare il prezzo, ma non ho intenzione di discutere né di perdere tempo. “E i proiettili?” “Non preoccuparti di quelli” mi dice sorridendo, rivolto all’uomo che mi ha portato fin qui. Mi fido delle sue parole. Estraggo la mazzetta di banconote dalla tasca e appoggio sul grande tappeto la cifra pattuita. “Bene...” “Grazie...” “Grazie a te, straniero...” Il vecchio non mi sta antipatico. Probabilmente è un ex criminale, e meriterebbe diversi anni di prigione, ma a pelle m’ispira simpatia. È gentile.

Questo è uno dei motivi per cui non ho voluto trattare il prezzo. Dice qualcosa a uno dei suoi uomini e si fa portare un piccolo coltello, tanto comodo quanto letale. “Questo è un regalo per te...” Me lo porge. “Grazie davvero...” Fa cenno di sì con la testa. Ha capelli lunghi bianchi e baffi molto evidenti. Sembra un maestro dei tempi ati. Gli altri lo rispettano e dopo pochi secondi di dialogo con lui ne comprendo il motivo. Chi lo sa: potrebbe anche darmi una mano con la mia situazione. Se c’è una cosa che ho imparato in tutti questi anni è che non ci si può fidare di nessuno. Mi basta pensare a Fred Couture. Decido di rimanere in silenzio. Luca in tutti questi minuti non ha detto una parola ma si è limitato a guardare la scena, intimorito. Non penso sia mai stato in luoghi del genere, anche se le bische che frequentava non erano certo ambienti migliori. Ad ogni modo mi alzo. Saluto il vecchio dandogli la mano, ancora in attesa dei proiettili che finalmente, senza che glieli ricordi, mi offre senza incertezze. Dentro al sacchetto ce ne saranno circa un centinaio.

Deve avermi preso in simpatia. Brav’uomo. “Grazie...” La prima parte è stata fatta. Ora dovremo sorprendere quei figli di puttana. Torniamo in mezzo ai turisti con il nostro nuovo acquisto in tasca. Mi sento già meglio.

Flora e la nuova vita

“Un altro drink, bellezza...” “Sì, subito...” L’uomo la afferra per un braccio. “Aspetta un attimo, bellezza… Come ti chiami?” È scocciata e non ha la minima intenzione di continuare questa conversazione. “Non è importante” si limita a rispondere, dandogli le spalle e continuando a camminare verso un altro tavolo. Si accorge che i tre uomini seduti le guardano le forme, facendo commenti rozzi e volgari che lei come sempre ignora. Soltanto quando rientra in cucina si leva la maschera d’indifferenza e si porta la mano sul viso, incoraggiandosi a resistere perché non potrà sempre essere così. Tutto a un tratto la mamma le manca, e così anche quella bella villa in cui si divertiva a giocare alla prigioniera. Attende che il barman, un ragazzo biondo che non avrà più di sedici anni, finisca di preparare il cocktail da portare al tavolo. Sono ati ormai tre mesi dal suo arrivo a Istanbul, ma non può certo essere soddisfatta. Un lavoro mediocre in un ambiente difficile non rappresenta la libertà che tanto ha invocato. Mentre le notti stellate si sono alternate più veloci e indifferenti di quanto

credesse, non ci sono segnali che la aiutino a sperare in qualcosa di meglio. Il sole, la luna e le stelle da sole non bastano a trovare la felicità e nessuno la sente nei pianti notturni, proprio come ha voluto. L’immagine di Adriano la accompagna come l’alone di malinconia del bambino già grande che era. Non c’è più. Non ci sarà più. Lo intravede tutte le notti, nei suoi sogni disturbati che le permettono di sentirlo, ma non di poterlo avvicinare abbastanza da viverlo, e così si sveglia con la solita malinconia sulle spalle, e quella paura, grande più che mai, che il suo ricordo possa attenuarsi con il are dei giorni. Era tutta la sua vita. Torna al tavolo di prima, con in mano un vassoio, un Gin Lemon, e un piatto con stuzzichini a prima vista immangiabili. “Pensavo ti fossi persa, bellezza” ricomincia l’uomo di prima, di nuovo mettendole una mano sul fianco. “Mi lasci, per favore...” “Cosa c’è? Non ti piacciono gli uomini?” continua spostando la mano sul culo di Flora. Gli altri ridono. È l’ultima goccia. In quell’istante una nebbia densa e irrespirabile le copre il viso e la rabbia prende il sopravvento sul buon senso. Non esiste un domani, non ora. Afferra il bicchiere di Gin Lemon e con tutta la forza che ha in corpo lo scaglia contro la testa dell’uomo.

È una bomba che esplode in una piazza, un rumore forte come quello di un milione di voci urlanti: è un disastro. Il rumore è molto più grande di quanto potesse aspettarsi. Tutti si girano e l’uomo, con il sangue che gli sgorga in mezzo ai capelli e su tutto il viso, si alza infuriato. “Brutta troia!” Le afferra il braccio, con l’intenzione chiara negli occhi di massacrarla di botte. Non potrebbe mai perdonarle uno sgarbo così grande. In Turchia una donna deve obbedire e servire, e neppure dovrebbe arle per la testa di alzare le mani contro un uomo. È fuori di sé, in un momento che pare irreale. Altre due cameriere intervengono e si mettono in mezzo, seguite da clienti che si improvvisano pacieri. Volano sberle e ceffoni, che qualche povero malcapitato prende nella confusione generale. Fortunatamente ci sono anche turisti. Dopo qualche secondo, che a tutti sembra molto di più, riescono a separarli. Monica, una delle due cameriere intervenute, si gira verso di lei. Sa già cosa si sentirà dire, prima ancora che la ragazza apra la bocca. “Corri, Flora...” “Dove?” “Vattene lontana da qui...” È titubante.

Vorrebbe dire scappare di nuovo. Eppure quale sarebbe l’alternativa? “Vattene, Flora!” le ripete nuovamente. “Scusa, Monica...” “Vattene lontana da qui e buona fortuna...” “Grazie...” Si toglie il grembiule sporco e maleodorante, che raffigura su uno sfondo bianco una moschea blu. Inizia a correre. Non ci sono mete, ma l’importante è arrivare lontana da quel bar. Non le importa di quello che avrebbero dovuto pagarle, e dopo ciò che ha fatto, sa di essere fortunata a non essere stata ammazzata. Ricomincia da capo, per la seconda volta. È la vita più difficile che potesse immaginarsi. Torna ancora Adriano, l’immagine di lui esanime nella casa in Brasile. Se solo fosse ancora vivo. Quante cose sarebbero diverse, ora? Le lacrime si staccano veloci dal viso, bagnando le secche strade turche, che sembrano assorbirle, insieme a una parte di lei. Ne sarà sempre innamorata e questo non cambia. Mentre un motorino a per la strada, alzando polvere e spezzando il silenzio, le sue idee sono chiare, come sempre. Prenderà il primo volo, e non importa dove sarà diretto.

Il destino, una volta in più, sceglierà per lei.

Capitolo 6bis

La notte calda e afosa viene trascorsa nel piccolo stanzino di uno squallido motel per turisti squattrinati. È il miglior modo per non dare nell’occhio. Ormai sono abituato a vivere in posti mediocri, con materassi scomodi e odori insopportabili. Sono sempre sopravvissuto. Luca è agitatissimo e non posso non capirlo. Penso a come mi sentirei al suo posto. Adele è solamente una bambina. Mi chiedo come si possa arrivare a tanto per una questione di soldi, di gioco o di vendetta. La notte vista da questa finestra è ancora più triste. I fumi di un ristorante del luogo entrano nelle mie narici senza lasciarmi scampo. Che schifo! L’odore è una via di mezzo tra il fritto e il marcio. Inonda l’intera stanza e solamente Luca pare non dargli peso. È comunque lui a interrompere il silenzio, per ripetermi ancora una volta la stessa cosa. “Ce la faremo?”

Odio quando lo domanda. “Non lo so, ma dovrai essere forte...” “Sì...” “E vedrai che ne usciremo tutti interi...” Mi sembra di non averlo tranquillizzato nemmeno un po’, come se nemmeno mi avesse ascoltato. Continua però a camminare nervosamente per la stanza, avanti e indietro senza una sosta. Mi trasmette ansia ma non gli dico nulla. “Lo sai quando ho visto Adele per l’ultima volta?” gli domando, sperando di distogliere per un secondo la sua attenzione dal rapimento. “No...” “Ero venuto a trovarti in negozio per comprare dei fiori a Caterina...” “Come per tutti gli anniversari...” “Sì...” Sorrido e anche lui. Quante volte ti ho salvato all’ultimo momento?” “Tante...” Che disastro che sono sempre stato con lei. “E lei con la sua manina piccola ha preso il bocciolo della rosa e l’ha staccato...” “È vero...” “E allora hai dovuto risistemare tutto il mazzo...”

“Me lo ricordo...” Segue qualche secondo di silenzio. “Tu non hai paura, Ale?” mi domanda. “Non posso aver paura...” “Come fai?” “Cerco di staccare il mio cervello da tutto il resto: non è facile, né naturale, ma è l’unico modo che abbiamo per farcela...” “Io non ce la faccio...” “Devi farcela!” Il frigobar sembrerebbe l’unica soluzione ai miei problemi, ma non lo voglio aprire adesso. Ho bisogno di concentrazione e lucidità totale. Già sono pieno di dolori e acciacchi vari che mi rendono duro ogni movimento, almeno la mente la voglio al massimo. Sarò preciso, ne sono certo. A guardarlo bene, Luca non mi somiglia per niente. Io non ho mai reagito in questo modo ai problemi, non ho mai neppure avuto la dignità di andare a chiedere aiuto a un amico. In questo è migliore. Chiederei aiuto nella sua situazione? O forse continuerei a comportarmi da testardo come ho sempre fatto? Sono triste. Ho bisogno di una donna, o forse di tutte le donne del mondo per sentirmi più

felice e appagato di quanto non sia adesso. Voglio fare sesso e amore nello stesso istante, ma non credo di esserne capace, nemmeno dopo tutto quello che mi è capitato. La mia testa è divisa in due parti, come se fossi affetto da bipolarismo, e non ho ancora capito quale delle due abbia il comando. Non sono una persona, ma un insieme di maschere che si alternano a seconda della gente, del tempo e del momento. Cosa provo davvero? Chi sono davvero? “A che pensi?” mi domanda, come in un risveglio brusco. “A nulla...” “È tutto ok?” “Sì...” Sono triste e l’ho già detto, mentre l’odore di quel maledetto ristorante mi ha ormai assuefatto. Avrò preso anche io quel fetore. La quiete prima della tempesta è qualcosa che sto vivendo troppo spesso per i miei ritmi e abitudini. La collanina di Kelly è fredda sulla mia mano. Portami fortuna. Ti prego, portami fortuna! Quella bambina non deve morire. La rimetto nella tasca.

Fumo ancora una sigaretta prima di coricarmi sul letto e provare a chiudere gli occhi per qualche ora.

Gael Dominov

Si prepara con cura prima di uscire da casa. La camicia bianca e la giacca nera non riescono a coprire completamente il tatuaggio grande ed evidente che porta sulla schiena. La cravatta è allacciata nel modo giusto, e nemmeno un dettaglio del suo abbigliamento è lasciato al caso. Si lascia alle spalle la porta come se stesse per andare a prendere il giornale all’edicola di sotto. Dopo quindici ore di aereo e trenta minuti di taxi, si trova di fronte all’hotel Hilton di Los Angeles, fresco e profumato come se si fosse appena alzato. È grande e lussuoso, esattamente come glielo aveva descritto il mandante. “Ho una prenotazione a nome Starlinev” dice al portiere della hall con la sua voce forte e sicura. Lui trascorre trenta secondi a controllare il monitor del computer e pigiare numeri veloci sulla tastiera. “Sì certo: ecco la chiave, signor Starlinev; secondo piano.” Senza nemmeno ringraziare s’incammina con il suo trolley fino all’ascensore in fondo al corridoio. Lo chiama e attende qualche istante prima di entrare. Con lui all’interno si trova una signora distinta, vestita con un abito bianco e un cappello largo dello stesso colore.

È ricca e si vede. Lui la ignora. Arriva finalmente al secondo piano, pronto per entrare nella camera. Guarda l’orologio. È in perfetto orario. Una volta chiusa la porta, appoggia il trolley sul letto e lo apre. Estrae un fucile smontato in otto pezzi e li mette insieme in meno di due minuti. Guarda nuovamente l’orario. Sei e trenta di pomeriggio. Perfetto. Apre la finestra e sistema tutto in modo da farsi trovare pronto esattamente al momento giusto. L’uomo per strada, protetto da quattro guardie del corpo, a per la via proprio in questo istante. Avvicina l’occhio al mirino. Lo vede. Quel politico ancora non lo sa ma il suo cuore tra dieci secondi smetterà di battere, trafitto senza possibilità di replica da un proiettile grande quanto una monetina. Non dovrà assolutamente presentarsi a quell’appuntamento, e suo malgrado non lo farà. Al killer non importa nulla del motivo. Non conosce nemmeno l’identità della sua vittima, ma i ventimila euro pagati per la missione sono un motivo fortissimo.

Tre, due, uno. Preme il grilletto. Bam. Il corpo del politico crolla a terra in un momento, sotto gli occhi attoniti dei anti e l’angoscia delle guardie che non si sono accorte di nulla. Rimette via in fretta il fucile e chiude la finestra. Al sicuro da qualsiasi pericolo di essere visto o identificato, si siede per terra e accovaccia le gambe fino ad arrivare con le ginocchia vicino al viso. Rimane fermo immobile in quella posizione per diversi minuti, completamente immobile. Non scendono lacrime dagli occhi, ma pare sconvolto per l’accaduto. Lo avrà fatto decine di volte, ma quando si ripetono i suoi crimini, non riesce ad agire diversamente. È già ato fin troppo tempo. Non ha nemmeno il tempo per una sigaretta. Dopo soli venti minuti di permanenza lascia la stanza nelle stesse condizioni in cui l’aveva trovata, pronto a riaffrontare altre quindici ore di volo per andare a incassare il suo premio. L’uomo con mille identità, il russo psicopatico: Gael Dominov.

Capitolo 7

Vediamo il sole tramontare, risorgere e tramontare di nuovo prima che arrivi l’ora decisiva. È un clima particolare, soprattutto per me. Ci saranno quaranta gradi ma non si direbbe, forse perché sono abituato all’umidità insopportabile della mia città. Non c’è un filo d’aria e sudo più di quanto vorrei. La gente è attirata da negozi, vetrine e spettacoli d’improvvisati mimi e giocolieri che farebbero di tutto per un attimo di gloria. A vederlo in modo spensierato, sembra un luogo piacevole. Ho notato diversi bar sui cui tavoli sono appoggiati narghilè grandi e decorati in modo stravagante. Sono bellissimi. Solo una volta in tutta la vita ne ho fumato uno. Ero un ragazzo di vent’anni e mi trovavo in vacanza a Istanbul con degli amici che non vedo più da chissà quanto. È un fumare piacevole quello, lo ricordo chiaramente. Ogni cinque metri, qualche egiziano ci chiede di entrare in un bar, piuttosto che in un locale con musica. Rifiutiamo cortesemente all’inizio, fino ad arrivare al punto di ignorarli completamente.

Quante cose potrebbero cambiare nelle nostre vite soltanto in queste prossime lunghe ore. Sono quasi le undici e l’appuntamento è più che mai vicino. Luca ha una tensione comprensibile. Io cerco di rimanere tranquillo, anche se non è per nulla semplice in un momento in cui dipende tutto da me. Il piano è molto chiaro. “Sei sicuro che funzionerà?” “Lo spero tanto...” “E se non andasse bene?” Non voglio rispondergli. Mi prende per un braccio. “Sei sicuro?” mi chiede ancora. “Se andasse male nessuno di noi potrà raccontarlo in giro, nemmeno io e te, questa volta...” È debole. È suscettibile alla minima parola, al più impercettibile silenzio che s’instaura tra di noi. Deve essere cosciente della situazione. So che apprezza, tra le altre cose, il modo in cui non lo riempio di cazzate, in cui cerco di essere sincero nelle difficoltà. Al suo posto vorrei la stessa cosa. Si confonde il tentativo di protezione di una persona con un’ipocrisia fastidiosa e controproducente.

Non è la cosa giusta. Ho paura di aver organizzato un piano sbagliato. Quando intervenni tanti anni fa in soccorso di questo amico, le cose erano completamente diverse da ora. Ero ancora nella polizia e avevo il sostegno di decine di persone prima del mio intervento. Eppure ora che potrei fare? Avvertire i miei colleghi? Non servirebbe a nulla, e probabilmente mi farebbe solo perdere tempo. Non voglio pensarci. Allora, fu una delle operazioni meglio riuscite della mia breve carriera da poliziotto, forse la migliore dopo quella della scolaresca che mi ha reso famoso in tutto il paese. Lui non è più l’uomo di prima. Ha intrapreso la strada per la sua redenzione, e forse il ritorno del ato così improvviso alla sua porta è l’ultimo ostacolo prima di arrivare alla felicità. Tanto della sua vita ora dipende da me. Non credo che il mio piano sia geniale, anzi al contrario è semplice ed elementare e, come sempre, dipenderà in gran parte dal mio sangue freddo. Posso solo sperare che la fortuna mi assista, come ha sempre fatto nel corso della mia vita. Ho un flashback. Sono in quella stanza maledetta, di cui ricordo tutti i dettagli, insieme a Kelly, mentre mi punta la pistola alla tempia e non preme il grilletto. Perché non l’ha fatto?

Se ci fosse un motivo per quel che mi è successo? Forse il destino mi voleva qui ora, accanto ad un uomo come me, ridotto male come me, senza alcuna speranza di poterne uscire. Cazzo. Kelly si muoveva lentamente, prendendomi per la gola. Non aveva senso lasciarmi vivo, eppure l’ha fatto. Farò tutto quello che è nelle mie possibilità per rimanere a galla, per non sprecare la mia vita come ho fatto fino ad ora, per tirare fuori il meglio di me stesso. L’immagine di quella meravigliosa puttana, attrice, bugiarda, insicura, sparisce dalla mia testa finalmente. Riprendo la mia concentrazione. Siamo vicini all’obiettivo e l’ora è finalmente arrivata. “Grazie, amico, per quello che stai facendo...” Lo abbraccio. È un abbraccio forte e intenso, di quelli tra due persone che non sanno se avranno la possibilità di rivedersi. Trascorre qualche istante. “Tieni duro, Luca...” Annuisce con la testa. “Tieni duro!” gli ripeto. È lucido, per essere dov’è. Sono nelle sue mani, e allo stesso modo la piccola Adele, che spero fortemente sia ancora viva.

Conoscendo quelle bestie, potrebbero anche averla già uccisa. Non voglio neppure pensarci. Siamo di fronte al famoso magazzino dei ferrivecchi, che non è stato per nulla difficile trovare. Tutti sanno di cosa si tratta. È un grande palazzo abbandonato, senza porte, né luci. Si trova in una via completamente deserta, dove nessuno avrebbe il coraggio di girare se non per errore. È grande e non ho la minima idea di cosa potrei trovarci dentro oltre alla polvere e ai topi. Chissà quanta gente avranno ucciso qui dentro. Lui starà giù, in attesa dei rapitori, mentre io mi apposterò sopra, pronto a farli fuori tutti da uno spiraglio sufficientemente nascosto. M’incammino da solo, con una maglietta nera che sfortunatamente ha attirato per tutta la giornata i raggi del sole. Quanto sudo. Non sono più stato così abbronzato dai tempi delle vacanze ai Caraibi con la mia Caterina. Quella era una vacanza. Il mare incredibile. La spiaggia sembrava infinita e io ricordo gli occhi dei turisti increduli per lo spettacolo che si trovavano ad ammirare. Ho visto anche i pesci facendo snorkeling, attività assolutamente inusuale per uno che come me non ama stare sott’acqua con la testa. Ricordo che ero così nero da sembrare un africano, e Caterina era solita

prendermi in giro. Mi piaceva. La sabbia di corallo era fredda. Chissà perché mi vengono in mente quei giorni felici proprio ora che mi trovo in tutto questo. Ho ben presente la gioia che provavo in quei momenti. Potevo rendermene conto già allora. Cosa ho perso. Qui c’è una forte puzza di urina umana. Lo stesso odore che si respira fuori dalle discoteche romane verso le quattro di mattina, quando tutti i ragazzini ubriachi e drogati sono andati a sporcare le vie buie che li circondano. Mi abituerò. Prendo le scale di questo palazzo abbandonato. La finestra al secondo piano è perfetta per vedere tutta la scena da una posizione privilegiata. Probabilmente ci devono essere altre forme di vita in movimento qui dentro oltre al sottoscritto. Posso immaginare dei topi, scarafaggi, e chissà quante altre bestie. Un posticino invitante e confortevole. Mi attende una mezz’ora di nulla prima di entrare in azione. Guardo l’orologio: dieci e trentacinque. Mi accendo una sigaretta.

La pistola è scomoda attaccata alla cintura. La appoggio per terra. C’è uno sporco maledetto. Da quanto tempo nessuno entra in questo palazzo agghiacciante? A essere sincero non è molto più sporco di tanti posti che ho incrociato durante queste prime ore in Egitto. Gli egiziani sono una popolazione menefreghista, e questo è uno dei motivi per cui non li ho mai sopportati. Non mi piacciono a pelle. Non ci penso più. Estraggo anche il cellulare dalla tasca, come se volessi isolarmi un momento dal mondo esterno prima dell’azione. Caterina non mi ha scritto. È una scena vissuta già tante volte. Non posso certo aspettarmi un messaggio in cui mi chiede di tornare a casa da lei: sarebbe irreale. Mi sento di nuovo inutile, come se la mia morte non cambiasse poi tanto il rapporto che ho con il mondo. Hemingway diceva che l’uomo ha sempre paura della morte, tranne nei momenti in cui riesce a trovare la ragazza giusta con cui far l’amore: in quei brevi istanti di piacere, la ione diventa così grande da fargli dimenticare persino la paura, che in tutto il resto della vita lo copre come un’ombra. Caterina è l’unica al mondo a togliere quell’ombra dal mio corpo. In fondo, chi sono io? Le scrivo un messaggio.

Premo lentamente i tasti del cellulare, dando l’ultimo tiro alla mia sigaretta.

“Mi manchi...”

Non mi aspetto una risposta. So che mi sta pensando, e non potrebbe essere altrimenti. So anche che non dovrei scriverle, che sarebbe meglio sparire per aiutarla a farmi uscire prima dalla sua vita. Non è facile per me accettare l’idea di non averla più. E intanto sono qui, pronto a farmi ammazzare per una giusta causa, forse il lato che più amava di me. Comunque vada, sarò suo. Metto via il telefono, rassegnato a rinunciare alla sua voce questa volta, anche se ne avrei bisogno. Ne fumo un’altra. Ci saranno non meno di quaranta gradi questa sera. Il tempo trascorre in fretta. Intorno a me c’è un silenzio incredibile. Mi trovo in un posto surreale, a poche centinaia di metri dal centro, eppure così pericoloso e preoccupante. Forse è per questo che non ho bei ricordi dei posti che ho visto: li ho sempre vissuti nelle parti più sporche e pericolose. È impressionante la lontananza da loro e il contrasto con questo.

Mi piacerebbe essere un turista, senza dovermi guardare intorno ad ogni o, senza i problemi che mi travolgono a ogni cambio di rotta. Mi è sempre mancata la spensieratezza. Quelli come me non possono averla. Vedo muoversi qualcosa nel buio. A dire il vero sento il rumore. Sono zampette che si muovono veloci. Che schifo. Non voglio pensarci. Se si avvicinasse non potrei nemmeno sparargli per non rischiare di essere scoperto da qualcuno, o confondere Luca. Per quanto ne so io potrebbe essere un topolino di quattro centimetri, come una nutria di mezzo metro. Potrei diventare matto in questa condizione. Che schifo di situazione. Ho già voglia di lavarmi dalla testa ai piedi per purificare la mia anima. Cazzo. Maledetti egiziani. Ricontrollo fuori dalla finestra e poi l’orologio: mancano più di quindici minuti all’appuntamento. La mia cognizione del pericolo si riaccende in pochi secondi, ma con colpevole ritardo. È un attimo.

Il tocco di mani ruvide. Qualcosa stringe forte la mia gola e l’aria non riesce più a are. Mi affanno come un bambino che sente di annegare velocemente con le forze che mi abbandonano sempre più. Penso di sanguinare. Ci deve essere un filo metallico intorno alla mia gola, di quelli sottili e taglienti che la squarciano in modo lento. Afferro le mani che mi stringono. Chiunque ci sia qui dietro, è riuscito ad avvicinarmi senza emettere il minimo rumore. Non mi sono accorto di nulla, come la più ingenua delle prede con il suo cacciatore. Un avvoltoio, una iena, una faina. Kain! Mi viene il dubbio che questo figlio di puttana possa essere lui. Con uno sforzo pazzesco riesco ad alzarmi in piedi, riuscendo ad allentare la sua presa forte. Cerco invano la pistola sul mio corpo, ma non c’è. La posso vedere, troppo lontana anche solo per poter pensare di afferrarla. Gli sferro una gomitata sulla pancia, e un’altra e un’altra ancora. La presa si allenta di nuovo, ma lui mi rimane attaccato. Se non molla entro qualche secondo comincerò a perdere i sensi e Luca sarà spacciato, e Adele con lui. Lo colpisco ancora, forse in modo più debole di prima.

È il momento. Ancora una gomitata. Sento che sta soffrendo anche lui. Tolgo il filo dalla mia gola con uno strattone fortissimo e butto giù l’uomo dalle mie spalle. Cazzo! Faccio respiri profondi, tenendomi la gola insanguinata con la mano destra. Dov’è? In questo buio fatico a vederlo. Mi tolgo dalla luce della finestra per rendermi invisibile come lui. Si alza ed è in quel momento che lo riesco a intravedere. Come sospettavo: uno stronzetto alto quanto un nano con la faccia sporca e cattiva da delinquente. La Faina. Mi guarda con un aspetto che di umano ha ormai poco. La pistola è ai miei piedi e la raccolgo con la sicurezza di uscirne vincitore. Mi attacca con una furia che questa volta non mi sorprende: sparo il primo colpo senza pensare a dove mirarlo. Mi basta interrompere il suo impeto. Crolla a terra. Ora è innocuo. Mi avvicino e lo guardo dimenarsi, mentre il sangue esce dalla sua pancia, e dalla bocca, senza lasciargli più respiro, né la speranza di rimanere vivo.

Colgo anche l’ultimo istante della sua vita, prima che la luce nei suoi occhi si spenga completamente lasciando l’iride vuota e inutile. Figlio di puttana. Mi tocco il collo ormai dipinto di rosso. Spero non sia nulla di troppo grave che possa pregiudicare la mia missione. Probabilmente ora mi credono morto e arriveranno qui convinti di non avere altri ostacoli. Non so quanto tempo potrò resistere senza essere medicato. Strappo un pezzo della maglietta sporca e maleodorante di Kain e me lo lego al collo, senza farmi mancare un conato di vomito una volta che la puzza si fa così vicina. Ho il fiatone. Fermerà il sangue o almeno credo. Trascorrono ancora diversi minuti. Finalmente sento il rumore di una macchina che arriva e si ferma, proprio dove dovrebbe, qui sotto. Mi affaccio con attenzione alla finestra. Sono in quattro. Non conosco quelle facce, anche perché gli egiziani e i marocchini mi sembrano tutti uguali, ma a prima vista posso dire con relativa sicurezza che il loro capo non si trova qui. Però il ragazzo lo conosco. Lui sì. È Ahmed Lajula.

Probabilmente sarà lui a comandare questi tre energumeni. Brutta gente. Sono armati. Chissà se hanno una coscienza. Non riesco a spiegarmi come si possa agire in questo modo, come si possa arrivare a tanto per degli sporchi soldi. Non vedo la bambina. Potrebbe essere dentro al bagagliaio, o almeno lo spero. Se i vigliacchi l’avessero lasciata da un’altra parte, il mio piano sarebbe la sua condanna a morte. Non ci avevo pensato, ma non c’erano comunque altre strade. Li osservo bene. Non devo agitarmi e farmi toccare da altri pensieri. È un mondo completamente diverso dal mio: qui sono disposti a uccidere per un pezzo di pane. Non hanno la minima concezione di giusto o sbagliato, di cosa sia la vita, e probabilmente, una volta ucciso Luca, faranno lo stesso anche con Adele. Sono senza scrupoli. Spero che Luca rimanga lucido e tranquillo e non si faccia trasportare troppo dalla situazione critica. Ecco che arriva, finalmente. È spaventato a morte. Ammetto che se mi trovassi nella sua situazione, da solo in mezzo a quei criminali con la consapevolezza di non poter far nulla per salvare mia figlia,

sarei spaventato anche io. Dovrà avere sangue freddo. “Ecco il bastardo” inizia uno guardandolo. Lui non dice nulla. Lo circondano, come una banda di teppisti pronti a pestare il loro bersaglio senza scrupoli. Non potrebbe più scappare, nemmeno se lo volesse. Tutto secondo il piano. Ahmed gli si avvicina più di tutti gli altri. “Chi non muore si rivede” gli dice. “Ti ricordi della mia faccia?” continua. “Sì...” Vedo la paura nei suoi occhi. “Pensi che sia stata bella la galera?” Luca rimane muto, sperando che il mio intervento avvenga il prima possibile. “Lo ammazziamo, capo?” domanda un altro, l’unico con la pistola già in mano. “Aspetta un momento” lo ferma Ahmed. Gli tira una ginocchiata sullo stomaco che costringe Luca a piegarsi su se stesso per il dolore. Non è ancora il momento. Sono così arroganti. È solo questione di tempo e pazienza: la mia sete di morte verrà presto saziata a

dovere. “Fammi vedere mia figlia, per favore...” “Tu volevi fotterci ancora, vero?” “No...” “Pensi che non sapessimo di Vinci?” insiste ancora quel maledetto marocchino. Come fa a sapere il mio nome? Non sono mai stato coinvolto direttamente al loro arresto, e il mio nome non è comparso su alcun archivio. Come fanno a sapere tutte queste cose? Ho una confusione incredibile nella mia testa e non so cosa pensare. Uno degli uomini si avvicina all’auto. È il momento. Mi affaccio completamente dalla finestra e prendo la mira con velocità e precisione che mi appartengono. “Bam...” “Bam...” Colpisco l’uomo armato e quello che si stava avvicinando all’auto. Luca si nasconde dietro ad un bidone dell’immondizia. Gli altri due si guardano intorno spaesati. Ora sono tutti armati. Nessuno ha visto da quale finestra siano partiti i colpi. I superstiti continuano a girarsi intorno, urlando e imprecando nella loro lingua

qualcosa d’incomprensibile. Tutto fino a quando uno non si avvicina al bagagliaio della macchina, pronto a tirar fuori la bambina. Ho ancora un tentativo. Mi concentro più che posso. Esco allo scoperto affacciandomi nuovamente da quella finestra che mi ha protetto alla perfezione fino ad ora. Esplodo il colpo. Ho il cuore in gola. Non sono certo di niente per i successivi due secondi, in cui non mi rimane altro che sperare. Non posso aver sbagliato. Mi sono già riabbassato, ma non sento più nessuno sparo. Eppure c’è rumore. Lentamente e senza nessuna certezza, alzo la testa e controllo la situazione nel vicolo buio. Luca è azzuffato a terra con Ahmed. Porca puttana! L’altro è morto. Scendo di corsa i due piani di scale che mi separano da loro, con una mano ad impugnare la pistola e l’altra a premere sulla gola. Ahmed gli è sopra. Lo noto chiaramente mentre cerca di riprendere la pistola, caduta a terra nel trambusto.

Lo punto e lo colpisco alla mano per evitare sorprese. Lui urla. Lo fa fortissimo, ma nessuno può sentirlo. Luca si alza e si allontana da quel figlio di puttana. Io mi avvicino e gli pesto la mano ferita a terra, in modo forte e dolorosissimo. “Come sai il mio nome?” “Noi sappiamo tutto...” “Perché sapete il mio nome?” ripeto di nuovo, questa volta urlando e senza staccare la mia scarpa dalla sua mano. “Figlio di puttana!” comincia a urlarmi. Non gli servirà a restare vivo. “È la tua ultima possibilità...” Sono comunque sicuro che non mi dirà quello che voglio sapere. “Se mi tocchi ti uccideranno...” “Al Jadir Houssain?” Il figlio di puttana sorride. “Perché ridi?” “Perché è molto più di quello che pensi...” Mi sputa sulla scarpa. Lo calcio forte sulla mascella, forse spezzandogliela, ma sicuramente facendogli are le pene dell’inferno. “Per te finisce qui, figlio di puttana...”

La sua mascella è spezzata e lui, sanguinante, non mi guarda più negli occhi. Non è mai bello uccidere qualcuno. Prendo la mira e lo colpisco al cervello. Crolla a terra, ma era già morto dentro prima che il proiettile lo raggiungesse. Tiro un sospiro di sollievo. Anche se mi sono già trovato in situazioni critiche come questa, non posso non sentirmi coinvolto. Ogni volta è come la prima in questa merda. Mi volto e Luca ha già in braccio sua figlia. Sì! Grazie a Dio. Eccola lì, legata come un salame. La slega il più in fretta possibile. Le toglie il bavaglio dalla bocca. Si abbracciano come nel più dolce lieto fine. “Papà...” Sta piangendo. “È tutto finito, tesoro...” È una scena che quasi riesce a commuovermi. Sono stretti; strettissimi. Non mi è capitato molto spesso di vedere gente vivere momenti di tale intensità e stupore.

Cosa c’è di più bello di salvare la vita a tua figlia? Mi ricorda la mia prima missione di questo genere, quando salvai i bambini di quella scuola. Le facce delle madri nel momento del ricongiungimento erano perfettamente uguali a quella di Luca ora. Sono felice di essere partito con loro. Sentirmi parte del merito mi gonfia d’orgoglio, come forse non mi capitava da quella volta. Rimango lì fermo a guardarli, come uno spettatore soddisfatto dello spettacolo ammirato. Il sangue ha smesso di uscire dalla mia gola. Non è una ferita profonda. Solo la schiena continua a darmi noia, ma ci sono abituato, ormai. Non smetto comunque di premere il pezzo di stoffa. La prende in braccio. “Non so davvero come ringraziarti!” mi dice commosso. È euforico, com’è giusto che sia. Adele è in silenzio, forse ancora stordita per tutto l’accaduto, con gli occhi lucidi, ma illesa. Che bellissimi occhi ha questa bambina: è spaventata e questo la rende ancora più tenera. Ammetto di faticare a non seguire Luca nel suo pianto di gioia, colpito da una commozione che non credevo possibile. Questa bambina è il ritratto di quanto di più bello esista in tutta una vita.

Gli occhi mi diventano improvvisamente umidi e una sensazione forte avvolge tutto quello che rimane della mia anima. Ho salvato la persona più bella del mondo. Non so come descrivere la gioia di questo momento. Nel loro abbraccio vedo qualcosa che forse non mi è mai appartenuto per davvero, fino a questo strano quanto imbarazzante momento di pura vita. Mi piacciono così tanto. Intorno a me ci sono cinque cadaveri di persone che non so se qualcuno rimpiangerà mai. Luca ha di nuovo sua figlia. Non ho altro da fare che spezzare il loro momento magico per esortarli ad andarcene da qui. Lui le copre il viso tenero e spaventato per non farle vedere la scena ripugnante alle nostre spalle. Ci allontaniamo a piedi camminando per diverse centinaia di metri prima di confonderci con il resto della gente che, spensierata e leggera, non può immaginare tutto quello che è appena accaduto. Una vita è appena stata salvata, cinque spezzate: uno scambio che rifarei, senza alcun dubbio.

Il signor Vignaccia

“Fatelo entrare...” Kain obbedisce senza dire una parola e accompagna nella stanza dell’ultimo piano del palazzo l’uomo che attendeva paziente fuori. È vestito in modo elegante, con una cravatta nera sottile che si intravede sotto alla giacca blu e formale. “Buongiorno, signor Vignaccia.” “Buongiorno.” Al Jadir Houssain lo invita a sedersi, mentre è impegnato con la mano destra a portarsi un sigaro alla bocca. Lui accetta immediatamente l’invito. Non è spaventato nonostante si trovi di fronte ad uno dei più potenti boss della malavita d’Egitto. “Gradisce del tè caldo?” A Vignaccia sembra una strana proposta, considerando che fuori ci saranno più o meno una trentina di gradi. “No, grazie.” “Sa perché si beve il tè caldo con quaranta gradi di temperatura all’esterno?” “No, non lo so.” “Lo fanno anche i beduini nel deserto: il caldo del tè li aiuta a sopportare meglio il caldo all’esterno; è un metodo provato.”

Vignaccia non risponde ma finge un interesse che realmente non sente. Comincia a chiedersi se abbia fatto bene o no a venire fino a qui. Non è uno stinco di santo, ma non si era mai mischiato in precedenza con gente del genere. Al Jadir Houssain beve dalla sua tazza bianca e pulita. “Lei sa perché l’ho chiamata, Vignaccia?” “No.” “Bene: ora le spiegherò tutta la situazione.” Beve un sorso del suo tè prima di cominciare a parlare. Vignaccia controlla fuori dalla finestra e vede solo edifici vuoti e terra e sabbia e polvere intorno a loro. Si domanda come si possa vivere in un contesto del genere, abituato com’è lui a stare in mezzo alla gente e ai negozi della sua città. Potrebbero anche ucciderlo senza che nessuno si accorga di nulla, ma forse è meglio non pensarci, ora. La voce del boss interrompe le sue riflessioni. “Le devo raccontare una storia...” “Prego.” “Deve sapere che tre anni fa, durante un incontro con un italiano...” “Che tipo di incontro?” lo interrompe subito. “Diciamo un regolamento di conti con un cattivo pagatore.” Vignaccia capisce subito di cosa si tratta. Annuisce.

“Le dicevo che durante questo incontro, una retata della polizia riuscì a sorprendere i miei uomini che vennero tutti catturati e arrestati.” “Continui pure...” “Il debitore era un fiorista di Roma, un povero disperato che, non avendo i soldi per pagare, si affidò alla polizia.” “Sì.” “Diciamo che la mossa del fiorista ci colse impreparati...” “Quindi che successe?” “Il debitore riuscì a farla franca e a scrivere un lieto fine.” “Ma immagino che lei voglia riscrivere il finale.” “Esattamente: i miei uomini sono usciti da pochi giorni e presto cominceremo la nostra vendetta...” “Ovvero?” “Il fiorista ha una figlia piccola, non so se mi spiego...” Vignaccia inizialmente sembra sconvolto da queste parole: non si è mai messo in contatto con gente che rapisce bambini o uccide persone. Le sue relazioni peggiorano di caso in caso, e questo senza ombra di dubbi è l’apice della criminalità. Non può comunque tirarsi indietro ora: ne andrebbe della sua stessa vita. “Sì, ma continuo a non capire cosa c’entri io in tutto questo” si limita a dire. “Ora ci arrivo: il poliziotto responsabile di quell’operazione è un italiano, una testa calda...” “Sa come si chiama?” “Sì… Ho scoperto la sua identità grazie ad uno dei nostri infiltrato nella polizia

di Roma.” “Nome?” “Alessandro Vinci.” “Cosa devo fare?” “La figlia del fiorista sarà un’esca: io voglio la sua testa, e quella della sua famiglia.” “Non ucciderà la bambina, quindi?” La domanda gli è scappata, e dopo appena un istante si pente di averla posta. “Se le dicessi che verrà uccisa ci sarebbe qualche problema?” Ci pensa solo per un paio di secondi prima di rispondere rassegnato. “No, signore.” “Bene, quindi hai capito il tuo ruolo, Vignaccia?” “Sì, chiaro.” “Dovrai studiarlo, controllarlo e stargli addosso, e scoprire tutti i dettagli della sua vita privata, per poterlo colpire nei punti giusti.” Annuisce di nuovo. “Lei, signor Vignaccia, sarà pagato in contanti, cinquantamila euro, non appena il sangue di Alessandro Vinci e della sua famiglia scorrerà qui, di fronte ai miei occhi...” “Va bene, non ci saranno problemi.” “Sapevo di aver scelto la persona giusta.” “Non la deluderò.” Vignaccia si alza dalla sedia ed esce dalla porta, fingendo una tranquillità che

non sente.

Capitolo 8

Qual è la prima cosa che si desidera fare dopo aver provato l’inferno ed essere sopravvissuti? Non ho dubbi. Una doccia fresca che faccia scivolare via dalla pelle tutto quello che mi ricorda con il suo odore le mie azioni indelebili. È impossibile per qualcun altro comprendere cosa significhi uccidere cinque persone a sangue freddo. Continuo a ripetermi di averlo fatto per una giusta causa, ma non serve a cancellarlo dalla mente. Non sono le prime persone che uccido, ma ogni volta provo sensazioni contrastanti e dure. Continuo a vedermi i corpi stesi a terra, senza volti ben definiti, e almeno questo in parte mi consola. Erano solo comparse nella mia vita. Penso ad Adele e la mia convinzione diventa ancora più solida. Eppure non è facile. Mi viene voglia di buttarmi a peso morto nei miei vizi per non pensare a nulla, per fingere che tutto continui ad andare per il verso giusto, senza interessarmi delle conseguenze. Il piccolo hotel in cui io e Luca siamo andati a stare senza bagagli è proprio a poche centinaia di metri da dove è successo tutto.

Non va bene. “Dove andiamo, Ale?” “Per l’aereo bisogna aspettare almeno domani...” Non possiamo permetterci di pernottare a Nama Bei. Ci sposteremo in qualunque posto e non m’interessa dove alloggeremo, l’importante è che tra ventiquattro ore sarò di nuovo in Italia. Non che abbia grandi prospettive, ma quantomeno Luca e sua figlia saranno lontani dal pericolo. Per quanto mi riguarda, non mi sento per nulla in salvo. Devo andarmene via il prima possibile da qui perché quei bastardi conoscono il mio nome. Fortunatamente il mio indirizzo è ancora quello del monolocale nella periferia romana, e nessuno può sapere della villa con Caterina. È l’unico aspetto che mi tranquillizza. Nella testa cominciano ad albergare strani pensieri: e se mi fosse sfuggito qualche dettaglio? Non può essere stato tutto così semplice. Ho bisogno di riposare. “Questa notte sei mio ospite in un posto come si deve...” mi dice lui. È felice e mi sembra una persona diversa in tutto rispetto a mezz’ora fa. Lo invidio. “Cioè?” “Fidati...”

La piazzola appena fuori dall’ingresso principale di Nama Bei è piccola e raccoglie una densità spaventosa di taxi e tassisti che si azzuffano per ottenere un cliente. La sabbia si alza dall’asfalto portata da un vento caldo e non fa altro che aumentare il mio sudore. Sento un odore non troppo spiacevole di fritto che proviene da qualcuno dei piccoli bar che si ammassano a pochi metri da noi, mentre alzando la testa noto una nuvola in cielo, grande e bianca, la prima che vedo da quando sono arrivato. Chiamiamo un taxi. La piccola Adele è in braccio al suo papà. Ci vorrà molto tempo prima che possa superare questa esperienza, ma ce la farà, ne sono sicuro. Ha un padre e una madre accanto e questo è tanto. L’età così giovane farà il resto. Luca mi mette il buon umore. Sorride, è allegro e si permette anche di farmi qualche battuta sulla mia cera. Ne sono felice. Saliamo su una Opel Corsa bianco panna che potrebbe avere ad occhio e croce la mia età. Luca prende in mano il telefono e dopo pochi secondi, con una voce al limite dell’euforia, urla alla moglie di essere insieme ad Adele. Posso solo immaginare la reazione dall’altra parte della cornetta. Sento un urlo di gioia provenire dal cellulare. Luca le a la figlia. “Dì qualcosa alla mamma, tesoro...”

Con una voce dolce dice solo: “Ciao, mamma...” Deve essere il momento più felice della sua vita. Il tassista percorre per diversi chilometri la strada grande che non immagino nemmeno quanto sia lunga. Qui è tutto diverso. Dentro al taxi c’è uno strano odore, non piacevole. Deve essere un marchio di fabbrica da queste parti. Io sono seduto davanti, accanto al conducente che, con il suo accento da egiziano, mi chiede di dove sono. “Italiano” gli rispondo io. “Ah italiano! Pizza, e Berlusconi!” Sorrido. Questa gente ci vede come degli stereotipi. Pensare che il mio paese venga ricondotto a Berlusconi mi offende, ma lascio are anche perché non penso che questo tassista con il cappello della Ferrari in testa capirebbe qualcosa. “Come ti chiami, amico?” mi domanda ancora. “Alessandro...” “Io sono Farooq...” Mi dà la mano togliendola dal volante. Gliela porgo anch’io per paura che si possa distrarre troppo dalla guida già di per sé spericolata. La gola mi brucia e andrebbe disinfettata, ma preferisco lasciarla stare fino a quando non sarò di nuovo a Roma.

Luca dietro di noi ha messo giù il telefono e tiene Adele stretta a sé senza pronunciare una parola. È come se io e il tassista fossimo solo un sottofondo al loro ritrovo, a questo momento tutto loro in cui la gioia insperata di rivedersi è più grande di quello che accade. È giusto sia così. Questa è la loro storia. “Io sono figlio del presidente qui...” continua a esclamare con la sua voce da cartone animato il tassista. “Ah sì?” rispondo senza crederci minimamente. Inizia con un italiano mischiato all’inglese a spiegarmi la storia del suo ipotetico padre mentre io non vedo l’ora di arrivare a destinazione. Non sono bravo ad ascoltare, e con questo soggetto nemmeno a parlare. “Cos’hai fatto qui?” Indica la mia gola insanguinata. “Incidente.” “Sì sì… Ho capito!” Non rispondo, e lascio cadere la conversazione, fino a quando non mi ripete ancora. “Conosci presidente qui?” “No, non lo conosco.” “Mio padre!” Sono già al limite della sopportazione. Finalmente gira a destra seguendo una freccia che indica “Sheraton”.

Percorre ancora qualche centinaio di metri per una strada sterrata senza smettere nel frattempo di parlare. “Farooq, cazzo, stai attento!” gli dico alla ventesima buca che mi ha fatto prendere in pieno. “Ah ah! Voi dite sempre cazzo!” Mi fa ridere questa volta, anche se sono nervoso per la mia schiena. Ho un dolore sempre più forte. Siamo finalmente arrivati. “È questo?” chiedo voltandomi verso Luca. “Sì.” È un posto fantastico. Scendo dal taxi. Pago Farooq, vincendo la resistenza di Luca che insisteva. “Se volete potete pagare tutti e due!” “Va bene Farooq, ci vediamo.” Gli stringo la mano e lo congedo. È tutto buio ma già posso percepire quello che rappresenta questo posto immenso e sconfinato. È immerso nel verde di una natura incontaminata e il mare, che vedo poco, è come una macchia infinita e blu. Ci sono degli uccelli strani che camminano sui prati. Non capisco se siano fenicotteri o qualcosa del genere. Sono impegnati con le teste e i colli lunghi a cercare chissà cosa in mezzo ai

prati coperti di piccole piante e fiori gialli. Non parliamo. Andiamo alla reception e non abbiamo grossi problemi a farci dare due stanze per la notte. Prima di separarci per andare a lavarci e dormire, ci sediamo fuori a respirare un po’ di quest’aria che ci sembra così pulita. I tavoli sono bianchi, di un materiale che potrebbe essere marmo; le sedie sono fredde e morbide. Non ci sono carte con scritto il menu o i prezzi, ma solamente un portacenere e una piccola piantina in un vaso blu. La piccola Adele, in braccio a Luca, si addormenta dopo pochi minuti. La bimba deve aver ato le pene dell’inferno negli ultimi giorni e mi auguro con tutto il cuore che i suoi sogni possano tornare a essere puliti e innocenti come prima di tutto questo. “Allora?” gli chiedo. “È come essere rinato.” “Sono contento.” “Io non so come ringraziarti, Ale…” “Tu avresti fatto lo stesso per me…” “Hai appena salvato la vita a mia figlia…” Gli offro una sigaretta che lui rifiuta. Me la fumo da solo. Amo fumare, come poche cose nella vita. Una cameriera si avvicina.

“Volete bere?” In principio pensavo di non farlo, di volermene andare in stanza con grande fretta, ma già che mi trovo qui mi lascio prendere per la gola. “Per me una vodka liscia.” Luca mi fa compagnia. Con un’espressione gentile e sorridente la ragazza va a prenderle. Non appena si allontana, comincio a farmi viaggi mentali su come le donne siano diverse rispetto all’Italia. È molto bella. Devo essere sincero: le osservo il culo mentre si dirige verso l’interno del locale a i brevi e lenti. Penso che sappia di essere guardata: non sarà la prima volta che le capita, con quel fisico. La riflessione è disturbata immediatamente. “E quando partiamo?” Cerco di rispondere subito per non mostrarmi distratto. “Domani mattina alle dieci dobbiamo essere in aeroporto.” “Va benissimo.” “Non voglio rischiare stando ancora qui.” “Sono perfettamente d’accordo.” Mi darebbe ragione su qualunque cosa in questo momento. Trascorre ancora qualche attimo di silenzio, in cui il mio sguardo si perde ad osservare nei minimi dettagli la struttura dell’albergo, gli appartamenti, i tetti particolari e i giardinetti che li circondano.

Poi mi chiede di nuovo. “Caterina?” “Non penso voglia più vedermi.” “Le parlerò io… Non hai fatto nulla di male, Ale.” “Non è arrabbiata per quello.” “E per cosa?” Gli racconto la vicenda accaduta con lei, il momento in cui mi ha cacciato di casa, in cui le ho confessato di Kelly. Lui annuisce. Nel suo sguardo riesco a trovare quel silenzio di circostanza che va a coprire i rimproveri che meriterei. Si vede che gli dispiace. È la prima persona con cui ne parlo, e con cui, in generale, parlo delle mie cose, da mesi a questa parte. Mi manca un amico. “Tu la ami ancora?” mi domanda. Se la amo? E chi lo può dire, a questo punto. “Sì” è la risposta più naturale che mi viene. “E allora tieni duro.” “Non voglio più farla soffrire.” “Vedi, farla soffrire o meno dipende solo da te.”

Le sue parole risuonano in me come la voce fuoricampo di una pubblicità alla televisione. “Lo so.” “E allora cerca di tirar fuori il meglio di te per riprenderla.” “Non so cosa fare.” “Non servono gesti da eroe: di quelli ne hai già fatti abbastanza; bastano le piccole cose, la base per una vita insieme.” Sono sicuro che crede in quello che dice, ma questo non rende meno stupido il suo pensiero. La sua felicità probabilmente coincide con la distanza da me, e questo proprio non riesco a togliermelo dalla testa. Faccio in tempo appena a buttare via la mia sigaretta, che la ragazza ritorna con il vassoio in mano e il solito sorriso stampato sul viso. Ha denti bianchissimi. Non so bene di dove possa essere, ma sicuramente non di queste parti. Sembra una brasiliana o cubana, o qualcosa del genere. Da quello che so, le donne di queste zone devono essere sempre coperte in tutto il corpo. Lei invece è scoperta, abbastanza da farmi venire in mente strani pensieri che probabilmente porterò avanti per minuti. “Grazie.” “Prego.” Rimane un attimo fissa a guardarmi senza dire una parola, come se stesse cercando qualcosa nel mio sguardo. Luca, guardando la scena, non dice una parola.

Io ringrazio di nuovo e solo ora si allontana. Non la riesco ancora a inquadrare ma credo sia normale dopo poche parole di circostanza. Ci farei sesso. Ho un grosso problema e non penso esistano medicine per curarlo: questo è il motivo per cui non potrò mai renderla felice. Non voglio davvero fare sesso con un’altra donna stasera. Mi piacerebbe che Caterina fosse qui ora, in questo luogo incantato, in una situazione completamente diversa. Chissà cosa starà facendo ora. Prendo il cellulare dalla tasca. So che non mi ha scritto, altrimenti avrei sentito la vibrazione del cellulare sulla gamba, però non voglio togliermi la piccola speranza di qualche secondo. Cosa darei per parlarle. È impressionante ricordarla l’ultima volta con le lacrime agli occhi, ma purtroppo mi sono abituato anche a questo. Se solo potessi tornare a quella Londra, al momento del mio ultimo sbaglio, nella stanza di Fred. Se avessi una macchina del tempo forse riuscirei a salvarmi. La barista è ancora davanti a me, di ritorno da un altro tavolo proprio qui a sinistra, e mi guarda di nuovo. Forse ha solo voglia di fare due chiacchiere con noi, dato che a quest’ora non c’è quasi nessuno. La sorprendo a fissarmi due volte. Sono abbastanza sicuro che se le chiedessi di sedersi qui lo farebbe volentieri ma

non sarebbe una buona idea. Forse. Cosa farei? Aumenterebbe solo la mia voglia. Non voglio che la nostra conversazione duri ancora. Smetto di guardarla. Rientra e la saluto gentilmente. “Buonanotte.” “Anche a te.” Più la guardo e più mi viene voglia di andare in camera con lei. Non è quello che farò. A questo punto non peggiorerebbe la mia situazione, ma ucciderebbe quel minimo di dignità che sto cercando di riprendere. La sigaretta invece è finita da un po’, e questo significa che è meglio andare in camera da letto. È stata una giornata intensa, da tutti i punti di vista. “Sonno?” mi chiede. “Sì… Spero di riuscire a dormire un po’.” Ci alziamo insieme e lui, con la bambina in braccio, lascia la sua tessera per segnare le consumazioni. Questa volta non faccio obiezioni. Attraversiamo la hall bella e lussuosa, diretti su due piani diversi.

Do la buonanotte a Luca e mi chiudo nella mia stanza, lontano dalle tentazioni e solo con me stesso e l’immagine ancora nitida della mia Caterina che sono certo mi stia pensando anche adesso. Me la immagino sul suo letto così grande, a coprirsi con il panno pesante per proteggere quel corpo esile dal fresco della stagione romana. Qui è caldo invece. Forse m’invidierebbe. Immagino questa camera così ordinata e pulita, con il profumo di menta, o qualcosa del genere, a massaggiare i sensi prima dell’amore. Sarebbe solo nostra. Sarebbe solo mia. Sono in astinenza. Mi manca e la voglio. Desidero la mia donna come si desiderano le cose più belle del mondo, come i ricordi dei momenti felici, del tempo trascorso. I suoi occhi. Il modo in cui sapeva guardarmi. Fermami. Ale, fermati! Sono eccitato e non riesco a fare a meno di toccarmi, pensando a lei e a quello che è in questo momento. Non voglio finire la serata così. E se chiamassi la cameriera? Sono sicuro che verrebbe, in un modo o in un altro.

Forse si farebbe pagare. E che problema c’è? Sarebbe così grave, giunto a questo punto? Non lo so. I suoi denti bianchi, il modo che ha di muovere i fianchi. Mi si siederebbe sopra e farebbe tutto lei, senza probabilmente dirmi neppure il suo nome. Godrei, eccome se godrei. Chiuderebbe la sua serata nel modo che vuole e io verrei curato per qualche minuto della mia solitudine. Non è giusto. Non sono più così. Ora lo so. Non la chiamerò, anche se il bar è qui attaccato alla mia stanza, anche se quel culo lo sognerò stanotte, anche se sono solo come un cane. È così che trascorrono i minuti e diventano in fretta decine, ventine, in uno stato catalettico. È un sonno leggerissimo, appena accennato. Non sono certo di essermi già addormentato, quando sento bussare alla porta della mia camera. Potrebbe essere Luca, o non so chi altro. Appoggio il piede destro a terra, mentre con il sinistro urto contro la piccola anta marrone chiaro del comodino, posizionato accanto al letto. Sento per un secondo un forte dolore, e mi scappa anche un “cazzo”.

Bussa di nuovo e io prendo la pistola dalla piccola valigia, più per sicurezza che non per paura. “Arrivo.” Eccomi finalmente di fronte alla porta. Mi si accende una lampadina: e se fosse qualcuno legato alla storia della piccola Adele? Chi potrebbe cercarmi a quest’ora della notte? Guardo l’orologio che è sul comodino e tengo la pistola puntata verso il rumore. Le due. “Chi è?” Sono troppo addormentato per avere i riflessi al cento per cento. Una voce femminile bassissima risponde alla mia domanda. “Sono la cameriera.” Il mio cervello ci mette pochi istanti a collegare la voce al volto della cameriera di poche ore prima. Cosa vuole a quest’ora? Sesso? Le apro la porta, accogliendola con addosso solo un paio di slip neri. Ci scambiamo uno sguardo lungo e indagatore, rimanendo immobili per più di qualche secondo. I suoi occhi scuri mi fissano come se fossero increduli, e io altrettanto, trovandomela di fronte, vestita di una maglietta e un paio di pantaloncini corti rossi. Non è sexy, neanche un po’.

Mi suscita piuttosto una sensazione di tenerezza che non riesco a decifrare e in pochi istanti uccide il desiderio coltivato per una buona mezz’ora. “Posso entrare?” mi domanda. Sono perplesso o forse solamente un po’ addormentato. “Certo.” A piccoli i svelti entra in camera, come spaventata da poter essere vista da qualcuno. È qui di fronte a me. “Ciao, cameriera” le dico. “Mi chiamo Flora.” “D’accordo: ciao Flora.” “Scusa se sono venuta qui all’improvviso, e nemmeno ti conosco, ma è la prima volta che mi trovo in una situazione del genere.” Sono sincero. La mia prima impressione quando ho percepito la sua voce, è stata quella di una ragazza come tante, in cerca di divertimento o soldi, con il primo straniero che capita, ma mi ci vuole pochissimo tempo per cambiare idea. “Come mai sei qui?” le domando, avvicinandomi al mio letto e invitandola a sedersi vicino a me. “Perché avevo voglia di parlare con te.” “Davvero? E perché proprio con me?” Si siede sul letto e mi abbraccia, ma non è una di quelle strette sensuali che ti invogliano a fare sesso, al contrario, sembra più un contatto con una bambina sola in cerca di protezione. Mi trovo completamente spiazzato da questo suo gesto, al punto che mi viene

istintivo portare il mio braccio destro attorno al suo collo. “Sai, vivo in Egitto da due anni” inizia. Io annuisco, facendole segno con la testa che ascolterò il proseguimento del discorso, nonostante non abbia la minima idea del perché mi stia dicendo tutto questo. “Sono partita di nascosto da tutti, sono fuggita come una ladra da quello che era il mio mondo.” Si tira indietro i capelli che nel frattempo le avevano coperto il viso. “Di dove sei?” “Brasile.” Trascorre qualche secondo di silenzio. “E perché sei scappata?” “Perché ho avuto paura.” Mi chiede un bicchiere d’acqua, come se ormai fosse a casa sua, e la cosa mi fa sorridere. Lo beve alla svelta, come se fosse indispensabile per continuare la storia, che poi, effettivamente, continua. “Avevo un ragazzo splendido che ho perso per sempre, e senza di lui nulla aveva più un senso preciso là; sono dovuta scappare da Adriano e da tutto quello che me lo ricordava.” Non so cosa mi spinga a chiedere ancora, a conversare con lei domandandole dettagli, nonostante il sonno, ma lo faccio. “Non hai famiglia?” “Ho una mamma che mi adora.” “E l’hai abbandonata?”

“Da quasi tre anni non fa altro che piangere tutti i giorni: io la chiamo una volta a settimana per dirle che sto bene, nient’altro.” Prendo nella tasca dei pantaloni posati sulla sedia un pacchetto di sigarette, da cui estraggo una Marlboro. “Ne vuoi una?” “No, grazie.” Me la accendo, senza curarmi di aprire la finestra, ma lei pare badarci subito. “Vuoi che ci affumichiamo?” Sorrido e anche lei, mentre mi sento costretto ad alzarmi per la seconda volta per aprirla. “Posso chiederti perché sei venuta da me a raccontarmi questa storia?” “È una bella domanda.” Do un altro tiro alla Marlboro in attesa della sua risposta, e intanto che sono in piedi compio qualche movimento goffo visto da fuori, utile a stirare un po’ i muscoli delle gambe che mi paiono bloccati come se non li usassi da anni. È in un modo rapidissimo che lo dice. “Tu gli assomigli incredibilmente.” “A chi?” “Ad Adriano.” “Davvero?” “Sì, davvero: eppure non so neanche il tuo nome.” “Io mi chiamo…” M’interrompe.

“Non m’importa!” “Non t’importa?” “No, voglio solo chiederti di stare un po’ qui a parlare con me.” Finisco la sigaretta, sempre più colpito da questa ragazza così strana che mi sorprende a ogni frase. Sorrido senza nasconderlo ma lei non sembra badarci. “D’accordo, tanto non ho sonno: di cosa vuoi parlarmi, Flora?” “Da quale città vieni?” “Roma.” Quasi inevitabilmente finisco a parlarle di Caterina, del modo in cui l’ho conosciuta, del modo in cui l’ho persa e poi ripersa. Lei sembra interessata a ogni mia singola parola, dando importanza al tono della mia voce, ai miei gesti, ai movimenti del mio viso. Mi sento osservato, in una situazione che non mi era mai capitata in precedenza. Forse mi piace parlarle. Mi lascia continuare per decine di minuti, annuendo e coprendo i miei spazi vuoti con domande precise, che cercano di scavare in profondità dentro di me. Le vomito addosso i miei dubbi, le bugie, Londra e le persone che ho ucciso, sorpreso dal suo interesse che mi spinge a scendere nei dettagli, cosa che normalmente non faccio mai. È un lungo monologo, e saranno ati a occhio e croce quaranta minuti, prima che io finisca di parlare. “E tu?” le domando a quel punto. “Cosa vuoi sapere?”

“Dimmi della tua vita in Egitto: hai più incontrato qualcuno di cui valga la pena raccontare?” “È una categoria molto rara.” “Sono d’accordo.” Accendo un’altra sigaretta. “Ancora?” mi chiede. “Perché, non posso?” “Ti fa male alla salute.” “Tante cose fanno male alla salute: comunque non hai ancora risposto, Flora.” Riprende il filo. “Ho incontrato una persona.” “Un ragazzo?” “Un uomo.” “Come si chiama?” La sua risposta è la più inaspettata, spontanea e volgare che potessi immaginare uscisse dalla sua bocca. “Figlio di puttana, se mangia rane!” Non riesco a trattenere una risata. “Hai detto sul serio quello che ho sentito?” “Sì.” “E cosa ha fatto questo figlio di puttana, se mangia rane?” Mi stendo sul letto e lei mi vien dietro, appoggiandosi alla mia spalla, ma senza

smettere di parlare. Do un tiro alla sigaretta. “Robert: l’ho conosciuto qui in villaggio.” “Era solo?” “Sì, per lavoro.” Guardo con la coda dell’occhio i suoi capelli neri e lunghi appoggiati al mio petto nudo. “Mi ha cominciato a corteggiare con lo sguardo, molto prima di rivolgermi la parola; prima di salutarmi ci ha impiegato quattro giorni; era timido, non bello, ma interessante nel suo modo di vestire elegante, nei suoi capelli neri lunghi raccolti da una coda, nel suo accento fine.” La fermo immediatamente. “Aveva i capelli raccolti da una coda?” “Sì, perché?” “Che schifo!” Mi dà una pacca su un fianco, con l’intenzione di far pesare il gesto più del risultato, ma sorride anche lei. “Come ti ha sedotto?” le chiedo ancora. “Nel modo più semplice del mondo: mi è venuto vicino e mi ha detto di essere innamorato di me.” “Un po’ affrettato, no?” Lei si blocca. Non sentendo più la sua voce, volto il mio viso verso di lei e la sorprendo a fissarmi.

“Somigli così tanto ad Adriano che mi sembra surreale parlarti.” Non so bene cosa rispondere e così mi limito a fare un sorriso di circostanza. “Sei bello.” Seguono altri secondi di silenzio, in cui il mio sguardo si distrae notando sulla parete dell’appartamento di fronte al mio, un geco lungo quanto una mano, muoversi senza trovar pace. “Comunque ci siamo dati un bacio e abbiamo fatto l’amore.” Torno a guardarla. I nostri sguardi sono uno dentro l’altro e le nostre bocche a pochi centimetri di distanza. Si sfiorano. Rimaniamo immobili, con le labbra che si toccano e i pensieri che mi martellano la testa come in un incubo. Trascorrono diversi secondi prima di riprendere coscienza della situazione e staccare le nostre labbra. Ci fissiamo, e sento la sua indecisione uguale alla mia sulla linea da superare o lasciare più avanti. Posso saltarle addosso e avere uno dei più bei rapporti sessuali della mia vita, oppure aprire la bocca e ricominciare a parlarle. Pensandoci, mi pento tutt’ora della mia scelta. “E scommetto che dopo essersene andato da qui non si è più fatto vivo.” L’ho sorpresa, ma non perde il filo. “No, al contrario: mi chiamava tutti i giorni e due volte al mese riusciva a venirmi a trovare in Egitto per are il fine settimana con me: ti rendi conto? Veniva da Parigi a Sharm El Sheik tutti i mesi per me!”

È entusiasta mentre ne parla, come se quell’uomo le fosse ancora di fronte in questo momento. Io sono interessato e comincio a domandarmi come possa una persona così gentile essere diventato un figlio di puttana ai suoi occhi. Ipotizzo soluzioni senza abbastanza elementi per valutare. “Siamo stati una settimana in Irlanda insieme, ci siamo frequentati per un anno e mezzo, riuscendo a vederci sempre.” “E poi cosa è successo?” “Mi ha chiesto di sposarlo, sai?” Il suo braccio si appoggia sulla mia pancia. “E tu?” “Io gli ho detto di sì.” La guardo. Lei mi fissa gli occhi prima di ricominciare a parlare. “Ero felice, ho cominciato a saltare, hai presente quando non riesci a contenere un’emozione perché è troppo grande?” Muove le mani mentre mi parla. Io annuisco sorridendo. “Ho chiamato mia madre e le ho gridato: Mamma! Ho trovato l’uomo della mia vita!” “Era perfetto.” “Lo sembrava: quando ci vedevamo mi raccontava un sacco di cose del suo lavoro, della Francia, in cui avrebbe tanto voluto portarmi presto; mi ha parlato della Tour Eiffel e abbiamo cominciato a fantasticare sulla nostra luna di miele: ero al settimo cielo, capisci?”

“Sì, penso di sì.” D’improvviso la sua espressione cambia e il suo tono diventa pacato, come se la parte più bella della storia fosse alle spalle. “Poi un giorno lo chiamo al cellulare, come ho sempre fatto da un anno e mezzo.” “E?” “E mi risponde una voce femminile: io mi presento e dico di voler parlare con Robert, e lei mi dice che ha scordato il telefono a casa.” “A casa?” “Sì, a casa: e aggiunge che suo marito sarebbe rientrato alla sera.” Un forte respiro accompagna queste parole e per un attimo ho la sensazione che possa scoppiare a piangere. Non lo fa. “Ti rendi conto? Aveva una moglie, quel figlio di puttana se mangia rane!” “E tu che hai fatto?” “Lui ha provato a chiamarmi centinaia di volte, ma non gli ho mai più risposto.” “Io penso che fosse innamorato di te.” “Mi ha mentito per un anno e mezzo!” “Non rischi tutta la tua vita per un anno e mezzo, se non sei innamorato.” “Non era un brav’uomo come te.” Sbadiglia come se fosse sul punto di addormentarsi. “Come? Mi prendi in giro?” “No, ma mi piace parlare con te.”

“Sei strana.” “Anche tu.” Da quel momento non parliamo più. Rimaniamo stesi su quel letto per almeno un paio d’ore, senza fare un movimento né dire una parola. Posso scommettere sul fatto che nessuno dei due abbia chiuso gli occhi per un solo istante, mentre la notte si faceva sempre più buia. È solo verso le quattro e mezza che si alza, mi guarda negli occhi e mi dice, con quel sorriso che illumina la stanza: “È stato bello, italiano.” “Anche per me, Flora.” Se ne è andata così, senza aggiungere una sola parola. Si è chiusa la porta alle spalle lasciandomi solo. Ora, quando mancano ormai poche ore alla mattina, posso finalmente provare a chiudere gli occhi e, magari chissà, dormire. La luna è alta ma da qui non la vedo e quello che mi rimane è la sensazione strana di aver vissuto la vita di un’altra persona per tutta la notte. Il silenzio mi ricorda Flora e m’immagino che faccia possa avere quel Robert che tanto l’ha ferita, e cosa spinga un uomo sposato a immischiarsi in tutto questo, a quanto io gli somigli. È solo quando finisco ogni possibile pensiero, quando la mia mente non riesce più a connettere, che finalmente cado nel sonno profondo che aspettavo.

Baiko e Bairei

Dentro la casa è il silenzio assoluto. I due si fissano come se nulla fuori dalle mura li potesse ostacolare. Si guardano negli occhi a mandorla senza parlare, già sicuri di essersi capiti fino in fondo. È difficile, ma è il quotidiano. Quante volte è già successo? Quanto sanno essere forti. Si alzano in piedi e impugnano i coltelli con le loro mani piccole dalle dita affusolate. È il silenzio più assoluto, in una calma apparente che sembra surreale. Dall’altra parte della parete di questa piccola villa sperduta nella campagna se, ventidue poliziotti attendono il momento di agire con la pistola già carica, ventidue padri, mariti, figli e uomini, pregano di uscirne vivi, di compiere l’impresa di arrestare due dei più pericolosi assassini del mondo. Giubbotti antiproiettile, caschi di protezione e armi in quantità industriale non servono a lasciarli tranquilli di fronte alla paura. C’è chi deglutisce, chi si guarda in giro, chi cerca conforto negli occhi di un collega accanto. È l’uniforme che indossano. È la loro vita.

Il capitano, in prima linea con entrambe le mani alla pistola, decide che è ora di agire. Alza la mano e tre lo precedono, mentre tutti gli altri lo seguono. Sfondano la porta con il secondo calcio ed entrano con irruenza e la consapevolezza di essere tanti. È la resa dei conti. Molti di loro non hanno mai avuto a che fare con criminali del genere, con personaggi di tale pericolosità. Nella stanza d’ingresso non ci sono, ma piccoli coltelli lunghi quanto un dito cominciano a volare, lanciati da chissà dove, e trafiggono i primi tre che rimbalzano a terra. “Trovateli!” Il capitano è agitato. Ha già perso i primi tre e sa che non sarà facile fermare qui il conto. I poliziotti corrono, con un po’ più di timore di prima, verso le tre porte collegate al salotto. È una spada lunghissima a trafiggerne altri due, mentre Bairei corre veloce nell’altra stanza creando il rumore necessario a distrarre l’attenzione generale e permettere al fratello di continuare la sua strage. Baiko è preciso e letale. Due alla volta cominciano a cadere a terra, come foglie secche in autunno, e i poliziotti perdono ordine, precisione, organizzazione. Iniziano a sparare a raffica, sperando nel miracolo di abbattere quei due mostri che paiono invisibili e immortali. Forse si colpiscono tra loro. Si sparpagliano come cani impauriti.

I cinque cadaveri diventano dieci, dodici, quindici. I sette superstiti si dividono tra l’odio per quei due figli di puttana e il terrore di fare la stessa fine dei colleghi. Come frecce, altri piccoli coltelli volano in tutte le direzioni, circondando i poliziotti e facendone crollare ancora. Dopo pochi secondi ne rimangono in piedi solo tre, tremanti di paura, aggrappati alla pistola come fosse un salvagente. Vorrebbero scappare e basta. I pensieri vanno alle famiglie che con ogni probabilità non riusciranno più a vedere. “Ho paura, Eric.” “Non devi averne.” Il capitano è già steso a terra da un po’, come il più ingenuo degli sprovveduti: quante possibilità hanno loro tre, poliziotti con poca esperienza e una paura fottuta? Il freddo luccicare della lunga spada compare ancora, tranciando il braccio di uno, con la pistola che ci rimane attaccata. “Cazzo, il mio braccio!” “Stai calmo, Eric!” “Stai calmo!” I fratelli appaiono di nuovo da dietro per completare il loro lavoro, e in un batter d’occhio anche gli ultimi poliziotti sono stesi a terra senza vita. Ora finalmente si fanno vedere dal povero malcapitato, ormai inerme senza un’arma e senza un braccio. Eric alza lo sguardo e ne fissa uno negli occhi.

La paura scompare solo ora, lasciando posto alla consapevolezza che nessun evento potrà più salvarlo. Sa che i miracoli non esistono. Li ha visti. Non a molti è capitato di riuscirci. È abbastanza. Preferisce chiudere gli occhi e non assistere all’esecuzione in cui suo malgrado si trova a recitare la parte della vittima. Bairei guarda il fratello, come se dovessero decidere la cosa giusta da fare. Dal braccio continua a scorrere sangue e probabilmente il dolore lo sta già divorando. Si fanno un cenno con la testa. È Baiko a colpirlo. La lunga lama ne trafigge il petto, ponendo fine alla sofferenza. Ci sono ventidue cadaveri nella stanza e una vecchia auto nel garage. Non hanno bagagli, se non qualche piccolo coltello che estraggono con cura dai corpi senza vita. Prendono una tanica di benzina e bruciano tutto quello che è all’interno della casa. Ventidue famiglie, storie diverse tagliate in nome della lotta tra il bene e il male. Accendono il motore e fuggono lontano da quell’inferno, l’ennesimo. I fratelli Ishitoa: Baiko e Bairei.

Capitolo 9

L’eccitazione mi ritorna a tratti. Tutte le immagini che il mio cervello crea riguardano i ricordi più importanti, da Londra alla mia pistola, ai viaggi, alle facce degli amici, a Fred, a Scott Murphy, Kelly e ovviamente lei. In mezzo a tutte queste facce, ate e ormai perdute, mi trovo confuso tra quello che sogno e ciò che mi sembra reale. Tutti mi guardano, mi segnano di fermarmi, come se volessero comunicarmi qualcosa d’incomprensibile per me. Caterina è l’unica a non volgersi da questa parte. E poi i cinque cadaveri, abbandonati in mezzo a quella strada isolata, in attesa solamente di essere portati via da qualcuno. Il silenzio attorno a loro mi gela. Vedo dei cani, o forse lupi che ci girano intorno senza fretta, pronti a ridurli a brandelli e far perdere loro l’aspetto conosciuto. Sono sensi di colpa continui e frustranti che mi sfiancano con i loro colpi che non sopporto più. Mi sveglio sudato, non so se per il caldo o la tensione. La gola mi brucia ancora e sono abbastanza convinto che stia facendo infezione. Quel bastardo con la sua corda metallica mi stava per uccidere. Mi è andata bene, come sempre in queste situazioni.

Penso se Flora sia stata qui per davvero, o sia stato solo frutto della mia fervida immaginazione. Era tutto troppo chiaro per essere solo un sogno. Ora che la piccola Adele è salva non ho altro a cui pensare, non ho grandi imprese che mi distraggano dalla mia solitudine. Caterina non mi ha più richiamato. Non so fino a che punto durerà il suo silenzio, ma per la prima volta da quando ho cominciato la caduta, sento che questa non sia la fine giusta. In questo posto il sole sorge molto presto. Devono essere le cinque e mezza e già mi sembra troppo luminoso per rimanere senza occhiali scuri. Il viso di Caterina è la prima cosa che credo di vedere mentre apro gli occhi stanchi e pesanti. Non ho nemmeno un cambio e il letto a due piazze è troppo largo per me da solo. Mi alzo controvoglia, anche se non riuscirei a dormire di più in queste condizioni. Non c’è nulla nel frigobar? Mi ci avvicino con i lenti e stanchi, con i miei capelli corti in disordine che trovano in un ciuffo ribelle sul retro della testa la massima espressione della loro forma. Whisky. Solo chi lo ha bevuto di prima mattina può capire il perché lo si faccia. È una botta pazzesca per lo stomaco, per la bocca al massimo della sua sensibilità e per tutto il resto del corpo. Non capisco cosa mi spinga a non poterne fare a meno.

Bevo senza piacere, ma ne sento il bisogno disperato. Il senso di nausea e malessere che già avevo prima di alzarmi aumenta vertiginosamente e mi sento come a casa. È solo una minuscola bottiglia alta pochi centimetri, ma bere il suo contenuto in un solo sorso è stato come prendere un pugno nello stomaco che mi costringe a piegarmi. Forse mi piace star male. Sento che è giusto. Cazzo. Che brutta faccia. Mi alzo per andare in bagno con piccoli i disordinati e sbilenchi. Mi faccio la doccia per poi rimettermi gli stessi vestiti che avevo addosso prima: mi sento così sporco. Per fortuna entro sera sarò a casa, anche se a dire la verità non so ancora bene in quale. Dovrò prendere un altro bilocale in affitto? Chissà quanto durerò. Quanto tempo impiegherò prima di ridurlo allo stato di un porcile putrido e maleodorante? Eppure non ho molte altre strade in mente. Non penso che riuscirei a vederla di nuovo con quegli occhi carichi di rabbia e delusione. Non penso che riuscirebbe a vedermi di nuovo con quegli occhi carichi di rabbia e delusione. Rimango in stanza ancora, poiché è troppo presto per svegliare gli altri due,

dopo una giornata come quella ata. Accendo la televisione. Con il telecomando attraverso diverse stazioni inglesi, marocchine e americane, prima di arrivare ad un canale italiano. C’è la replica di qualche talk show di terza qualità, condotto da una di quelle ragazzine, aspiranti showgirl, belle da vedere solamente quando tengono la bocca chiusa. Questa non è neppure particolarmente affascinante. È mora, secca, pure troppo per i miei gusti, e con le gambe storte. Chissà cosa avrà fatto per arrivare lì. Avrà regalato un bel servizietto a qualche persona giusta. A pensare male non si sbaglia. Ho mal di testa, forse dovuto alla stanchezza o forse al whisky. Rimango lì per un’altra mezz’ora, senza prestare particolare attenzione alle parole, ma fissando a tratti le immagini che mi entrano negli occhi. È uno stato di ività delusa. Sono le sei e mezza quando decido di uscire dalla stanza. Si è fatta l’ora di prendere un po’ d’aria, nonostante ci siano quaranta gradi all’ombra. Scendo alla sala ristorante per fare colazione. Mi servo al buffet prendendo due croissant che non capisco se siano pieni o vuoti, uno yogurt e un filone di pane con spalmata sopra della Nutella. Sono affamato. Mi guardo intorno cercando di scrutare le persone che servono da bere, ma non

vedo quella ragazza giovane che solo poche ore fa è entrata nella mia camera a parlarmi della sua storia. Mangio un boccone e guardo, bevo un sorso di succo e guardo di nuovo. Nulla. Probabilmente sarà di riposo. Mi dispiace, a essere sincero. Il modo in cui le sue labbra si muovevano quasi tremanti mentre la sua voce dolce parlava dei suoi segreti più oscuri mi ha regalato un’emozione fortissima. Mi rendo conto, dopo aver finito il filone di pane con la Nutella. che non riuscirò a mangiare tutto il resto. Avanzo diverse cose. Quanti sprechi. Già mi vedo i cuochi della cucina che imprecano contro i soliti italiani che si riempiono i piatti e avanzano la roba. Hanno ragione loro. Arrivano finalmente, dopo un po’ di attesa, Luca e Adele. “Buongiorno.” “Ciao.” Adele mi saluta dandomi un bacio sulla guancia. È un gesto che apprezzo più di qualsiasi altro. Non so se glielo abbia detto lui di farlo, ma in ogni caso è genuino, di quelli che fanno sempre piacere. Puzzo di alcol nonostante la doccia di appena mezz’ora fa.

Che schifo. Fortunatamente è troppo piccola per rendersene conto. Lui penso se ne accorga, ma preferisce non dire nulla. Riempie il suo piatto in modo fin troppo abbondante. È il magico mondo dei buffet. Qui chiunque si sente trattato come un re ed è portato a pensare di dover mangiare più del normale solo perché non costerà di più. È stupido ma vero. Luca sembra un bambino con la sua brioche coperta di cioccolato che gli sporca la bocca. I suoi occhi chiari e belli mostrano in tutto il loro aspetto quella leggerezza che esiste solo dopo la follia appena vissuta. Mi sorride, quel ragazzo di quasi cinquant’anni. Gli voglio un gran bene. Il suono del mio cellulare attira subito l’attenzione di tutti e tre. La mia speranza è sempre presente. Lo estraggo con fatica dalla tasca dei pantaloni, pregando che sia lei. È un numero privato. Caterina non mi chiamerebbe mai oscurando il suo. “Pronto.” “Alessandro Vinci, vero?” È una voce straniera.

Non mi piace. In un istante il mio umore è cambiato. “Con chi parlo?” “Hai ucciso cinque dei miei uomini...” Cazzo. Tutte le mie preoccupazioni, i miei viaggi, i miei incubi, avevano un senso. Qualcuno sapeva. È una tragedia. Mantengo la calma, anche se mi aspetto il peggio. “Allora devi essere il famoso Al Jadir Houssain.” “Esattamente.” Ha un tono di voce che a molti incuterebbe paura: non a me. “Non ti sei comportato in modo corretto…” mi rimprovera con tranquillità apparentemente. “Nemmeno rapire una bambina di due anni mi pare molto corretto.” Attiro erroneamente l’attenzione di Luca e Adele con questa frase. Primo errore. “Hai ragione… Infatti ho deciso di comportarmi diversamente, cominciando già da oggi…” Comincio a preoccuparmi. Luca mi fissa terrorizzato. Mi alzo per cercare di rimanere il più possibile isolato da loro.

“I miei uomini mi stanno portando un regalo direttamente da Roma…” No! Come cazzo l’hanno trovata? Non c’è nulla che la potrebbe ricondurre a me! La mia Caterina. Stai lucido e pensa. Come fanno a sapere di Caterina? “Non farle del male o ti giuro che sei morto…” “Non sei nella posizione di potermi minacciare…” “Cosa vuoi?” “Non ti chiederò un riscatto… In fondo è vero che i soldi non fanno la felicità…” “E allora cosa vuoi?” È con somma soddisfazione che risponde a questa domanda. “La tua vita.” Brutto banalissimo figlio di puttana. “Come farò a sapere che non le farai del male?” “Non puoi far altro che fidarti.” “Dimmi dove e quando.” “Ti chiamerò io.” Butta giù il telefono.

“Figlio di puttana!” Impreco ancora mentre dall’altra parte non c’è più nessuno ad ascoltarmi. Provo immediatamente a chiamare Caterina sul suo cellulare, ma parte automaticamente la segreteria. Devono averla già presa. “Cosa è successo?” Sono distrutto. “Cosa è successo, Ale?” mi chiede di nuovo, con voce più forte. La mia donna. M’inginocchio senza forze, senza la speranza. Dio non esiste. Provo allora a chiamare la sua amica Antonella, non so ancora esattamente per quale motivo. Squilla. Forse vorrei che andasse a controllare a casa nostra, per vedere se Caterina sia già stata presa. Non risponde nemmeno lei. Cazzo. Sono in preda al panico. Pensa, Ale. Pensa! Trovo subito il numero di Lorenzo, il fidanzato di Antonella, nella rubrica del mio telefono.

Non perdo un attimo. Anche il suo squilla. Sto pregando che mi risponda. Almeno tu rispondimi, ti prego. “Pronto.” Sì, cazzo! “Pronto Lorenzo!” “Alessandro?” “Sì, sono io.” “Ciao bello, come stai?” “Non farmi domande, ma ho bisogno che tu vada immediatamente a casa di Caterina, sai dove abita, vero?” “Sì, certo.” “Non perdere un attimo, vacci subito!” “Cosa è successo, Ale?” Provo un fastidio indescrivibile quando le persone mi riempiono di domande invece di agire. “Forse l’hanno rapita, o stanno per farlo.” “Cazzo.” “Sì e ora, ti prego, vai.” “Ok, sto andando.” “Grazie.”

“Ti faccio sapere quando sono lì.” “Ok.” Metto giù il telefono, già convinto che il viaggio di Lorenzo sarà vano. Maledizione. Spiego la situazione a Luca, nel modo più breve possibile. Non c’è bisogno di molte parole per fargli capire il momento. Lui risponde esattamente come non avrei voluto. “Rimango qui con te.” “Assolutamente no.” “Se l’hanno rapita è per causa mia.” “Me ne frega meno di un cazzo.” “Io rimango.” Provo a rimanere lucido per mandarlo via. Non alzo la voce anche perché la piccola Adele è ancora lì, a pochi i da noi. “Tu vai a casa con la tua bambina, mi saresti solo d’intralcio.” “E tu?” “Io me la caverò.” Voglio solo che smetta di fare domande e se ne vada. Ho bisogno di rimanere da solo. Fumo con rabbia. Sono ancora inginocchiato di fronte alla realtà che sta per uccidere l’ultima parte

sana di me. Voglio che se ne vadano. Voglio la mia donna. Faccio chiamare dalla reception qualcuno che li venga a prendere. Sono minuti di disperazione, come se le parti tra me e Luca si fossero invertite tutto d’un tratto. Non parlo. Lui nemmeno, ma si vede che vorrebbe fare qualcosa per cambiare questa situazione di merda. Odio essere osservato. È colpa mia se l’hanno presa. Solo colpa mia. Cosa pensavo di fare? Di fregare con un trucco così idiota un boss della malavita? Ora ho paura. Quelli sono bestie, individui senza scrupoli né pietà. La uccideranno, ne sono certo. La cameriera viene ad avvertirci che il taxi che abbiamo chiamato è arrivato in questo momento. Li guardo con occhi diversi da poco fa. So benissimo che non è colpa di Luca. Mi guarda come un cane bastonato, che si sente maledettamente male per ciò che sta accadendo.

È lì fermo come uno stoccafisso in attesa di una mia parola di congedo. Non capisco se voglia parlarmi oppure no. Mi abbraccia. Finalmente, dopo altri momenti di difficile imbarazzo, salgono sul taxi. “Per qualsiasi cosa chiamami, amico…” “Sì.” Do un bacio sulla testa ad Adele. Mi sorride. Le lascio la mano e non li guardo nemmeno partire per l’aeroporto a bordo di quel taxi bianco. Sono di nuovo solo contro tutti, forse nella situazione in cui mi trovo più a mio agio. I fenicotteri qui intorno m’ignorano, persi nel caldo di questa giornata assolata e uguale a tutte le altre. Il cielo è libero da ogni nube, in contrapposizione alle ombre della mia anima maledetta. Qualche cameriere che porta i bagagli mi guarda con curiosità ingiustificata ed io mi sento male, lontano da tutto quello che ho sempre voluto per me, diverso dallo stereotipo che ho creduto di poter diventare. Non ho un attimo da perdere. Lorenzo non la troverà, ne sono certo. Se quel figlio di puttana di arabo mi ha chiamato, significa che Caterina è già stata presa. La devo salvare.

Mentre o per il bar dell’hotel, la mia attenzione viene catturata da un disegno. Verde, fuori luogo. Metto a fuoco dopo qualche istante. Quello è un tatuaggio che ho già visto. Sembra un drago o qualcosa del genere. Mi fissa, con un’aria da psicopatico che non posso non ricordare. Cazzo! Comincio a correre come un disperato verso la mia camera e lui puntualmente m’insegue. Ho già capito di chi si tratta. È qui per me. Non mi volto indietro, ma nel momento in cui giro a sinistra, sento il rumore forte di uno sparo che non mi rendo conto di quanto mi abbia mancato. La chiave ce l’ho in mano e spero di riuscire ad aprire la porta in meno di un secondo per evitare di essere seccato come un idiota qualunque. Entra. Entra. Entra! La chiave gira. Sono dentro! Cerco immediatamente la mia pistola che dovrebbe essere nascosta dentro il comodino.

Grazie a Dio c’è. Mi apposto dietro alla porta della camera da letto. Ora è il silenzio. Sento solo il battito forte del mio cuore, senza nient’altro. Non dovrebbe ancora essere entrato, ma lo farà. È pericoloso ma posso batterlo con le carte che ho in mano in questo momento. Ho la testa, lui è uno psicopatico. Gael Dominov. Uno capace di uccidere a sangue freddo chiunque, senza il minimo dubbio, senza alcuna pietà. Gael Dominov. Quello della banda con cui non mi sarei mai voluto trovare in questa situazione, solo e abbandonato. Non faccio nemmeno un movimento, in attesa che sia lui a spazientirsi e compiere la prima mossa. Ho paura perché ho tutto da perdere. Lui starà godendo, con la sua sete di sangue che non riesce a non saziare. È diverso dagli altri. Lui uccide per piacere, non per denaro. So che si trova qui dentro, ma non mi riesce di individuarlo. Se solo commetterà l’errore di fare due i in avanti, lo ucciderò con un colpo soltanto. Sono io ad avere il controllo del gioco e sono certo che si spazientirà alla svelta,

perché io sono più intelligente di lui. Ma accade l’imponderabile. Il silenzio è interrotto da una voce femminile. “Italiano.” È un disastro di proporzioni indescrivibili. Il suo accento straniero, il tono di voce così dolce. Flora! Dannazione. Perché proprio ora? La sua voce è sempre più vicina, fino a entrare nella stanza. Se non faccio nulla la ucciderà, non ci sono dubbi. Ma se faccio una mossa? Sarò io a morire. Avevo il totale controllo della situazione, ma ora sono in trappola. Cosa posso fare? “Ehi” mi chiama di nuovo. Non posso uscire. Scusa Flora, non posso uscire. “Devo parlarti!” Penso subito ai suoi occhi quando mi ha detto che le ricordo il suo ex ragazzo, ai secondi in cui ho toccato le sue labbra calde e morbide.

È così giovane. Morire significa portare con me Caterina. Ho ancora qualche secondo per pensare se valga la pena sacrificare la mia vita per salvare la sua. Chiudo gli occhi. Il tempo a prima ancora che io me ne accorga. Sento uno sparo e non ho dubbi sul fatto che l’abbia colpita. È pazzo, ma ha una mira infallibile. Mi scendono due lacrime dagli occhi, come non ricordavo di aver mai fatto in precedenza. Vorrei urlare ma non posso. Devo restare concentrato. Non potevo comportarmi diversamente. È morta per colpa mia. Una donna giovane e meravigliosa è morta per colpa mia. Sento i suoi i bastardi avvicinarsi sempre più. È qui a meno di due metri. Non posso giurarci, ma lo percepisco dall’altra parte della porta di legno, quindi non mi resta che una cosa da fare. Ecco i due i che lo condannano. Punto e sparo tutti i sei colpi che ci sono dentro alla mia pistola. Buco la porta coprendo il più ampio diametro possibile, fino a quando sento il suo corpo grosso e pesante cadere a terra.

Il gigante è caduto. Quel figlio di puttana senza un cuore né un cervello, è morto dall’altra parte della parete. Mi muovo solo ora. L’ho colpito in almeno tre punti. Gli tolgo la pistola dalla mano, anche se penso sia già morto. Corro verso la porta d’ingresso, già pronto ad aspettarmi il peggio. La più piccola speranza rimasta viene spazzata via quando la trovo stesa senza vita a pancia in giù. Era giovanissima e bella come poche altre. Il senso di colpa mi divora perché l’ho lasciata morire senza muovere un dito, senza il minimo dubbio. Io l’ho tradita esattamente come le persone che l’hanno spinta fino a qui. Ma il bastardo mi avrebbe ucciso e avrei condannato a morte Caterina. È davvero la cosa giusta? Qualche volta le vite si spezzano per un progetto più grande, ci si trova nel posto sbagliato nel momento sbagliato e tutto finisce in un secondo. Flora. Non mi dimenticherò di come ti ho lasciata morire. Mi sento responsabile e non potrebbe essere altrimenti. Le bacio la fronte che sa di lontano, che mi fa immaginare il paese da dove è arrivata tanto tempo fa. Non volevo accadesse.

Perdonami, Flora. Perdonami. Quei figli di puttana mi osservano e sanno tutto di me. Non posso più sbagliare. Al Jadir Houssain. Bucherò la tua testa, com’è vero che respiro. Rivoglio la mia donna, ne ho bisogno. Non posso rischiare di essere visto qui insieme a due cadaveri. Frugo nelle tasche dello psicopatico per trovare qualunque oggetto mi possa aiutare a trovare la banda. Non c’è nulla. Nulla. Prendo il suo telefono e lo porto con me. Mi allontano dalla stanza dopo aver raccolto tutte le mie cose. Ho lasciato che una donna morisse pur di arrivare al mio obiettivo. È lo scopo della mia vita. Forse sarà la mia ultima missione, ma ora non posso sbagliare: c’è in ballo la donna che amo.

Capitolo 10

Non posso dire di conoscere bene Al Jadir Houssain, ma potrei giurare sul fatto che tra due giorni, se mi presenterò lì, uccideranno prima me e poi Caterina. O forse addirittura prima lei, per farmi assistere alla morte della donna a cui più tengo al mondo. Non ci vuole un genio per capire la sua sete di vendetta. Ho ucciso cinque dei suoi uomini. Devo inventare qualcosa alla svelta. Prendo un taxi per farmi portare in centro, con un senso di ansia e preoccupazione che speravo di aver lasciato indietro. Non potrei trovarmi in una situazione peggiore. Giuro che se avessi la garanzia della salvezza di Caterina non esiterei un momento a sacrificare la mia vita. Non m’importa più nulla di me, non a queste condizioni e dopo il sangue che ho visto scorrere. Non andrà così, ne sono certo. Non voglio nemmeno pensare di invecchiare da solo in un monolocale del cazzo, e magari farmi trovare morto da una donna delle pulizie nell’indifferenza generale a causa di qualche esagerazione. Se solo fossi morto a Londra, lei ora sarebbe a casa, o al lavoro, a vivere la vita che merita.

Morirei per lei. Non chiedo altro. Anche Flora è morta. Brutto figlio di puttana, ridammi solo la mia Caterina. La rivoglio indietro. Perché sto piangendo come un bambino? Non voglio piangere. Non voglio piangere. Mi faccio portare in un motel brutto ancora più di quello della prima sera, sporco come solo questi sanno essere. Pago il tassista in fretta, senza sapere nemmeno quanti soldi mi sono rimasti in tasca. Prendo la prima stanza libera che hanno, dopo aver parlato con il portiere del motel che mi fa segno di andare in fondo al corridoio. C’è odore di sporco. Ho bisogno di tranquillità e, mio malgrado, questo è il luogo più consono per riordinare le idee. Chiudo la porta a chiave, spaventato da qualsiasi cosa possa raggiungermi dall’esterno. E se mi avessero seguito? Mi accovaccio ai piedi del letto, come facevo da piccolo quando non mi andava qualcosa che dovevo fare. I miei occhi sono pieni di lacrime e la mia mente è confusa. Non mi resta altro che rimanere lucido e pensare a tutte le carte che posso ancora

giocarmi. Ok. Ora stai calmo, Ale. Non è finita. Non è ancora finita. Bisogna acquisire tutte le informazioni possibili, sapere con chi ho a che fare in questa situazione al limite del reale. La stanza sembra opprimermi e così apro la finestra per riflettere sotto ai raggi del sole. Ho caldo. Chi posso chiamare? Chi potrebbe essermi d’aiuto? Mi guardo intorno cercando un qualsiasi motivo che mi possa dare un’idea, una speranza a cui aggrapparmi. Vedo un geco attaccato al muro esterno della mia stanza, completamente immobile ed estraniato da tutto. Forse dorme. Il paesaggio visto da qui è pessimo. Devo concentrarmi. Un nome. Ho bisogno di trovarne uno alla svelta. Ecco! È un mio collega che lavora in polizia.

Non so neppure se ho ancora il suo numero in rubrica. Ho il brutto vizio di non salvare mai nulla sul mio cellulare vecchio almeno quanto me. Non sono un tecnologico. Controllo immediatamente affannandomi e fumando l’ennesima sigaretta all’interno della stanza. Non ho molti nomi salvati. Il tempo della ricerca è snervante. È come se mi trovassi in uno di quei sogni in cui la fretta e la disperazione non permettono di muoversi. Le dita scorrono veloci. Sto male. Tutto avrei accettato tranne vedere la donna della mia vita messa in pericolo da me e dalla mia idiozia, e da quell’arroganza di poter fare ogni cosa senza preoccuparmi delle conseguenze. Che stupido. Eccolo! Marco Ghirardi. Non sono mai stato così contento di leggere il suo nome. È un bravo poliziotto, uno di quelli con cui ho legato di più da quando ho ricominciato lì. Non è trasgressivo, né particolarmente scaltro, ma è una persona per bene e questo è sufficiente. Ne conservo una buona impressione, e in cuor mio spero che non abbia cambiato numero di cellulare.

Gli telefono senza perdere nemmeno un secondo, che in questa situazione potrebbe risultare determinante. Squilla ed io, in ansia, continuo ad aspirare la mia sigaretta. Dai. Ti prego, rispondimi! “Pronto.” Sì! È lui. “Ciao Marco, sono Alessandro.” Non lo sento da almeno una settimana. Non ho un carattere facile e in ato ho litigato con tante persone, ma da quando sono rientrato nella polizia mi sono comportato meglio, riuscendo a farmi voler bene da qualche collega. “Ciao, Ale! Come stai?” Sembra felice di sentirmi. “Purtroppo male… Ti chiamo per chiederti un grosso favore…” Non ho tempo da perdere in stupidi convenevoli. “Cos’è successo?” “Ho bisogno di sapere informazioni su un certo Al Jadir Houssain.” “Al cosa?” Gli ripeto il nome. Me lo fa scandire per un paio di volte come tutti i nomi arabi e impronunciabili.

Non so neppure se si scriva così, se abbia scordato qualche u o una consonante o chissà cos’altro. Spero che lo trovi comunque. Non mi domanda più nulla e mi assicura di chiamarmi a brevissimo, non appena avrà trovato informazioni a sufficienza. Forse il tono della mia voce lo ha preoccupato. “Faccio il prima possibile.” “Grazie davvero.” Non mi resta altro che attendere. Sono nella solitudine che forse è la situazione in cui mi trovo più a mio agio, lontano da domande, da giudizi, in preda solo ai miei pensieri e ai sensi di colpa che mi dilaniano espandendosi ogni volta. Ho una pistola, meno di un centinaio di proiettili e tutta la mia abilità in questo genere di situazioni. Ne ho ate tante. Chissà quanti riuscirò a spararne. Chissà se ne uscirò vivo anche questa volta. È difficile dirlo, ma è l’unica cosa in cui mi sento bravo, più di fare il marito o l’uomo. La situazione già mi sembra profondamente cambiata da ieri sera, quando non avrei sospettato questo epilogo. L’ordine è scomparso e mi sono bastate poche cose qua e là per rimettere nel caos tutto quanto. L’odore di fumo sta facendo il resto. Voglio tornare a casa con lei.

Non ce la farò questa volta, ne sono certo. La mia sopravvivenza conta poco, ora. L’odore di fumo mi è entrato ormai dalle narici e non penso mi abbandonerà nemmeno una volta fuori da qui. Vorrei fumare uno spinello. Ne avrei proprio bisogno, anche se peggiorerebbe solo la situazione, limando ancora le già poche possibilità che mi rimangono. Il mio cellulare suona dopo pochi minuti di riflessioni pessimiste sul mio futuro prossimo. Rispondo senza nemmeno guardare, assolutamente convinto che si debba trattare di Marco con delle novità. “Pronto.” “Ciao, Vinci.” È una voce femminile. Non posso non riconoscerla immediatamente, con quell’accento inglese che la fa sembrare un’attrice. Mi evoca una strana, malinconica sensazione. Chissà come sarebbe la mia vita se non l’avessi mai conosciuta. “Kelly.” “Non sembri felice di sentirmi…” “Non è un bel momento.” Sento la delusione nella sua voce. Magari si aspettava urla di gioia o capriole per festeggiare la sua chiamata, ma non può certo essere così.

Non mi aspettavo di sentirla. “Cosa ti è successo?” mi domanda. “Hanno rapito la mia donna.” “Cosa?” Ha appena usato un tono sconvolto, come se per la prima volta da quando ci conosciamo non avesse finto ma provato seriamente un’emozione. Non voglio farmi compatire. Detesto quando le persone si mettono a usare quei toni ipocriti e benevoli per farti sentire la loro vicinanza. Non possono capire cosa sto provando. Non possono sapere che sarei disposto a farmi ammazzare per riavere anche solamente una speranza. Non ce l’ho con Kelly. In fondo la colpa è solo mia. “Quando è successo?” mi chiede. “L’ho saputo ora…” “E ora come fai?” continua. “Farò di tutto per tirarla fuori da lì…” “Tu sei forte.” “Non come sembra.” Arriva la frase classica, quella di cui avrei fatto volentieri a meno. “Mi dispiace tanto, Ale.”

Seguono diversi secondi di silenzio, di circostanza che sperano di stemperare un po’ la gravità dei discorsi. Sono io a parlarle di nuovo. “Perché mi avevi chiamato?” Trascorre poco, prima della sua risposta, ma quel frammento è sufficiente a farmi immaginare almeno un paio di motivi. Forse ha voglia di fare sesso, o ha bisogno di soldi, o qualcuno ha minacciato di ucciderla. Mi sorprende, come sempre. Non è nulla di tutto questo. “Volevo salutarti prima di partire…” Mi fa piacere. Non pensavo mi reputasse una persona così importante da salutare prima di una partenza. “E dove vai?” “Nel posto più bello in cui sarei voluta andare, non appena ne avessi avuto l’occasione…” “Cioè?” “Dovresti ricordartelo.” La mia memoria sta perdendo colpi. Non ricordo di quale luogo si tratti, come se non avessi cose più importanti a cui pensare. La mia donna è in mano ad un figlio di puttana che non aspetta altro che ammazzarmela in faccia.

Oh mio Dio. Non voglio pensarci. “Ora mi sfugge…” “Vado in California.” “Ah sì?” “Ho il volo tra poche ore.” “Cosa farai?” “Ho guadagnato abbastanza per star bene…” “Sì?” “E un po’ è anche merito tuo…” “Mi fa piacere.” Percepisce il distacco dal mio tono. “Ale, tu sei forte” mi ripete. “Non lo so.” “Tu sei forte.” Non ho un tono di voce sereno, ma non potrebbe essere altrimenti. Questa ragazza meravigliosa e sveglia, forse troppo per me, è un soffio di vento all’interno della stanza. La penso in tutte le circostanze, ne ricordo la camminata e il sesso, il modo di fare e l’accento. Proprio questo. È dolce ad avermi chiamato.

Mi sta regalando qualche minuto di svago prima di arrivare al triste epilogo che mi attende impaziente. Una ragazza bionda, come sanno essere le dive, stampata nella mia testa come sulla copertina di un libro. Me la vedo, distesa su quel letto che non è mai stato rifatto neppure per una volta, con la testa appoggiata sul bordo e i capelli che ne occupano gran parte, e i seni grandi e belli che sembrano sospesi sul suo corpo nudo. È l’ultima immagine che ho di lei. Farò tutto quello che posso. Non mi resta altro che congedarmi e tornare alla realtà, che è peggio di qualsiasi incubo. È una splendida distrazione, ma la mia vita non è con lei. Chissà, se qualche virgola fosse stata diversa, dove mi troverei oggi. Basta così. “Ti auguro di avere una bella vita, Kelly…” “E io di salvare la tua donna.” “Lo spero.” Mi piace parlarle. “E grazie per la chiamata.” È come se la vedessi sorridere con quella bocca meravigliosa, compiaciuta di avermi strappato un momento felice. Probabilmente è un addio. Mi vuol dire ancora una cosa prima di congedarsi. “Tieni stretto il mio regalo, ti porterà fortuna.”

“Lo farò.” Trascorre un ultimo istante di silenzio. “Ci sentiamo…” “Prima o poi…” aggiunge lei. La saluto come si saluta in un addio. Poso il telefono e trovo la chiamata persa di Marco. È già ricambiato tutto. Cazzo. Non ho un secondo da perdere. In un attimo l’immagine di Kelly sparisce dalla mia testa e lascia spazio ai miei problemi. Bentornato! Lo richiamo immediatamente. Spero solo risponda in fretta perché non potrei perdonarmi di aver perso secondi preziosi. Ci vogliono tre squilli. L’ansia è incredibile. Non mi sono mai sentito così, con i sensi di colpa e la voglia di rimediare che combattono fianco a fianco. “Ale.” Mi manca il respiro. “Novità?”

“Sì… Hai a che fare con un brutto ceffo…” Non avevo dubbi su questo. “Hai la sede del suo covo?” Me la segno su un foglio marcato dell’albergo. “Cosa è successo?” “Hanno rapito Caterina.” “Cosa?” “Hai capito.” So che vorrebbe farmi altre domande, chiedermi come mi sento o cosa ho intenzione di fare. Non chiede nulla. È abbastanza intelligente da capire che non gli risponderei volentieri e che certe volte un silenzio vale più di tante parole. È anche per questo che ho telefonato a lui e non a un altro. “Ho scoperto anche un’altra cosa, non so se sia importante ma io te la dico.” “Cosa?” Sono agitato come mai nella mia vita. “Questo Al Jadir Houssain ha ordinato proprio ieri un trasferimento di centomila euro su un conto che risulta intestato a un italiano.” “Dimmi il nome.” “Vignaccia.” “Vinaccia?”

“No, Vignaccia, con la gn.” Non l’ho mai sentito. Si limita a congedarsi con una frase. “Ha tanti uomini che lavorano per lui: stai attento, Ale.” “Sì, non preoccuparti. Grazie, amico.” Il mio ringraziamento non è solo per le informazioni fondamentali che è riuscito a farmi avere. La sua discrezione è importante. Ora ho l’indirizzo, e non volevo altro. Eppure questo nome non l’ho mai sentito. Lo dovrei conoscere e invece ho il vuoto assoluto. Potrebbe essere l’uomo che è riuscito a catturare Caterina, magari un infiltrato all’interno della polizia. Vignaccia. Potrebbe essere un’ipotesi verosimile. Aspetta un momento. Mi balena un’idea non impossibile. Se fosse un falso nome? Se questo Vignaccia in realtà non fosse altro che Matteo Sinigaglia? Lui, quel poliziotto corrotto che si è venduto ai criminali per un po’ di denaro. Non avrebbe avuto problemi a compiere l’ennesimo rapimento. I tasselli si cominciano a combinare dandomi un’idea del paesaggio.

Matteo Sinigaglia potrebbe aver preso Caterina, commissionato da Al Jadir Houssain, che lo ha pagato su questo bonifico intestato a un falso nome. Ha senso. È l’unica spiegazione che mi viene in mente. Ma come poteva sapere Sinigaglia di me e Caterina? Noi ci eravamo lasciati e io con lui non ho mai avuto un rapporto stretto. Ad ogni modo ormai non conta. Lei è lì. L’indirizzo dove trovarla ce l’ho proprio ora nella mia mano. L’unico modo per provare a salvarla è fare la prima mossa nel momento in cui non se l’aspetta il bastardo. Non attende una mia visita. Sarò la sua sorpresa e comunque vada farò l’impossibile per riuscire a ucciderlo e a fargli provare dolore. Lui ha fatto rapire la cosa più preziosa che ho al mondo. Non lo perdonerò mai. Deve avere almeno una cinquantina di uomini, ma non ho altra scelta. È il mio unico vantaggio. Sarà il mio suicidio con ogni probabilità, ma Caterina è in pericolo ed io sono disposto a tutto per lei. Mi accendo un’altra sigaretta che possa strozzare il rospo che mi si è formato dentro alla gola. Nella stanza c’è caldo, quel caldo umido che mi fa sudare come se avessi appena corso per chilometri.

Sono fuori forma e questo è un altro grande svantaggio. Affronterò uomini grossi il doppio di me, che non avranno nessuno scrupolo a farmi fuori, ma per me sarà la stessa cosa. Ora non sono un uomo, né un poliziotto: sono un fottuto killer pronto a tutto per farsi giustizia. Vorrei farmi una doccia ma non ho tempo, nonostante il mio odore non sia dei più piacevoli. Ho deciso di partire subito. E se dovesse essere la fine, spero solo di poter scrivere un buon finale, di quelli da ricordare.

Ultime righe

Non so perché stia scrivendo adesso e, a essere sincero, non so nemmeno dove abbia trovato carta e penna. Ah già! L’aereo. Odio scrivere, è una delle azioni che m’infastidiscono di più al mondo. Non mi dà l’adrenalina di una notte di sesso, né il rilassamento di una buona sigaretta. È solo il continuo vomitare parole, usate ormai chissà quante volte da chiunque, per esternare le loro stronzate, in stile “caro diario.” Questa penna funziona male, come se avesse dei problemi a far uscire l’inchiostro nero. Cazzo. Odio chi scrive e questo è uno dei motivi per cui odio me stesso. Non l’unico, s’intende. Ho una serie di difetti che mi rendono invulnerabile al peggioramento che arriva dall’esterno. Ne è ato di tempo dalla trasformazione, dal momento in cui tutto è cambiato così all’improvviso. Erano bei tempi, non c’è niente da dire. Ho sempre avuto una discreta stima della mia vita, prima di tutto questo uragano

che mi ha trasformato radicalmente. Ho varcato una soglia nuova, che mi ha portato a chiedermi chi sia io realmente, fuori dal mio ruolo. Non l’ho mai capito. Non riesco a rendermi conto di quale sia la maschera e quale la mia faccia. Mi trovo in Egitto, in un posto che non sapevo nemmeno esistesse, con l’imminente momento della verità. Ho paura. Ora è diverso. Ora sono nella merda. La conoscete la storia della era con il suo piccolo? È molto semplice. Una era mette al mondo un erino, la cosa più preziosa che possegga nella vita. Trascorre ogni secondo della giornata con lui, proteggendolo dal freddo, dai predatori, da tutto quello che è ancora troppo grande. L’unico momento in cui lo deve abbandonare è quello della caccia. La era non vorrebbe, ma procurarsi del cibo è troppo importante per entrambi, e pericoloso per lui. Sa bene che lasciarlo nel nido vorrebbe dire abbandonarlo a morte sicura e così, in una notte insonne partorisce l’idea geniale. Il giorno successivo, quando il sole è appena sorto, la era prende nel becco il erotto e lo porta con sé fino ai piedi di un albero, in un sentiero isolato. Un odore quasi insopportabile proviene da quel posto, frutto dello sterco che si trova proprio lì.

Posa il piccolo dentro allo sterco e si assicura di coprirlo per bene prima di allontanarsi. Quando la era si è allontanata, il erotto, infastidito dal posto maleodorante in cui si trova chiuso, comincia a piangere. a di lì un coyote, un grosso e affamato coyote, che ode il verso del erotto, lo localizza, e una volta tirato fuori dallo sterco, lo mangia in un sol boccone. La cosa che più mi piace di questa storia è la morale. Non sempre chi ti lascia nella merda lo fa perché ti vuole male e non sempre chi ti tira fuori dalla merda lo fa perché ti vuole bene. Caterina è nella merda fino al collo, e la colpa è solo mia. Vorrei solo non averla persa. Avrei preferito non avere altre occasioni, piuttosto che ridurmi così, lacerato dal senso di colpa e da questo vuoto che m’insegue. Devo restare lucido. Non sto rileggendo nemmeno una frase. Cazzo. Scrivere non è proprio il mio campo. Accendo un’altra sigaretta e ti penso. Tu sei l’unico motivo di queste ultime righe. È un po’ come se stessimo parlando ora, immagino i tuoi occhi profondi che mi fissano senza farsi scappare un solo dettaglio del mio tono di voce, del mio modo di parlare. Ho sempre invidiato la tua attenzione. Mi hai e spento, come se avessi trovato il pulsante per farmi star bene sul

serio. Non lo trovo più. Il pulsante è sparito. Vorrei fumarmi dell’erba ora. So che non approveresti, ma ne ho una voglia pazza. Solo far l’amore con te aiuterebbe a placarmi, a farmi dimenticare tutto il resto, a farmi star bene. Tu mi fai star bene. Sto sorridendo. Ripenso a quella povera era e a quello che deve aver provato una volta resasi conto che il erino era sparito. Avrà pianto. Si sarà fatta un mucchio di domande. Non potrà comunque fare niente contro quel coyote, grosso cento volte più di lei, e forte e violento e spaventoso. Non ha più niente da fare, lei. Forse non doveva lasciarlo nella merda. Io ti porterò fuori da lì. Se non riuscirò a salvarti, non me lo perdonerò mai. È l’unica cosa. Il mio unico obiettivo. Non piangere, ti prego.

Non piangere, Caterina, perché io credo ancora a questa bellissima favola, e non ti lascerò per un solo secondo senza di me. Comunque finirà, sarà con me e te insieme, nella più bella delle isole maldiviane, o all’accesso del Paradiso terrestre, dove probabilmente ti dovrò aspettare fuori. Io sono qui, amore mio. Se fallirò non resterà molto di me: un ricordo sbiadito nella testa di poche persone e queste inutili righe. Porterò con me il senso d’inettitudine, già lo so, ma nemmeno questo servirà ad abbattermi, e se mi spareranno continuerò comunque, e se mi picchieranno, continuerò comunque, fino a quando non sarai tu, con l’innocenza del tuo viso, a dirmi che la favola sarà finalmente finita.

Capitolo 11

Sono fuori dalla mia tana. Ho percorso il mio cammino con una velocità che normalmente non mi è mai appartenuta. Devo salvarla. Fa caldo oggi, e già sudo molto, come se non fosse mattina, ma mi trovassi in giro da tutta una giornata. Mi accendo un’altra sigaretta. Sto cercando disperatamente la via che mi ha dettato per telefono Ghirardi, sperando che le sue informazioni siano attendibili. Intorno a me è pieno di edifici, ma sono sicuro che non sia qui quello che devo trovare. Sul foglio ho annotato che la villa è isolata, in una via larga che porta fuori dal paesino. La immagino lussuosa, in grande stile come quelle dei mafiosi e dei delinquenti circondati da tutta la massa di leccapiedi. Seguo il mio intuito, percorrendo a piedi quasi un chilometro per uscire da questo agglomerato di case, anche se chiamarle in questo modo non rende esattamente l’idea di quello che sono. Somigliano piuttosto a dei ruderi, in cui qualche brutto edificio si alterna a parti crollate o comunque decadenti. Camminare sotto questo sole non è facile.

La sigaretta che ho appena terminato di certo non mi aiuta. È solo per arrivare da lei che non crollo a terra come un uomo sperduto in mezzo al deserto. Mi accorgo che con il succedersi dei i, trovo sempre meno gente intorno a me. Devo essere sulla strada giusta. Sono esausto. Non ho un vero e proprio piano. È difficile organizzare qualcosa avendo a disposizione un numero così limitato di informazioni. C’è una sola strada e non posso sbagliarmi. Come immaginavo, non sono solo. Sento i che mi seguono, che si fermano quando mi fermo, che proseguono quando io proseguo. Al Jadir è pieno di precauzioni. Non posso continuare dritto perché più mi avvicino alla casa e più rischio che i suoi uomini mi possano notare. Giro a destra in un piccolo vicolo, comodo solamente per avere le spalle coperte da un muro. Non ho fiato e il caldo diventa sempre più insopportabile. Estraggo la mia pistola, e la tengo stretta in mano, pronto a usarla da un momento all’altro. Mi guardo a destra e a sinistra, in continuazione, attratto dai i che sento provenire da entrambe le direzioni, ma mai mi sarei atteso che quel giapponese maledetto mi volasse addosso dall’alto.

Salta dal tetto con l’agilità di un gatto e con un coltellino non più grande del mio dito mi colpisce alla spalla destra. Cazzo! Cado a terra e lui mi è attaccato, con la sua faccia inespressiva e quei capelli lisci e lunghi e quello strano modo di vestire. Non ho mollato la mia pistola. Il mio braccio è coperto di sangue e non oso immaginare il dolore che proverò a premere il grilletto. Lui è molto più veloce di me. Non sembra nemmeno provato dallo sforzo del sangue, e con la sua mano non smette di premere il coltellino dentro alla mia carne. Fa un male infernale. È qui a meno di un metro che pensa a come ricamarmi, al modo per uccidermi, per ferirmi in mille punti prima di mandarmi al Creatore. Inghiottisco un grumo di sangue e, urlando dal dolore insopportabile, sparo un colpo e prego Dio. Non lo colpisco, e questo già lo sapevo, ma quantomeno si allontana per un attimo da me, lasciando il coltellino conficcato nella mia spalla. Non posso mollare. Prendo la mira a fatica e lui già mi ricorre incontro, troppo veloce anche solo per poter pensare di sparagli in tempo e non ritrovarmelo addosso. Eppure uno sparo parte. Chiudo gli occhi, spaventato dal rumore, e mi chiedo se il proiettile abbia colpito me o lui. Provo così tanto dolore che non credo me ne accorgerei nemmeno.

Il suo kimono bianco comincia a coprirsi del rosso del suo stesso sangue, in una scena che mi ricorda un film vecchio, d’altri tempi. Non è morto e non potrebbe esserlo con così poco. Punto nuovamente con la pistola, questa volta con qualche secondo di agio in più per prendere la mira. Non mostra il suo dolore, da perfetto guerriero quale è. Gli sparo al cuore, convinto che a parità di armi mi avrebbe ucciso senza il minimo problema. Baiko Ishitoa. Un guerriero valoroso che mi muore di fronte, con una dignità che gli invidio dal profondo. Ma chi ha sparato? Non credo di avere amici qui. Ma la cosa che più mi preoccupa è che so di dovermi aspettare anche il fratello di Baiko. Mi avvicino al cadavere lentamente, quasi trascinandomi, e con una mano sempre appoggiata al muro. Mi nascondo dietro alla carcassa, proteggendomi da tutto il resto. Non ho altro modo per sorprendere l’altro. Sputo ancora sangue ma ho bisogno di lucidità. Non si vede nessuno, né Bairei, né la persona misteriosa che mi ha appena salvato la vita. Sento i i, e sento la sua voce, per la prima volta nella mia vita. Esclama qualcosa di incomprensibile nella sua lingua, un giapponese veloce e scandito, e poi mi appare.

È senza il braccio destro, perso in uno scontro a fuoco che io ricordo bene, e non potrebbe essere altrimenti. La sua espressione diventa improvvisamente umana alla visione del cadavere del fratello, seduto proprio davanti a me. Impreca nella sua lingua, ma il suo sguardo non è rivolto a me. L’assassino di suo fratello deve essere dall’altra parte di quell’edificio, ma non riesco a vederlo. Il giapponese urla e piange e prende in mano la sua spada lunga e mortale. Mi fa tenerezza in quello stato d’impotenza, e come un avvoltoio affamato, colgo la mia occasione. Punto la pistola. Mi trema la mano e non sono sicuro di riuscire ad essere preciso come vorrei, come sarei in condizioni normali. Bam! Ne sparo ancora un secondo. Bam! Ho fallito. Uno dei due proiettili lo colpisce alla gamba, l’altro lo manca totalmente. Ho perso il mio vantaggio del fattore sorpresa, e di conseguenza la speranza di riuscire a cavarmela, eppure è ancora la persona misteriosa a salvarmi la vita. Sento esplodere tre colpi diversi. Bairei s’inginocchia a terra. È stato colpito da due di quei proiettili, oltre che dal mio in precedenza. Soffre più per la visione del fratello che non per la sua stessa morte, e questo è

un atteggiamento che mi sorprende. È una scena che mi resterà. Sono delinquenti ma con uno spirito e una dignità da veri uomini. Niente a che vedere con chi ho incontrato fino ad ora. È finita anche per lui. L’uomo nascosto dall’altra parte dell’edificio scappa e io non ho la forza necessaria per seguirlo. Sono stanco e vicinissimo al mio obiettivo. Sarà un benefattore misterioso, e in ogni caso non m’importa di lui, adesso. Sono vivo. Penso che nessun altro mi abbia seguito. Sono accasciato a terra, appoggiato al cadavere di un giapponese, mentre il mio braccio perde sangue e il calore mi sta uccidendo. Prendo fiato qualche secondo prima di fare qualunque mossa. Ho paura che, una volta in piedi, potrei svenire per la mancanza di forze. La mia missione non è che all’inizio. Come faccio ad andare avanti? Strappo una parte del kimono di Baiko, per coprirmi la ferita alla spalla che mi crea un dolore lancinante. Non penso che questo mi aiuterà a guarire, ma non è la guarigione che cerco: ho solo bisogno di un po’ di tempo. Il sapore di sangue nella mia bocca si fa più denso. Sono in piedi.

Di nuovo. Ricarico la pistola con quante più munizioni mi è possibile. Mi lascio alle spalle i cadaveri di questi due inseparabili fratelli, uniti anche nel momento della morte. Spero che non sia la fine mia e di Caterina. Ci sono quasi. Forse la storia vissuta a Londra, con tutti gli elementi che mi hanno portato completamente fuori strada nella mia indagine, mi condiziona un po’. Ho paura che qualcosa mi stia sfuggendo. Quel bonifico di Al Jadir Houssain non mi convince per nulla, e poi quel nome: Vignaccia. Non riesco a farmi venire in mente nulla, eppure sono i dettagli a salvare le vite. Vignaccia. Maledizione. Vignaccia. Non mi dice nulla. In ogni caso lo troverò lì dentro. Forse sarà Sinigaglia, o chiunque altro, ma troverò anche lui e lo ucciderò, perché nessuno può rapirla. E se la persona che mi ha appena salvato la vita mi aiuterà ancora, allora potrei avere qualche speranza. Non ci voglio sperare troppo. Perché è scappata via subito?

Devo vedere la struttura della villa, valutare le possibili vie di fuga, contare gli uomini che dovrò affrontare. Farò il massimo, di questo sono certo. Percorro ancora qualche centinaio di metri, con il mio corpo al limite della sopportazione, fino ad arrivare di fronte ad una villa enorme. L’edificio deve essere per forza quello. Marco non sbaglia mai su queste cose. Il cancello è lungo e chiuso. Non ci sono uomini sulla soglia, ma ne posso scorgere più o meno una ventina all’interno del cortile, seduti intorno a un tavolo o in piedi a fumare una sigaretta. Immagino che dentro alla villa sarà anche peggio. Non sarà facile per me entrare. Caterina deve essere rinchiusa in chissà quale cella, magari legata e imbavagliata come una vittima sacrificale. Solo pensarla in queste condizioni e in compagnia di quei criminali mi fa venire il voltastomaco. Il mio unico vantaggio è il fattore-sorpresa, che devo provare a sfruttare al massimo, con una lucidità che fatico a trovare in me stesso. Sono tutti abbastanza distratti: giocano a carte, bevono vino e non si aspettano l’intrusione di qualcuno. Giocherò su questo. Per fortuna nel cortile che circonda la casa ci sono molti furgoni e oggetti e galline, che possono in qualche modo aiutarmi a mimetizzare il mio incedere sia nel suono sia nella vista. Se solo penso a quanto tempo ho perso, e a come l’ho perso, e a tutto quello che

mi ha portato in questa situazione, non riesco a non colpevolizzarmi ancora, più di quanto forse meriti. È mezzogiorno e il caldo è al massimo. Ci saranno almeno quaranta gradi. Sto sudando come raramente nella mia vita. Mi asciugo il sudore della fronte con la mano destra, e il desiderio di una sigaretta non mi a nemmeno ora che la mia temperatura corporea ha raggiunto il massimo livello. Me la accendo. Tra tutti i volti uguali all’interno del cortile, l’unico che risalta è quello di un uomo grosso con la barba che non sembra di queste parti. Ha una carnagione bianchissima: deve essere di qualche paese dell’est, forse un albanese o un rumeno. La prima cosa da fare è arrivare dietro a quel furgone giallo, distante da me non più di trenta metri. Sarebbe il primo o importante. Attenzione. Non so se correre o arrivarci camminando per non farmi notare da qualcuno con un movimento improvviso. Parto senza pensare, con la pistola già in mano, pronta a essere utilizzata in caso di fallimento del piano. Ci vado di corsa. Le voci e le risate di quella brutta gente mi fanno pensare con certezza che non mi abbiano visto. È così. Intanto ho ato il cancello.

Sul retro dell’edificio ci sono delle finestre, alte circa quattro metri. Sono l’unica via d’accesso possibile. Le porte sono sorvegliate da decine di uomini e verrei scoperto immediatamente se provassi da lì. Mi posso aggrappare al tubo della grondaia, ma non so quanto tempo mi ci vorrà, e neppure se sarà sufficiente essere veloci. L’unica cosa certa è che se mi vedranno mi uccideranno e Caterina subirà la stessa sorte. Accanto all’edificio si trova un altro furgone, dietro al quale sarebbe l’ideale posizionarsi per prepararsi alla scalata. Dovrebbe essere più semplice. Corro pensandoci ancora meno di prima, e per un attimo temo che qualcuno mi abbia visto. Resto immobile dietro al furgone senza nemmeno respirare. Il mio orecchio cerca di captare cosa stia accadendo dietro di me e mi sembra che tutti stiano parlando con lo stesso tono di prima. Non capisco una parola della loro lingua. Falso allarme. Eccomi qui ai piedi della grondaia. Non devo far altro che arrampicarmi di sopra. È una parola. Ora che sono così vicino non credo che riuscirò a farlo in breve tempo e soprattutto in modo silenzioso. E poi, la spalla.

Brucia da morire. L’angolo della casa mi protegge dagli occhi indiscreti, ma chiunque potrebbe are in ogni momento. Non ho molto tempo e il mio corpo sta soffrendo al solo pensiero. Non mi posso fermare e forse è meglio non pensare nemmeno alle leggi fisiche che mi dovrebbero impedire di farcela in queste condizioni. Faccio un salto per cominciare l’arrampicata da più in alto che posso. Dai, Ale! Mi aggrappo sentendo già dolore alle mani. La spalla brucia e il sangue ricomincia a uscire in modo più forte. Non so se ho fatto rumore. Con i piedi mi aiuto. Ci sono attaccato come una cozza. Mi alzo di poco con il primo movimento. Sinceramente avrei sperato in uno slancio migliore, ma non mi abbatto anche perché non ho altra scelta. Mi fanno male le braccia. Non so per quanto tempo resisterò qui aggrappato come una scimmia all’albero. Raggiungere la finestra mi sembra un’utopia. Faccio un altro piccolo movimento, e poi ancora. Un piccolo rumore si sente comunque, anche se sto facendo di tutto per essere silenzioso. Sono a metà.

Sto implorando le mie braccia, con i muscoli già contratti al massimo, di non lasciarmi proprio adesso. Do ancora una piccola tirata. Un’altra. Devo sbrigarmi, anche perché ogni istante ato senza muovermi è un’inutile quanto deleteria perdita di energie. Prometto che se ne uscirò vivo m’iscriverò in palestra, ma dubito seriamente che questo possa accadere. La mia concentrazione viene distratta da un rumore forte e troppo vicino a me per non spaventarmi. Per un secondo mi convinco di essere già morto. Ho superato così tanti pericoli ed ora mi arrendo quando sono così vicino. Guardo in basso con l’intenzione di lasciarmi cadere a peso morto e abbandonare definitivamente la mia missione. Se come penso ci sarà una pistola, non ho più niente da fare. E invece no. Un grosso pastore tedesco mi fissa abbaiando. Cazzo! Non è finita. Tra pochi secondi arriveranno tutti qui. Li sento già alzarsi dalle sedie. La mia mano afferra il davanzale della finestra. Non mollare!

Mi tiro su fino ad arrivare ad aggrapparmi con entrambe le mani, con un’espressione del volto contratta come non mai. Devono essere ferite perché mi bruciano da morire. Stringo i denti così forte da sentirli quasi piegare, ma non mollo un centimetro perché lei è lì di sopra. Sono giù solo con le gambe. Lavoro di addominali e di tutto quello che può servirmi negli ultimi istanti. Per fortuna la finestra è aperta. Mi butto senza sapere la stanza in cui mi trovo, né se ci sia qualcuno. Sono dentro. Proprio così: non so come, ma sono dentro. Questa era utopia. Caterina mi ha fatto arrivare oltre il mio limite. Cazzo. Ho un dolore indescrivibile alla spalla, come se mi stesse per esplodere. Guardarla non mi aiuta di certo, coperta completamente dal sangue che non smette di uscire. La pezza bianca del kimono del giapponese è un tutt’uno con la mia pelle. Non è che l’inizio. Ora devo stare tranquillo. Mi asciugo il sudore dalla fronte. Sento gli uomini portare via il cane là sotto.

Credo che non sospettino nulla, o almeno è quello che intuisco sentendo i timbri delle loro voci. Esco dalla stanza con circospezione. Non c’è nessuno. L’istinto mi dice di salire. Prendo le scale e, con velocità, arrivo al secondo piano. Non ho la minima idea di dove potrebbe trovarsi la mia donna. Rimango immobile come un fesso per qualche secondo. Lascio una scia di sangue a terra. Sento dei i avvicinarsi. Mi butto nella prima stanza a destra, di nuovo alla cieca e di nuovo fortunatamente vuota. Mi sto giocando tutti i jolly. Non posso più proseguire per il corridoio. Mi affaccio alla finestra che dà su un cortile interno. È sgombro anche lì. Mi sembra di giocare una partita a scacchi, senza la minima idea delle mosse che possono attendermi. Mi sto affidando alle uniche armi che ho. Mi muovo sul cornicione, come un gatto un po’ spelacchiato che non vuole saperne di cadere. A piccoli ma svelti i arrivo accanto a un’altra finestra. Guardo dentro con difficoltà perché in controluce.

Mi ci vuole qualche secondo di sguardo intenso per rendermi conto che dall’altra parte del vetro si trova proprio lei. È legata a un letto con corde e bavaglio, proprio come me l’ero immaginata poco tempo fa. Caterina! Ti ho trovata. Non posso lasciarla così nemmeno un secondo. Controllo nella stanza se qualcuno la sta sorvegliando. È sola. I miei pensieri sono centinaia e non è facile rimanere indifferenti a una scena del genere. È tutto quello che rimane della mia vita. La tranquillizzo con un gesto della mia mano. Con il fusto della pistola colpisco il vetro, creando un piccolo buco. Sono rumoroso, ma abbastanza convinto di non compromettere nulla con questa mia mossa. Solamente Caterina infatti mi sente e gira la testa verso di me, con una luce di speranza negli occhi che non credevo le avrei più visto. Con la mano apro la finestra da dentro. Dopo aver rischiato almeno un paio di volte la vita, con una spalla spappolata che mi sta abbandonando e una sola pistola come fedele compagna di viaggio, sono finalmente arrivato a trovarmi da solo con lei.

Capitolo 12

Sono sudato e ho il respiro affannoso dopo il percorso che mi ha portato fino a qui, ma non posso fermarmi ora. Mi basta guardarla negli occhi per un attimo per rendermi conto che potrei rifare la stessa strada almeno altre dieci volte per lei. “Amore” le sussurro. “Amore!” Quanto mi sei mancata, piccola. Le faccio segno di non urlare e rimanere in assoluto silenzio. Tolgo il bavaglio. Lei mi obbedisce e non dice una parola, con un’aria terrorizzata che speravo di non vederle mai addosso. La bacio sulla bocca. Poterla vedere di nuovo così da vicino mi suscita qualcosa d’inspiegabile, come ogni prima volta con lei. Mi fanno male le braccia e anche la schiena, ma non voglio darglielo a vedere proprio ora. Sento strappi a ogni movimento, probabilmente causati dall’arrampicata sulla finestra. Manca ancora tanto per ritenermi soddisfatto. L’ho raggiunta ed è già un traguardo. Non penso di averla calmata, ma solo Dio sa quanto ho sognato questo momento

con lei. “Non avere paura… Adesso ci sono io…” Non risponde. La slego da quelle corde strette e ruvide. “Come stai?” le domando. Mi abbraccia fortissimo e questo per me vale più di qualunque altra risposta potesse darmi. Mi fa male persino l’abbraccio, ma va bene così. Ci sono momenti in cui capisci il senso della tua vita: il mio senso è qui, seduto accanto a lei. Una stanza piena di strumenti che non hanno senso né collegamento alcuno, riposti senza un ordine uno sull’altro, non mi danno minimamente il conforto e la tranquillità sperati. Ho solo la mia energia. Non m’importa cosa dovremo are, ma la porterò fuori da questo incubo, impegnandomi con tutto me stesso e, cascasse il mondo, ce la farò. “Ti porto via da qui, capito?” “Chi è questa gente?” “Ti porto via…” “Ho paura di morire.” “Tu uscirai viva da qui, capito?” Mi fa segno di sì con la testa. È spaventata come non l’avevo mai vista.

Se penso a quello che le possono avere fatto questi figli di puttana, mi sale dentro una rabbia che mi dà la forza di continuare ancora. Non meritava di trovarsi qui. “Cos’hai alla spalla?” mi domanda. “Nulla di grave.” “Sei pieno di sangue.” “Sì, ma non fa molto male.” È una delle bugie più grandi che le abbia mai detto in tutta la mia vita. Ho un dolore folle, e per un attimo penso che essere ammazzato mi potrebbe dare sollievo. Sento la chiave inserirsi nella serratura della porta della stanza. La imbavaglio di nuovo e le dico di rimanere immobile con le corde addosso mentre mi nascondo dietro alla porta. Sembra non essere d’accordo con la mia idea, e inizialmente accenna un’obiezione ma è troppo tardi. Rimane in silenzio, con le corde strette tra le mani mentre guarda la scena come una spettatrice inerme. Ecco che entrano due uomini, probabilmente gli stessi che ho incontrato prima, posizionati davanti alla porta. Si dicono qualcosa nella loro lingua incomprensibile e sembrano parlare anche con lei, che con gli occhi pieni di ribrezzo e terrore non apre bocca. Non posso usare la pistola. Tiro fuori dalla tasca l’unica altra arma che possiedo: un coltello, lungo circa dieci centimetri, gentile omaggio di quell’egiziano del negozio a Nama Bei. Non ho un attimo da perdere.

Sorprendo quello sulla destra da dietro, stringendolo in un abbraccio concluso con il mio coltello nel suo cuore. La spalla! Mi viene da gridare ma taccio. L’altro si gira quando il corpo del compare sta già crollando in modo rocambolesco a terra. Non è svelto mentre cerca di estrarre la pistola dalla tasca, e così riesco a colpirlo allo stomaco, in anticipo. S’inginocchia e solo in un secondo momento, dopo altre tre coltellate, esala l’ultimo respiro e finalmente muore, il tutto sotto gli occhi increduli di Caterina che mai mi aveva visto in questo modo. Appoggio il cadavere a terra e la prendo per mano. “Non guardare!” “Li hai ammazzati.” “Non guardare, amore.” Mi sembra sconvolta. Non volevo assistesse a questo. “Amore, devi essere forte e ne uscirai viva…” Ha gli occhi lucidi, ma non scoppia a piangere. È così bella. Vorrei darle più conforto di così, apparire ai suoi occhi come l’eroe buono che le salverà la vita e scriverà il più lieto dei finali. Sto solo cercando di fare del mio meglio. L'odore del sangue e della morte pervade la stanza.

L’unica finestra è quella da cui sono entrato. Sono spaventato e concentrato allo stesso tempo. L’unico modo che abbiamo per uscire è scendere dalle scale: non ce la faremo mai dal cornicione della finestra con tutti quegli uomini armati che sorvegliano la parte esterna. Non ho un secondo da perdere. “Ora dobbiamo andare…” Guardo fuori dalla stanza: via libera. A i svelti e silenziosi attraversiamo i dieci metri di corridoio che ci separano dalle scale. Sento rumore. Qualcuno sta salendo. Faccio cenno a Caterina di non emettere alcun suono. Mi apposto all’angolo per cogliere l’uomo di sorpresa. Ho di nuovo il coltello in mano, impugnato per far male, come sempre. I i sono sempre più vicini e quando percepisco il momento giusto, vedendo l’ombra ingrandirsi, lo colpisco al petto. Un altro colpo perfetto. L’uomo crolla a terra. Lo prendo prima che cada, per evitare rumori pericolosi. Afferro di nuovo Caterina e la trascino giù con me. Vorrei essere più dolce con lei. La amo.

Il primo piano è molto più affollato del secondo. Non mi rimane nient’altro da fare che entrare nella prima stanza che trovo, all’inizio del corridoio. È quella in cui sono entrato prima. Bisogna riflettere con tutta la lucidità possibile. Sono un po’ più vicino. Ci troviamo in un edificio infestato da guardie, in cui una via di fuga sembra impossibile. Ci sono uomini all’interno dell’edificio, che controllano il primo piano e almeno un’altra ventina fuori che rendono improbabile anche la via d’uscita dalla finestra. Inoltre non ci metteranno molto ad accorgersi dell’uomo steso a terra senza vita per le scale, e degli altri due nella stanza in cui era rinchiusa Caterina. Più trascorre il tempo e più rischiamo di non uscirne vivi. Lei mi è accanto, ancora una volta. È guardando quegli occhi meravigliosi, gli unici per cui abbia davvero provato l’amore, che prendo la decisione più giusta di tutta la mia vita. “Amore, devi fare tutto quello che ti dico…” È confusa. Le stringo la mano. Mi fa segno di sì con la testa. “Quando sentirai uno sparo, conterai dieci secondi e uscirai da questa finestra: non è molto alto e dovresti farcela attaccandoti alla grondaia… Poi corri più forte che puoi verso il cancello… A distanza di cinquecento metri sarai di nuovo in mezzo alla gente e chiamerai un taxi.”

Le porgo tutte le poche banconote che mi sono rimaste in tasca. Saranno a occhio e croce duecento dollari. Le dovrebbero bastare per andarsene da qui. Non è convinta. Non è stupida e sa qual è l’altra faccia della medaglia. “E tu?” mi chiede. “E io me la caverò.” Non mi sembra per nulla d’accordo. “Cosa c’è?” le domando. “Non voglio lasciarti qui da solo.” “Se rimani qui siamo già morti tutti e due.” Mi prende le mani. “Non voglio lasciarti qui” mi ripete con un filo di voce strozzata dal pianto. “Io non voglio lasciarti morire.” La abbraccio forte. “Sono innamorato di te, hai capito?” Non mi risponde ma stringe ancora di più l’abbraccio. So che mi sente, dove gli altri non possono. Mi alzo in piedi allontanandomi dalla sua dolcezza, solo dopo una quarantina di secondi. Spero con tutto me stesso che riesca a uscire in tempo da questo inferno.

“Promettimi che tornerai a casa…” “Ci provo amore… Ci provo...” È l’ultima bugia che le dico, ma questa volta è giusta. Non penso sinceramente di avere molte possibilità di uscire da questo posto con le mie gambe. Non so se mi creda, o faccia solo finta. Il mio unico obiettivo è perdere più tempo possibile per consentirle di andarsene da qui. Non sto lottando per la mia vita, ma per la sua. “Tu promettimi che correrai appena te lo dirò.” Mi guarda in lacrime. “Promettilo!” insisto io. “Sì.” Non avevo bisogno di altro per cominciare il mio viaggio verso la morte. Sarà un dolce morir, sapendo di aver vissuto per lei. “E scusa per tutto…” “Sì” mi sussurra, con la voce strozzata dalle lacrime. “Davvero?” “Sì, anche se sei un bambino immaturo.” Le scappa un sorriso. “Sì, sono un bambino.” Sorrido anch’io.

È ora. La pistola è carica. Altri venti proiettili sono nelle mie tasche. Sento muoversi anche qualcos’altro nella tasca, in mezzo al metallo freddo delle munizioni. Non mi ricordavo di avere ancora quella collana dorata. Le mie dita la fanno scivolare tra loro, cercando di assorbire tutto quello che è rimasto di buono dentro di me. Lei mi è di fronte, ancora una volta. Non aspetta altro che essere salvata ed io non chiedo nulla se non poterle dare una seconda possibilità. Voglio che ricominci da capo, lontano da me, e da questi posti che mai sono stati i suoi, e dalle continue menzogne che non hanno fatto altro che portarmi a perderla in continuazione. Avrai la tua possibilità, lo prometto. Non merito il suo perdono. Mollo la collana. Spero che Kelly mi porti fortuna. È strano come alla fine di ogni capitolo della mia vita appaia lei, quando nemmeno la sto pensando. Sparisce e riappare, in uno specchio perfetto di quella che è la mia esistenza da molti anni a questa parte. Mi rimane un solo dubbio. “Caterina, hai visto in faccia l’uomo che ti ha portata qui?”

Se quell’uomo non muore, lei non sarà mai al sicuro. “No, aveva un amontagna, perché?” “Nulla.” Estraggo il cellulare dalla mia tasca. Scrivo un messaggio a Marco, l’ultima persona che mi può ancora dare una mano a uscirne.

“Rispondimi immediatamente: fai una ricerca su Matteo Sinigaglia, ex agente di polizia e dimmi se l’identità potrebbe combaciare con quella di un certo Vignaccia.”

Per un attimo mi balena in testa l’idea di chiedere aiuto, di telefonare a qualcuno, ma non ha senso. Non ho un momento da perdere se voglio provare a salvarle la vita. Sono secondi lunghi, interminabili, in cui non mi resta altro da fare che attendere l’esito della sua ricerca. Lei mi tiene la mano. “Mi dici cosa sta succedendo?” Non so cosa risponderle. Non so più nulla. Voglio solo che ne esca. “Amore so che non puoi capire ora, ma devi fare tutto quello che ti dico e basta, se vuoi uscirne viva.” “Io non voglio essere trattata come una bambina! Ho il diritto di sapere se stai

andando a morire!” “Vuoi sapere questo?” “Sì.” “Allora è giusto che tu lo sappia: sì.” Lascia la mia mano. “Sì?” “Sì amore, probabilmente non ne uscirò vivo, ma questo per te non deve essere importante.” “Come può non esserlo?” “Ti prego: è l’ultima cosa che ti chiedo.” Piange. “Ti prego!” le ripeto. Non smette di piangere, e se possibile l’intensità delle sue lacrime aumenta ancora, ma riesco a strapparle quel benedetto sì. Grazie a Dio. Sono inaffidabile, ma sto giocando la partita più importante di tutti i tempi per salvarla. Non basterà a mandarmi in paradiso, ma forse la mia coscienza sarà più pulita, almeno un po’. Caterina è nelle mie mani: come sa essere strano il destino.

Le lacrime del principe

Le cose che non riescono ad essere dimenticate continuano a succedere. Le sentiamo come la prima volta, le sentiamo fuori dal tempo, in quel mondo del sempre dove le date non datano. Solo nel mondo del mai esistono lapidi. Che importa, dopotutto, che “lei” sia partita, sposata, cambiata, scomparsa, abbia dimenticato, ti abbia ingannato, o qualunque altra cosa che ti abbia fatto, insomma? Hai avuto una parte della sua vita che è stata solo tua, e, questa, lei non potrà mai arla da te a nessun altro. Ci sono beni inalienabili, ci sono momenti che, al contrario di quel che pensi, fanno parte della tua vita presente e non del tuo ato. E si aprono nel tuo

sorriso anche quando, dimentico di loro, starai sorridendo ad altre cose. Ah, non cercare neanche di sapere quanto devi all’ingrata creatura... A thing of beauty is a joy for ever, disse, cento e molti anni fa, un poeta inglese che non riuscì a morire.

Il principe dei poeti brasiliani: Mario Quintana

Le lacrime non smettono di bagnarle il viso. Chi le dirà buonanotte questa sera? Nonostante non sia più una ragazzina, sarebbe disposta a viaggiare tutto il mondo per trovarla. Non sa nulla, e forse questo è l’aspetto che più la tormenta. Non ha idea di dove possa trovarsi, di quanti chilometri abbia percorso per allontanarsi da lei e dalla notizia che tanto l’ha sconvolta. Continua a leggere le parole di Quintana, con le mani sudate e la preghiera sempre viva a quel Signore che già le aveva portato via il marito tanti anni prima. Non mangia e non esce. Sono giorni ormai che non ha più sue notizie, che quel dannato telefono non squilla.

Cosa ha sbagliato con lei? Si perde così tanto tempo a difendere una persona, che quasi ci si dimentica di volere bene a se stessi. È sciupata, scura in volto. Nulla è tragico come perdere una figlia, senza neppure sapere perché. Soffrire per qualcuno è il modo più forte di dimostrare l’amore che si prova, l’ossessione incondizionata della perdita. Le lancette dell’orologio appeso alla parete sottolineano ogni singolo istante di speranza che s’indebolisce e si perde tra le troppe stanze di quella villa immersa nel nulla della ricchezza. Sulla credenza della sala le foto della figlia si ripetono senza un ordine, in un’evocazione dolorosa di ricordi felici, ancora di più nella sua mente. Gli occhi scorrono le parole senza leggerle, stanchi di rimanere aperti nel panorama reale. Una madre lo sente. Il cuore batte da solo, e nonostante la volontà di nascondersi non riesce a non pensare al peggio. Cammina con lei. Continua a restarle accanto anche se il suo corpo è lontano, la sua anima dispersa, e il battito del suo cuore ormai solo un ricordo vago. Restale accanto in una giornata inutile come è questa, in una vita trascorsa con troppo dolore anche per un demonio, in una solitudine che nemmeno gli angeli possono toglierle. Flora non tornerà. Tramonta il sole e l’inverno ormai è arrivato.

“A thing of beauty is a joy for ever, disse, cento e molti anni fa, un poeta inglese che non riuscì a morire.”

Poesia

Sul tuo ventre che si muove vedo quello che son stato forse bello, forse allegro, chissà chi lo può dire.

Mentre baci le mie labbra che ormai senti tue soltanto, io mi lascio trasportare: non ti posso più tradire.

E non trovo più parole per descriver ciò che sei, sei rimasta qui un momento ma sei tutto quanto me.

Il tempo scorre ormai è lontano,

c’è la neve, c’è quel freddo

Se riguardo quel che è fuori, ci ritrovo ciò che ho dentro, darei tutta la mia vita per riaverti qui un momento.

E non trovo più parole per descriver ciò che sei, ma per renderti felice forse io non basterei.

Alla mia Caterina...

Alessandro

Capitolo 13

Il segnale è molto chiaro. Dovrà uscire dalla finestra dieci secondi dopo il primo sparo. Certo che è molto più facile da dire. Lei non è particolarmente veloce né agile e questo mi preoccupa più della mia stessa vita. Eppure non ci sono altre vie d’uscita. La guardo un’ultima volta, bella e spaventata, prima di andarmene, mio malgrado, dalla stanza. Apro la porta e guardo con attenzione che non ci sia nessuno intorno. La via è libera, purtroppo solamente in direzione del piano superiore, altrimenti il mio sacrificio non sarebbe necessario. Non devo titubare: è per la sua vita. Esco chiudendomi la porta alle spalle. Ripercorro la stessa strada che mi ha portato fino a qui, salendo le scale e tornando al piano superiore, dove ancora si trova il cadavere dell’uomo che ho ucciso pochi minuti fa. Il secondo piano è vuoto come prima. Voglio andare da chi comanda. Non ne ho la certezza, ma la logica mi porta a pensare che possa trovarsi all’ultimo piano dell’edificio: il terzo.

Percorro le scale che mi conducono all’ultimo piano con un’attenzione molto superiore a quella avuta per la rampa precedente. Non conosco niente. Mi muovo lentamente e con circospezione fino a quando la vibrazione del cellulare nella tasca dei miei pantaloni non mi distrae dal mio obiettivo. È Marco Ghirardi. Apro il messaggio con una foga che ben si contrappone alla lucidità utilizzata nei miei movimenti.

“È morto in carcere un anno e mezzo fa: Matteo Sinigaglia non può essere Lorenzo Vignaccia…”

Lorenzo Vignaccia? Chi può essere? Una persona che mi conosce e soprattutto che conosce bene Caterina e sa di noi due ancora insieme. Sì, ma chi? Un fusto di ferro sottile e freddissimo mi accarezza la testa proprio ora che sono così vicino. “Ciao, Vinci.” Questa voce. Non posso non riconoscerla. È in un attimo veloce e ritardatario che tutti i pezzi del puzzle s’incastrano alla perfezione.

Un uomo apparso dal nulla conosce me e Caterina: ottiene sufficienti informazioni per sapere dove, quando e come rapire la mia donna. Mi giro lentamente senza fare movimenti azzardati. “Lorenzo!” “Come stai, amico?” Mi sarebbe bastato chiedere il nome di questo Vignaccia, e forse ci sarei arrivato per tempo, forse mi sarei potuto organizzare e trovare un piano migliore. Invece no. Mi sono fermato ad un cognome mai sentito e ho cominciato a viaggiare, senza nemmeno prendere in considerazione un’ipotesi così reale. I dettagli salvano le vite. “Tu che cazzo ci fai qui, in mezzo a tutta questa merda?” “Soldi, amico. Soldi.” “Sei stato tu a prenderla?” “Sì.” Lo odio dal profondo del mio cuore e vorrei strappargli i testicoli a mani nude, adesso. “Tu sei Vignaccia?” “Sei in ritardo Vinci, davvero.” “Non potevi lasciarla fuori da tutto questo?” “Non ho nulla di personale contro la tua donna, ma credimi, non avevo scelta.” “Vigliacco.” “Stai tranquillo, non tutto è perduto, in fondo ti ho salvato la vita.”

Questa sua ultima frase mi stupisce e mi riaccende un briciolo di speranza di potercela ancora fare. È stato lui? I proiettili sparati ai fratelli Ishitoa sono usciti dalla sua pistola? Mi sta prendendo in giro? “Cosa vuoi dire?” “La tua vita è compromessa, Vinci, ma per Caterina puoi ancora fare qualcosa.” “Cosa vuoi che faccia?” “Fallo fuori.” “Chi?” “Al Jadir Houssain.” Non lo capisco. Lui non è dalla parte di Al Jadir Houssain? “Vuoi che faccia fuori l’uomo da cui hai accettato i soldi per rapire la mia donna?” “Esatto: fai fuori Al Jadir Houssain e Caterina sarà salva.” Che persona viscida: mi ha salvato la vita per farmi finire il lavoro al posto suo. Eppure non ho scelta. “Come faccio a sapere che non ucciderai anche lei?” “Non sa chi sono, a differenza tua, e quando me ne andrò da questo palazzo lei sarà già lontana.” Questo bastardo è furbo.

Sa già che l’ho liberata e probabilmente conosceva il mio piano molto prima che lo mettessi in pratica. È molto più sveglio di Al Jadir e di tutti i suoi uomini. D’altronde è italiano. Non posso far altro che fidarmi di lui. “Tu cosa ci guadagni?” gli domando. “Nella cassaforte al primo piano ci sono cinque milioni di euro, con cui dovrebbe pagare delle armi: mentre tutti i suoi uomini saranno distratti da te, e la tua donna scapperà dalla finestra, io me ne andrò dalla porta principale con il denaro.” “Complimenti, sei geniale.” “Te l’avevo detto che non bisogna mai fidarsi degli avvocati.” La spalla mi suggerisce senza troppa leggerezza di sbrigarmi ad agire o morirò dissanguato. “Va bene, lo farò.” “Occhio alla spalla, non hai molto tempo” continua. Estrae dalla tasca una pistola e me la porge, senza smettere di puntarmi addosso l’altra. La prendo. Se gli sparassi ora tutto il mio piano salterebbe. Che situazione frustrante. Ho lasciato morire una cameriera che avrei potuto salvare, e ora aiuto un criminale a farla franca, e tutto per lei. “Buona fortuna, Vinci.”

Ci guardiamo negli occhi, come se avessimo appena stipulato l’accordo più importante delle nostre vite. Ognuno è nelle mani dell’altro. Mi giro e non lo guardo più. Fatico a impugnare tutte e due le pistole, con il sangue che continua a scendere dalla mia spalla senza tregua. Sono a pochi metri dall’obiettivo. Come immaginavo, mi trovo nel posto giusto. L’unica porta dell’ultimo piano è sorvegliata da due guardie, vestite in modo molto più elegante delle altre. Hanno camicia bianca e giacca nera, e due fisici prestanti. Sono enormi. La pistola è già calda, e se non ci fosse lei, con ogni probabilità non avrei speranze di abbatterli. Il mio piano è abbastanza semplice. Non devo far altro che essere veloce nei pochissimi secondi che avrò a mia disposizione. Avrò poco tempo dopo il primo sparo. Devo mirare alla testa perché potrebbero avere giubbotti antiproiettile sotto ai vestiti. Prendo un respiro profondo e nella mia mente si sovrappongono immagini di tutti i tipi e le date. Tutto ciò che non potrò più avere mi spaventa, ma nulla è paragonabile all’angoscia che ho provato quando ho saputo del pericolo di Caterina. Luca, Adele, Dominov, Flora, Kelly, Fred, Gordon e tutti gli altri mi continuano

a seguire, mentre quel figlio di puttana di Lorenzo sarà a godersi i soldi con le mani pulite. Basta! Esco dal mio angolo e sparo. Sono due colpi veloci, usciti a pochi secondi di distanza l’uno dall’altro. Sembra un’eternità nel mio pensiero, quando sento il sangue fermarsi impedendomi di respirare. È l’unica chance. È l’ultimo momento decisivo. Uno lo colpisco alla testa, mandandolo a terra senza vita, mentre l’altro solo di striscio sul collo, lasciandolo agonizzante e ancora in piedi. Gli sparo di nuovo. Muori! È il segnale. Ora tutti gli uomini che sorvegliano l’edificio verranno qui a cercarmi come gatti con il topo. Caterina può uscire dalla finestra e scappare da questo incubo. Sono agitato più per lei che non per me, a dire la verità, perché non è abituata a tutto questo, mentre io, in fondo, conosco già il finale della mia storia. Apro immediatamente la porta della stanza, provando a immaginarmi che faccia possa avere, il modo in cui potrebbe essere vestito. Dopo mille battaglie vinte, finalmente eccolo. È uno sceicco arabo, proprio come lo immaginavo, abbastanza ridicolo mentre cerca di estrarre dal cassetto della sua scrivania un’arma per difendersi.

Gli sparo ad un braccio. “Alzati subito!” urlo. Lui obbedisce pregandomi di non sparare più. Lo considero già innocuo ma per sicurezza sparo anche all’altro braccio immobile e corto. “Ah!” “Cosa fai?” mi urla. Ora posso avvicinarmi senza temere qualche colpo basso da parte sua. “Chi sei?” “Non sai chi sono?” “No, figlio di puttana.” “Sei malinformato…” È il mio ultimo momento di gloria. Ci vorranno pochi secondi prima che i suoi uomini riempiano la stanza e mi mettano definitivamente in trappola. “Chi sei?” “Alessandro Vinci.” “Sei un idiota” mi dice. “Davvero?” “Arriveranno i miei uomini.” “Lo so.” “Tu sei pazzo!”

“È vero anche questo” gli rispondo senza guardarlo in faccia, ma con l’attenzione alla porta d’ingresso della stanza. Ci sono dei quadri brutti, raffiguranti figure astratte, che spezzano il bianco irritante delle pareti. La moltitudine dei suoi uomini non tarda ad arrivare. Quaranta, o forse cinquanta brutti ceffi mi sono di fronte, riempiendo in qualche secondo la stanza. Ora l’atmosfera è più calda. Non penso di aver mai avuto così tante armi puntate addosso. L’unico motivo per cui non sono ancora morto, è che mi sto facendo scudo con il loro capo. “Il primo che spara è come se uccidesse anche lui!” Premo forte la pistola contro la sua testa. “Non sparate!” grida Al Jadir, con le gocce di sudore che gli scendono dalla fronte sporca. “Non sparate!” insiste ancora. Il suo sudore bagna la pistola. Poi si rivolge a me. “Dove credi di arrivare? I miei uomini ti uccideranno comunque, Vinci.” So bene che le sue parole sono vere. “Hai ragione ancora una volta.” Non capisce il mio gesto, e non potrebbe essere altrimenti. “Pazzo!” mi urla. “Pazzo figlio di puttana!”

È terrorizzato, più di me. Sono solo e non ho la minima speranza di uscirne vivo: ci vorrebbe un colpo di scena, uno di quelli che salvano il protagonista quando tutto sembra perduto. Intanto Caterina sarà già fuori dall’edificio e forse avrà ato il giardino e il cancello. Nessuno sembra pensare a lei, probabilmente perché l’unico obiettivo di tutta questa storia, sono sempre stato io. Devo perdere ancora qualche secondo prima di chiudere il sipario. Non voglio rischiare che venga vista da qualcuno. Sta andando tutto esattamente come dovrebbe, e di questo devo essere fiero. Lei sarà fuori e per un attimo mi balena in testa l’idea di confessare della fuga di Lorenzo con i soldi. Non posso. Rischierei di far prendere anche lei. Non è un finale perfetto ma va bene lo stesso. Forse ce la sto facendo sul serio. Minaccio ancora qualche volta i suoi uomini, con un sorriso arrogante che mi riesce molto bene. Se mi fero una fotografia ora, penso che sarei splendido, come nei quadri di quei pittori di una volta che raffiguravano le scene di battaglie e guerre dei condottieri più valorosi. Io mi sento un condottiero valoroso, non lo nascondo. Sono posseduto da un’adrenalina speciale, di chi è ben conscio che, comunque andrà, il finale sarà quello giusto. La spalla ha ormai perso sensibilità ma non mi serve più perché il traguardo l’ho

già tagliato. Premo di nuovo la pistola alla tempia. “Avete capito che ho io il potere in questo momento?” Gli scagnozzi rimangono immobili, in attesa solamente della mia prima mossa che con ogni probabilità combacerà con la mia condanna a morte. “Sei già morto, Vinci, in ogni caso…” “Taci figlio di puttana...” Lui obbedisce e rimane in silenzio, terrorizzato da quella che potrebbe essere la mia prossima mossa. “Ti faccio una domanda Al Jadir…” Annuisce, senza aprire bocca. Il suo sudore bagna la canna della pistola. Mi piace da morire. “Se tu fossi al mio posto, ora cosa faresti?” È in crisi, completamente fuori controllo. Potrei giurare sul fatto che si sia pisciato addosso. “Lasciami vivo.” Risposta scontata. Sapevo che era una persona banale. “Secondo me non ho motivo di lasciarti vivo… Mi faresti uccidere comunque.” “Non farlo!” m’implora ancora. “Non farlo!”

“Lo farò Al Jadir, puoi giurarci.” Prega, e poi esplode in una rabbia contagiosa, di quelle che ti fanno scendere lacrime e bestemmie nello stesso momento. Non m’importa. Tant’è: così vanno le cose. Certe volte ci ritroviamo ad incrociare la nostra strada quando non servirà più a nulla, ma il solo aver capito ci regala la serenità tanto sperata. Caterina, sto per regalarti la mia vita. Ti auguro di poter trovare qualcuno un giorno che ti voglia come solo io ti ho voluta, che ti sappia meritare più di quanto io non abbia dimostrato e che capisca il dono di averti accanto. Mi sento più leggero, con la consapevolezza di aver dato un senso compiuto al mio tutto. Nessuno ti darà più fastidio, nessuno cercherà più di rovinarti. Abbiamo superato anche questa. Non è facile, ma ci siamo abituati da una vita, una di quelle spese sempre insieme, nonostante tutto. Penso che ci starebbe bene una sigaretta, ora. Vorrei fumare mentre faccio l’unica cosa che mi è rimasta da fare. La estraggo dalla tasca con la mano insanguinata. La spalla intanto ha smesso di farmi male, chiaro segnale che ormai non c’è più nulla da fare. Me la metto in bocca e poi estraggo anche l’accendino. “Che cazzo fai, pazzo figlio di puttana?”

Mi piace sentire la sua paura. Che bello fumarla. È come trovarsi in ospedale in stato vegetativo, in attesa soltanto che qualcuno abbia il coraggio di staccare la spina. Con la differenza che ora la posso staccare da solo. Non manca più molto e la corda è tirata al massimo. È l’ora di andare. Faccio un tiro profondo e penso che lui si renda conto qualche istante prima di quello che accadrà. È un attimo. Lui lo sa. “No Vinci! Ti prego!” “Bam.” La pistola alla testa di quest’uomo, lascia partire il proiettile che gli trafigge il cervello. È quello che merita, ciò che è andato a cercarsi. Non saranno in molti a rimpiangerlo, ma con questo gesto ho vendicato chissà quante persone, ne ho salvate tante altre, e probabilmente il mio nome si perderà nella polvere di questa zona dimenticata da Dio. Ha già smesso di respirare, quando mi riparo con il suo corpo e comincio a sparare all’impazzata, con la convinzione di essere accanto a Dio, al paradiso che ho sempre cercato, alla pace dei sensi. “Andiamo, figli di puttana! Non sapete fare di meglio?” La mia mano continua da sola, scollegata ormai dal cervello che si abbandona come lentamente ogni parte del corpo.

Non saprei dire quanti ne ho colpiti prima di essere abbattuto da una serie infinita di proiettili che mi bucano in ogni punto. Non mi spaventa il dolore, non lo sento neppure. Vedo una luce. Non percepisco nulla. È tutto strano, è tutto diverso. Vedo le cose per come sono. Non perdo il mio sorriso, nonostante il sangue e le pallottole che arrivano da ogni direzione. Non perdo la serenità, quella di aver lottato almeno una volta per qualcosa di veramente giusto. La sigaretta si stacca dalla bocca. Saresti fiera di me. La collanina dorata cade dalla mia tasca, come il fantasma che abbandona il corpo posseduto. Mi accascio a terra senza smettere di pensarti un solo momento. La bellezza di come mi guardavi. È l’ultima immagine che ricordo, l’ultimo istante di pura vita. L’ultimo gesto che mi ha reso il tuo eroe.

Ringraziamenti

Ringrazio Giacomo Garrò per aver creato con tanta pazienza la copertina.

Indice

Il secondo eroe

Poesia

Solo

Capitolo 1

Kain: la Faina

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 3bis

La partenza di Flora

Capitolo 4

Capitolo 4 bis

La partita

Capitolo 5

Solo pochi minuti

Capitolo 6

Flora e la nuova vita

Capitolo 6bis

Gael Dominov

Capitolo 7

Il signor Vignaccia

Capitolo 8

Baiko e Bairei

Capitolo 9

Capitolo 10

Ultime righe

Capitolo 11

Capitolo 12

Le lacrime del principe

Poesia

Capitolo 13

Ringraziamenti

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