Alessandro P. Lanciafiamme, Il Trattato della Discordia Copyright© 2013 Edizioni del Faro Gruppo Editoriale Tangram Srl Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizionidelfaro.it –
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Prima edizione: dicembre 2013
ISBN 978-88-6537-874-8 (Print) ISBN 978-88-6537-937-0 (ePub) ISBN 978-88-6537-938-7 (mobi)
In copertina: Gorilla di montagna, foto dell’autore
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A mio figlio Martin, la stella polare nel mio universo.
Prima Parte
Capitolo 1
Il continuo tintinnio provocato dal termosifone non lo aiutava certamente a conciliare il sonno, anche se sapeva benissimo che questa non era la ragione per cui si era svegliato ansimante e fradicio di sudore. Samuel aveva cominciato ad abituarsi a queste improvvise interruzioni, sempre alla stessa ora, verso le tre, dopo quattro o cinque ore di riposo, sufficienti a non riaddormentarsi immediatamente per stanchezza, ma insufficienti per sentirsi veramente rigenerato il giorno seguente. Dopo tante notti ate a fissare il soffitto aveva ormai imparato quanto fosse inutile restare a letto immobile nella speranza di riaddormentarsi rapidamente. Cercare di distrarsi, ingannare i propri pensieri e uscire dai vicoli ciechi nei quali la mente lo portava in notti come queste, erano gli unici rimedi efficaci. Samuel valutò la possibilità di mettersi a leggere e diede un rapido sguardo alla copertina del libro sul comodino. Purtroppo si trattava di un mattone di seicento pagine sulla storia della Cina che poco si addiceva a rilassare la mente. Inoltre, questa notte il risveglio era stato particolarmente brusco e le sue preoccupazioni troppo razionali per essere ingannate così facilmente. Non gli restava che alzarsi dal letto, accendere il computer e navigare in rete alla ricerca di qualsiasi cosa, il più possibile lontana dai pensieri che lo avevano costretto a interrompere il sonno. Si avviò verso la scrivania posta sotto l’ampia finestra del suo monolocale, tastando con i piedi i dintorni del letto alla ricerca delle pantofole. Non trovandole, camminò scalzo, nonostante la poco piacevole sensazione provocata dal contatto con il pavimento gelido. Come sua consuetudine, non accese la luce e si mosse quindi cautamente al buio attraverso la stanza. Gli occhi si adeguarono lentamente alla poca luce diffusa che proveniva dalla finestra. Era sua abitudine non abbassare le tapparelle prima di andare a letto, permettendo al lieve chiarore dei lampioni stradali di filtrare nella stanza e permettergli di intravedere la posizione dei mobili. Samuel era convinto che l’atto di accendere la luce avrebbe posto irrimediabilmente fine a quella notte di riposo, portandolo inevitabilmente a vestirsi e andare in ufficio ancora in piena notte. Non sarebbe stata la prima volta. Sapeva però che così facendo si sarebbe esposto, l’indomani, a una giornata terribile. Nel pomeriggio avrebbe dovuto combattere
con la stanchezza, e con ogni probabilità il mal di testa sarebbe sopraggiunto prima di sera. Dal suo appartamento aveva una magnifica vista sulla città di Berna e di giorno poteva vedere distintamente all’orizzonte tutta la catena alpina dell’Oberland bernese. Il piccolo condominio di tre piani nel quale viveva si trovava sulle pendici di una ripida collina, in periferia. Aveva scelto d’affittare un monolocale mansardato all’ultimo piano, non solo perché questo lo avrebbe tutelato da eventuali vicini rumorosi, ma soprattutto perché il colpo d’occhio offerto dall’appartamento era ideale per riflettere e portare ispirazione al suo lavoro di giornalista. Samuel, trentatré anni, si era trasferito da pochi mesi da Zurigo a Berna, per motivi di lavoro. Dopo gli studi di giornalismo all’Università di Zurigo, e dopo aver sofferto quasi un intero anno per la ricerca di un primo impiego, era riuscito a ottenere un posto di lavoro fisso, al sessanta percento, presso un quotidiano gratuito molto popolare in tutta la Svizzera, e con sede a Zurigo. Nonostante il giornale fosse indirizzato a una clientela estremamente eterogenea e potenzialmente disinteressata come quella dei pendolari, e malgrado i mezzi a disposizione della redazione fossero limitati, Samuel non aveva esitato nemmeno un istante a cogliere l’occasione, impegnandosi fin dall’inizio molto seriamente nel proprio lavoro. L’abnegazione al lavoro e la sua indole calma e riflessiva lo avevano messo rapidamente in evidenza agli occhi del redattore capo che, suscitando molta sorpresa e una certa dose di invidia da parte dei suoi colleghi, gli aveva assegnato dopo soli sei mesi la responsabilità di seguire i temi legati alla politica nazionale. Siccome lo standard del giornale richiedeva degli articoli molto corti ed escludeva così la possibilità di investire tempo e risorse nello sviluppo di articoli più complessi, era loro consuetudine limitarsi a riassumere le notizie diffuse dalle agenzie d’informazione o già divulgate dai giornali più rinomati del paese. Samuel aveva la capacità di essere molto conciso e preciso nei suoi articoli. In particolare, sapeva eliminare ogni commento o presa di posizione personale che avrebbe minato la neutralità dei suoi articoli. Qualità particolarmente apprezzate in un giornalista che si occupa di politica interna. Inoltre, era riuscito a sviluppare uno stile che attirava il lettore. Metteva sempre l’accento sulle sfaccettature di un avvenimento politico che erano state marginalizzate da altri giornalisti, spesso dando il via ad accese discussioni tra i pendolari, pigiati uno contro l’altro sui mezzi pubblici, o in ufficio tra colleghi durante la pausa caffè. Questa sua capacità, di intuire quali fossero gli elementi di un evento politico che avrebbero influenzato più di altri il futuro del suo
paese, era innata e rappresentava il suo unico patrimonio. Figlio unico, rimasto senza genitori all’età di diciannove anni in seguito a uno sfortunato incidente nautico sul lago di Zurigo, aveva usufruito della copertura finanziaria offertagli dall’assicurazione sulla vita del padre per completare gli studi universitari. Finiti quei soldi, non gli erano rimaste altre risorse a disposizione se non quelle generate dal frutto del suo lavoro. Conscio che il talento può non essere sufficiente a emergere dalla massa, si era anche creato una rete di contatti sulla piazza di Zurigo. Qualche politico locale, ma soprattutto altri giornalisti che gli permisero in più occasioni di accedere a informazioni riservate. Uno di questi contatti era un amico d’infanzia, in seguito compagno di studi, che lavorava presso il giornale domenicale più rinomato del paese. Il suo amico era stato assunto da quest’ambita testata giornalistica subito dopo gli studi, ma non perché fosse particolarmente brillante. Anzi, dopo due anni ati in redazione economica fu relegato a temi di poco conto. Ottenne il lavoro semplicemente perché di buona famiglia e con gli agganci necessari per permettergli un’assunzione rapida e senza sforzo. Raramente Samuel otteneva dall’amico notizie di valore, considerato il ruolo di secondo piano che questi ricopriva al giornale. Eppure, talvolta, l’amico gli comunicava chi si era presentato al giornale per un’intervista o dove si erano recati i giornalisti più esperti alla ricerca di notizie, e ciò gli era sufficiente per intuire che cosa stava bollendo in pentola. Fu la notizia più ordinaria, tra quelle ottenute da questo suo amico, la più importante e in grado di dare una spallata alla linea finora tracciata dal fato, facendolo deviare dal binario monotono e anonimo che stava seguendo, e indirizzandolo verso quella che sarebbe diventata l’esperienza più influente della sua vita. Lo chiamò in ufficio, una sera come tante, mentre era intento a redigere la bozza di uno dei suo articoli condensati fino all’osso, trecento parole, cinquecento solo se candidato alle prime cinque pagine. Immerso com`era nella rilettura non si accorse nemmeno della chiamata. “Si è liberato un posto alla redazione di politica interna, probabilmente irraggiungibile, ma visto che l’annuncio verrà pubblicato non prima di domani, ho pensato di avvertirti comunque. Forse se sei tra i primi a presentarti guadagni qualche punto. Buona fortuna”. Fu il messaggio lasciato dall’amico sulla sua casella vocale. Anche se erano trascorsi già sei mesi da quel giorno, lo ricordava come fosse ieri. Aveva riascoltato il messaggio ben tre volte, senza preoccuparsi di richiamarlo per ottenere più informazioni. Gli bastava ascoltare attentamente il
suono del destino, l’intonazione della voce e immaginare il viso inconsapevole dell’innocente messaggero. Capì immediatamente quanto quella notizia fosse preziosa per lui. Qualcosa dentro di sé, nascosto tra le pieghe più profonde dell’anima, sapeva già tutto e gli permetteva quasi di visualizzare e di proiettare quell’informazione nel futuro, di darle dei volti, di attribuirle dei luoghi e di sentirne i suoni. Avrebbe ottenuto quel lavoro. E infatti lo ottenne. Così, dopo cinque anni di gavetta, venne promosso nella categoria dei professionisti come corrispondente da Berna. Si trattava naturalmente di una nuova dimensione. Il domenicale metteva mezzi quasi illimitati a disposizione dei propri giornalisti di spicco e soprattutto disponeva del bene più prezioso, il tempo. Il periodo di una settimana tra un’edizione e la precedente creava di per sé basi sufficienti allo sviluppo di articoli complessi o di interviste approfondite. Inoltre, gli articoli di successo nascevano dal giornalismo investigativo, che spesso richiedeva di seguire una traccia per settimane, se non per mesi. Lavorare a tali inchieste gli ricordava tanto i romanzi sugli agenti segreti che aveva letto a tonnellate da adolescente, con gli informatori anonimi, la ricerca di prove e testimonianze, e persino le pressioni alle quali erano sottoposti i giornalisti quando rivangavano nel ato di certi personaggi influenti, mettendo a rischio i delicati equilibri di potere tra politica ed economia. Gli scoop del domenicale erano in grado di cambiare le sorti di una votazione, di glorificare oppure affossare all’istante l’operato di un politico, e talvolta anche di mettere in moto la macchina giudiziaria. Tutto questo era chiaramente affascinante e stimolante, ma la costante tensione suscitata dalla segretezza delle inchieste e dalla valutazione dei rischi legati alla pubblicazione delle notizie era anche estenuante e senza tregua. Un grave o falso avrebbe potuto segnare la fine della sua carriera e metterlo sulla strada. L’ambizione e la fretta avevano già spinto molti colleghi a credere ciecamente nella pista che stavano seguendo, pubblicando una storia prima di averne verificato le fonti in modo adeguato. Fonti che poi si erano rivelate fasulle. Samuel doveva ancora imparare a convivere con queste forti emozioni, ma per il momento ne accettava gli effetti collaterali. Infatti, dormiva bene una notte su due. L’accensione del suo computer portatile richiedeva sempre una lunga attesa prima di poter lanciare la navigazione in rete. Samuel approfittò di questo tempo morto per prepararsi una tazza di tè alla menta e sorseggiarla guardando fuori dalla finestra. Solitamente in piena notte la vista dal suo appartamento gli permetteva di
osservare unicamente le luci della città e delle poche vetture in movimento. In rare occasioni poteva essere testimone a distanza di qualche lite tra giovani appena usciti dai locali notturni e condizionati dall’effetto disinibente dell’alcool. Questa notte invece la luna era alta nel cielo e mancavano solo due giorni affinché fosse completamente illuminata dal sole. Il cielo sgombro da nubi gli permetteva di intuire la posizione delle montagne più alte, ricoperte di neve ormai già da settimane. Forse si trattava solo di un’illusione provocata della sua mente, ma avrebbe giurato di poter distinguere chiaramente la sagoma delle tre vette più famose della regione, Eiger, Mönch e Jungfrau. Finalmente il computer fu pronto per iniziare la navigazione in rete, alla ricerca di una qualsiasi isola il più possibile distante dalle sue preoccupazioni. Purtroppo, la pagina iniziale del suo esploratore era impostata sul sito del giornale per il quale lavorava e questo lo riportò immediatamente al punto di partenza e a quei pensieri che lo avevano catapultato fuori dal sonno e dal letto. La prima notizia riportata sul sito riguardava infatti la votazione federale che si sarebbe tenuta l’indomani. La vicenda ebbe inizio due anni prima, quando il partito conservatore, sostenuto da esponenti della borghesia, promosse un referendum popolare con lo scopo di ottenere una legge che limitasse la presenza di stranieri non oltre la soglia del 25%. L’iniziativa popolare venne respinta con il 53% dei voti, ma il fatto che i proponenti avessero sfiorato la vittoria suscitò grande scalpore internazionale e condizionò fortemente la cronaca locale e i dibattiti televisivi per un intero anno. Le critiche all’ala intransigente del partito conservatore, da dove partivano questo tipo di iniziative, erano spesso più di carattere emotivo e morale che non razionale. In particolare, alcuni esponenti dell’amministrazione federale responsabili dell’integrazione degli stranieri nel paese, si espressero in critiche feroci, a volte anche personali e stonate rispetto ai costumi della politica svizzera, tacciando gli esponenti del partito conservatore di essere pronti a tutto pur di cavalcare temi populisti come quello degli stranieri e dell’immigrazione. Non solo l’amministrazione, ma anche la miriade di associazioni di volontariato per l’integrazione degli immigrati, disseminate in tutto il paese e preposte a combattere l’emarginazione delle comunità straniere, si sentirono minacciate dai tanti voti favorevoli all’iniziativa, vissuti come un’amara bocciatura al loro impegno e un segno di sfiducia nei confronti dei risultati da loro ottenuti. In rari casi, l’analisi dell’esito della votazione si spostò dall’area emotiva a quella tecnica, volta ad analizzare l’impatto che il successo di tale decisione
popolare avrebbe potuto avere sull’economia svizzera. Il partito progressista aveva accusato i conservatori di essere degli irresponsabili, in quanto tale misura avrebbe fatto saltare buona parte degli accordi bilaterali firmati con i paesi Europei con i quali vigeva da tempo un trattato di libera circolazione delle persone. Inoltre, ai referendisti veniva rinfacciato che, in tempi di grande competizione globale, limitare la forza lavoro necessaria al paese avrebbe minato la capacità di crescita. Insomma, in modo alquanto anomalo, gli oppositori non si limitarono a prendere atto del risultato, che nei numeri risultava essere una vittoria, ma si comportarono come se avessero perso, ribadendo a ogni occasione i rischi che il successo di tale iniziativa avrebbe comportato per la Svizzera. I quadri del partito conservatore, consci del vero valore del risultato della votazione, che non considerarono una sconfitta, sentirono il vento in poppa in prospettiva delle votazioni federali che si sarebbero tenute l’anno seguente e che li avrebbe portati probabilmente a ottenere il maggior numero di consensi da sempre. Molto diversa fu invece la percezione del risultato alla base del partito. Il malumore salì letteralmente alle stelle. La vittoria era stata nuovamente solo sfiorata, e come se non bastasse, i progressisti insistevano nel condannare pubblicamente l’operato dei membri del partito conservatore, presumendo che fossero i progressisti ad avere il monopolio sulla definizione di integrità ed etica civile. L’elettore medio del partito conservatore era decisamente stanco di appartenere alla frazione politica maggioritaria, che però, data la formula di governo adottata da decenni, si ritrovava numericamente incapace di imporre la propria volontà e il proprio programma al resto della nazione. La formula della concordanza, prevede infatti che tutti i maggiori partiti politici siano rappresentati in governo, che poi collegialmente guida il paese. Questa formula assicura da anni prosperità e stabilità alla Svizzera, in quanto filtro naturale a ogni posizione estrema o decisione affrettata. Il rovescio della medaglia è che coloro che si prefiggono di introdurre misure radicali, da una parte all’altra dello spettro politico, cioè il partito conservatore e quello progressista, vengono spesso relegati a ruoli di secondo piano in governo, e talvolta i loro esponenti, se cronicamente limitati da posizioni ideologiche intransigenti, non vengono neppure eletti dal Parlamento in Consiglio Federale. Il paese si trovò quindi in una situazione ambigua, di grande discordia e malcontento per entrambe le parti politiche. Con quest’ultima votazione si era incrinato qualche ingranaggio essenziale per l’equilibrio politico, e purtroppo non si trattava di un male eggero. Questa situazione portò all’ immobilismo totale, in cui i due partiti maggiori non riuscivano più a negoziare nessun tipo di
compromesso, qualsiasi fosse l’argomento in discussione. Il Parlamento si trovò per mesi completamente bloccato e incapace di trovare soluzioni a problemi politici importanti e urgenti. Il perché tutto questo avvenne proprio in quel momento, fu e rimase senza spiegazione. Difatti una netta divisione delle preferenze politiche all’interno del paese, che si manifestavano talvolta anche a livello geografico, non era per niente una novità e si era già presentata in ato. Eppure, analogamente all’insurrezione sociale che avvenne nel 2011 in molti paesi Nord Africani e del Medio Oriente, dopo decenni di costante sottomissione ai regimi totalitari e brutali dei loro paesi, improvvisamente venne superata una sorta di soglia invisibile di tolleranza, senza che questa fosse percettibile o prevedibile. I vertici dei due partiti, anche se fortemente divisi ideologicamente, si trovarono per assurdo a dover risolvere un problema comune, e cioè quello di riuscire a convincere nuovamente le basi dei rispettivi schieramenti che l’impegno politico avrebbe portato all’attuazione dei programmi di partito, e che era sbagliato considerare ogni sforzo vano. Entrambi si impegnarono a evitare l’imminente rischio di una dissociazione totale tra popolazione e politica. Scenario che avrebbe, a breve termine, portato a un rinnovo radicale del sistema di governo e dei suoi attori principali. Molti politici non sarebbero sopravvissuti al cambiamento, e questo era chiaramente inviso agli interessati. I vertici dei due partiti s’incontrarono dunque per discutere la situazione, e, sei mesi orsono, diedero vita a una delle iniziative più incredibili della storia moderna. In seguito si discusse per anni per ricostruire in modo preciso gli avvenimenti e ricordare da quali menti nacque l’iniziativa, ma inutilmente dato che non furono trovate prove inconfutabili per stabilirlo. La strategia comune dei due partiti era semplice: provocare la nazione con un’iniziativa popolare talmente assurda, che non avrebbe mai raggiunto la maggioranza, ma in grado di mitigare i toni della discussione e riportare la scena politica alla ragione. La votazione sull’iniziativa “per la scissione della Svizzera in due regioni autonome” era prevista per l’indomani. La cosiddetta “soluzione” alla situazione di stallo in cui si trovava il paese era quella di dare la possibilità a entrambe le ideologie politiche di realizzarsi immediatamente, dividendo la nazione in due. I commenti che Samuel stava leggendo in rete, rilasciati da politici appartenenti
ai due schieramenti, erano tutti molto simili e ridondanti: “votazione sostanzialmente assurda”, “risultato scontato”, “perdita di tempo e di denaro pubblico”. Per di più, dato che nessun politologo aveva accreditato all’iniziativa la benché minima probabilità di riuscita, la televisione di stato aveva addirittura rinunciato a commissionare gli abituali sondaggi, ritenuti in questo caso assolutamente inutili. Alle quattro del mattino Samuel cominciò a dubitare seriamente di riuscire a dormire almeno altre due ore prima di recarsi in ufficio. Si trattava della prima consultazione popolare importante alla quale assisteva da quando si era trasferito a Berna. Avrebbero letto in molti i suoi articoli ed era consapevole di quanto fosse importante fare centro alla sua prima prova. Domani avrebbe avuto un sacco di lavoro e la giornata sarebbe volata senza permettergli un attimo di tregua. Decise così di rimettersi a letto e ascoltare musica classica, selezionata con cura per questi momenti. Forse non sarebbe riuscito a prendere sonno, ma senz’altro la musica lo avrebbe aiutato a distendere i nervi. Tornato a letto, mentre si rimboccava le coperte, ebbe per una frazione di secondo il presentimento di ciò che sarebbe accaduto il giorno seguente. Non fu in grado di stabilire quale fosse la causa di quella sensazione: forse la grande facilità con cui vennero raccolte le firme utili per la convalida dell’iniziativa o, forse, i numerosi appelli a questa favorevoli pubblicati sui social network. Non vi diede comunque molto peso. Si sentiva stanco e desiderò una cosa soltanto. Quasi per miracolo, si riaddormentò nell’arco di pochi minuti.
Capitolo 2
La chiesa cattolica del quartiere era molto vicina alla palazzina nella quale viveva Samuel e il campanile era distante non più di una ventina di metri in linea d’aria dalla finestra del suo appartamento. Il suono martellante e prolungato delle campane, che ricordava ai fedeli l’imminente inizio della messa domenicale, lo svegliò di soprassalto. La sveglia, che probabilmente aveva compiuto il suo dovere suonando la carica ogni quindici minuti dalle sette di mattina, si era arresa al sesto tentativo e indicava ora le 10:15. Balzò immediatamente in piedi e constatò come il battito del cuore fosse ato dal torpore del sonno al ritmo tambureggiante scatenato dall’improvvisa iniezione d’adrenalina. Scartò l’opzione di vestirsi in tutta fretta e correre subito in ufficio. Oggi avrebbe incontrato molte persone importanti e molte delle quali per la prima volta. Samuel aveva imparato quanto la prima impressione fosse decisiva per il futuro di ogni tipo di relazione, e lui in particolare non poteva certo permettersi di arrivare in redazione trasandato come se avesse appena terminato una lunga notte di festeggiamenti con gli amici. Radersi, rinfrescarsi rapidamente sotto la doccia e indossare il completo e la cravatta che aveva selezionato la sera precedente, erano gli inevitabili minimi termini del rituale mattutino al quale non poté sottrarsi. Avrebbe pensato a mangiare e bere qualcosa per strada o in ufficio. Mezzora più tardi era lanciato a tutta velocità lungo la rampa delle scale. All’uscita dal condominio per poco non scaraventò a terra l’anziana coinquilina del primo piano, che aveva varcato la porta d’entrata proprio in quel momento. La signora Schwarzenbach, che viveva ormai sola da molti anni, era molto cordiale e non si faceva scappare nessuna occasione per scambiare due parole. Ciononostante Samuel ebbe spesso l’impressione che tale cordialità, quantomeno nei suoi confronti, fosse alquanto forzata e percepiva in alcune espressioni e intonazioni della voce come l’anziana signora celasse pensieri non sempre in sintonia con il suo gracile apparire. “Buongiorno Samuel, come mai tutta questa fretta?”
“Buongiorno signora Schwarzenbach, purtroppo questa mattina non ho sentito la sveglia e adesso sono terribilmente in ritardo”. Samuel avrebbe preferito troncare subito il discorso e non perdere altro tempo prezioso, ma non volle essere sgarbato e quindi aggiunse: “È andata a fare la spesa al mercato questa mattina?” “Samuel, oggi è domenica. Probabilmente non sei ancora del tutto sveglio. Sono andata a votare. Ti sei forse dimenticato? Il referendum per separare il paese tra conservatori e progressisti”. Mentre lo diceva Samuel notò il quasi impercettibile movimento delle sopracciglia e degli angoli della bocca, tipici di chi reprimere un sorriso. “Tu sei svizzero, vero? Non vai a votare? Il comune chiude i seggi a mezzogiorno, se ti sbrighi dovresti fare ancora in tempo”. “Sì, ho il aporto svizzero, e chiaramente sarei dovuto andare a votare, ma mi aspettano in redazione e quindi oggi eccezionalmente non voto”. Mentre rispondeva Samuel poté leggerle chiaramente i pensieri, come se fossero apparsi a caratteri cubitali sulla fronte dell’anziana coinquilina. La signora Schwarzenbach, come molti suoi coetanei, pensava che tutti coloro che avevano ottenuto la cittadinanza in generazioni recenti, in seguito all’immigrazione dei loro genitori o dei nonni, non fossero in grado di percepire fino in fondo valori e doveri che ogni confederato è chiamato a rispettare. D’altronde, anche suo padre, se fosse stato ancora in vita, lo avrebbe redarguito severamente. Spesso, infatti, egli amava ricordargli come in molti paesi la democrazia era stata ottenuta con il sacrificio d’innumerevoli vite, o fatto ancora più grave, come altro sangue sarebbe stato ancora versato per porre fine alle dittature che ancora oggi opprimono tanti popoli. La signora Schwarzenbach rinunciò a una replica e si avviò verso i pochi gradini che la separavano dal suo appartamento. “Beh, allora muoviti e non perdere altro tempo con me. Sono curiosa di scoprire cosa scriverai nei tuoi articoli, la settimana prossima”. Dopo essersi liberato della signora Schwarzenbach, Samuel si rimise a correre in direzione della linea del tram che lo avrebbe portato in centro. Era quasi arrivato alla fermata più vicina, purtroppo deserta, segno probabile di come il tram numero tre doveva essere ato da pochi minuti, quando vide dall’altra parte
della strada la sagoma inconfondibile di un taxi in sosta, con due ruote sul marciapiede. Il conducente stava aiutando un cliente a togliere due grosse borse da viaggio dal baule per poi trasportarle faticosamente fino all’entrata di casa ed evitando che si sporcassero al contatto con il terreno. Incassata la corsa, il conducente si appoggiò al cofano della sua berlina, sfilò dal taschino della giacca una sigaretta che cercò di accendere proprio nell’istante in cui Samuel gli piombò addosso. “Devo andare alla sede del Giornale Domenicale in Schauplatzgasse 10, e sono terribilmente in ritardo” gridò Samuel attraversando la strada di corsa. Il conducente, quasi spaventato, lasciò cadere l’accendino e si preparò a spiattellare una qualsiasi scusa, pur di evitare un cliente stressato, la domenica mattina, e che soprattutto gli avrebbe fatto saltare la meritata pausa. L’uomo, di costituzione piuttosto robusta, probabilmente abituato a muoversi sempre e solo in macchina, non lo guardò nemmeno, intento com’era a rianimare l’accendino, e gli rispose in tedesco con un forte accento portoghese. “Mi dispiace, ma ho finito ora il turno di lavoro. Posso però are la chiamata a un collega, se non le dispiace attendere qualche minuto”. “La prego, sono seriamente nei guai. Mi devo presentare in ufficio al più presto. Inoltre di domenica mattina a Berna potrebbe volerci un’eternità prima di trovare un altro taxi libero”. A questo punto il conducente, che era finalmente riuscito ad accendere la sigaretta, alzò lo sguardo in direzione di Samuel, evidentemente seccato da tale insistenza. Forse un po’ divertito dall’aspetto ansioso e scompigliato del giovane, l’uomo rilassò subito i muscoli del volto, abbozzando un sorriso. “D’accordo, ma a due condizioni: non faccio nessuna corsa oltre i limiti di velocità e finisco di fumare la sigaretta in macchina, intesi?” Senza attendere risposta il conducente si mise alla guida e Samuel prese posto al suo fianco. In dieci minuti al massimo sarebbero arrivati alla sede del giornale. Nonostante tutti i pensieri di Samuel fossero rivolti all’inevitabile sfuriata che avrebbe subito dal redattore capo al suo arrivo in ufficio, non riuscì a impedirsi di scambiare due parole con l’improvvisato benefattore. Ricordò un politico navigato che alla fine di un’intervista gli aveva spiegato quanto fosse importante non farsi scappare nessuna occasione per saggiare gli umori e le preoccupazioni
della gente comune, unica autentica fonte d’ispirazione per una politica al o con i tempi. Politici, giornalisti, imprenditori, o forse più in generale tutti coloro che sognano di ottenere l’apprezzamento delle masse, dovrebbero saper far tesoro di tale insegnamento. “La ringrazio di cuore, con il tram avrei senza dubbio perso almeno mezzora di tempo prezioso”. E aggiunse: “Mi è parso di sentire un accento portoghese, o sbaglio? Vive da molto tempo in Svizzera?” Il tassista, abituato a clienti spesso taciturni, che si limitavano a descrivere la destinazione della corsa per poi concedere uno sfuggevole saluto appena giunti a destinazione, fu ben lieto di poter rompere la monotonia e conversare un po’ con Samuel. “Sì, sono portoghese e sono immigrato in Svizzera con mia moglie venticinque anni fa. Dapprima abbiamo vissuto a Zurigo, poi, dopo dieci anni, ci siamo trasferiti a Berna”. Samuel era spesso diretto e indiscreto nelle sue domande, particolarmente con gli sconosciuti, anche se questo suo agire normalmente non indispettiva i suoi interlocutori. Essi riconoscevano la sua innata capacità di porre qualsiasi domanda in modo così naturale e conciliante, e in un certo senso ne venivano come sedati. Salvo rare eccezioni, questo metteva chiunque a proprio agio in pochi minuti. “Se ci ripensa oggi, cosa le ava per la mente, venticinque anni fa, lasciando il Portogallo per la Svizzera? Immaginava di restare tanti anni lontano dalla sua terra d’origine?” gli chiese Samuel. Il tassista tolse per pochi secondi lo sguardo dalla strada e scrutò divertito il viso dell’insolito cliente. “Avevamo poco più di vent’anni, non pensavamo a un bel niente, né sapevamo che cosa ci aspettava in Svizzera o per quanto tempo saremmo rimasti. Tutto quello che volevamo sentirci dire dai nostri compaesani che tornavano per le feste Natalizie era che avremmo sicuramente trovato un lavoro in quella nazione. A quei tempi, questo era sufficiente per fare le valigie e prendere il primo treno diretto verso il centro dell’Europa”. Accortosi che Samuel era ancora in attesa, aggiunse:
“Erano altri tempi, mia moglie e io trovammo lavoro a Zurigo, entrambi, e casa, tutto nell’arco di due giorni. Incredibile no? Oggi solo per trovare l’appartamento ci vorrebbero mesi”. “Insomma, era un po’ come partire per l’America, ma ci si poteva arrivare in treno” commentò Samuel. “Sì e no, fu molto facile trovare un impiego e ottenere i documenti necessari a regolarizzare la residenza, ma non tutto era poi così idilliaco. Innanzitutto la lingua rappresentava una barriera molto difficile da sormontare. Io avevo appena ottenuto una licenza in letteratura portoghese all’Università di Lisbona e pensai di dovermi solo adeguare temporaneamente alla professione del tassista”. “Mi ci vollero all’incirca dieci anni per capire che non si trattava di una soluzione temporanea” concluse con un po’ di amarezza dipinta sul volto. Samuel esitò un istante prima di continuare il discorso, in fondo non voleva esagerare nell’essere indiscreto. Eppure la sua naturale curiosità lo induceva a scavare oltre nel copione di questo tipo di storie, così aggiunse: “Quindi ci sono stati dei periodi in cui avete valutato la possibilità di rientrare in Portogallo?” “Certo, quasi ogni anno ne abbiamo discusso” fu la pronta risposta. “Anche se poi abbiamo avuto dei figli, che sono nati e cresciuti in Svizzera. Per loro andare in Portogallo in vacanza significa andare all’estero. Questo cambia tutte le prospettive. Chissà, forse da pensionati torneremo in Portogallo, anche se ci credo poco. Mia moglie non riuscirebbe a staccarsi dai figli per più di un mese. Con l’arrivo imminente di qualche nipote poi, lo escludo”. “Me la immagino come una situazione strana, una sorta di compromesso che condiziona tutta la vita” fu la riflessione di Samuel ad alta voce. “Insomma, dopo tanti anni si sente infine completamente parte del mondo che la circonda, oppure il fatto di non essere svizzero la condiziona ancora?” “Bella domanda, sì e no. Abbiamo acquistato un bel appartamento, abbiamo le nostre abitudini e il nostro giro di amici abituali. I figli hanno potuto godere del sistema scolastico svizzero al pari degli altri, e ora hanno successo nelle professioni che si sono scelti. Insomma, straniero o no, lo rifarei senza ombra di dubbio”.
Poi dopo qualche esitazione aggiunse: “Ma questo non è quello che voleva sapere, vero? Diciamo che spesso dimentico di non avere la cittadinanza svizzera, finché non mi viene implicitamente o esplicitamente fatto presente. Le faccio un esempio. La radio questa mattina non fa altro che parlare di questa iniziativa per separare il paese tra progressisti e conservatori. Ebbene il nodo della questione è chiaro. C’è chi è disposto a condividere il paese con uno come me, e chi no. Naturalmente, in queste occasioni mi piacerebbe stare dalla parte di chi non deve vivere tali dibattiti come un affronto. Oltretutto da spettatore, dato che non posso votare”. La berlina ò in quel momento a fianco di Piazza Federale dove Samuel poté osservare il formicolio provocato dai colleghi di diverse testate giornalistiche, intenti ad accaparrarsi per un’intervista lampo qualche politico diretto a Palazzo Federale. Arrivati alla sede del giornale, Samuel lasciò una generosa mancia al tassista e corse in direzione dell’ascensore che lo avrebbe portato in ufficio. Vide che c’erano troppe persone in attesa, per cui scelse di salire al terzo piano a piedi. Questo gli avrebbe permesso di entrare in ufficio da un’entrata secondaria e forse, con un po’ di fortuna, nessuno si sarebbe accorto del suo ritardo. Con molta cautela aprì la porta d’emergenza che lo avrebbe immesso in ufficio e per qualche istante rimase a osservare l’andirivieni dei suoi colleghi. Avevano tutti un’espressione strana, a metà strada tra l’angosciato e il divertito. “Non pensarci nemmeno Samuel, non è questo il momento di andare a comprare un panino” tuonò la voce del redattore capo alle sue spalle, evidentemente convinto che Samuel avesse indossato il mantello per uscire e andare a comprare qualcosa da mangiare per pranzo. “Ci troviamo tutti alle 12:30 in sala riunioni per guardare in diretta televisiva l’annuncio dei dati sulla partecipazione alla votazione” aggiunse prima di scomparire dietro la porta del suo ufficio tallonato dai soliti due leccapiedi. Tutto questo era piuttosto strano e Samuel si chiese quale fosse la ragione di tanta agitazione. Perché organizzare una riunione straordinaria semplicemente per commentare i dati sull’affluenza? Decise di andare a parlare con Peter, un collega prossimo alla pensione con cui aveva instaurato un ottimo rapporto sin dai primi giorni di lavoro.
“Ciao Peter, sono terribilmente in ritardo e sono appena arrivato” sussurrò Samuel per non farsi sentire da nessun altro. “Ah, hai fatto bene, questa mattina sarei rimasto a letto pure io” rispose Peter, mentre si stiracchiava sulla poltrona posta a fianco della macchina del caffè. “Cos’è successo, perché tanta agitazione?” gli chiese Samuel. “Non ti preoccupare, non ti sei perso niente di importante” spiegò Peter intuendo la nota di apprensione che affliggeva il giovane collega. “È per via di quest’assurda votazione popolare per separare il paese in due. Questa mattina degli attivisti di sinistra hanno pubblicato in rete un sondaggio ufficioso che indicherebbe una maggioranza di voti a favore dell’iniziativa”. Vedendo l’effetto negativo che la notizia ebbe su Samuel, ancora prigioniero del senso di colpa per non avere sentito la sveglia, Peter aggiunse: “Non mi fraintendere, quest’iniziativa non erà mai. Un sondaggio di questo tipo non è solo illegale, in quanto reso pubblico con i seggi ancora aperti, ma soprattutto non corrisponde di sicuro alle reali intenzioni di voto. Immaginati un po’ di essere intervistato all’uscita dal seggio elettorale da una banda di alternativi dall’aspetto poco rassicurante, cosa faresti? Probabilmente diresti loro di aver votato così come speravano, no? Non è un segreto che la sinistra estrema è a favorevole all’iniziativa, ma questo non significa niente”. “Sarà, io comunque fin da ieri sera ho una strana sensazione” replicò Samuel. “Bevi questo, mi sembra che tu ne abbia bisogno” disse Peter porgendogli una tazza fumante di caffè nero. “Beh, andiamo, la riunione sta per iniziare. Comunque, secondo me, ti preoccupi per niente” aggiunse Peter divertito dall’agitazione generale per quella che secondo lui era una notizia da relegare in ultima pagina. Il televisore a schermo piatto, appeso alla parete in fondo alla sala riunioni, stava già diffondendo la sigla della trasmissione elettorale. La sala era stracolma e non c’erano più sedie libere. Mentre il redattore capo era intento ad alzare il volume, in modo da zittire tutti i presenti e attirare la loro attenzione, Samuel e Peter presero posto in piedi vicino a una delle finestre. Dopo una rapida introduzione, la commentatrice ò subito all’annuncio dell’affluenza: “Signore e signori, l’iniziativa – per la scissione della Svizzera in
due regioni autonome – ha ottenuto un’affluenza storica, la più alta mai registrata. Questa mattina, il 90% degli aventi diritto di voto è andato a votare”. Tutti senza eccezione fissarono il redattore capo, in attesa di un commento. Questi abbassò il volume del televisore, ignorando le domande che la commentatrice stava ponendo agli ospiti della trasmissione, e si mosse lentamente verso il centro della stanza. L’uomo stava visibilmente ponderando il significato di tale storica partecipazione al voto e le parole che avrebbe scelto per il suo commento. “Colleghi, il minimo che si possa dire è che vi ricorderete per sempre questa giornata, quantomeno per il dato sull’affluenza. Ricordo ai colleghi più giovani che in genere l’affluenza non supera nemmeno il 50%. Questo indica che i referendaristi hanno toccato sul vivo l’anima di tutti gli svizzeri, tanto che, probabilmente, solo indisposti o ammalati hanno mancato il voto”. “O gli idioti che non si sono svegliati” pensò Samuel amaramente. Il redattore capo aggiunse dopo una lunga pausa: “È difficile intuire che impatto possa avere una tale affluenza sull’esito della votazione. Vi invito quindi a non affrettare conclusioni. È però indiscusso che il ritorno mediatico di tale votazione sarà in ogni caso ben più ampio di quello che avevamo previsto”. A questo punto lanciò uno sguardo fulminante a uno dei suoi due fedeli leccapiedi, quello responsabile di sviluppare la strategia del giornale. “Questa sera ne parleranno i telegiornali di mezzo mondo e probabilmente avremo materiale per scrivere interviste e approfondimenti per almeno due o tre edizioni del giornale. Insomma, vi voglio tutti al più presto in campo a raccogliere informazioni. Andate a Palazzo Federale, presso le sedi dei partiti, sotto casa di qualche personaggio di spicco, insomma ovunque possiate captare le prime reazioni che seguiranno all’annuncio dei risultati del voto e cercate di assicurare al giornale qualche intervista in esclusiva. Adesso andate, all’uscita troverete una lista con i vostri nomi e la destinazione che vi è stata assegnata. Tra cinque minuti voglio vedere la redazione vuota”. Samuel che aveva finito di sorseggiare il caffè durante la breve riunione, si stava accingendo a lasciare la stanza con gli altri, quando si trovò davanti il redattore capo a sbarrargli la strada. “Vieni con me, ti devo parlare”. “Accidenti, si è accorto della mia assenza questa mattina” fu il primo pensiero di
Samuel, mentre seguiva il capo lungo il corridoio che portava al suo ufficio. Il redattore capo fece segno ai due leccapiedi di restare fuori e chiuse la porta dell’ufficio prima di parlare. “Ahia, qui marca male” pensò Samuel ormai rassegnato a subire l’imminente sfuriata. Il capo aveva due occhi color ghiaccio, simili a quelli dei lupi. Molto raramente guardava i suoi interlocutori negli occhi, anzi, quasi mai. Nelle rare occasioni in cui di sfuggita fissava le pupille di chi gli stava di fronte, il sangue gelava immediatamente nelle vene. “Ascolta, non so bene cosa stia succedendo, ma inizio ad avere il presentimento che abbiamo sottovalutato questa storia del referendum. Tu cosa ne pensi?” Samuel, che si aspettava una ramanzina piuttosto che la richiesta di analizzare la situazione, fu preso alla sprovvista ed esitò parecchi secondi prima di rispondere. Da quando si era svegliato quella mattina, era il primo momento in cui poteva riordinare le idee e formulare una chiara opinione: “Quasi tutti gli esperti danno l’esito della votazione per scontato, ma questo contrasta chiaramente con i dati dell’affluenza. Perché sprecare del tempo prezioso, di domenica mattina, per andare a votare, se l’esito è scontato?” Il capo guardava fuori dalla finestra, ma Samuel sapeva che lo stava ascoltando attentamente, così aggiunse: “Anche se le probabilità restano molto basse, infatti la proposta dovrebbe ottenere la maggioranza dei voti e dei cantoni per are, resta il fatto che se questo si realizzasse sarebbe un risultato clamoroso e storico. Insomma, se dovesse are, i libri di storia ne parlerebbero come l’evento del secolo, se non del millennio, per questo piccolo paese”. “Esattamente” commentò il capo sempre intento a fissare un punto indefinito sulla parete del palazzo di fronte. “Il fascino di contribuire a scrivere una pagina di storia può aver offuscato la ragione a molte persone. E questo non lo aveva previsto nessuno”. “Samuel, devi andare alla sede della televisione di stato. Sono i soli autorizzati ad annunciare ufficialmente le prime proiezioni. Otterranno le informazioni qualche minuto prima dell’annuncio televisivo, alle 14:00. Voglio che tu sia in contatto diretto e continuo con la nostra redazione. Possiamo offrire molti soldi
ad alcuni politici di peso per assicurarci delle interviste in esclusiva e il loro commento sugli esiti della votazione, ma chiaramente non vogliamo buttare via le nostre risorse finanziarie per niente. Devo capire al più presto se l’iniziativa ha delle possibilità concrete di ottenere un largo consenso, o se invece tutta questa storia è destinata a rimanere un fuoco di paglia. Quindi vai subito alla sede della televisione e, non appena i dati arrivano in regia, cerca di intuire che aria tira. Il regista della trasmissione è un mio amico di vecchia data ed è già informato del tuo arrivo. All’entrata degli studi televisivi ti aspetta un lasciaare che ti permetterà di muoverti liberamente. Ora per favore vai e non perdere tempo”. Samuel che come di consueto si sentiva a disagio nella “tana del lupo”, espressione adottata dai colleghi per ribattezzare l’ufficio del capo, non se lo fece ripetere due volte e uscì dalla stanza a o di corsa. Agli studi televisivi tutto si svolse come previsto. Gli occorsero infatti pochi minuti per ottenere il lascia are, arrivare fino allo studio della trasmissione elettorale e prendere posto in cabina di regia. Samuel si sedette in fondo per non ingombrare il aggio e ottenere una visione d’insieme delle inquadrature e di quello che accadeva nella stanza. Pochi minuti dopo entrò in cabina di regia l’annunciatrice della trasmissione, per chiarire con il regista gli ultimi dettagli sulla cronologia delle interviste e dei documenti filmati. Samuel aveva già visto la donna centinaia di volte alla televisione, perché era una delle annunciatrici del principale telegiornale serale, ma quella era la prima volta che la vedeva dal vivo e si accorse di quanto fosse affascinante, ancor più di quello che già si poteva intuire attraverso il piccolo schermo. Nonostante i suoi quarant’anni, la giornalista poteva sfoggiare un fisico da ventenne e il suo sguardo deciso, e dolce al tempo stesso, incantava tutti. Tra i giornalisti erano molto diffusi i pettegolezzi secondo i quali chiunque aveva lavorato con lei se n’era prima o poi innamorato. Si diceva infatti che tutti coloro che l’avevano fissata per ore allo schermo, con il are del tempo erano caduti ai suoi piedi, come ipnotizzati. In particolare, non c’era nemmeno un cameraman che era riuscito a non imbambolarsi in prolungati primi piani, rendendo così palese il volontario tributo alla sua bellezza. La cosa si era ripetuta così spesso da costringere la direzione a rimpiazzare la maggior parte dei cameraman maschi della trasmissione con personale femminile. Da allora i primi piani erano diminuiti notevolmente, e talvolta non erano nemmeno perfettamente a fuoco. Dopo un breve colloquio col regista, durante il quale a dire il vero parlò
unicamente lei, mentre lui in trance si limitava ad annuire, concordarono le modalità di annuncio delle prime proiezioni. I risultati sarebbero arrivati in regia direttamente dalla sede dello scrutinio e il regista le avrebbe ato l’informazione a trasmissione in corso, attraverso l’auricolare. Uscendo dalla stanza la donna si accorse della presenza di Samuel e gli indirizzò un sorriso malizioso mentre scrollava i lunghi capelli castani con un movimento deciso del collo. Per qualche istante Samuel fantasticò all’idea di avvicinarla alla fine della trasmissione e presentarsi, ma poi censurò l’idea consapevole di come il canto delle sirene ammaliatrici avesse già posto fine al viaggio di tanti marinai, bloccandoli sugli scogli a volte per sempre. Questo avveniva ai tempi di Ulisse, come ancora oggi capita ai capitani delle grandi navi da crociera. Alle 13:30 la conduttrice diede il via alla trasmissione ricordando l’altissima percentuale di partecipanti al voto. Benché la notizia suscitasse ancora qualche stupore tutti erano piuttosto rilassati e in sala regia non mancarono battute di spirito sulla scollatura sfoggiata dalla giornalista. Per riempire la mezzora che li separava dall’annuncio delle prime proiezioni, vennero invitati in studio due dei corrispondenti esteri della televisione di stato, uno da Praga forniva notizie per l’intera area dei paesi dell’est, e l’altra che da Bruxelles si occupava principalmente di commentare le riunioni della Commissione Europea. Si cercavano infatti analogie tra il referendum svizzero, il processo di scissione della Cecoslovacchia in due nazioni avvenuta nel 1993 e la scampata scissione del Belgio in seguito alle elezioni del 2010 che avevano portato il partito dei secessionisti delle Fiandre a ottenere ben un terzo dei consensi. La pianificazione di tale interviste non nasceva da un’azzeccata premonizione per quello che sarebbe successo, anzi, dato che tutti consideravano il risultato scontato, puntarono su una discussione che mirava ad analizzare le ragioni per le quali l’iniziativa sarebbe stata bocciata, ancor prima che lo scrutinio delle urne avesse avuto inizio. Seguendo questo copione, la giornalista commentò l’intervento dei suoi ospiti ricordando che gli esempi della Cecoslovacchia e del Belgio erano entrambi il frutto di diatribe territoriali e linguistiche e che una scissione sostanzialmente ideologica, tale era quella prevista dal referendum svizzero, non aveva precedenti in tempi recenti. Mancavano ormai pochi minuti alle 14:00, i dati sarebbero arrivati in regia da un momento all’altro. L’annunciatrice riempì il momento di attesa ricordando le modalità di voto: “Ogni cittadino svizzero è stato chiamato questa mattina a decidere sulla scissione del paese in due regioni, una conservatrice e una progressista. In prospettiva di un eventuale successo dell’iniziativa, il
referendum includeva anche la seguente domanda: Se l’iniziativa dovesse are, vorreste vivere in:
una Svizzera a carattere conservatore, o una Svizzera a carattere progressista?”
L’anonimità del voto non era naturalmente stata messa in discussione, in quanto tale domanda aggiuntiva era stata concepita unicamente come sondaggio statistico, per chiarire le proporzioni dei due schieramenti superpartitici. Finalmente squillò il telefono in sala regia. Era la sede centrale di conteggio dei voti, confermò il regista ai suoi collaboratori con un rapido movimento della mano, mentre ascoltava i dati riguardanti le prime proiezioni. Il regista pose la cornetta senza ne ringraziare ne salutare il suo interlocutore e rimase come interdetto per almeno un minuto intero. L’annunciatrice, che era evidentemente a corto di argomenti per alimentare la diretta, era alquanto spazientita e aveva ormai già ripetuto tre volte la richiesta di delucidazioni da parte delle regia. Il regista si avvicinò al microfono che lo connetteva all’auricolare della donna e con un tono di voce quasi impercettibile le annunciò: “Katja, i dati sono arrivati”. Queste parole distesero i tratti del viso della donna che apparì nuovamente padrona della situazione. Poi aggiunse: “Le prime proiezioni danno l’iniziativa per ata al 88%, il 35% è favorevole a una Svizzera a carattere conservatore e il 65% si schiera con la parte progressista”. L’espressione della donna ò gradualmente dallo stupore al terrore. Era consapevole del fatto che la sua faccia e quello che avrebbe detto da lì a poco sarebbero stati legati per sempre a questo avvenimento. Dopo un lungo istante d’immobilità, in cui fissava la telecamera come se si fosse trattato di un fucile da caccia, si decise a parlare, ma il corpo non seguì le direttive della mente e la bocca non si mosse nemmeno di un millimetro. Il regista, ripresosi a sua volta a fatica dallo stupore provocato dalla notizia, cercò di rianimare la giornalista chiamandola per nome ripetutamente attraverso l’auricolare, ma era ormai troppo tardi. Dapprima le si annebbiò la vista e in seguito la donna svenne scivolano sotto la scrivania e lasciando il campo dell’inquadratura
completamente vuoto. Samuel a questo punto spedì un breve messaggio al redattore capo comunicandogli i risultati e suggerendo di assicurarsi il più possibile di interviste esclusive. Dopo qualche momento di panico, in cui gli assistenti di studio controllarono che la donna stesse bene facendole riprendere i sensi, fu il regista stesso a presentarsi in studio. Prese posto davanti alle telecamere e annunciò in modo solenne la notizia ai telespettatori, senza aggiungere alcun commento. Pochi secondi dopo la trasmissione venne chiusa.
Capitolo 3
La mattina seguente Marcel Schmidt si svegliò di buonora, nonostante i festeggiamenti si fossero protratti fino a notte inoltrata. Il “vecchio volpone”, così soprannominato sulla scena politica nazionale, era seduto sulla sua poltrona preferita, posta a fianco dell’antico camino e orientata verso la grande finestra del salotto che permetteva di dominare sino a perdita d’occhio il panorama del Canton Appenzello Interno. Le verdi colline dell’Appenzello si distendono come onde gigantesche, ma gentili, di un mare tranquillo. Un oceano per niente intento a imporre la propria potenza, ma piuttosto volto a ipnotizzare e rilassare la mente. Il paesaggio, costituito da una natura intatta ma tutt’altro che selvaggia o casuale, bensì scandita dalla presenza e dal frutto del lavoro di molte fattorie, anch’esse curate nei minimi dettagli, seduce l’occhio suggerendo un mondo di fantasia, un dipinto che a stento l’occhio riconosce come reale. L’Appenzello è infatti un piccolo paradiso per tutti coloro che amano la natura, l’ordine e le tradizioni, e detestano le grandi città con la loro frenesia tecnologica e umana. La piccola Heidi, famosa eroina delle Alpi svizzere, avrebbe potuto correre indisturbata sui manti erbosi delle colline di questa regione e perfino lo scrittore di Alice nel paese delle meraviglie ne avrebbe probabilmente potuto ambientare un episodio del suo famoso racconto. “Com’è possibile non augurarsi di mantenere tanta perfezione intatta, incontaminata da tutto e da tutti?” si chiese Marcel Schmidt, come d’altronde aveva già fatto molte altre mattine dei suoi settantuno anni. Come biasimarlo per un tale pensiero? I suoi genitori, contadini e proprietari terrieri, non avevano mai avuto problemi finanziari. I terreni che possedevano da generazioni non fecero altro che apprezzarsi nel corso dei decenni, finché alcuni comuni ne richiesero una parte da adibire a zona abitabile per poter far fronte a un forte aumento della popolazione, dovuto anche alla forte immigrazione. La vendita dei terreni, negli anni settanta e ottanta, rese la famiglia da benestante a notevolmente ricca. Persino nei periodi bui della seconda guerra mondiale, la famiglia Schmidt ebbe la fortuna di incrementare il valore delle proprie aziende
agricole. Risparmiata dall’invasione dei nazisti, la Svizzera dovette comunque fare i conti con le restrizioni imposte dal conflitto che la circondava Alla popolazione rimase unicamente la produzione agricola nazionale come fonte di sostentamento. Durante quegli anni la Confederazione intervenne, e la superficie coltivata aumentò del 70%. I campi di patate raddoppiarono, raggiungendo nel 1944 una superficie quattro volte superiore a quella odierna. Fu probabilmente proprio a partire dagli anni quaranta che gli Schmidt, come molte altre famiglie in tutto il paese, giurarono simbolicamente fedeltà assoluta al principio di indipendenza e neutralità della Svizzera. Consapevoli d’altronde che, al di là dei soliti cliché costituiti da banche, cioccolata, formaggi e orologi, il fatto di non aver subito bombardamenti e devastazioni contribuì negli anni postbellici in maniera determinante alla prosperità di questa piccola nazione. Anche l’aspetto della casa di Marcel Schmidt lasciava intravedere che il denaro lì non mancava. La vecchia fattoria, fedelmente progettata secondo i parametri e lo stile tipico di questa regione, e che era stata costruita usando solo legno pregiato e con il tetto smussato sui quattro lati, venne completamente ristrutturata con l’avvento del nuovo millennio. Al suo interno, oltre alla sala del camino nella quale si trovava ora l’anziano politico, ospitava sei camere da letto, due cucine, tre bagni, la cantina in pietra, una sauna e un’ulteriore grande stanza, corredata da numerosi trofei di caccia, che veniva usata per le riunioni informali dei vertici del partito. I mobili, i quadri e ogni singolo oggetto sugli scaffali, avevano una loro logica ben precisa, che permetteva di ricostruire tappa per tappa la storia della gloriosa famiglia, nonché dell’intera regione. La ricchezza non l’aveva comunque per niente condizionato, né allontanato dalle sue origini contadine. Marcel Schmidt si alzava sempre verso le cinque del mattino e per prima cosa andava in stalla ad accarezzare sul muso le sue mucche da latte. Poi ava a visionare i vitelli e si soffermava qualche istante in più con quelli che erano prossimi alla macellazione. Controllava lo stato di salute di ogni animale, valutava ordine e pulizia nelle stalle, e alle sei, all’arrivo dei collaboratori dell’azienda, dava disposizioni sul lavoro da svolgere. Il contatto giornaliero con i suoi animali era come una terapia che gli permetteva di restare sempre con i piedi per terra. Non avrebbe rinunciato per niente al mondo a questo rituale. Malignamente, c’è chi sosteneva che amasse più le proprie mucche che le sue mogli. Un sospetto fondato, quantomeno per la prima. Si sposò la prima volta a vent’anni con una giovane coetanea residente nella regione. Il matrimonio resistette solo dieci anni e non ebbero figli. La donna si
abituò rapidamente all’agio offerto dai frutti dell’azienda e usava proporgli continuamente viaggi all’estero, sovente con l’obbiettivo di raggiungere paesi esotici e lontani. Marcel vedeva in questa sua continua necessità di partire all’estero una mancanza di rispetto per la bellezza dei loro luoghi d’origine. Inoltre, in quegli anni aveva mosso i primi i in politica, dapprima a livello comunale e in seguito cantonale. La donna interveniva troppo spesso nelle discussioni tra uomini, benché non invitata, e questo lo irritava particolarmente. Pensava infatti che i suoi colleghi di partito potessero interpretare i continui interventi della moglie come un segno di debolezza e di non autorevolezza nei suoi confronti. Insomma, era convinto che nel tempo questo comportamento si sarebbe potuto tramutare in un ostacolo per la sua promettente carriera politica. Di conseguenza, il giorno dopo la sua prima elezione al consiglio di stato cantonale, mise fine alla loro relazione con poche parole. Questa visione patriarcale della famiglia non può che stupire oggi, ma non va dimenticato che Marcel Schmidt contrasse il primo matrimonio tra gli anni sessanta e settanta e che il voto alle donne in Appenzello fu approvato solo nel 1991, l’anno dei festeggiamenti per il settecentesimo anniversario della Confederazione. Tradizione e ato scandiscono il presente, e probabilmente anche il futuro di questa regione, segnandone le caratteristiche in modo molto coerente e duraturo nel tempo. Per esempio, va riconosciuto che l’Appenzello è uno dei feudi storici della democrazia diretta svizzera. Le votazioni locali avvengono per alzata di mano, con la popolazione riunita nella piazza della “Landsgemeinde”. Questa forma di voto impone ai partecipanti di dimostrare determinazione nell’esprimere le loro scelte, essendo evidentemente un atto pubblico e non un voto segreto. Tale prassi forgia caratteri forti e dà inevitabilmente adito ad accese discussioni tra politici, come anche tra semplici cittadini, nelle bettole dei paesi o tra le mura familiari. Sono però discussioni che avvengono alla luce del sole e in modo trasparente, dato che il voto per alzata di mano non permette a nessuno di predicare in un modo ed esprimere poi nel voto un principio diverso, senza che tale ipocrisia sia notata da tutti. Chiaramente, il sistema ha anche qualche controindicazione. Come per esempio il potenziale influsso che ha la massa sugli indecisi, o in genere su coloro che magari, nella segretezza del voto, darebbero sfogo a opinioni meno popolari o populiste. Eppure, proprio l’esito del referendum popolare che stiamo raccontando, forse, sarebbe stato diverso se compiuto tramite una virtuale votazione per alzata di mano. A volte la dignità del voto richiede una certa trasparenza.
La carriera politica di Marcel Schmidt si era sviluppata senza scatti folgoranti, ma a o costante attraverso un cammino lungo cinque decenni, che lo portò dapprima a Berna in Parlamento come consigliere nazionale e poi alla guida del partito maggioritario del paese. Il partito conservatore aveva conquistato il primato tra i partiti da circa dieci anni, e da allora continuava a incrementare il numero di consensi. In più occasioni Marcel avrebbe potuto tentare l’elezione in Consiglio Federale, ma le sue posizioni politiche molto delineate e la sua totale repulsione al compromesso politico gli avevano precluso questa opportunità. Dopo qualche anno dalla fine del primo matrimonio, Marcel si legò nuovamente a una donna, originaria della Svizzera centrale, che gli regalò una figlia, Nadia. Il matrimonio che ne conseguì lo condusse a una vita coniugale equilibrata e stabile, in cui per trent’anni i rispettivi ruoli e responsabilità non furono mai messi in discussione. Arrivato all’età di 71 anni si stava preparando da tempo all’idea di uscire gradatamente dalla scena politica, inizialmente lasciando la guida del partito e in seguito la carica di parlamentare. Finalmente, si sarebbe potuto dedicare completamente alla propria azienda agricola, senza certo mancare di commentare di tanto in tanto, con un’intervista o un articolo di giornale, l’operato dei suoi colleghi più giovani. Aveva previsto di annunciare a breve la sua decisione ai vertici del partito, ma gli esiti del recente referendum avevano rimesso tutto in discussione. Il Consiglio Federale aveva unanimemente raccomandato alla popolazione di votare contro la proposta di scissione del paese, anche se con poca determinazione. L’esito della consultazione evidenziò come fossero state sottovalutate le probabilità di successo di tale iniziativa, e il Consiglio Federale decise di are la patata bollente ai vertici dei due partiti maggioritari, quello conservatore e quello progressista. Il governo, infatti, aveva imposto ai promotori dell’iniziativa, come atto di responsabilità, di preparare una bozza del trattato per la scissione del paese e che sarebbe poi ato in parlamento per l’atto formale di riconoscimento della volontà popolare. “Me la sono andata a cercare” pensò Marcel, “avrei dovuto intuire prima che in caso di successo me ne sarei dovuto occupare io. Chi altri nel partito è in grado di trattare condizioni più favorevoli e imporre ai progressisti un trattato che tenga conto delle nostre priorità? D’altronde come potevo anche solo immaginare che sarebbe stata veramente approvata?”
Sull’onda di quest’ultimo pensiero, Marcel accese il televisore in cerca di un notiziario. Mancava ancora mezzora all’inizio della riunione con i colleghi di partito. Il notiziario straordinario delle nove e trenta era appena iniziato. Per prima cosa vennero diffuse rassicurazioni sullo stato di salute della giornalista che il giorno precedente era svenuta in diretta televisiva. La giovane annunciatrice, che nel frattempo ne aveva preso il posto, spiegò che la collega stava bene e aveva deciso di prendere un congedo a tempo indeterminato per ricaricare le batterie dopo anni di lavoro ininterrotto. “Peccato, probabilmente non la rivedremo mai più condurre il notiziario” commentò Marcel ad alta voce. In seguito, vennero confermati i risultati del referendum. Considerata l’importanza dell’esito della consultazione, i voti erano stati ricontati ben due volte. Non c’era più alcun dubbio. Per volere popolare il Paese sarebbe stato diviso in due regioni autonome. Nessun giornalista o politologo se la sentiva di commentare l’eclatante risultato, e men che meno di azzardare una spiegazione. Così l’esito della votazione venne analizzato unicamente attraverso una numerosa serie di servizi che riportavano le interviste effettuate a gente comune, per strada, in luoghi diversi sparsi su tutto il paese. La cosa più stupefacente fu notare che le risposte erano sempre le stesse, come se tutte queste persone, che chiaramente non si conoscevano, si fossero messe d’accordo per rispondere in modo identico alle domande dei reporter. Ancora più sorprendente fu la costatazione che nonostante le differenze politiche, tra conservatori e progressisti, le motivazioni che avevano portato ad accettare il referendum erano simili da entrambe le parti. Ognuno era stufo di condividere il paese con la visione contrapposta alla propria. “Gli altri” erano considerati bigotti o illusi, rispettivamente, e a ogni modo inutili, o perfino nocivi nella prospettiva di crescita economica e morale del Paese. Sintomatiche in questo senso furono le risposte date da una giovane donna, intervistata poche ore prima all’uscita da un asilo nido, al quale aveva appena affidato i suoi due bambini. “Signora, posso porle qualche domanda sull’esito del referendum popolare che è stato approvato ieri?” chiese il reporter mentre si avvicinava con o felpato
all’entrata dell’asilo. “Sì certo, anche se ho pochissimo tempo. Sono di corsa. Questa mattina, in ufficio, ci sarà sicuramente molta agitazione” rispose la donna. “Capisco benissimo, signora. Oggi chiunque, dall’operaio al top manager si starà chiedendo quali conseguenze avrà la scissione del paese sulla loro vita lavorativa e privata. Prometto di rubarle solo pochi minuti. È rimasta stupita dall’esito della votazione?” “Direi piuttosto sbalordita. Con questa decisione stiamo cambiando la storia del paese in modo radicale. Probabilmente nessuno se lo aspettava” fu la pronta risposta della giovane mamma, che anticipando la seconda domanda del reporter aggiunse: “Ma non per questo, rinnego oggi di aver votato a favore. Anzi, sono più che mai convinta che sia la scelta giusta e lo rifarei certamente”. Il reporter cha aveva ormai potuto osservare come il ragionamento seguito dagli intervistati, in tutte le occasioni precedenti, si era sviluppato come se fosse dettato da un copione scritto, piazzò quasi istintivamente la domanda seguente concedendosi anche un mezzo sbadiglio: “Signora, capisco che lei è convinta di aver fatto la scelta giusta, come d’altronde la stragrande maggioranza dei votanti. Ma come si spiega che nessuno aveva intuito l’esito della votazione? O meglio, per esseri più precisi, due giorni fa avrebbe ammesso le sue intenzioni di voto?” Malgrado la fretta, la donna si concesse qualche secondo di esitazione: “Beh, penso di sapere dove vuole andare a parare con la sua domanda” rispose la donna un po’ seccata. Poi aggiunse: “No certo, a nessuno, proprio a nessuno, nemmeno a mio marito ho detto in che modo avrei votato. Anche se ieri, quando ne abbiamo parlato, mi ha spiegato di aver votato anche lui a favore. Se qualcuno mi avesse chiesto le mie intenzioni? Avrei probabilmente risposto di essere ancora indecisa o addirittura di avere l’intenzione di votare contro”. “Perché?” incalzò il reporter. “Perché in quel momento mi vergognavo della mia scelta. Sicuramente a torto, visto che oggi ne vado fiera. Tutto qui. Non so come potrei spiegarlo meglio”. “Signora, da questa mattina ho sentito molte volte questo tipo di ammissione. È veramente tutto qui? Non c’è altra spiegazione? C’è chi insinua che il aggio
dall’imbarazzo o incertezza dei giorni precedenti la votazione, alla determinazione di oggi, sia unicamente dovuto ai numeri. Sapersi oggi parte della maggioranza ha rinvigorito la convinzione di coloro che hanno votato a favore”. La donna era ora indecisa tra il congedarsi con una scusa o formulare una risposta, ma si decise a rispondere alla velata provocazione del giornalista. “Che domanda poco illuminata. Certo, il fatto che la maggioranza la pensi come me, mi solleva enormemente dal peso di tale decisione. Come non potrebbe essere altrimenti? Stiamo invertendo il corso di 700 anni di storia!” controbatté la donna visibilmente irritata. Poi continuò, in tono più pacato e in parte assente, come se si stesse rivolgendo più in generale alle generazioni future invece che al reporter che le stava di fronte: “Ero stufa di sentire sempre gli stessi dibattiti politici, che terminano inesorabilmente con una schiera di perdenti. Per finire nessuno è mai veramente soddisfatto. Inoltre la visione conservatrice e quella progressista divergono sempre più con il are del tempo. Su temi come l’immigrazione e la socialità non è più possibile trovare delle soluzioni che accontentino tutti. A mio avviso, in questi anni abbiamo partorito un gran numero di decisioni per le quali il bicchiere era sempre mezzo vuoto, per entrambi. Perché insistere nel voler andare d’accordo, se la concordanza e il compromesso non sono più una ricetta vincente?” La donna consultò l’orologio, prima di aggiungere: “Chiunque si augura per i propri figli una società che rispecchi i propri ideali. Da entrambe le parti. Ora, se posso scegliere tra lottare una vita per conquistare una tale società, o ottenerla subito, con un’unica decisione, e avere così più tempo da trascorrere con la mia famiglia, beh, chiaramente scelgo la via più veloce. Mi sembra razionale e pragmatica come scelta, non le pare? La votazione di ieri, mi ha offerto la possibilità di dare sfogo a tale semplice constatazione” concluse la donna che si sentiva ora particolarmente riconciliata con la propria coscienza, come se questo sfogo l’avesse liberata da ogni residuo di insicurezza. Il reporter osservò che lei aveva trovato parole più efficaci di altri nell’esprimere ciò che era risultato essere il pensiero condiviso da coloro che avevano votato a favore della scissione, ma rimase in silenzio privo di argomenti. “Mi creda” concluse allora la giovane donna avviandosi a o di corsa verso il posteggio, “vivremo tutti meglio. Saremo circondati solo da persone che la
pensano come noi. Avremo meno dubbi sul futuro, sia per il nostro che per quello delle generazioni a venire. Vivremo senza dover temere costantemente che l’ago della bilancia volga a favore dei nostri antagonisti”. Marcel, che non negava a se stesso una certa dose di perplessità per quello che stava accadendo, si sentì fortemente rincuorato nell’ascoltare tali interviste. “Ma certo” pensò, “il popolo ha sempre ragione. Perché trastullarsi tanto sulla legittimità di una decisione come questa? Le scelte migliori sono le più semplici. Devono poter essere motivate chiaramente, con poche parole, senza grandi e inutili teorie. Proprio come ha appena fatto questa giovane donna”. “Anzi” continuò nella sua riflessione, “altri paesi riconosceranno in seguito il merito della nostra coraggiosa decisione e la citeranno come un modello da seguire”. Nemmeno a farlo apposta, la conduttrice del notiziario, che dopo la diffusione delle interviste effettuate per strada aveva ripreso per pochi minuti la linea dallo studio, introdusse un servizio che descriveva i commenti dei media esteri circa l’esito del referendum. Quasi tutti i paesi del mondo avevano dato larga risonanza alla notizia. Furono soprattutto i partner economici più importanti e i paesi geograficamente vicini alla Svizzera a soffermarsi lungamente sul risultato della consultazione popolare. Ma persino dai più remoti angoli della comunità internazionale giunsero reazioni incredule e vi furono interventi pubblici e prese di posizione ufficiali. Per esempio, il governo della regione autonoma del Kosovo annunciò immediatamente l’intenzione di promuovere un riconoscimento bilaterale con ogni regione autonoma che sarebbe nata dalla scissione. La Federazione Russa espresse invece scetticismo e indignazione per quella che venne definita una frammentazione di uno stato sovrano per fini politici e di propaganda ideologica. I paesi con un’economia forte, specialmente quelli situati sul continente europeo, approfondirono anzitutto le possibili conseguenze sulla piazza finanziaria e sul franco svizzero, che tra l’altro, si speculava, sarebbe forse scomparso. C’era anche chi abbozzava le prime teorie per un’imminente trattativa per l’adesione della regione progressista all’Unione Europea. I paesi, in via di sviluppo, particolarmente quelli più fragili e martoriati da conflitti o croniche carenze alimentari, si interrogarono invece più sul futuro
delle numerosi organizzazioni internazionali, come la Croce Rossa, che hanno la loro sede principale in Svizzera. Inoltre, presero in considerazione le probabilità che tale avvenimento provocasse degli effetti nefasti sul ruolo di mediazione che la Svizzera ricopriva i molte area calde del globo, particolarmente là dove il lavoro di mediazione era rivolto a riconciliare divisioni etniche o religiose. Proprio in questo ambito, i commenti più arditi e fantasiosi furono espressi da esponenti di movimenti secessionisti sparsi in tutti i continenti, in quanto individuarono nella decisione del popolo svizzero un’occasione irripetibile di reiterare le loro rivendicazioni. Marcel Schmidt, che scrutando attraverso la vetrata del salotto aveva visto in lontananza due berline salire i tornanti della collina e imboccare il vialetto che portava alla fattoria, spense il televisore e si alzò faticosamente dalla poltrona. Operazione che con i suoi quasi novantacinque chili richiedeva un certo impegno. Sulla porta di casa diede il benvenuto ai colleghi di partito e scambiò qualche battuta sui festeggiamenti della sera precedente. “Ragazzi” esordì considerando dei giovincelli tutti coloro che erano almeno di dieci anni più giovani di lui, “voi siete puntuali, ma il tesoriere del partito non è ancora arrivato. Vi toccherà pazientare ancora un po’. Francamente, il suo ritardo non mi stupisce molto, considerato lo stato pietoso in cui l’ho visto questa notte, alla fine della festa. A ogni modo speriamo che non sia scappato con i soldi del partito, dato che adesso non avremo più bisogno di finanziare le campagne elettorali e raccogliere iscrizioni! Già, poverino, forse ha temuto che ci liberassimo di lui!” Ne segui una risata sincrona dei due colleghi, che per tonalità e durata dovevano essersi allenati a lungo ad appagare il capo del partito con una risata forte, concisa e appunto incredibilmente identica. Si incamminarono verso la sala riunioni e uno di loro chiese: “Marcel, quanto tempo abbiamo per preparare l’incontro con i progressisti? La data è già stata fissata?” “I burattini che ci ritroviamo in Consiglio Federale, non hanno solo scaricato sui partiti la responsabilità di elaborare la bozza del trattato di scissione, ma si sono perfino permessi di imporci una data per le trattative che è assolutamente
assurda. Ci incontreremo con i progressisti tra due settimane, il primo di febbraio. Il luogo non è ancora stato stabilito”. “Ma è assurdo” incalzò l’altro ospite, “dobbiamo dividere ogni bene comune, territorio, istituzioni, esercito e oltre tutto non abbiamo ancora la percentuale esatta di coloro che vogliono vivere nella regione conservatrice”. “Beh certo, il 35% di consensi ottenuti con il referendum non è definitivo, ma quantomeno indicativo. Tra una settimana tutti i residenti in Svizzera si dovranno recare nelle sedi dei comuni di residenza a comunicare la loro scelta, senza conoscere i dettagli del trattato e nemmeno la ripartizione territoriale. Così ha deciso il governo” disse Marcel Schmidt prima di aggiungere: “È chiaro che lo fanno per ripicca. La decisione del popolo non gli va giù a quei sette nani. Beh, per fortuna tra poche settimane saranno disoccupati!” “Comunque” aggiunse dopo aver concesso i soliti cinque secondi riservati alle risate, “noi dobbiamo ragionare nell’ambito del 33% fino al 37% di consensi. Questo naturalmente riguarda solo gli svizzeri, ma comunque di stranieri disposti a vivere alle nostre regole ce ne saranno pochi. Quindi sull’insieme di tutta la popolazione, dobbiamo contare sul 26-28% all’incirca. Pochi, ma buoni!” concluse Marcel con un sorriso sprezzante. Invece che prodursi nella dovuta risata, i due colleghi visibilmente distratti osarono ignorare le ultime parole di Marcel e fissarono qualcosa o qualcuno alle sue spalle, in direzione della porta di entrata della sala. Marcel, visibilmente irritato da tale comportamento si girò di scatto per comprendere la ragione di tale affronto. Quello che vide lo ammorbidì immediatamente, come niente e nessuno altro al mondo avrebbe potuto fare. Sua figlia Nadia era entrata nella stanza e stava avanzando verso i tre uomini. L’arrivo della figlia non gli aveva unicamente disteso i nervi, ma lo rese anche magnanimo nei confronti del comportamento irriverente dei suoi due colleghi di partito. Difatti, riconobbe che qualsiasi uomo si sarebbe facilmente distratto al cospetto di Nadia. La ragazza aveva compiuto ventinove anni da poco ed era indubbiamente una bellissima donna. Non era magra, anzi, si poteva dire che aveva decisamente qualche chiletto di troppo in particolare sui fianchi. Eppure, essendo sportiva, il suo corpo era tonico e accogliente, dalle forme rotonde proprio là dove serviva a raccogliere vasti consensi. Comunque, malgrado il
fisico accattivante, la sua indiscussa bellezza non era dovuta alle forme del corpo. Bionda, con gli occhi blu molto intensi, di un colore assolutamente unico e con delle sfumature turchesi e viola, aveva il viso ovale, molto femminile e perfettamente simmetrico. Le labbra generose, sembravano coronare il fascino della giovane donna, come se fossero la ciliegina su una torta di crema. Proprio le labbra calamitavano gli sguardi di tutti coloro che la incontravano, con l’effetto di far impazzire l’ago della bussola dei loro cervelli. Ciononostante, si poteva contare sulle dita di una mano il numero di coloro che ne avevano scoperto il sapore. Nadia si era laureata in legge, ottenendo il massimo dei voti e numerose proposte per sostenere un dottorato. Opportunità, alla quale aveva rinunciato, prediligendo la possibilità di entrare nel mondo del lavoro il più rapidamente possibile. Il padre era naturalmente estremamente orgoglioso della figlia, e non si sforzava di nasconderlo. Altri figli di parenti vicini o remoti avevano completato degli studi universitari, ma lei era stata la prima a laurearsi all’Università di San Gallo, che è un ateneo rinomato a livello internazionale e il più importante della Svizzera orientale. Inoltre, dopo aver aggirato, o forse meglio ignorato, le reticenze del padre, Nadia era riuscita a svolgere il terzo anno di studi negli Stati Uniti, ad Harvard. Quell’esperienza all’estero le aveva ampliato gli orizzonti e la aveva marcata in modo profondo, forse più di quanto ne fosse consapevole oggi. Dalla fine degli studi aveva già cambiato lavoro tre volte. Nadia era come alla costante ricerca di un preciso scopo da dare alla vita, ma non lo aveva ancora individuato. Il fatto di non riuscire a ottenere dal lavoro l’appagamento che cercava la angustiava e influiva spesso sul suo umore. Per quanto riguardava l’aspetto, Nadia non aveva ereditato molto dal padre, forse solo qualche chilo di troppo, mentre il carattere era determinato, cocciuto e focoso come quello di Marcel. Proprio per una questione di carattere, si era intestardita nella ricerca di un fine ultimo, di una missione da compiere. Il fatto di non averla ancora trovata la rendeva sempre più irascibile e, contrariamente alla sua naturale indole, la rendeva indecisa e vulnerabile. Per uscire da questa situazione di stallo, si era recentemente messa in testa di tentare la carriera politica, e difatti, l’anno seguente, si sarebbe lanciata nelle campagna elettorale per il consiglio nazionale tra le fila del partito conservatore. Il padre in apparenza aveva reagito entusiasticamente alla decisione della figlia, ma d’altro canto era consapevole che la vita politica non le si addicesse per niente. Temeva infatti che questa nuova iniziativa di Nadia sarebbe svanita in pochi anni, come un fuoco di paglia.
Marcel era peraltro convinto di avere individuato già da molti anni, fin dai tempi in cui Nadia era una bambina spensierata, che cosa avrebbe reso felice la figlia una volta divenuta adulta. Consapevole però che la ricerca di una ragione di vita può trasformarsi in un pericoloso labirinto di opzioni e illusioni che col tempo possono logorare profondamente la mente e il corpo, Marcel si era chiesto sovente se renderla partecipe della sua intuizione la avrebbe aiutata o meno, ma fino a quel momento aveva taciuto e probabilmente non ne avrebbe parlato mai. La vita gli aveva insegnato che tale ricerca è efficace solo se compiuta con lo sguardo rivolto al proprio io, essendo una delle poche incombenze della vita che non si possono delegare a nessuno. Così, ormai già da qualche anno, Marcel si limitava a chiedersi quando e attraverso quali esperienze Nadia avrebbe riconosciuto la propria strada. “Ciao papà, state per iniziare la riunione, o posso parlarti in privato per cinque minuti?” esordì Nadia, degnando i due spaventaeri che la stavano fissando di un piccolo cenno della testa. “Stiamo ancora aspettando il tesoriere del partito, ma non dovrebbe tardare. Vieni, andiamo in salotto”. “Voi mettetevi comodi. Sul tavolo c`è un bricco di caffè caldo e biscotti fatti in casa, non fate complimenti” disse Marcel ai due colleghi uscendo dalla stanza riunioni accompagnato dalla figlia. “Mi sembri ingrassato papà, l’ultima volta che ci siamo visti, non stavi facendo una dieta? Hai ridotto il consumo di digestivi e salumi come ti aveva imposto Peter?” “Imposto!” rimbottò Marcel, “quello smidollato e succhia vita di tuo cugino sarà anche un medico, ma ne deve fare ancora di strada prima di impormi checchessia!” “Adesso, con la scusa del colesterolo vuol perfino proibirmi di mangiare il formaggio. Che idiozia. Da generazioni la nostra famiglia corona il pasto con del formaggio, e sono tutti morti felici!” “Già, ma non tutti hanno superato i sessant’anni” commentò Nadia scuotendo la testa bonariamente. “Senti cara, smettiamola di parlare di me. Sono sicuro che non è del mio
colesterolo che volevi discutere. Tra l’altro dov’eri ieri sera? Non ti ho vista alla festa”. “Ieri ero a un convegno a Ginevra e sono rientrata da poco. Comunque non penso che mi sarei messa a festeggiare quest’idiozia della scissione” commentò Nadia volontariamente schietta, e senza avvisarlo dell’incombente inizio delle ostilità. Sapeva di avere solo pochi minuti di tempo per parlare con il padre e doveva sfruttarli al meglio. Videro infatti entrambi il tesoriere del partito posteggiare la vettura sotto la tettoia della fattoria. “Cosa vuoi dire esattamente Nadia?” chiese cauto Marcel, consapevole che la figlia lo avrebbe steso in soli due round se si fosse esposto troppo presto. “Di per sé l’idea di dividere il paese in due mi sembra alquanto stupida. Oltretutto, lasciarsi coinvolgere nel processo di scissione è di gran lunga l’atto meno patriottico compiuto dal nostro partito fin dalla data di fondazione”. Questo primo colpo fu difficile da incassare per Marcel Schmidt, che rimase quasi senza fiato. Toccato sul patriottismo, la testa di Marcel cominciò a prendere quel colorito rosso che era il segnale certo di un’imminente esplosione d’ira. “E come se non bastasse questo è il momento peggiore da decenni, se non da sempre, per indebolire il paese nel contesto internazionale” continuò Nadia convinta di poter chiudere il confronto con un knock-out fulminante, per poi aggiungere: “Il paese è sotto il tiro incrociato di quasi tutte le cancellerie importanti dell’occidente. La nostra piazza finanziaria è già alle corde. È come se volessimo calare le braghe e stendere un tappeto rosso a chi ci vuole ridimensionare. Lo sai che ho ragione”. “Nadia, se veramente ci tieni alla mia salute, cerca di ponderare meglio le parole che scegli. Tirare giù le braghe? Ma è proprio il contrario di quello che stiamo facendo! Evidentemente non capisci bene la situazione e hai bisogno di qualcuno che te lo spieghi”. Il colpo basso lasciò i suoi segni e Nadia, che ribolliva istantaneamente dinnanzi a chiunque ne mettesse in dubbio l’intelligenza, stava per controbattere quando il padre la zittì con un gesto della mano. “No Nadia, adesso parlo io”.
“Abbiamo finalmente l’occasione di ottenere quello che desideriamo da sempre. Manterremo la nostra indipendenza da qualsiasi altro paese e senza che questo sia regolarmente rimesso in discussione. Ci libereremo degli stranieri. Ci muniremo di un’efficiente esercito di milizia a protezione dei nostri valori e ridurremo lo stato al minimo necessario. E dulcis in fundo daremo un taglio netto alla burocrazia e alle assicurazioni sociali che servono solo a sostenere gli sfaticati. Chi non lavora può andare a stare con i progressisti. Cavoli loro”. Nadia lo fissò senza intervenire. “Con la scissione non stiamo rinunciando alla Patria, ma ne fondiamo una migliore. Forse più piccola, ma comunque fatta su misura per quelli come noi. Non è semplice da capire?” “Papà, il problema è proprio che mi sembra troppo semplice. Se questa fosse veramente la soluzione di tutti i problemi perché mai, nessuno prima d’ora, in nessun paese a forte immigrazione, ci ha mai pensato?” “Ma certo che ci hanno pensato” rispose Marcel, percependo che il discorso stava imboccando un binario che gli era favorevole. “In tutti i paesi del nord Europa, gestiti da sessantottini figli dei fiori, la gente per bene è stufa di sopportare i soprusi fiscali e sociali imposti dai loro governi a maggioranza progressista. Non esiterebbero neppure un secondo a isolarsi in felici regioni autonome. In Italia, il nord del paese sostiene da tempo di condividere valori diversi da quelli presenti al sud. Per non parlare poi degli Stati Uniti. Cosa hanno in comune Bush e Obama? Niente più che un aporto. Ti sembra logico scannarsi ogni quattro anni solo per mantenere gli stessi colori su una bandiera?” “Sì ma allora perché non lo fanno? Perché non si sono ancora divisi, loro? Ci pensano sì, ma alla fine realizzano che non sono soluzioni ragionevoli. Mi sembra quasi che noi ci affidiamo al consiglio di una banda di pazzi. Non era quello svitato di un dittatore libico ad aver proposto all’ONU di smembrare la Svizzera e distribuirne i resti ai paesi confinanti?” “Nadia, non mi provocare con queste stupidate. Quel tizio a furia di dire cavolate si è fatto smembrare per primo”. “Anche se riconosco che stai migliorando nella tecnica di mischiare le carte
quando ti accorgi che stai per perdere un confronto, è inutile che cerchi di confondere me, che sono un veterano in questo campo. Ma torniamo ai fatti”. “Perché non lo hanno ancora fatto? Nadia, dimmelo tu, che hai studiato legge! Mi sembra di aver pagato anche qualche semestre di diritto internazionale, o sbaglio?” Nadia strinse i denti nella speranza che il padre desse rapidamente una risposta alla domanda che ormai avevano posto entrambi, invece che lasciarla lungamente in sospeso per aumentarne l’enfasi. Dopo un rapido sguardo all’orologio, Marcel riprese il filo del discorso. “Semplicemente perché nessuno ha una democrazia come la nostra. Da noi il popolo ha sollevato una proposta, l’ha accettata, e ora il governo la mette in pratica senza sotterfugi. Nessun’altro paese al mondo lascia tanto potere nelle mani del popolo. Sono tutti ostaggi di mezze democrazie, dominate dalla corruzione e dall’élite politica. Una classe che solo in apparenza si combatte, ma che in realtà si sostiene, andosi la palla regolarmente con il solo obbiettivo di mantenere lo status quo”. “Tutto qui, papà? La solita storia del popolo sovrano. Come se fosse il sacro Graal” lo rimbeccò la figlia. “Quindi se il popolo proponesse una legge per imporre a tutti di camminare all’indietro, saltellando su di una gamba, lo dovremmo accettare tutti senza discutere? Se lo dice il popolo…” aggiunse ironicamente Nadia. “Senti, non ho tempo da perdere. Mi stanno aspettando. Mi sembra che negli ultimi tempi sei stata un po’ troppo sovente lontana da casa, e forse involontariamente ti sei rimbambita un po’. Le tue provocazioni sono tipiche dell’atteggiamento dei progressisti, e questo francamente mi spaventa un po’” disse Marcel oggettivamente preoccupato. “Presuppongono infatti che la massa sia composta da una banda di idioti, mentre tu hai l’onore di essere l’unica persona illuminata e ragionevole. Non ti sembra un comportamento piuttosto arrogante?” Nadia avrebbe voluto filosofare oltre su virtù e miseria delle opinioni di massa, citando qualche evento storico o descrivendo alcune aberrazioni collettive che aveva osservato viaggiando attraverso ogni continente del globo. Ciononostante,
aveva delle domande più urgenti da porre e così decise di lasciare correre. “Va bene così, papà. Adesso calmati, ne riparleremo. Lasciamo da parte la teoria e iamo agli aspetti pratici. Come verranno stabilite le proporzioni tra le due regioni?” “Non li leggi i giornali? I prossimi i sono stati riportati questa mattina da tutti i maggiori quotidiani” rispose Marcel, in parte ancora contrariato dal comportamento della figlia. “Nei prossimi giorni ogni residente in Svizzera e ogni svizzero residente all’estero riceverà una comunicazione ufficiale che impone a chiunque di fare una scelta, tra conservatori e progressisti. Il termine massimo per rispondere alla cancelleria dei comuni è stato fissato per domenica prossima”. “E cosa farete con coloro che si rifiuteranno di decidere, o che dovessero essere sinceramente indecisi?” chiese Nadia spontaneamente. “Non saranno tollerate eccezioni. Non è possibile creare una terza regione per gli indecisi. Il referendum in questo senso è stato chiaro. Si proponeva di dividere il paese in due, non in mille regioni”. “Il cittadino che non rispondesse entro il termine fissato, verrà assegnato per sorteggio a una delle due regioni”. Nadia non poté trattenersi dall’esprimere nuovamente il suo sconforto per quello che sarebbe accaduto. “Tutto questo è assurdo! Quasi ogni famiglia verrà divisa. Abbiamo tutti parenti o amici che per motivi diversi si decideranno per l’altra regione!” sbraitò Nadia turbata per quello che sarebbe accaduto. “Ora sei tu che ti devi calmare” rispose il padre in tono conciliante. “Così ha deciso il Consiglio Federale e noi abbiamo il dovere di mettere in pratica queste disposizioni”. “Inoltre, non devi vedere le cose in modo tanto tragico. Creeremo certamente delle frontiere per evitare l’immigrazione clandestina, ma a parte questo sarà permesso a chiunque di visitare pareti e conoscenti di tanto in tanto.
Probabilmente per entrare nella nostra regione imporremo l’uso di un visto, rilasciato dalle autorità, ma faremo in modo di rendere le procedure di richiesta nel limite del possibile semplici e rapide”. “Parli già come una guida illuminata, papà. Chi ha deciso che sarai tu a prendere in mano le redini della regione conservatrice?” chiese Nadia in tono nuovamente ironico. “So già dove vuoi arrivare, ma ti sbagli di molto. Non stiamo creando una dittatura”. “A dirigere la regione sarà il consiglio del partito al completo. Ne ho già discusso ieri sera durante la cena con i vertici, ed erano tutti d’accordo”. “Dimmi, a quanti convegni del partito hai presenziato? Lo sai benissimo che siamo la compagine più compatta tra tutti gli schieramenti politici. La voce dei vertici del partito è sempre stata una fedele rappresentanza degli umori e interessi della base”. “Vedrai, quando saremo riuniti in una regione autonoma, composta unicamente da nostri sostenitori, le decisioni si prenderanno da sole. Non avremo nemmeno bisogno di discuterne” concluse Marcel Schmidt, ormai in procinto di recarsi in sala riunioni. Nadia aveva si notato come ai convegni le voci critiche o fuori coro fossero pressoché inesistenti, ma si chiese se tanta compattezza non fosse anche da attribuire all’esistenza di un nemico politico. “Chissà se saremo ancora così uniti in mancanza dei nostri antagonisti, i progressisti” commentò Nadia con un filo di voce, mentre con sguardo assorto fissava il pavimento. Marcel, che riconobbe la pertinenza di tale obiezione, si limitò a consultare nuovamente l’orologio e finse di non avere sentito. “Una domanda ancora, poi levo il disturbo” disse Nadia infilandosi il mantello. “Tu personalmente di cosa ti dovrai occupare? Quale sarà il tuo ruolo in questa storia?”
“Sono stato incaricato dal partito di sviluppare una strategia per trattare la scissione con i progressisti. In seguito, presiederò il governo indipendente per un anno a partire dalla data dell’accordo. Fatto ciò, mi ritirerò dai vertici del partito e mi occuperò unicamente della nostra azienda agricola”. “Capisco. Mi rendo conto che nessun altro sia in grado di occuparsene al tuo posto” commentò Nadia, per la prima volta d’accordo col padre da quando avevano iniziato a discutere. “Che strategia hai intenzione di adottare nelle trattative? Se si può riassumere in due parole”. “Beh, ottenere l’esercito non dovrebbe essere troppo difficile. Da anni i progressisti proclamano che ne farebbero volentieri a meno”. “La parte più difficile sarà quella della spartizione dei cantoni. Dobbiamo fare di tutto per ottenere il Canton Zurigo e la sede principale delle grandi banche. Per arrivare a questo obbiettivo, immagino che dovremo concedere ai nostri avversari alcuni tra i cantoni in cui i due schieramenti si equivalgono”. “Nadia ora devo proprio andare. Sono già in ritardo. Vieni a cena da noi questa sera? Lo sai che tua madre ci tiene” chiese Marcel, mentre già si stava allontanando. Nadia intuì che le ostilità erano cessate e che la richiesta del padre veniva ora direttamente dal cuore. “Va bene, ci vediamo questa sera. Arriverò verso le sei”. Osservando da dietro il o lento e macchinoso del padre, Nadia si chiese se questa nuova avventura non fosse eccessivamente faticosa per un veterano della scena politica. Si trattava certo di un uomo dal carattere di ferro, ma date le circostanze dubbi e sensi di colpa avrebbero potuto scalfire persino uno come lui. A maggior ragione, considerando che era stato proprio Marcel Schmidt a inasprire i dibattiti politici negli ultimi quindici anni e ad aver contribuito in modo decisivo a radicalizzare ancor più le ideologie tra progressisti e conservatori.
Capitolo 4
Uno dei primi immigrati illustri di Ginevra fu un frate se originario del nord della Francia. Un certo Giovanni Calvino. Calvino, che visse a Ginevra durante il sedicesimo secolo, può essere considerato, per i suoi tempi, un progressista. Ossessionato dalle riforme, rimodellò alcuni concetti religiosi, così come oggi si cerca di rimodellare la politica quando è esaurita, statica e improduttiva. Oltretutto, politica e religione erano allora dei concetti meno distinti rispetto a oggi. A Calvino piaceva il principio di collegialità delle decisioni, tra ecclesiastici, in contrapposizione alla dittatura religiosa, capace di progredire e adattare dialettica e comportamenti solo in concomitanza con dei cambiamenti ai propri vertici. Questo filone di pensiero, sicuramente insieme a molti altri, può essere considerato come una prima bozza di democrazia. Non per niente Luigi XIV osservando le riforme di Ginevra storceva il naso e addirittura, si racconta, che in quegli anni iniziò a soffrire di dolori cervicali. Forse, una sorta di premonizione di quello che sarebbe successo a un altro noto Luigi due secoli dopo. Insomma, a Ginevra ci si è abituati presto a pensare diversamente, a uscire dal coro, e probabilmente prima che in altri luoghi, a riconoscere nella diversità una fonte di ricchezza per il corpo e per la mente. Tornando all’epoca più schietta e materialista nella quale viviamo oggi, probabilmente ci limiteremmo a dire che tale confluenza di etnie e culture arricchisce il DNA di tutti e il portafogli di alcuni. Jean-Luc aveva sempre ringraziato il cielo per essere cresciuto in una città internazionale, piccola, ma con tutto il mondo dentro. Questa mattinata era arrivato a Ginevra con uno dei primi treni ed era andato a correre per un’ora sul lungolago. Adesso stava camminando rapidamente verso la casa dei genitori. Lì avrebbe fatto una doccia lì e indossato degli abiti che lasciava sempre di riserva nell’appartamento. In seguito avrebbe discusso con il padre la strategia per l’imminente incontro con i conservatori. Non viveva più con i genitori da quando, dieci anni prima, aveva iniziato gli studi di economia e politica presso l’Università di Losanna. Da allora si era
abituato a are almeno un fine settimana al mese a Ginevra. In queste occasioni alloggiava nell’appartamento dove era cresciuto e dove vivevano tuttora i genitori, ai margini del centro città, in un quartiere posto in cima a una lieve colle. Dal balcone dell’appartamento al penultimo piano della palazzina costruita nei primi anni del novecento si poteva scorgere il lago e il famoso getto d’acqua, simbolo della città. Mentre camminava lungo una delle stradine medievali in ciottolato che portano alla cattedrale, Jean-Luc constatò per l’ennesima volta quanto la città fosse internazionale e multietnica. Da un albergo uscirono tre donne arabe con il velo, ma sfoggiavano abiti alla moda occidentale, con delle borsette che probabilmente erano costate più di quello che guadagnava lui in un mese. A distanza di pochi metri incrociò un ragazzino ebreo ortodosso, che cercava in tutti i modi di mantenere l’equilibrio mentre veniva sballottato sotto i colpi che il ciottolato infieriva sulle piccole ruote della sua trottinette, facendo dondolare il cravattino nero come un pendolo. Si ricordò di aver promesso alla madre di comprare il pane in Rue du Mont Blanc, e così fece una piccola deviazione nella via laterale dove si trovava la minuscola bottega. All’entrata del negozio c’era un uomo che fumava una sigaretta e stringeva nell’altra mano una baguette fumante appena acquistata. Malgrado fosse di spalle, la postura e la pelata erano inconfondibili. Era Kubilay, il barbiere turco dal quale si faceva tagliare i capelli con suo padre fin da bambino. Anche quando si trasferì a Losanna per alcuni anni si ostinò a farsi tagliare i capelli da lui, di sabato quando rientrava a Ginevra, ma poi si arrese alla praticità e aveva preferito un parrucchiere di Losanna. Non sapeva spiegarselo, ma in un certo senso si sentiva in colpa, come se lo avesse abbandonato senza essersi mai congedato in modo adeguato. “Che idiozia, mica ero il suo unico cliente” pensò Jean-Luc. Eppure lo evitava e ne era cosciente. Anche se la via più diretta per recarsi là dove doveva andare lo avrebbe portato davanti alla sua bottega, finiva inesorabilmente per are per via traverse, giusto per evitare di incontrarlo. Certo, è forse lecito ricordare, che sull’arco dei vent’anni in cui era andato da Kubilay per tagliare i capelli, vi si era recato in media una decina di volte all’anno. Quanti dei suoi parenti più stretti aveva incontrato duecento volte in
questi trent’anni di vita? Probabilmente pochi. “Chissà poi perché mi sento in colpa” si chiese entrando nel negozio del panettiere, simulando al meglio indifferenza. “Jean-Luc, è da un sacco di tempo che non ti vedo!” Esclamò il parrucchiere, che per raggiungere il portacenere si era girato proprio nell’istante in cui il giovane si era fermato ad attendere che la porta scorrevole si aprisse. “Ciao Kubilay, come stai?” gli chiese allora il giovane. “Bene grazie, come ogni lunedì. Oggi è il mio giorno libero”. “Con il salone va tutto bene, hai sempre molto lavoro?” lo interrogò Jean-Luc, che si sarebbe voluto rimangiare la domanda nell’istante stesso in cui l’aveva formulata. “Beh sì, di lavoro ne ho ancora molto, ma il Comune mi sta mettendo alle corde. Hanno accordato la licenza ad atri due saloni nella stessa via. In questo modo hanno dato il via a una competizione al ribasso, nei prezzi e nella qualità del servizio. Il pachistano regala perfino un tappeto a chi raggiunge la soglia dei trenta tagli di capelli! E quindi ora ho molte più incertezze sul futuro di prima. Oggi clienti ne ho ancora, ma come sarà la situazione domani? Pensa che uno dei saloni è addirittura esattamente di fronte al mio! Dopo trentacinque anni di attività, è come se in comune si fossero dimenticati dell’esistenza del mio negozio”. Jean-Luc sapeva che Kubilay non era il tipo di persona che si diletta oltremisura a lanciare dei messaggi subdoli, e che sicuramente non si era espresso così con l’intenzione di rimproveralo per non essersi più recato da lui. Fece comunque fatica a formulare un commento, che pronunciò infine con un filo di voce, come se le parole si fossero incastrate in mezzo alla gola. “Che mancanza di sensibilità da parte del municipio…” “Cosa hai detto? Scusa ma non ci sento più molto bene” chiese Kubilay, che effettivamente non lo aveva sentito. Vedendo Jean-Luc esitare nel riformulare la frase, Kubilay cambiò discorso.
“Ma tu piuttosto. Come stai? Il dottorato l’hai terminato mi pare, o mi sbaglio?” “Sì l’ho finito due anni fa. Adesso sono in parlamento. Sono stato eletto al consiglio nazionale, nei progressisti”. “Ah già certo, questo me lo aveva raccontato anche tuo padre. Voi in famiglia avete proprio la politica nel sangue. Ma adesso dove abiti, ti sei trasferito a Berna?” chiese Kubilay. “No, sono rimasto a Losanna. In treno ci metto poco ad andare a Berna e per di più così sono comunque vicino a Ginevra. Losanna è un buon compromesso in tutti i sensi. Del resto, dopo quasi dieci anni, mi ci sono affezionato. Ho buoni ricordi in quasi ogni angolo della città!” rispose il giovane. Jean-Luc non si era laureato senza intoppi. La vita studentesca lo aveva inizialmente scombussolato. Tra festini, corsi mancati per recuperare il sonno, e partite a beach volley al lago, dopo due anni venne bocciato ai primi esami intermedi. Poi si calmò, almeno in parte. Si preparò seriamente e superò gli esami al secondo tentativo, come tutti i rimanenti esami fino all’ottenimento della laurea. Anzi, così brillantemente che gli venne proposto di conseguire un dottorato che conseguì in soli tre anni. “Donne? Sempre donnaiolo o hai messo su famiglia adesso?” gli chiese Kubilay, dandogli una pacca sulla spalla in segno di spontanea confidenza per un ragazzo che aveva visto crescere. Anche se verosimilmente non si erano più incontrati da almeno due o tre anni, Jean-Luc non fu per niente imbarazzato da una simile domanda. Fin da adolescente gli era capitato di commentare le sue avventure amorose con Kubilay, mentre questi gli tagliava i capelli. Naturalmente, unicamente quando non c’erano altri clienti nel salone. “Famiglia? No, non ho ancora trovato la donna giusta. Ma non ho fretta. Al momento non ho nemmeno una ragazza fissa” disse Jean-Luc con un’espressione maliziosa dipinta sul volto. “Ah, come al solito, non una, ma dieci!” commentò Kubilay con una sonora risata. Jean-Luc aveva trent’anni e si poteva considerare belloccio. Non era una pertica, ma era alto all’incirca un metro e ottanta e aveva il fisico curato di chi ha praticato sport regolarmente da sempre. Capelli neri, con gli occhi scuri, portava
spesso la barba di due o tre giorni, che però curava nel dettaglio. All’estero lo scambiavano sovente per un italiano o per uno spagnolo. Con le donne ci sapeva fare. L’aspetto favoriva le occasioni, ma al di là di questo, Jean-Luc aveva capito che ci voleva ben altro per trasformare un’opportunità in un successo. Usava il suo fascino tra il burlone e l’intellettuale in modo esemplare e quasi sempre riusciva nei suoi propositi. Soprattutto, aveva capito quanto fosse importante far ridere le donne. Se si accorgeva che un dialogo si stava arenando, riusciva sempre a fare qualcosa di inaspettato per provocare una risata. Una volta, mentre eggiava a notte inoltrata lungo il lago con una turista olandese conosciuta quella sera, finse di inciampare in una radice, ma malauguratamente perse l’equilibrio davvero, finendo in acqua. La ragazza che non poteva sapere se Jean-Luc fosse o no un bravo nuotatore, si svestì rapidamente e si getto nel lago in suo soccorso. Finirono per rimanere in acqua al chiaro di luna per più di un’ora. Da quel giorno, i suoi amici commentavano ogni nuova conquista dicendo ironicamente che “il polpo del lago Lemano aveva colpito ancora”. Di avventure con le donne ne aveva avute tante, senza mai legarsi a nessuna ragazza in modo particolare. Jean-Luc desiderava per il momento godersi la sua libertà e il pensiero di dedicarsi a una sola donna non lo aveva mai sedotto. Almeno non fino a oggi. “Eh il Galatasary di Istanbul, come se la a? È un po’ che non si vede in Champions League” disse Jean-Luc ando al classico tema di riserva, che a qualsiasi età permetteva di discutere con Kubilay per ore. “Mah, lasciamo perdere il Galatasary” rispose Kubilay quasi irritato. “Piuttosto hai visto giocare ieri sera il Real Madrid contro il Valencia?” Da quando un nazionale tedesco di origine turca era divenuto un paladino del rinomato club spagnolo, Kubilay si era abbonato a un oneroso servizio televisivo appositamente per vedere le partite della Liga spagnola. “No, sai che seguo solo il campionato di calcio se, oltre a quello svizzero”. “Ah già, il Marsiglia! Beh quest’anno siete messi proprio bene. Senti, ma cosa ci fai a Ginevra di lunedì?” commentò Kubilay prima di fare una piccola pausa per accendere la terza sigaretta consecutiva.
“Devo discutere con papà di cose importanti. Da quando è stato nominato ufficialmente stratega del partito progressista ha moltissimo lavoro. Appena posso, gli do una mano. Dice che parlare con me lo aiuta a schiarirsi le idee”. “Bravo ragazzo, aiuta tuo padre che in questo momento sicuramente non ha un compito facile. Anche se a volte prendete decisioni che non condivido, come quella brutta storia del riconoscimento del genocidio armeno, devo proprio dire che voi del partito progressista siete in gamba” aggiunse Kubilay, che non aveva bisogno di essere più esplicito. “Beh, grazie Kubilay, peccato che tu non puoi votare. Anche se adesso, con questa storia della scissione, tutto cambierà”. “Già la scissione. Si vocifera che vi incontrerete presto con i conservatori. È vero? Quando?” chiese Kubilay con il tipico tono disinteressato dei barbieri. “Kubilay, mi dispiace, ma non posso dirti niente. Anche perché non so ancora niente. Proprio questa mattina papà mi spiegherà quando e come verranno stabiliti i termini della scissione”. “Staremo a vedere. Non voglio trattenerti oltre. Immagino che avrete molto di cui discutere. Salutami tuo padre, anche se lo vedrò presto. Mi ha chiamato due giorni fa per prendere appuntamento. Ha detto che deve venire a tagliare i capelli sabato prossimo per fare bella figura domenica. Un impegno importante o qualcosa del genere, ha borbottato prima di riagganciare”. “Ecco, come al solito, Kubilay sa già tutto” pensò Jean-Luc. Se i sondaggi li commissionassero ai parrucchieri, probabilmente le previsioni di voto sarebbero sempre perfette. Sanno sempre tutto su tutti. Strano che nessun parrucchiere sia mai divenuto un politico di successo. Probabilmente è semplicemente dovuto al fatto che molti tra coloro che praticano questa professione sono stranieri di prima o seconda generazione. “Va bene, te lo saluto volentieri. Alla prossima Kubilay, stammi bene” disse Jean-Luc entrando nel negozio del panettiere. Effettivamente la famiglia Wicht aveva la politica impressa in ogni gene. La nonna di Jean-Luc era stata la prima donna presidente di un partito importante, quello progressista. Divenne famosa per aver cercato, in buona parte invano, di
rendere il paese più consapevole e responsabile rispetto al mondo che lo circonda. In particolare, fu molto critica nei confronti di certe pratiche bancarie che permettevano di accettare anche denaro macchiato di sangue. Ai suoi tempi criticare le banche era fortemente sconsigliato, perfino tra le file dei progressisti. Invece lei mostrò coraggio e determinazione senza precedenti, provocando delle inchieste giudiziarie su scala nazionale e internazionale, e perfino alcune condanne. Per questa sua crociata contro il riciclaggio di denaro, fu molto amata o rispettivamente odiata. È stata probabilmente la prima figura politica a polarizzare la gente, in modo netto. Con lei o contro di lei, nessuna via di mezzo, nessun compromesso. Poche settimane prima che morisse, Jean-Luc le aveva fatto visita in ospedale e parlarono a lungo. Il nipote adorava ascoltare la nonna narrare la storia del Paese. Il luccichio che emanavano gli occhi della anziana donna mentre raccontava episodi e personaggi, era un segno distintivo inconfutabile di chi la storia si è impegnato a scriverla invece che subirla. Le aveva chiesto se fosse fiera di aver vissuto una vita da idealista, senza darsi per vinta anche quando erano in pochi a sostenerla pubblicamente. La nonna rispose bonariamente che innanzi tutto di idealisti se ne trovano su tutti i fronti, sono gli ideali a fare la differenza. Anzi, aggiunse, forse la cosa più importante è capire chi o quale esperienza ha innestato il seme di un’ideale nelle viscere di una persona. Poi gli spiegò che non si era decisa per una missione tra tante, come spesso avviene in politica, giusto perché poco inflazionata o particolarmente promettente come carta da visita elettorale. Fu piuttosto il caso, o il destino, secondo i punti di vista, ad averla indirizzata sull’onorevole via del dogma politico. Avvenne in modo così manifesto che se avesse chiuso gli occhi per non riconoscerlo, avrebbe perso l’anima. Aveva l’età di Jean-Luc oggi quando si recò con il marito in vacanza in un paese dell’Africa centrale. Avevano trascorso tre settimane tra una riserva naturale e l’altra, sempre ben protetti e coccolati da un’agenzia di viaggi premurosa e costosa. Vacanze magnifiche, a distanza di un respiro da animali stupefacenti e da una vegetazione indescrivibile, ma sempre segregati dalla gente comune, e quindi dall’opportunità di scoprire tradizioni e abitudini locali. Sul volo di ritorno riconobbe uno dei eggeri seduti in business class nella fila davanti a loro. Si trattava di un noto dittatore africano famoso per la brutalità con la quale aveva conquistato il potere e per aver ceduto alle lusinghe economiche delle lobby
occidentali impegnate nello sfruttamento delle risorse di quel paese. Il dittatore sedeva accanto a un europeo, se o belga, il quale aveva però una cadenza in se che era stata inconfondibilmente distorta da chi ha ato molti anni a Ginevra. Malgrado si sforzassero di parlare tra le righe, non riuscì a evitare di ascoltare e intuire che il discorso girava attorno al trasferimento di soldi da un luogo a un altro. All’incirca due ore prima dell’atterraggio a Ginevra, al presunto consulente bancario cadde la penna, che rotolò all’indietro fino ai piedi dell’allora giovane donna. Mentre la raccoglieva, per poi riconsegnarla al proprietario porgendogliela attraverso l’apertura tra i sedili, riconobbe il nome di una nota banca che era inciso sul cappuccio argentato della penna. Quando pochi giorni dopo vide in televisione gli ennesimi appelli di sostegno alla popolazione africana in ginocchio dopo anni di guerre civili e carestie, si chiese quanto povera dovesse essere la mente di una donna o di un uomo per imporsi di non capire il nesso tra i due eventi. Jean-Luc si ricordava, come fosse avvenuto ieri, di come durante tutto il tempo che impiegò per portare a termine il racconto, la nonna adagiata sul letto, dal quale purtroppo non si sarebbe più alzata, non abbassò mai lo sguardo, nemmeno una volta. Un bel traguardo, pensò. Quello stesso giorno, sicuramente speciale, le promise che si sarebbe impegnato anche lui in politica. Francamente Jean-Luc in quella occasione abusò un po` del termine “impegnato”. Sì, onorò la promessa data, ma il suo approccio alla politica era indubbiamente più mondano, distaccato e poco ionale. Sia ben chiaro, non per questo il suo impegno fu meno efficace nel perseguire gli obbiettivi del partito. Nei due anni che aveva trascorso in parlamento si era fatto una vera e propria reputazione di talentuoso conciliatore, tanto che il padre spesso mandava lui a negoziare con gli altri partiti, specialmente nelle occasioni in cui la controparte era rappresentata da una donna. Dopo aver acquistato il pane e dei pasticcini, Jean-Luc si accorse di essere in largo anticipo per il pranzo e decise quindi di fermarsi a bere un caffè in un bistrot vicino alla casa dei suoi genitori. A quell’ora inoltrata del mattino, di lunedì, il locale si presentava deserto, fatta eccezione per il barista e un cliente seduto a un angolo del bancone. I due stavano ascoltando un quiz radiofonico e di tanto in tanto commentavano tra loro
le domande. Jean-Luc si sedette anche lui al bancone, non lontano dall’altro cliente, e chiese un cappuccino e un bicchiere d’acqua. Per evitare l’imbarazzo provocato della momentanea assenza di dialoghi, a parte quelli sporadici suscitati dall’ascolto della radio, si mise a sfogliare un quotidiano. Dopo un lieto intermezzo musicale in cui venne messa in onda una canzone degli U2, l’emittente radiofonica trasmise il segnale orario che preannunciava il notiziario. Nel frattempo Jean-Luc si accorse che l’uomo seduto vicino a lui stava bevendo del vino bianco. La forma del bicchiere e il colore del liquido al suo interno sarebbero bastati a intuirlo, ma le guance particolarmente rossicce di quell’uomo toglievano ogni dubbio. Anzi, indicavano come questi ne avesse probabilmente già scolati parecchi. Il barista teneva a portata di mano la bottiglia, ancora piena per metà. “Signore e signori, benvenuti al notiziario delle nove” esordì solennemente l’annunciatore. “Questa notte sono stati completati i lavori di conteggio per la suddivisione della popolazione tra progressisti e conservatori, con il seguente risultato: il 69% della popolazione residente in Svizzera ha scelto di unirsi ai progressisti, il 30% ha deciso per i conservatori, e il rimanente 1% ha annunciato che si trasferirà all’estero entro tre mesi”. “Sulla base di queste cifre” continuò il commentatore con un tono di voce talmente neutro da sembrare il banale annuncio delle previsioni del tempo o del traffico stradale, “i rappresentanti dei due partiti si incontreranno domenica prossima per stabilire i termini della spartizione del paese. iamo ora, ai risultati sportivi…” “Ecco” pensò Jean-Luc, “Kubilay aveva visto giusto”. Poi, ritornando con il pensiero alle percentuali che erano state annunciate e che da li a poco avrebbe commentato con il padre, si soffermò a riflettere sulla percentuale di aderenze per la regione conservatrice: “Strano, il 30% per i conservatori supera chiaramente le nostre previsioni. Sorprendentemente una piccola ma non insignificante parte degli stranieri ha scelto di stare con i conservatori. Non si può spiegare altrimenti. Ma perché?” si chiese Jean-Luc assorto nei suoi pensieri.
Con un certo ritardo, ma seguendo lo stesso filone di pensiero, l’altro cliente del bistrot si rivolse al barista: “Hashim non avrai mica scelto di andare a stare con i conservatori?” “Io? Ma no, certo che no. Non sono mica scemo. Non bastasse il fatto che sono l’ultimo che i conservatori vorrebbero avere tra i piedi, Ginevra farà sicuramente parte della regione progressista. Pensa che guaio dover abbandonare tutto per trasferirsi chissà dove”. “Certo, capisco” rispose l’uomo, mentre fissava il bicchiere ora vuoto. “Ti sembrerà assurdo, ma mio cugino per esempio lascerà tutto e andrà a stare con i conservatori. Si trasferirà con tutta la famiglia”. “Beh, scusa tanto, ma questo non mi sorprende” dichiarò il barista. “Quante volte mi ha rinfacciato di aver invaso il suo paese? Francamente un paio di volte mi sarebbe piaciuto trovare il coraggio di sbatterlo fuori dal locale”. “In effetti” replicò il cliente, “per quanto riguarda mio cugino non è certo una grave perdita. Quello che non capisco è come hanno fatto ad arrivare al 30%. Voglio dire, i conservatori hanno chiaramente annunciato che adotteranno delle leggi molto rigide, e esplicitamente discriminatorie nei confronti degli stranieri, eppure qualcuno dei vostri deve aver scelto di stare con loro, o sbaglio?” “No, hai ragione” rispose il barista sorvolando sul generico termine vostri. “Senti, un mio vicino di casa è serbo, nazionalista fino all’osso. Tanto che quando lo incontro non solo non mi saluta, ma talvolta mi incute paura con lo sguardo. Tramite mia figlia, che conosce bene una delle sue figlie, ho saputo che hanno scelto di andare a vivere con i conservatori solo perché la comunità kosovara in Svizzera ha ufficialmente raccomandato ai connazionali di scegliere la regione progressista. Chissà quanti altri esempi come questo ci saranno stati”. “Già” pensò Jean-Luc, mentre face capire al barista con un cenno della mano che voleva pagare, “questi due hanno probabilmente ragione”. Pagò il cappuccino e il bicchiere d’acqua minerale, arrotondando il conto a otto franchi. Il barista ringraziò e lanciò i pochi spiccioli della mancia in un vasetto posto vicino alla cassa, centrandolo al primo tentativo come solo un provetto cestista avrebbe saputo fare. Mentre si congedava dai due improvvisati “politologi”, Jean-Luc si accorse che
la bottiglia di vino bianco che il barista aveva tenuto a portata di mano era ormai vuota e veniva rimpiazzata da una nuova. Alquanto sorpreso, il giovane progressista si chiese come fosse possibile. Da quando era entrato nel bistrot, avrebbe giurato di non aver visto il cliente vuotare il bicchiere né il barista riempirlo nuovamente. Come due illusionisti erano riusciti a far sparire mezza bottiglia di vino senza muovere un dito. Anche se non si trattava certo di una dote speciale, rimase immobile, incuriosito, e osservò per qualche secondo i due giocolieri del bicchiere con l’intento di coglierli sul fatto. Poco dopo, lo sguardo vuoto di entrambi e la mancanza di ogni movimento, lo dissuasero dal persistere. Mentre ricopriva le poche decine di metri che lo separavano dall’entrata della palazzina dove vivevano i genitori, Jean-Luc continuò a riflettere sui due personaggi che nel bistrot ricoprivano il ruolo di indiscussi protagonisti. Si chiese se la tristezza e l’apatia che si respiravano nel bistrot fossero il risultato della mancanza di ambizioni, o se fossero piuttosto da attribuire alla rassegnazione che nasce da ripetute sconfitte. Difficile dire. A pochi metri dal portone del palazzo due bambini intenti a contendersi il pallone con dribbling e contro dribbling gli andarono a cozzare contro. Il più piccolo dei due, che avrà avuto otto o nove anni, si scusò e riprese immediatamente l’inseguimento dell’amico che si era impossessato ora del controllo della palla. Jean-Luc fu colpito dal contrasto tra il pallone di cuoio, nuovo e molto bello, e le scarpe bucherellate del bambino, rovinate a tal punto che probabilmente la suola si sarebbe staccata presto dal resto. Poi il gelo nelle vene. Il portafogli, che prima sentiva nella tasca della felpa da jogging, era scomparso. Un rapido controllo con la mano confermò il fattaccio. I due scaltri ragazzini avevano inscenato tutto, e rapidi come fulmini gli avevano rubato il portafogli. Il primo pensiero fu che per fortuna si trattava solo di denaro. Non portava mai documenti e altri effetti personali quando andava a correre. Quanto gli avevano rubato? All’incirca 50 Franchi. “Eh che cavolo” pensò, “sono comunque soldi!”, così appoggiò il sacchetto con il pane e i pasticcini sul davanzale di una finestra e si mise a rincorrere i due che avanzavano andosi la palla. Uno gli dava le spalle mentre l’altro aveva lo sguardo volto in direzione di Jean-Luc. Non appena lo vide correre sbraitando nella loro direzione, gridò al compagno di ventura di abbandonare subito il pallone. Si misero entrambi a correre seguendo
un percorso che probabilmente avevano già stabilito in anticipo. In condizioni normali Jean-Luc non avrebbe fatto fatica a raggiungerli rapidamente, ma adesso aveva le gambe indolenzite dalla corsa che aveva fatto in mattinata lungo il lago. Ciononostante, dopo circa duecento metri, riuscì a ridurre la distanza dal più piccolo dei due scippatori a poche falcate. Il più grande dei due, che li precedeva di una ventina di metri, si voltava di continuo con aria terrorizzata incitando il più piccolo in una lingua che Jean-Luc non riuscì a comprendere. Forse un idioma dell’est Europa, anche se certe parole gli ricordavano le lingue latine che meglio conosceva. Il più piccolo dei due, accortosi che Jean-Luc avrebbe potuto raggiungerlo e afferrarlo in pochi metri, attraversò improvvisamente la strada correndo un rischio terribile. Una macchina che arrivava a velocità sostenuta lo mancò per un soffio mentre il conducente bloccò i freni in una rumorosa frenata. Jean-Luc che si era fermato sul ciglio della strada riprese la corsa e notò lo shock dipinto sul volto di questi, immobile con le braccia tese sul volante. Con questa manovra, alquanto rischiosa, il bambino guadagnò una decina di metri, ma la stanchezza per la corsa si face sentire sul suo fisico non ancora completamente sviluppato e ricominciò rapidamente a perdere terreno. Dopo l’ultimo cambio di direzione in Rue des Alpes, per Jean-Luc divenne chiara anche la destinazione dei due furfanti. Doveva raggiungerli prima che arrivassero alla stazione ferroviaria o si sarebbero probabilmente dileguati tra la folla. Quando Jean-Luc gli fu praticamente addosso, un colpo di sfortuna rimise immediatamente tutto in discussione. Pochi istanti prima del aggio del giovane politico si apri lo sportello di un furgone posteggiato in zona vietata e con due ruote sul marciapiede. La portiera aperta ostruiva completamente il aggio, già di per sé molto stretto e reso ancora più esiguo dalla presenza del furgone sul marciapiede. L’inevitabile impatto fu piuttosto violento. Dopo qualche secondo di smarrimento Jean-Luc si rimise in piedi, anche se dolorante a un braccio. Rassicurò il proprietario del furgone che lo guardò stupito, prendendolo per uno strano tizio talmente concentrato nel fare jogging da non fermarsi neppure dopo una tale botta. Arrivato nella piazzetta che si trova davanti alla stazione ci mise quasi un minuto prima di ritrovare i due bambini. Erano a circa cinquanta metri, nell’angolo
opposto della piazza accanto a una macchina blu di grossa cilindrata, posteggiata nella zona adibita a soste di corta durata. Ne scese un uomo che senza preoccuparsi di spegnere il motore ne di chiudere la portiera fece qualche o nella loro direzione. Nel frattempo i due bambini non lo cercarono con lo sguardo, probabilmente convinti di averlo seminato. Così Jean-Luc decise di incamminarsi lentamente verso di loro, invece che mettersi a correre e rischiare che si dileguassero all’istante a bordo della macchina sportiva. Avanzando lentamente poté osservare bene la scena. L’individuo, che aveva una faccia da brutto ceffo talmente stilizzata che avrebbe potuto incarnare il ruolo del cattivo in qualunque film hollywoodiano, li guardava con disprezzo, come se fossero dei cani randagi. I due gli porsero i soldi senza esitazione, banconote di piccolo taglio, probabilmente duecento o trecento franchi. L’uomo, che finora si era limitato a fissare i due piccoli briganti senza dire una parola, si girò verso la macchina per ripartire, ma poi si fermò, tornò sui suoi i e bisbigliò qualcosa al più piccolo dei due. Anche a distanza fu facile intuire come quelle parole fecero irrigidire e probabilmente perfino tremare il più grande dei due scippatori. Il piccolo, a testa bassa, rivoltò le tasche dei pantaloni e cadde a terra una banconota da dieci franchi che raccolse e porse all’uomo senza guardarlo. Questi afferrò i soldi e diede un fragoroso ceffone al bambino, che barcollò e quasi cadde a terra. Si vedeva che il piccolo tratteneva le lacrime a stento. Nessuno dei presenti sulla pizza sembrò aver notato la triste scenetta. Poi l’uomo salì in macchina, fece retromarcia e si immise prepotentemente nel traffico, lasciando i due bambini immobili come due pali piantati nel posteggio. I due si guardarono intensamente, sconsolati e in silenzio. Mentre avanzava verso di loro Jean-Luc notò con la coda dell’occhio un ufficiale di polizia avvicinarsi a sua volta, con una mano sulla radiolina e una sulla fondina della pistola. Doveva aver osservato la scena fin da quando i due erano arrivati in stazione, correndo come due forsennati. Jean-Luc fece allora qualche o di corsa in direzione del poliziotto e attirò la sua attenzione. Questi lo riconobbe come personaggio pubblico e notò la felpa lacerata sul braccio, dopodiché si bloccò a mezza strada, come in attesa di un cenno. Jean-Luc diede un rapido sguardo ai due bambini seduti vicini su una catena posta tra due blocchi di granito che servivano a delimitare la zona di transito dei pedoni. Il più grande consolava il più piccino. Jean-Luc, costretto dalle circostanze a prendere rapidamente una decisione, concluse che non avrebbe sporto denuncia e fece cenno con la mano al poliziotto di fermarsi, invitandolo così a non intervenire. Questi esitò per un attimo, ma lo sguardo deciso di Jean-Luc lo dissuase dal prendere qualsiasi iniziativa.
Ci mise molto a ritornare alla casa dei genitori. Era stanco e gli faceva male il braccio. Salendo le scale della palazzina sentì le voci della madre e della portiera spagnola che discorrevano sul pianerottolo davanti al loro appartamento. Si lamentavano per l’ennesimo guasto all’ascensore e le crepe sui muri della cantina che sembravano allargarsi a vista d’occhio. Mentre Jean-Luc saliva con fatica le ultime due rampe di scale che lo separavano dal quarto piano, la portiera con estrema delicatezza e destrezza piazzò la domanda che la aveva indotta quella mattina a lucidare proprio le scale tra il terzo e il quinto piano. “Ha sentito i notiziari questa mattina? Insomma a quanto pare divideranno davvero il paese in due. Cosa dice suo marito? Siete preoccupati?” chiese la donna. La madre di Jean-Luc vedendolo sopraggiungere cercò di tagliare corto, inoltre, sapeva benissimo il fine di questa domanda. “Philippe è convinto che Ginevra resterà ai progressisti. Sono altri i cantoni per i quali il destino è ben più incerto. Stia tranquilla, qui non cambierà niente”. Poi guardò attentamente il figlio da capo a piedi, mentre questi arrancava alla conquista degli ultimi gradini. Di solito questa procedura sfociava nell’immancabile mi sembri dimagrito, ma ti fai da mangiare come si deve o no? Se Jean-Luc nei dieci anni trascorsi fuori dalle mura famigliari fosse veramente dimagrito anche solo di mezzo chilo ogni volta che la madre gli poneva quelle domande, oggi, non esisterebbe più. Sarebbe materialmente sparito dopo circa sei o sette anni. Ma oggi era diverso. La preoccupazione della madre non aveva niente a che fare con questo rituale ed era assolutamente spontanea. “Cos’hai fatto? Stai bene? Perché hai la manica della tutta rovinata?” “Ciao mamma, sto bene” rispose Jean-Luc porgendole il sacchetto con il pane e i pasticcini che aveva ritrovato intatti sul davanzale della finestra, vicino al portone d’ingresso. “Sono scivolato facendo jogging questa mattina. Non mi sono accorto della brina sull’erba. Con il terreno gelato ci vuole poco”. Raccontarle com’erano andate veramente le cose l’avrebbe messa in ansia inutilmente. “Comunque non mi sono fatto niente di grave. Ho solo una piccola escoriazione al gomito”.
“Beh, la prossima volta fai più attenzione. O meglio, in inverno, non ti sembra il caso di andare in palestra, così come fanno gli altri? Ci sarà una buona ragione, no?” “Magari la prossima volta faccio un altro percorso. Il papà è nel suo studio?” chiese Jean-Luc per chiudere l’argomento. “Mi sembra di sì, ma credo che adesso sia al telefono. È meglio se lo aspetti in sala”. “Bene, allora faccio una doccia al volo e mi disinfetto la ferita”. “I cerotti…” iniziò a dire la madre, ma la frase la completò Jean-Luc “…sono nell’armadietto sopra al lavabo. Lo so. Grazie comunque”. “Beh arrangiati, io mi devo occupare dell’arrosto” rispose la donna un po’ seccata, mentre se ne andava in cucina. Dopo aver fatto una doccia bollente e aver medicato la ferita, Jean-Luc si adagiò sulla poltrona preferita del padre, rivolta verso la parete più ampia della sala e vicino al lungo tavolo da pranzo in vetro. Sulla parete era appeso un grande quadro completamente blu che la ricopriva per più di un terzo della superficie. L’appartamento era situato in un palazzo storico della città, molto caratteristico. La rampa delle scale a chiocciola, che lui aveva precorso per arrivare al quarto piano, era completamente in marmo ed era stata perfino censita sulla lista dei beni culturali cittadini. Le tre ristrutturazioni del palazzo, che si erano verificate sull’arco di più di cento anni, avevano preservato la rampa delle scale e l’atrio d’ingresso da qualsiasi cambiamento, restando così fedeli testimonianze dell’architettura d’inizio novecento. L’appartamento dei suoi genitori era invece molto moderno al suo interno. La fornitura di mobili era stata ridotta all’essenziale, ma non per questo non venne scelta con cura. Tutt’altro, la precisione con cui i mobili si combinavano armoniosamente nelle forme e nei colori indicavano che erano stati selezionati minuziosamente nel corso degli anni. In questi spazi semi vuoti, saltavano all’occhio in particolare gli scaffali, le sedie e la poltrona che erano stati tutti disegnati dal famoso architetto Le Corbusier. Ecco una delle tanti coincidenze, per lo più casuali, della vita. Le Corbusier è
infatti raffigurato sulle banconote gialle da dieci franchi, come quella scivolata dalle tasche del piccolo furfante. Chissà se quel bimbo un giorno avrebbe scoperto a chi apparteneva quella faccia, che lo fissava minacciosamente dalla superficie della banconota mentre la raccoglieva per poi porgerla al suo sfruttatore. Anche il quadro che si trovava di fronte a Jean-Luc si abbinava perfettamente alle linee moderne ed essenziali dei mobili. Eppure il giovane si era sempre chiesto come fosse possibile spendere tanti soldi per un quadro completamente blu. Sì certo, si trattava proprio di un bel blu intenso. In alcune zone della tela il colore era più chiaro, tendente all’azzurro, limpido come il cielo di una giornata invernale senza nuvole, mentre in altre zone il colore era molto più scuro, quasi tendente al viola. “Questo quadro non ti dice niente vero?” esordì Philippe Wicht, il padre di JeanLuc, entrando in salotto. “Beh, francamente no. Ma è una questione di gusti. E poi io di arte non ci capisco niente” rispose Jean-Luc, mentre continuava a fissare il quadro volendo dimostrare che non mancava di impegno nel cercare di individuare un qualcosa che ancora non riusciva a vedere. “Pensa che io ho ato ore a fissare questo quadro” commentò allora il padre. “Mi ipnotizza tanto quanto il fissare ininterrottamente il mare o il fuoco. Dopo qualche minuto comincio a distinguere delle forme. A volte perfino dei volti”. “Mah, sarà come dici tu papà. Io comunque non ci vedo assolutamente niente” tagliò corto Jean-Luc, abituato alle divagazioni artistiche del padre. Philippe cambiò allora discorso, consapevole che non avevano molto tempo da perdere in chiacchiere. “Scusami, ma ho appena concluso una lunga conferenza telefonica con i vertici del partito. Abbiamo discusso per più di un’ora. È tanto che aspetti?” “No, sono arrivato un quarto d’ora fa. Ho avuto dei contrattempi. Ho fatto la doccia e mi sono seduto qui ad aspettarti” rispose Jean-Luc. Philippe Wicht, cinquantacinque anni portati bene, godeva per sua fortuna di buona salute. Ricopriva il ruolo di stratega del partito da due anni, a coronamento di una carriera politica senza intoppi che lo aveva portato presto a
ricoprire cariche importanti tra le fila dei progressisti. Certo, in gioventù, quando era alle prime armi, aveva sfruttato il nome e la linea politica indicata dalla madre, ma questo vantaggio iniziale era diventato negli anni un peso per Philippe, specialmente da quando sua madre era morta. A ogni suo errore o indecisione gli veniva ricordato che la madre avrebbe agito diversamente, o in modo più deciso. Fare politica sotto quell’ombra onnipresente lo aveva reso insicuro. Per controbilanciare tale insicurezza spesso reagiva impulsivamente, cercando così di anticipare ed evitare i commenti maligni di alcuni colleghi di partito che in ato lo avevano tacciato di irresolutezza. A causa di questa forzatura, e cioè tale simulata determinazione, non sempre aveva preso le decisioni migliori. Amava discutere con Jean-Luc proprio perché in quei momenti con lui poteva essere se stesso e non si doveva imporre per difendere la sua immagine di stratega. Per questo, prima di ogni decisione importante si consultava con il figlio. “Ascolta. Abbiamo stabilito la linea del partito per le trattative di domenica prossima con i conservatori. Vorrei sapere che cosa ne pensi”. Jean-Luc annui, facendo capire al padre che era pronto. “Per farla breve, la spartizione del territorio tra noi e i conservatori sarà al centro delle trattative. Implicitamente questo porterà ad alcune scelte sull’indirizzo economico e sociale da dare alle due regioni autonome. Capisci quello che voglio dire?” “Penso di sì, ma se tu potessi essere un po’ più concreto, non mi disturberebbe” rispose Jean-Luc. “Prendiamo l’esempio di Zurigo. Pensiamo che i conservatori cercheranno di ottenere il cantone. Dato che gli abitanti di Zurigo hanno fatto una scelta al 50% per le rispettive regioni, avremmo tutti i diritti di batterci anche noi per includere quel cantone tra i nostri. Eppure, abbiamo deciso di non batterci per la piazza finanziaria di Zurigo e per le grandi banche. Le lasceremo ai conservatori, e in compenso cercheremo di ottenere altri tra i cantoni in bilico, così come le infrastrutture nazionali che ci interessano di più” spiegò Philippe. “Anche se condivido la linea che avete preso, mi chiedo se non sottovalutate l’importanza della piazza finanziaria e delle grandi banche. Dobbiamo
preoccuparci di sviluppare un’economia bilanciata” commentò Jean-Luc. “Certo, all’inizio non sarà facile” riprese Philippe risoluto. “Si tratta della scommessa più rischiosa. Ma siamo convinti di vederci giusto. Il voto dei vertici del partito è stato unanime”. Philippe si spostò verso la finestra e si mise a osservare dall’alto le persone che transitavano nelle due direzioni lungo la via pedonale. Jean-Luc aveva imparato che quando il padre sosteneva le sue tesi dandogli le spalle, lo faceva per mascherare la sua insicurezza, che lo metteva talvolta in difficoltà. “Il futuro non è nel mondo finanziario. Ne siamo sicuri. Per essere più esplicito, ti posso anticipare che con la fondazione della regione progressista, annunceremo rapidamente la rinuncia al segreto bancario”. Jean-Luc che ascoltava il padre attentamente, esitò a intervenire. Si trattava potenzialmente di una scelta azzardata, o quantomeno prematura. Ma si trattenne, aspettando che il padre completasse il suo pensiero. “Questa decisione ci aiuterà nel difficile compito di ratifica di una serie di accordi bilaterali con le nazioni che ci circondano. Vogliamo mantenere l’indipendenza, certo, ma dobbiamo aumentare il livello di collaborazione con i nostri vicini. Ci assicureremo così condizioni favorevoli all’esportazione. Chiaramente con questa decisione saremo costretti a puntare su altre industrie, come quella farmaceutica, quella orologiera, e in generale dovremo investire molte risorse nell’innovazione tecnologica” concluse Philippe girandosi verso il figlio. “Cosa ne pensi?” “Mi sembra una scelta molto rischiosa, ma indubbiamente coraggiosa”. Jean-Luc esitò qualche secondo, consapevole che quello che il padre si aspettava da lui era una chiara presa di posizione e non un banale commento come quello che aveva appena pronunciato, valido per tutte le occasioni, un po’ come l’oroscopo. Così aggiunse: “Di massima, sono d’accordo. Esito solo sui tempi. Perché tanta fretta nell’annunciare la rinuncia al segreto bancario? Non ci conviene aspettare un po’ e rivalutare la decisione sei o dodici mesi dopo la fondazione?” “Jean-Luc, il consiglio del partito è convinto che perderemo questo privilegio comunque. Se lo abbandoniamo noi spontaneamente possiamo cercare di
ottenere agevolazioni per altre questioni importanti. Se invece aspettiamo che ce lo impongano usando pressioni diplomatiche ed economiche, non saremo più in grado di trarre vantaggi da questa decisione” rispose Philippe, in questo caso visibilmente persuaso di quello che stava riferendo al figlio. “Capisco, in fin dei conti credo proprio che abbiate ragione” replicò Jean-Luc. “Altre concessioni ai conservatori? Voglio dire, oltre al Canton Zurigo?” “Sì una, ma molto meno delicata. Siamo pronti a lasciare loro tutto l’apparato militare, l’arsenale al completo e anche i servizi segreti” rispose il padre. “E che ne faremo delle caserme e dei bunker giganteschi sparsi un po’ ovunque sul nostro territorio?” chiese Jean-Luc. “Li riutilizzeremo per altri scopi. Ci sono già pervenute delle idee interessanti da parte di alcune società di consulenza, ma di questo te ne parlerò un’altra volta”. “Beh, quantomeno una scelta coerente. Sono anni che predichiamo l’inutilità di quelli apparati nella loro attuale funzione” disse Jean-Luc, che poi, come risvegliatosi all’improvviso da un brutto sogno, sgranò gli occhi e aggiunse: “Ma la polizia la manteniamo, vero?” “Certo Jean-Luc, che domanda!” rispose Philippe divertito e sorpreso dalla domanda quasi infantile del figlio. Jean-Luc si massaggiò il gomito ripensando agli avvenimenti di quella mattina, che legittimavano pienamente la sua domanda. Sull’onda di questi pensieri, cambiò argomento. “Senti papà, quasi tutti gli stranieri hanno deciso di venire a vivere nella regione progressista. Sorprendentemente una minoranza andrà a vivere nella regione conservatrice, ma comunque nella sostanza la percentuale di stranieri salirà fortemente nella nostra regione. Siete convinti che questo sviluppo non ci porrà dei problemi?” Philippe Wicht che non era per niente abituato a sentire il figlio esprimere dubbi su questo argomento, capì subito che ci dovevano essere ragioni precise per parlare così. “I soliti problemi legati all’immigrazione e all’integrazione. Certo, avremo il nostro da fare, ma questo non ci spaventa. A cosa ti riferisci esattamente?”
Jean-Luc raccontò al padre brevemente la disavventura della mattina. Concluse il suo racconto sostenendo che quello che lo preoccupava davvero era un’eventuale impennata della criminalità e della violenza in genere. Temeva che tale dinamica potesse provocare un cambiamento radicale in un territorio in cui si è abituati a vivere senza dovere avere paura di essere aggrediti per strada, o peggio. Philippe si sedette allora nella poltrona, lasciata libera dal figlio che eggiava ora avanti e indietro per il salotto, sotto l’influsso dei residui di adrenalina che gli circolavano ancora nel sangue. “Cultura collettiva e individuale” esordì Philippe mentre fissava il quadro blu con aria distratta. “Era il titolo di un conferenza alla quale ho assistito due settimane fa a Parigi. Ti racconto in sintesi di cosa si trattava” aggiunse il padre, mentre Jean-Luc di spalle rivolto verso la finestra alzava già gli occhi al cielo. Sapeva di avere toccato un tasto delicato. “La cultura è un termine vasto, spesso malinteso, sottovalutato. Probabilmente si tratta del vero termine con il quale sbagliando comunemente intendiamo definire il concetto di intelligenza. Intelligenza, invece, che a sua volta viene spesso confusa con istruzione. E qui si chiude il cerchio. Istruito significa forse colto? C’è una differenza o sono tutti sinonimi?” gli chiese retoricamente Philippe Wicht. Jean-Luc cominciò a valutare quali opzioni aveva per scappare da quella conferenza improvvisata senza urtare la sensibilità del padre. “Ti faccio un esempio” continuò Philippe imperterrito. “A volte mi capita di sentir parlare dei dottori, persone di successo, persino dei professori, e avere i brividi nel vederli risucchiati dal vuoto. Naturalmente non quando si esprimono sul lavoro o in ambito accademico. Lì appaiono, anzi lo sono, istruiti, intelligenti, brillanti. Succede quando escono dal loro campo di competenza, per esempio tra amici parlando del più e del meno, o al bar con uno sconosciuto. Insomma quando tornano tra i comuni mortali e si trovano impreparati come tutti gli altri di fronte alla più banale delle domande o alla più banale delle situazioni. Ecco in quei casi ci vuole poco per vedere l’intelligente trasformarsi in ottuso, o l’istruito diventare un mulo, piantato sulle quattro zampe, irremovibile persino se posto di fronte all’evidenza. Senza preavviso, può accadere a chiunque”.
Dopo un a breve pausa, Philippe continuò. “La cultura invece è una cosa diversa, uno se la porta dentro. È una conquista lenta dei popoli, un accumularsi di esperienze, positive e negative, per generazioni. Tutti i popoli hanno una cultura millenaria, che col are del tempo tende sempre più a convergere in una cultura globale. Speriamo che converga in qualcosa di positivo, ma questo è un altro problema”. “Senti pa’, cerca di venire al dunque perché non ho la più pallida idea di dove vuoi arrivare con questa storia della cultura dei popoli” lo riprese Jean-Luc, francamente spazientito. “Innanzi tutto voglio dire che se proprio si vogliono confrontare i popoli allora è la cultura collettiva che va messa a confronto, e non gli individui. Detto questo possiamo are agli individui” rispose Philippe. “La cultura è il frutto di millenni di lavoro, e come ho detto prima, non va confusa con quello che un individuo per merito, intelligenza, istruzione o cos’altro, può accumulare nell’arco di una vita. Il problema è che se un individuo, istruito o ignorante, ricco o povero, non coltiva il patrimonio culturale che ha dentro, o se lo rinnega, beh, può perderlo in un istante. Se uno butta via la sua cultura, è per sempre. Spesso questo ha conseguenze anche sui figli. È come se il testimone che viene ato loro non fosse più intatto, ma scalfito e danneggiato”. “E cosa c’entra questo con quello che mi è accaduto questa mattina?” chiese Jean-Luc ormai quasi rassegnato a non ricevere quelle risposte che avrebbero alleviato le sue preoccupazioni. “Lo sfruttatore che hai visto alla stazione è ormai privo di cultura. Lui stesso, o qualcuno prima di lui con un forte ascendente sul suo sviluppo, l’ha buttata via. L’ha persa per sempre. Ma questo è accaduto all’individuo. Il suo popolo non ha perso la cultura. Capisci?” gli chiese il padre. “Vagamente. Insomma se qualcuno commette dei fatti gravi, per esempio diventa un feroce criminale, segna per sempre i suoi discendenti, per generazioni. Giusto?” chiese a sua volta Jean-Luc. “Per fortuna non è così, una generazione non basta. I figli si possono quasi sempre riscattare e restano padroni del loro destino”. Nuovamente Philippe si prese una breve pausa prima di ricominciare. “Certo però che se specifiche esperienze si ripresentano di generazione in generazione, per molto tempo, allora
queste piano piano vanno a sovvertire l’anima culturale che uno si porta dentro, modificandola”. “Parli di genetica adesso?” chiese Jean-Luc sempre più disorientato. “Diciamo che c’è chi la chiama genetica, chi il frutto di ripetute e forti esperienze di vita attraverso più generazioni, altri ancora, forse la chiamerebbero confessione. Alla fine il concetto è lo stesso. Se voglio trasmettere a un figlio, a un amico, o perfino a uno sconosciuto, qualcosa di utile, di valido, beh, allora anzitutto non devo perdere la mia cultura” spiegò Philippe con espressione divertita. “D’accordo, ma, concretamente, cosa mi vuoi dire?” chiese Jean-Luc di nuovo. “Coloro che si ostinano a non accettare gli stranieri, ovunque nel mondo, temono di perdere la loro cultura. Ne hanno talmente paura che questo a volte li rende ossessivi e infelici. Vivono nella paura e crescono i figli in un ambiente malsano, come fossero sotto costante assedio. L’assurdo in tutto questo è che la cultura non si perde in modo collettivo. Sono gli individui a perderla semmai”. Poi Philippe si avvicinò al figlio, cosciente di averlo strapazzato un po’ più del dovuto e aggiunse: “Non mi fraintendere. Hai tutti i diritti di preoccuparti per atti criminali ed essere indignato nei confronti di coloro che aggrediscono fisicamente o verbalmente il prossimo. Ma ti prego di non generalizzare. Questo errore lo fanno in molti, specialmente tra coloro che si ritengono colti e invece sono solo istruiti”. Jean-Luc si alzò in piedi, convinto di avere trovato una falla nel discorso del padre. “Bene, l’individuo non va confuso con tutto un popolo. Ciononostante, la statistica serve proprio a spiegare questi fenomeni razionalmente. Se gli stranieri commettono un numero maggiore di atti criminali degli svizzeri, questo, statisticamente, prova una differenza culturale, o no?” Philippe rispose al figlio con aria assorta, probabilmente preoccupato del fatto che sempre più spesso i numeri relegano l’intuizione in secondo piano. “JeanLuc, se la cultura è un bene millenario, allora le statistiche calcolate su un anno o su un decennio non valgono niente. Rappresentano numeri quasi casuali. Pensa a estendere tali statistiche sull’arco di qualche secolo. Chi sono i popoli più criminali?” gli chiese allora retoricamente prima di aggiungere: “I tedeschi, o
tutti coloro che non hanno mosso un dito per impedire l’olocausto? I coloni americani per aver sterminato gli indiani? Gli inquisitori di mezza Europa per aver bruciato vivi presunte streghe e fantomatici stregoni? Io sono convinto che se potessimo consultare delle statistiche precise sull’arco di mille anni, cosa che naturalmente non ci è possibile, i numeri dimostrerebbero allora che gli uomini sono simili, ovunque e in tutto, sicuramente anche nella propensione o meno alla violenza”. “Beh, mi sembra un po’ superficiale basarsi su statistiche teoriche che nessuno può confermare. Non ti pare?” commentò Jean-Luc poco convinto della visione estemporanea del padre, tanto lontana dai problemi quotidiani. “Non è una questione di numeri o di verifiche empiriche. È solo una questione di buon senso” replicò categoricamente Philippe Wicht.
Capitolo 5
I cani sono degli animali alquanto particolari, per certi versi misteriosi. Sono molto legati all’uomo, caratteristica che per buona parte è semplicemente dovuta al fatto che sono stati addomesticati proprio dall’uomo alla scopo di stargli vicino. Eppure, anche altri animali che da secoli ano molto tempo in prossimità dell’uomo, vivono il rapporto con i loro padroni a due zampe in modo decisamente meno ionale. Avete già provato a dare un ordine a un asino, a una mucca o a un gatto? Se anche per miracolo, o per puro caso, dovessero fare anche solo in parte quello che gli avete chiesto, sicuramente non lo faranno scodinzolando felicemente. È un mistero, ma ai cani gli uomini piacciono proprio. Chissà perché? La cagna di David Gabus non rappresentava certo un’eccezione. Anzi, l’amore sconsiderato che la legava al proprio padrone era talmente intenso da polarizzare l’aria, caricarla di elettricità positiva, creando una sorta di cupola protettiva intorno a loro. Vederla scodinzolare attorno a David riempiva il cuore. David e sua moglie Jacqueline non avevano avuto figli. Non che non li avessero desiderati, semplicemente non erano arrivati. I medici non avevano trovato una ragione precisa che escludesse a priori ai due coniugi la possibilità di concepire una vita. E così il tempo ò veloce e inesorabile in attesa di quello che non avvenne mai. Come spesso accade in queste circostanze, le attenzioni dei coniugi Gabus rivolte alla loro cagna, come d’altronde per tutti i cani che avevano avuto in precedenza, erano caratterizzate da uno spirito protettivo, premuroso, talvolta esasperato per un cane, dal divenire quasi ridicolo. Particolarmente con questo cane, un bellissimo esemplare di pastore bernese di sette anni, David aveva instaurato un rapporto affettuosamente paterno. David e il cane stavano eggiando nel giardino del suo castello, così come ogni mattina di buonora. L’immensa tenuta, ora tutta ricoperta da una fine coltre di neve che era caduta durante la notte, permetteva loro di fare una eggiata di mezzora senza uscire dai confini della proprietà. A David piaceva la neve,
anche se il suo giardino era un’opera d’arte che non si poteva apprezzare pienamente in inverno. Vi si potevano incontrare tantissime piante d’ogni origine, a condizione che fossero in grado di resistere alle temperature dei mesi invernali. Alla costruzione di una serra non si era mai interessato, perché troppo artificiale per i suoi gusti. “Che bella giornata di fine gennaio” pensò David, mentre compattava la neve in pallottole farcite di biscotti, per poi lanciarle in tutte le direzioni al cane che scodinzolando correva a recuperarle. Il castello che aveva acquistato a metà degli anni novanta era in ottimo stato ed era il più vasto edificio storico che un privato avesse mai potuto comprare nella regione di Neuchâtel. I soffitti altissimi e il numero smisurato di stanze confermavano immediatamente agli ospiti che il termine castello non era esagerato per descrivere la costruzione in pietra, d’epoca medioevale. In particolare, le due alte torri poste a sud e nord dell’esagono che in precedenza scandiva la forma del muro di cinta, erano ancora intatte e segnalavano la posizione del castello a grande distanza, come fossero due fari gemelli. Il muro di cinta invece era stato demolito a inizio novecento per visibilità alla bellezza della costruzione interna e per permettere di ammirare il giardino anche dai piani inferiori. Per ridare lustro alle torri, David e la moglie spesero un patrimonio a beneficio di un famoso architetto ticinese, il quale fece costruire due erelle completamente in vetro, poste a quattro metri dal suolo, che collegavano le torri alla struttura principale. Quella rivolta a sud, con la vista privilegiata sul lago di Neuchâtel, venne utilizzata per trarne tre ampie camere circolari per gli ospiti, dato che la presenza di amici e parenti in casa Gabus era una costante durante il fine settimana. L’altra torre, quella posta a nord del complesso, fu invece adibita da David in una sorta di museo, ricco di cimeli legati alla tradizione orologiera svizzera. Questa collezione privata di oggetti storici si snodava a spirale ai lati di una lunga scalinata che dal basso portava fino in cima alla torre, dove David aveva allestito il suo studio, territorio proibito a chiunque, persino alla moglie. I Gabus, ormai ultrasettantenni, non essendo più in grado di gestire la vasta proprietà da soli, dopo qualche anno dall’acquisto assunsero una coppia se a tempo pieno per aiutarli nelle varie mansioni necessarie alla conduzione di una tale dimora. Se si aggiungono l’autista, i saltuari giardinieri, i cuochi per il fine settimana e gli artigiani per le necessarie riparazioni, in casa Gabus si potevano incontrare ogni giorno almeno tre o quattro collaboratori indaffarati nelle loro mansioni. A David questo costante andirivieni in casa non era mai piaciuto e per
questo si era creato in cima alla torre un’isola di assoluta privacy, a costo di pulirsela da solo. Jacqueline era nata benestante, anche se non quel tipo di benestante da potersi permettere addirittura un castello come casa. David proveniva invece da una famiglia del ceto medio ed era cresciuto dividendo un modesto appartamento con i genitori, due sorelle e due fratelli. Il padre di David era artigiano, un artista dell’orologio. Li costruiva uno alla volta, con la pazienza e la cura con cui si creano le opere d’arte. Capolavori sempre più belli, in cui cercava sempre di aggiungere un elemento nuovo, inatteso, che nessun altro prima di lui aveva osato inserire in un orologio. Il talento del padre era stato presto riconosciuto da un imprenditore della regione che gli aveva concesso ampia libertà dal punto di vista creativo e gli permise di lavorare seguendo il suo ritmo, a casa. Questo finanziatore si preoccupava di piazzare le preziose creazioni sul mercato internazionale a dei prezzi sbalorditivi, anche se la percentuale che ne ricavava l’artigiano era irrisoria. Il padre di David ne era consapevole, ma la sua indole artistica, all’antitesi del capitalista, gli impediva di perdere tempo ed energie per chiarire questi dettagli. David ava giornate intere nella stanza del loro appartamento adibita a laboratorio a osservare il padre. Fin da bambino si era ripromesso di emulare il lavoro del padre, non tanto per compiacerlo, ma semplicemente perché la sua ione era contagiosa. Guardava a lungo con ammirazione ogni orologio che il padre terminava e che appoggiava cautamente su un piedistallo al centro della stanza. Si sedevano insieme ad ascoltare il ticchettio preciso, forse perfetto, scandito dalla composizione di minuscole rotelle e pendoli racchiusi in un involucro di metallo lucente. Purtroppo per lui, precisamente lo stesso lavoro del padre non lo avrebbe mai potuto fare. Ci volevano occhi robusti e acuti per svolgere quella professione. David invece si era ritrovato con una vista debole, fin dalla nascita. Quando si sforzava di eseguire lavori di precisione, anche se ato da lenti ottiche sempre più moderne ed efficaci, poi inesorabilmente crollava esausto. Da adolescente si era a volte spinto talmente al di là delle sue capacità fisiche da provocare acuti dolori alla testa, che avevano il loro epicentro proprio dietro i bulbi oculari. Per niente intimorito da questo handicap si era adattato alla situazione, cercando
perfino di trarne vantaggio. Fin da bambino coltivava la speranza di combinare la sua ione per gli orologi con l’aspettativa di un guadagno proporzionato alla fatica e al talento. Si chiedeva perché mai suo padre, creatore di oggetti fantastici, acquistati da persone agiate in tutto il mondo, non ne ricavava il giusto compenso. Inoltre, perché il suo datore di lavoro, che apparentemente non muoveva un dito, incassava tanto denaro da potersi permettere delle vetture sportive e lussuose? Perché altre professioni, ben più banali di quella del padre, permettevano ad altri di arricchirsi molto rapidamente? Per dare una risposta a questi interrogativi, David Gabus lesse in gioventù una quantità impressionate di libri di economia e di gestione aziendale. Così, da autodidatta, senza mai frequentare un solo corso d’università, si creò una solida cultura economica che insieme a un’innata propensione a pensare in grande divennero le basi della sua fortuna. David creò a ventidue anni un’impresa che gestì inizialmente con il padre, anche se quest’ultimo non ritenne necessario il ben che minimo cambiamento alla sua concezione del lavoro. In meno di un anno David ingrandì l’azienda assumendo collaboratori, anche se il padre spesso si lamentasse che quasi tutti i dipendenti non fossero all’altezza di produrre orologi sotto il marchio Gabus. Effettivamente si trattava di professionisti dell’orologio, ma non di artisti. Quello che più lo infastidiva era constatare che producevano in serie, tentando di avvicinarsi il più possibile alle sue creazioni. Da quella prima piccola impresa al gigantesco impero dell’orologio che i Gabus avevano creato nel corso di cinquant’anni, mattone dopo mattone, tutto si svolse come da manuale. Aumento della produzione, esplorazione di nuovi mercati, aumento esponenziale dei punti vendita, il tutto completato dall’acquisizione di altre imprese e dalla quotazione del Gruppo Gabus alla borsa di Zurigo. All’età di settantadue anni, David era ancora il Presidente del consiglio di amministrazione. Certo, ormai si recava in ufficio di rado, anche se non mancava mai di essere presente in occasioni importanti. Da qualche anno trascorreva la maggior parte del tempo con la moglie e il cane, e si dilettava a sfornare idee sempre più creative per abbellire il giardino. Purtroppo per David questo periodo di piacevole spensieratezza, dopo tanti anni di intenso lavoro, era destinato a durare poco. La prima volta che andò a consultare il medico di famiglia non aveva ancora il minimo sentore della malattia. Il fatto che si sentisse sovente stanco e si
coricasse molto presto la sera, cosa non abituale per David, non gli parve particolarmente strano. Infondo, pensò, anche lui prima o poi sarebbe invecchiato come tutti. Fu il cane a creare lo scompiglio tra i coniugi Gabus. Per tre settimane ininterrottamente la cagna lo tallonò, senza mai dargli tregua. Lo seguiva ovunque e quando si fermavano lo fissava in modo intenso, con la lingua penzolante e il respiro corto, anche se si erano spostati solo di pochi metri. David pensò inizialmente che il cane si stesse rimbambendo, e cominciò a pensare seriamente di avergli dedicato troppe attenzioni, forse oltre il livello che la natura di un cane può sopportare. Jacqueline, che anni addietro, con un altro cane, aveva frequentato un corso di addestramento per la ricerca di superstiti in caso di catastrofi naturali, aveva appreso che alcuni di questi fedeli amici a quattro zampe sembrano essere in grado di intuire lo stato di salute delle persone, specialmente se le conoscono bene. Siccome osservare il cane ossessivamente premuroso nei confronti del marito la preoccupava alquanto, tanto da non permetterle di dormire bene la notte, David si vide costretto ad accontentarla, controvoglia, e si presentò dal medico per un check-up. Da quel giorno le visite si svolsero quasi settimanalmente, coinvolgendo una serie di specialisti di Berna e Zurigo. L’ultimo aggiornamento della diagnosi gli era stata comunicata da poco e i medici erano stati molto chiari. Gli restavano dai tre ai sei mesi di vita: non c’era scampo. Sorprendentemente, dal giorno di quella prima visita dal medico, il cane era tornato a essere quello di sempre e aveva smesso di fissare David con tanta insistenza, forse consapevole di aver fatto la sua parte. Di più non poteva fare. David accettò la brutale sentenza abbastanza serenamente. Aveva avuto una vita intensa, ricca di soddisfazioni e successi, e francamente non sentiva il bisogno di usufruire dei tempi supplementari. Si augurò unicamente di non soffrire troppo, o quantomeno non troppo presto. Le prime fitte all’addome si erano fatte sentire già da qualche giorno, ma per il momento erano abbastanza sporadiche e di lieve intensità. Durante le lunghe eggiate con il cane aveva l’occasione di ripercorrere con il pensiero la sua vita, tappa per tappa. Di rimorsi ne aveva pochi, anzi probabilmente solo uno, ma gigantesco. L’idea di lasciare la moglie sola lo imbarazzava e lo metteva di malumore. L’affetto dei buoni amici, dei parenti e un conto in banca stratosferico non le sarebbero mancati, ma purtroppo nessun figlio o nipote avrebbe riempito il vuoto lasciato dalla sua dipartita.
David non smetteva di ripetersi che con il senno di poi tutto diventa improvvisamente logico. Il disegno celeste si mostra in rilievo e risulta nitido perfino al più distratto degli osservatori, ma spesso quando ormai è troppo tardi. Erano sposati da dieci anni, quando Jacqueline aveva proposto a David di adottare un bambino. Da tempo cullava in silenzio questo desiderio ed era convinta che questa fosse la loro opportunità. David ricordava ancora molto bene cosa gli disse sua moglie: “David, non si tratta per niente di un ripiego. Abbiamo un’occasione d’oro per abbracciare il nostro destino, stringerlo forte contro il petto e fonderlo per sempre con quello dei nostri figli. Ti prego David, pensaci con calma, non abbiamo fretta. Quando sarai pronto ne riparleremo”. David ci aveva riflettuto a lungo prima di darle una risposta, negativa. A trentatré anni era un imprenditore di successo nel pieno delle sue forze, tutto andava a gonfie vele ed era convinto che sarebbero riusciti a ingannare il fato. Prima o poi Jacqueline sarebbe rimasta incinta. Il tempo ò inesorabile e il destino non si fece ingannare. David capì di essersi sbagliato, quando ormai era già troppo tardi. Lo considerava l’errore più grande della sua vita. L’unico al quale avrebbe voluto rimediare tornando indietro nel tempo, riavvolgendo lo scorrere dei suoi tanto amati orologi. Peccato che quest’operazione si può effettuare solo con il pensiero o nei film di fantascienza. C’era anche dell’altro: la sua morte sarebbe stata portatrice di ulteriori incognite. L’impero che aveva creato restava senza un degno discendente. Sapeva benissimo che dopo la sua scomparsa, gli azionisti avrebbero nominato alla guida del Gruppo Gabus manager rampanti, senza scrupoli, che nella peggiore delle ipotesi avrebbero distrutto in pochi anni ciò che David aveva creato nel corso di una vita. Tutti questi pensieri lo turbavano alquanto quella mattina, e come se non bastasse adesso si erano aggiunti anche questi stolti con la storia della scissione del paese. Mentre camminava lentamente, attento a non scivolare sulla fine coltre di neve, David si chiese che cosa sarebbe accaduto al paese che tanto adorava. Che cosa ne sarebbe stato della bandiera svizzera, che brillava in primo piano sul logo delle sua ditta, segno distintivo di qualità e precisione? Sarebbe sopravvissuta, o
avrebbero fatto a pezzi anche quella? David Gabus era un vero patriota, nel senso etimologico della parola. Era riconoscente ai padri fondatori che unirono regioni autonome sotto un unico stendardo, dando vita a una tenace Confederazione nel bel mezzo del continente Europeo. A suo avviso, quello che era sorprendente e storicamente meritevole, non era tanto la banale intuizione che uniti avrebbero costituito un baluardo più compatto, e quindi meno allettante agli occhi di ogni aggressore, ma piuttosto, fu l’audacia di unire lingue e culture diverse a essere un progetto all’avanguardia, allora come oggi. Tale tentativo di raggruppare delle regioni geograficamente vicine, ma culturalmente già profilate, distinte nella parola e nei modi, richiede molto impegno. Coesione, tolleranza e integrazione non sono dei beni comuni che si possono attivare con un interruttore. Richiedono secoli di duro lavoro collettivo e soprattutto incessante, dato che ci vuole poco a sfaldare quello che si ha unito con tanto sforzo. Per questo gli svizzeri sono costantemente alla ricerca di valori comuni, nazionali, anche se non è sempre semplice trovarne le radici nei quattro angoli del paese, in lingue diverse e sotto l’innegabile influsso dei paesi che li circondano. Un valore comune, probabilmente indiscusso, è la puntualità. David che evidentemente amava legare tale valore alla tradizione orologiera svizzera, utilizzò il concetto di puntualità come spunto per il discorso che fece in occasione dei festeggiamenti per la quotazione in borsa della sua impresa. “Puntualità, che valore banale, noioso, quasi fiscale, all’antitesi di spontaneo e flessibile. Apparentemente, niente di cui essere particolarmente fieri. Anzi, per alcuni, il fatto di farsi aspettare aggiunge una certa enfasi all’arrivo di qualcuno o al sopraggiunger di un evento, gonfiandone l’importanza. Eppure, gli svizzeri si ostentano a presentarsi puntuali. Se pattuiscono un’ora per un appuntamento, spaccheranno il minuto e si aspetteranno che gli altri facciano altrettanto. Perché mai? Beh, il segreto di questo concetto sta nella sua reciprocità. È assolutamente inutile essere puntuali se la controparte ti fa aspettare a lungo. La puntualità, funziona solo se questo impegno vale per tutti, indifferentemente dalle origini delle controparti o dal loro stato sociale. È una questione di rispetto reciproco, orizzontale, una piccola conquista collettiva: davanti alla puntualità siamo tutti uguali”. Il discorso di David, che fece storcere il naso ad
alcuni politici presenti alla cerimonia, si concluse con un interrogativo aperto alla platea, senza darne o attendere risposta: “Chissà se tal reciprocità è già divenuta una conquista collettiva, nei fatti, anche per concetti ben più profondi, come l’applicazione della legge o le pari opportunità”. “David!” chiamò la moglie avvicinandosi al marito da dietro, “ti ho portato le medicine. Così non devi tornare in casa apposta”. Probabilmente lo aveva osservato per alcuni minuti da lontano, cercando di cogliere il momento opportuno per interrompere il gioco apparentemente spensierato che David stava condividendo con il cane. “Grazie Jacqueline, hai fatto bene. La giornata è splendida e non credo che starò molto in casa oggi”. I coniugi Gabus formavano una coppia da ormai più di cinquant’anni, ma non per questo pensarono ora esattamente alla stessa cosa, senza sentire il bisogno di dirlo: ogni giorno poteva essere l’ultimo. Jacqueline si rattristava rapidamente quando veniva invasa da questi pensieri e spesso non riusciva a trattenere le lacrime. Stava ancora imparando a convivere con lo stato di salute del marito e faticava a cancellare dal volto lo guardo rassegnato di chi non si può opporre all’inevitabile. Sapeva però che questo atteggiamento di certo non lo aiutava, anzi, i sensi di colpa per il suo abbandono lo avrebbero fatto procedere più velocemente verso il fondo del pozzo che lo stava risucchiando. Raccogliendo tutte le forze in corpo Jacqueline respinse il sopraggiungere delle lacrime e si sforzò di sorridere: “Ha chiamato il Principe del Liechtenstein. Ti manda i suoi saluti e mi ha detto che è stata trovata una bellissima villa in una zona tranquilla del principato, dove potremo trasferirci”. David in segno di protesta si era rifiutato di scegliere una delle due regioni autonome che sarebbero state costituite da lì a poco, e aveva optato per l’esilio in Liechtenstein, anche perché, come tutti i piccoli principati, poco distante, in tutti i sensi, dai paesi che lo circondano. “Ottimo, sapevo che ci avrebbe aiutato. Quando possiamo trasferirci?” chiese David sollevato dalla notizia. “Anche subito. La casa è libera” rispose la moglie, e aggiunse: “Inoltre non abbiamo bisogno di portare molte cose, è completamente arredata e siccome la regione di Neuchâtel sarà sicuramente governata dai progressisti non dobbiamo
preoccuparci per le sorti del castello”. David sapeva che la moglie aveva ragione, ma non poté impedirsi di chiedere ulteriori conferme: “Hai chiarito la questione con quel tuo amico del partito progressista?” “Sì David, non temere per la collezione delle opere di tuo padre. Per i progressisti saremo semplicemente dei proprietari con residenza primaria all’estero. Mi ha assicurato che potremo tornare al castello ogni volta che vorremo. Ottenere in quel caso i visti per la regione progressista sarà molto semplice e nel nostro caso niente più che una formalità da sbrigare in pochi minuti alla dogana”. “Bene, allora partiamo dopodomani. Domani voglio rinchiudermi nello studio a rifinire gli ingranaggi del mio piano di intervento”. David Gabus era fermamente convinto che conservatori e progressisti avrebbero portato la nazione alla rovina con questa malaugurata idea della scissione. “Sei sicuro di voler intervenire David? Ci resta poco tempo da condividere e non sei l’unico che potrebbe cercare di fermarli. Perché proprio tu? E poi la situazione potrebbe essere meno grave di quello che pensi” disse nella speranza di sentirlo ribattere fiero e risoluto come sempre, per niente convinta di quello che aveva appena detto. “Perché io?” sorrise David che colse di buon grado la provocazione. “Lo sai che queste domande io non me le pongo. Se sento chiaramente di dover fare una cosa, allora la devo fare e basta. Poco importa se mi restano solo pochi mesi da vivere”. Dopo aver appallottolato l’ennesimo biscotto nella neve sotto lo sguardo attento del cane, aggiunse: “Per quanto riguarda la gravità della situazione, beh, direi che è talmente e palesemente grave che mi chiedo come mai nessuna personalità di spicco non si sia ancora ribellata pubblicamente”. Prima di continuare David lanciò la palla di neve a qualche metro di distanza. “Jacqueline, questi sciagurati perderanno rapidamente il baricentro e andranno entrambi a sbattere alla prima curva. Non ho alcun dubbio”. Ecco il David che adorava, pensò Jacqueline. Capace di riassumere l’essenza di un concetto in poche parole, tanto semplici da fare presa perfino su un bambino.
Nel suo intimo, covava la speranza che questo rinvigorimento della indole combattiva del marito avesse un affetto benefico sulla sua salute. Chissà se tanta energia avrebbe intimorito anche la malattia. “Certo. David, dimentica le mie stupide esitazioni. Io come sempre sarò al tuo fianco” disse teneramente Jacqueline, mentre si stringeva braccio e appoggiava la testa sulla spalla del marito. “Concretamente, cosa pensi di fare?” “Non ho ancora un piano preciso, ma la strategia mi è chiara. Basterà metterli di fronte all’innegabile fatto che una bilancia ha bisogno dei due estremi per funzionare” disse David bilanciando ora due palle di neve con le mani. “Inoltre, separandosi, smarriranno in poco tempo la loro identità. Nero e bianco sono meglio definiti se posti uno di fianco all’altro. Da soli sono solo delle diverse tonalità del grigio”. “Perché non cerchi di contattare i vertici dei due partiti e non spieghi anche a loro quello che stai dicendo a me?” chiese Jacqueline. “Non mi ascolterebbero” replicò prontamente David. “Ci sono dei fanatici, da entrambi le parti. Per il momento posso fare poco. Non posso evitare che le due regioni autonome vengano create, ma farò di tutto per evitare che questa farsa duri a lungo, fosse l’ultima cosa che mi sarà concessa fare”. Ahimè, letteralmente. “Ho già qualche idea da mettere in atto al momento opportuno”. “Per prima cosa” concluse David, “devo riuscire a essere sempre ben informato sugli sviluppi della situazione. Ho bisogno di avere occhi e orecchi vicino ai vertici dei partiti per poter agire al momento giusto. Purtroppo non so ancora come muovermi per infiltrare una persona fidata in quella cerchia blindata”. Ma lo disse con la fierezza di chi non teme oltremisura le difficoltà, cosciente che, come sempre, David Gabus avrebbe trovato una soluzione.
Capitolo 6
La signora Schwarzenbach appariva particolarmente raggiante e di buon umore quel giorno. Nonostante indossasse, come sua abitudine, dei vestiti sobri nel taglio e nei colori, oggi si era vestita in modo alquanto elegante. Gli orecchini e la collana girocollo in madreperla la ringiovanivano perfino di qualche anno. Inoltre, l’impeccabile taglio di capelli e il colore uniformemente distribuito su tutta la capigliatura denunciavano una seduta recente dal parrucchiere. “Chissà perché si è agghindata a festa di giovedì” si chiese Samuel, mentre sfilava una lampadina da sessanta Watt dall’involucro di cartone. Durante i pochi mesi ati dal giorno in cui si era trasferito in quella palazzina, l’aveva vista così curata solo la domenica. “Samuel, posso riattivare la corrente?” gridò la vecchietta con voce squillante dall’atrio dell’appartamento, nel quale si trovava il pannello elettrico con le valvole di sicurezza. “Sì, sono pronto. Ho avvitato anche l’ultima” rispose Samuel dalla cucina. La signora Schwarzenbach lo aveva bloccato sul pianerottolo al primo piano, mentre rientrava al suo appartamento durante la pausa pranzo. Samuel di solito non tornava a casa sul mezzogiorno e si accontentava di un panino veloce o di un’insalata nei dintorni dell’ufficio. Oggi però, avendo dimenticato nel suo monolocale gli appunti per un articolo che contava di redigere nel pomeriggio, dovette fare un’eccezione. Non era la prima volta che la vicina gli chiedeva piccoli favori e Samuel immancabilmente accettava di buongrado. “Bravo. Funziona anche questa” ringraziò l’anziana coinquilina entrando in cucina. “Roba da non crederci. Non mi è mai successo di essere costretta a cambiare tre lampadine in un solo giorno”. “L’appartamento è abbastanza vecchio e il sistema elettrico non mi sembra molto
recente. Le consiglio di farlo controllare da un esperto, per sicurezza” commentò Samuel dell’alto della scala portatile che avevano piazzato in mezzo alla stanza per raggiungere il lampadario. “Grazie per il consiglio, ma non sarà necessario. Molto probabilmente lascerò questo appartamento per andare a stare da mia sorella nella Svizzera centrale. Difatti ho deciso di trascorrere gli ultimi anni della mia vita nella regione conservatrice”. Samuel rimase per un momento interdetto, con un piede a metà tra un gradino e l’altro della scala. Non era per niente sorpreso della scelta della signora Schwarzenbach, ma per qualche felice momento della giornata gli riusciva di dimenticare l’irreale situazione che stava affrontando il Paese, specialmente, come in questo momento, quando era costretto a concentrarsi in quello che stava facendo. Purtroppo la scissione era sulla bocca di tutti e questi istanti duravano solitamente non più di qualche minuto. Fin dal giorno del referendum popolare, il giovane si era sforzato di analizzare il risultato della votazione con l’intento di trarne delle conclusioni sia professionali che personali, ma senza riuscirci. Considerava questa vicenda come un avvenimento troppo assurdo. Impossibile da decifrare in tutte le sue sfaccettature e di conseguenza impossibile da commentare sul giornale, senza limitarsi alla mera descrizione dei risultati numerici. Notando l’esitazione di Samuel, l’anziana signora aggiunse: “Certo, prima di traslocare devo aspettare l’esito delle trattative tra i due partiti e chiarire così se effettivamente, come penso, Berna farà parte della regione progressista. Comunque, lo scopriremo presto. Mancano solo tre giorni a domenica”. “Sì, ha ragione, domenica sera o lunedì mattina al più tardi saremo informati sui punti salienti dell’accordo, o quantomeno sui contenuti della spartizione territoriale” concordò Samuel con sguardo assente. “Tu chiaramente rimarrai qui con i progressisti, o sbaglio?” chiese la signora Schwarzenbach, mentre impacchettava in un foglio di carta alluminio metà della torta al limone che aveva appena tolto dal forno. “Sì ho scelto la regione progressista. Penso anch’io che Berna andrà ai progressisti” confermò Samuel senza aggiungere altro. In effetti, la scelta per Samuel era abbastanza scontata. Non aveva intenzione di
trasferirsi altrove e, anche se non c’era al momento nessuna certezza, con ogni probabilità i conservatori non si sarebbero battuti per ottenere la sede della burocrazia federale con tutti i suoi funzionari. Inoltre, il giornale veniva sovente tacciato di essere filo progressista. Insomma, ne concluse che almeno dal punto di vista professionale con questa scelta non si sarebbe certo creato fastidi. “Non le dispiace lasciare Berna? Abbandonare questa casa, amici e conoscenti? Se non ricordo male, lei mi ha detto che in questo cantone ci vive da quarant’anni”. Le parole gli scivolarono di bocca senza che Samuel ci avesse seriamente riflettuto. Le frequenti ma brevi conversazioni tra i due coinquilini si svolgevano secondo un copione ben definito, in cui la signora Schwarzenbach dettava il ritmo e faceva le domande. Samuel, in sostanza, si doveva limitare a rispondere con un sì o un no. Interrogare l’anziana signora con domande a carattere personale era un atto rivoluzionario, e agli occhi di lei addirittura ostile e sgarbato. Gli angoli della bocca della signora Schwarzenbach ritrovarono all’istante la loro posizione naturale, perfettamente orizzontale, cancellando così l’estemporaneo sorriso che l’aveva accompagnata per tutta la mattinata. “Tu non puoi capire, e francamente non sono affari tuoi”. Se la conversazione avesse avuto luogo sulle scale, si sarebbe sicuramente interrotta in quell’attimo. Ora invece, essendo costretta a riconoscere che Samuel la stava aiutando a rimpiazzare le lampadine rotte, si sforzò per attenuare il disagio che aveva appena provocato con la sua frustata verbale. “Samuel, è meglio così, per tutti. È arrivato il momento in cui le strade di gente come noi si dividono, probabilmente per sempre. Forse ora ti sembrerà tutto assurdo, ma la storia ci darà ragione. Tutto questo sarebbe successo comunque, prima o poi, qui o altrove. Il caso ha voluto che questo avvenisse in Svizzera, piuttosto che in un altro paese” sentenziò la signora Schwarzenbach. Poi cercò di sdrammatizzare la situazione porgendogli l’involucro contenente una grossa porzione di torta, che emanava attraverso l’alluminio un profumo molto invitante, e aggiunse: “Ti prometto che non mancherò di leggere i tuoi articoli, anche dopo essermi trasferita. Il giornale sarà disponibile nelle due regioni, no?” “Francamente non lo so. Nessuno al giornale ha saputo dare una risposta precisa
a questa domanda, finora” rispose Samuel comprensibilmente a disagio per quella che considerava l’ennesima assurdità che gli toccava ascoltare dal giorno della votazione. Decise allora di congedarsi senza troppi convenevoli. “Ora devo andare, non posso proprio trattenermi oltre. Grazie per la torta, ne mangerò subito una fetta”. “Grazie a te per l’aiuto e buon pomeriggio” rispose la donna già intenta a riassettare la cucina. Salendo le scale, Samuel si chiese se l’avrebbe mai più rivista. Chissà se gli sarebbe mancata quest’arzilla vecchietta, prigioniera di altri tempi e costumi. Della torta ne mangiò ben più di una fetta. Anzi, se la divorò tutta in pochi minuti, talmente era buona e il profumo di limone tanto intenso da riempire i polmoni e tutta la stanza. La signora Schwarzenbach era sicuramente una cuoca eccellente. Quantomeno, andando a vivere con la famiglia della sorella, qualcun’altro se ne sarebbe accorto. Il suono del telefono gli bloccò l’ultimo boccone in gola. Lo smartphone di cui il giornale aveva dotato tutti i giornalisti era per Samuel una seccatura infinita. Permetteva certo di essere sempre raggiungibili, di consultare ovunque documenti e ascoltare registrazioni, ma d’altro canto non gli dava mai un momento di tregua. Il numero che lampeggiava sul display era del redattore capo. Prima di rispondere Samuel bevve un bicchiere d’acqua per schiarire la voce. “Pronto, qualche novità?” “Sì Samuel, posso proprio dire che ci sono delle novità. Dove sei? Ti ho cercato inutilmente in ufficio” rispose il capo con voce tra l’impaziente e l’irritato. “Sono venuto a casa a recuperare degli appunti, stavo per ripartire ora” disse Samuel, mentre infilava gli appunti nella borsa e riponeva il piatto e il bicchiere nel lavabo della cucinetta. “Bene, allora vieni nel mio ufficio alle 14:00, puntuale. Dobbiamo parlare”. E riattaccò senza attendere replica.
“Guai in arrivo, lo sento” pensò Samuel che maledisse il dannato aggeggio all’avanguardia della tecnologia che teneva in mano per avergli rovinato l’ennesimo pasto. Arrivò in ufficio con un quarto d’ora di anticipo e, siccome iniziava a sentire il peso della digestione, decise di stroncare subito gli sbadigli con un bel caffè doppio. Peter stava aggiungendo lo zucchero a quella che doveva essere la quarta o la quinta dose di caffeina della giornata. Vedendolo avvicinarsi gli fece posto davanti al distributore di caffè. “Samuel, mancano solo quattro giorni al fatidico giorno! Chissà con che nome si riferiranno tra cent’anni gli storici all’accordo che si accingono a stipulare i due partiti questa domenica. Nel nostro piccolo, anche noi dobbiamo farci venire delle idee per i titoli di prima pagina, visto che lunedì usciremo con un numero straordinario. Cosa ne dici di Lo strappo alla costituzione, o I due poli riscrivono la storia?” “Sì, non male, anche se così spontaneamente mi viene in mente Il trattato della discordia” rispose Samuel, intento ad aggiungere il secondo caffè espresso a quello che aveva già versato nella sua tazza di ceramica. “Il trattato della discordia, suona bene, mi piace. Ci penserò su ancora un po’, ma penso proprio che lo ò per il titolo di prima pagina” commentò Peter con lo sguardo assorto di chi sta già visualizzando mentalmente i caratteri del titolo e la sua posizione all’interno della pagina. “Tra l’altro, sappiamo dove si riuniranno i due partiti per le trattative? Permetteranno alla stampa di partecipare?” chiese Samuel al collega più esperto. “Per quel che ne so io, il luogo dell’incontro è mantenuto volutamente segreto. Se così vicini alla data fatidica, ancora non lo comunicano, beh, allora presumo che alla stampa non sarà concesso parteciparvi”. Poi Peter aggiunse: “Comunque, se per caso qualcuno in questo ufficio ha accesso a qualche informazione riservata, beh, quello non sono sicuramente io. Se proprio ne vuoi sapere di più, ti consiglio di chiedere al capo”. “Già, il capo” commentò Samuel, scosso da un breve brivido lungo la schiena. “Devo in ogni caso andare nel suo ufficio tra pochi minuti. Non sai per caso che
cosa vuole da me?” chiese a Peter, nella speranza di ottenere qualche informazione utile, in grado di alleviare il senso d’ansia che gli aveva lasciato la telegrafica conversazione avuta con il capo sul mezzogiorno. “No, non lo so. Ormai sono anni che non mi consulta più nessuno” rispose Peter sconsolato e aggiunse: “Però, ci deve essere qualcosa di grosso che bolle in pentola. Poco prima di mezzogiorno sono arrivati due tizi misteriosi che si sono intrattenuti col capo nel suo ufficio per quasi un’ora. Hanno sfogliato alcune edizioni del giornale e se ne sono andati senza degnare nessuno di un minimo sguardo, prima di infilarsi nell’ascensore”. L’ufficio del capo, costruito all’americana, era contornato da pareti di vetro corredato da tendine in metallo che egli non chiudeva quasi mai. Pertanto tutti i collaboratori potevano così osservare chi vi si recava e seguire i gesti e la mimica delle discussioni, senza poter però udire quello che veniva detto. “Misteriosi? Peter, forse sono semplicemente due facce che non hai mai visto, no? Va bene che conosci quasi tutti gli attori della politica nazionale, ma proprio tutti non li conosci nemmeno tu, o sbaglio?” chiese Samuel con velato cenno di scherno. “C’è dell’altro. Ho avuto la netta impressione che i due non si conoscessero. Non si sono rivolti nemmeno una parola o uno sguardo. Inoltre, si intuiva che erano a disagio seduti uno accanto all’altro, come se provassero una reciproca diffidenza. Così li ho seguiti fino al pian terreno ed ho visto che si allontanavano su auto statali separate”. “Mah, sarà come dici tu, anche se non mi sembra il caso di agitarsi particolarmente per la scenetta alla quale hai assistito” commentò Samuel, che consultò l’orologio un’ennesima volta. Dopo due minuti il capo lo avrebbe fatto entrare nel suo ufficio. “Non sono io quello che si agita, è il capo che dopo la loro visita si è messo a girare in tondo nel suo ufficio come un leone in gabbia” disse Peter, che ora aveva tutta l’attenzione del suo interlocutore, per poi aggiungere sottovoce: “Dieci minuti dopo si è messo a cercarti ovunque, sembrava schizzato. Poi si è calmato. Credo che abbia preso qualche tranquillante”. “Tranquillanti? Come fai tu a sapere che ha preso delle pastiglie?” chiese Samuel, sorpreso dalle parole di Peter.
“Oh, non è un segreto per nessuno al giornale che il comportamento lunatico di quello lì non è dovuto alle maree, ma alla quantità industriale di compresse che ingoia! Comunque, l’ho incrociato mezzora fa mentre andava al bagno e aveva lo sguardo fisso, tipico di chi ha preso un calmante di troppo. Gli occhi del lupo sono ora molto più simili a quelli di un pesce lesso!” “Strano, non ci avevo mai fatto caso” pensò Samuel, mentre si incamminava verso l’ufficio del capo che aveva appena spalancato la porta e attendeva di richiuderla dopo il suo aggio. Samuel si sedette su una delle due poltrone poste di fronte alla scrivania. Peter aveva ragione. Si vedeva a un miglio di distanza che il capo era in uno stato tra l’euforico e l’intontito. Solo i medicamenti, le droghe o l’abuso di alcool sono in grado di far convivere nello stesso momento nella testa di una persona degli umori di per sé antitetici. Il capo non puzzava di alcool, e se avesse fatto uso frequente di droghe pesanti Samuel se ne sarebbe accorto in precedenza. “Samuel, pupilla dei miei occhi! Era necessario informati di persona. Per telefono non mi sembrava il caso, anche se aspettare non è una qualità che mi si addice particolarmente” esordì il capo con involontaria ironia per via dell’attuale stato delle sue pupille. “Pupilla dei miei occhi? Ma quante pillole ha ingoiato questo qui?” pensò Samuel. “Ascolta attentamente Samuel” continuò il capo redattore, mentre si dondolava come un bambino impaziente sulla poltrona in pelle nera, “questa mattina si sono presentati nel mio ufficio due rappresentati dei vertici dei partiti che si incontreranno questa domenica per definire i termini della scissione del Paese. Il nuovo responsabile straordinario per la comunicazione del partito conservatore e il suo omologo del partito progressista. Sono esperti di diplomazia internazionale che hanno fatto rientrare appositamente da missioni all’estero. Così mi hanno detto”. “Beh, complimenti all’intuito di Peter, oggi le azzecca tutte” pensò Samuel. “Per farla breve, sono stati incaricati di risolvere il problema di come comunicare alla popolazione i risultati delle trattative, e in seguito, per un
periodo dai tre ai sei mesi, di documentare la loro attuazione a quelle che saranno di fatto due regioni indipendenti” aggiunse il capo facendo una pausa e regalando un gran sorriso, che gli deformò il viso in modo innaturale. O forse, era semplicemente la prima volta che Samuel lo vedeva sorridere. “Immagino che stiano cercando persone indipendenti e neutrali per svolgere questo lavoro, che sappiano limitarsi alla descrizione dei fatti” commentò Samuel, che cominciava ad avere sentore di ciò che sarebbe accaduto. “Bravo, esatto. Solo che il nodo della questione sta nella definizione d’indipendente. Mi hanno letteralmente scassato le palle con le loro esigenze d’imparzialità della narrazione e la volontà di ottenere dei testi privi di commenti. Comunque, sono riuscito a convincerli, ed hanno scelto il nostro giornale per questa mansione…” disse il capo prima di essere interrotto a frase incompiuta. “Fantastico, complimenti! Come sarà composta la squadra che si occuperà della vicenda?” chiese Samuel, che intimorito da quello che il capo avrebbe sicuramente aggiunto in seguito, non era riuscito a evitare di strappargli la parola. Con infantile ottimismo sperava infatti che impedirgli di pronunciare il resto della frase avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Chiaramente si sbagliava. Il capo esitò qualche secondo. Non era abituato a essere interrotto. Gli occhi da triglia ripresero per qualche instante il loro naturale scintillio color ghiaccio. Poi, con atteggiamento decisamente meno festoso, riprese il discorso nel punto in cui era stato interrotto. “Per convincerli a concedere quest’onore al nostro giornale ho dovuto dare loro prova del fatto che non si erano sbagliati nel rivolgersi alla nostra testata. Ho spiegato loro che per il giorno delle trattative non avranno bisogno unicamente di un giornalista in grado di documentare gli eventi, visto che comunque gli accordi verranno redatti in tutte le loro sfaccettature legali da un notaio federale, ma anche di un vero e proprio mediatore. Beh, non ci crederai, ma mi hanno dato subito ragione e abbiamo concluso che questi due ruoli, cronista e mediatore, entrambi strettamente legati dalla necessità di essere svolti da un attore indipendente, debbano essere ricoperti dalla stessa persona”. Samuel stava per aprire bocca, ma il capo lo bloccò con lo sguardo. L’effetto dei calmanti stava ando rapidamente.
“Samuel, non ci sarà nessuna squadra. Se ne occuperà un giornalista solo. Questo garantirà la necessaria confidenzialità dell’informazione, dovesse essere necessaria l’omissione di alcuni dettagli. Naturalmente, in questi casi sarà necessario l’assenso di entrambi i partiti”. L’ultima frase la aggiunse con tono ambiguo, controvoglia. “Ma prima fammi precisare quello che ho pattuito con quei due tizi questa mattina. Poi ti spiegherò quello che dovrai fare”. A Samuel cominciò a girare la testa. Il capo non aveva ancora detto esplicitamente che sarebbe toccato a lui occuparsi della faccenda, ma chiaramente non aveva ormai più alcun dubbio. “Hanno apprezzato l’idea del giornalista-mediatore a tal punto da permettergli di lavorare anche oltre l’incontro di domenica. Così si è deciso che il mediatore dovrà essere disponibile a ogni ora del giorno per risolvere e negoziare eventuali difficoltà che potrebbero sorgere durante il periodo di transizione. Naturalmente, questo compito permetterà, in parallelo, di raccontare puntualmente l’evolversi della situazione nelle due regioni autonome durante i primi mesi di vita con articoli che saranno pubblicati dal nostro giornale”. Il capo cercò di raccogliere tutta la positività che riusciva a sintetizzare con lo sguardo, ben poca francamente, e aggiunse: “Insomma, se non l’hai ancora capito, questa opportunità irripetibile è stata offerta a te, Samuel!” “Guai, solo guai, guai enormi!” pensò Samuel cercando di mantenere quel minimo di lucidità necessaria a distinguere ancora le parole del capo dal ronzio che sentiva in testa. Aprire bocca e parlare gli sembrò impossibile. Il capo, sorpreso dalla faccia inespressiva di Samuel e dalla totale assenza di reazioni, istintivamente ò subito ai dettagli, credendo di poter evitare la fase di persuasione. “Ti hanno dotato di un telefono portatile dell’ultimo modello, no?” “Sì, ne ho uno” ripose Samuel che avrebbe volentieri aggiunto un purtroppo. La sua voce gli sembrò stranamente lontana e lieve, come se fosse appartenuta a un’altra persona. Forse stava sognando, forse tutta questa vicenda era solo un inganno della sua mente. Uno dei tanti incubi che spesso lo facevano sobbalzare dal letto in piena notte.
“Bene, te ne daremo anche un secondo, così ti potranno raggiungere su due linee totalmente indipendenti. Anche simultaneamente se fosse necessario”. Samuel, che si era appena alzato per riattivare la circolazione alle gambe, ebbe quasi un mancamento e si sedette nuovamente sulla poltrona. “Non mi sembri entusiasta, qualche cosa non va?” chiese il capo, ora veramente perplesso. Non si poteva permettere già in partenza un burn-out del suo cavallo da corsa. Samuel raccolse tutte le energie che aveva in corpo. Sapeva che se non si fosse opposto ora, in seguito sarebbe stato troppo tardi. “Ma com’è possibile? È Assurdo! Perché proprio io? Sono tra i più giovani in questa redazione. E poi, i conservatori, perché mai non hanno richiesto un altro giornalista? Non sarà certo un segreto di stato che io ho deciso di vivere nella regione progressista, no?” Il capo sembrò sollevato nell’udire queste obiezioni. Se l’aspettava e si era preparato le riposte. Fortunatamente il ragazzo non era ancora collassato come aveva temuto per qualche secondo. “Sì, hai scelto i progressisti, come me e l’80% dei giornalisti di questo giornale. E allora? Chiunque ha dovuto scegliere una regione o l’altra. Se questa fosse una ragione valida per escludere dei candidati dal ruolo di mediatore, ai due patiti non sarebbe rimasto altro che rivolgersi a coloro che hanno scelto di andare a vivere all’estero non accettando la scissione del paese, oppure dei mediatori esteri. Beh, l’ultima cosa che desiderano i due partiti è quella di far intromettere adesso la diplomazia estera”. Poiché Samuel continuava a fissarlo come se fosse un alieno, aggiunse: “Ascolta è andata così: mi hanno chiesto di proporre almeno tre nomi e di descrivere brevemente il curriculum vitae dei giornalisti papabili. Ti ho proposto insieme a Reto Gross e Nathalie Rochat, entrambi con più di vent’anni di esperienza alle spalle! Poi io ho aggiunto un estratto degli articoli più significativi che avete scritto negli ultimi tre mesi, a testimonianza degli stili diversi che avete voi tre. Purtroppo, Reto e Nathalie sono stati scartati subito dai conservatori. Evidentemente avevano già deciso di scartarli in partenza per via di qualche articolo che non era loro piaciuto in ato. Così hanno ripiegato sulla tua persona. Il rappresentante dei conservatori ha storto un po’ il naso quando ho raccontato che sei naturalizzato, ma poi, dopo aver sfogliato due dei tuo articoli
si è detto favorevole. I progressisti, a quanto pare, conoscevano già la tua firma e non si sono opposti” concluse il capo, piegando leggermente la schiena in avanti e alzando le spalle per fare capire che non si sentiva responsabile di ciò che era accaduto. “Ok, vogliono qualcuno che non si sia ancora troppo profilato in ato. C’è una certa logica, capisco, ma non è proprio questo il succo della mia obiezione, lo sa che…” replicò Samuel, ma il capo non gli permise di continuare. “Sentimi bene ora, Samuel. Ormai hanno scelto. Mancano solo quattro giorni a domenica e non hanno il tempo materiale per cercare un sostituto”. Il capo redattore cominciava a irritarsi e a Samuel, involontariamente, cadde l’occhio sulla scatoletta di pastiglie posta sul bordo della scrivania. Gliele avrebbe fatte ingoiare tutte, se solo avesse potuto. Il capo, accortosi di averle dimenticate in bella vista, le ripose subito in un cassetto senza perdere il filo del discorso. “Anche se dopo averti incontrato di persona dovessero improvvisamente nutrire dei dubbi, sarà comunque troppo tardi, e dovranno ingoiare il rospo. Per modo di dire, si intende. Da domenica non sarà più possibile scegliere un nuovo mediatore, e da quel giorno il tuo destino sarà legato a questo tuo nuovo ruolo, senza possibilità di reclamare. Da parte di nessuno, specialmente da parte tua” lo ammonì il capo. “Appunto” pensò Samuel sempre più irrequieto, quantomeno rimessosi un poco dallo sgomento iniziale. Poi si decise a fare un ultimo tentativo. Se si fosse dimostrato insicuro forse il capo avrebbe ceduto. Dopotutto, se avesse effettivamente fallito, anche il suo superiore ne avrebbe pagato le conseguenze. “Senta capo, io non me la sento. Non credo di essere all’altezza. E lei sa benissimo che non sono uno che si tira indietro alle prime difficoltà!” “Samuel, te lo dico per l’ultima volta. Ormai è stato deciso così e tu hai un contratto con questo giornale che devi rispettare. Le tue mansioni le decide ogni settimana il capo redattore che le può modificare da un giorno all’altro secondo le esigenze del giornale. Sta scritto così nel tuo contratto, parola per parola. Fidati, le ho scritte io. O devo portarti una copia per rinfrescarti le idee?” chiese il capo ora con aria decisamente ostile.
Proprio perché non aveva altre fonti di sostentamento se non quelle provenienti dal frutto del suo lavoro, Samuel conosceva l’assoluta necessità di saper respingere fermamente infime minacce di questo tipo. Nessuno poteva obbligarlo a fare qualcosa contro la sua volontà. In una situazione diversa, senza le pesanti incertezze dovute alla scissione, avrebbe chiesto al capo di portargli l’originale del contratto, glielo avrebbe stracciato sotto il naso e si sarebbe cercato un nuovo lavoro. Una vocina dentro di lui gli consigliò di valutare meno impulsivamente la situazione. Infatti, non era ancora escluso che avrebbe saputo trarre qualcosa di buono per il suo futuro da tutta questa storia. Così si limitò a dare una risposta decisa, ma meno drammatica e definitiva. “Se prova a convincermi in questo modo, beh, non credo che riusciremo a trovare un accordo”. “Accordo?” gridò il capo ridendo istericamente, così forte da attrarre l’attenzione di quasi tutti i colleghi che erano nelle prossimità della stanza, Peter incluso. Il capo redattore iniziò a camminare in cerchio sfruttando tutta la superficie dell’ufficio. “Ecco, ci risiamo, è tornato il lupo in gabbia. Adesso mi verrà il mal di testa” pensò Samuel rassegnato a quella che ormai era destinata a essere un giornata memorabile, in negativo. L’esperto giornalista non aveva conquistato la sua carica attuale per caso. Era uno stratega molto abile e sapeva benissimo quando era giunto il momento adatto per dare il colpo di grazia a chi metteva in discussione la sua autorità. “Non ora” pensò il capo redattore, “ma non dubitare, giovane insolente, questa me la paghi”. L’uomo smise di camminare, si sedette comodamente sulla sua poltrona e assunse l’espressione di chi si è deciso ad ammettere di essersi espresso male, e cerca di conseguenza di riformulare un concetto. “Ma non capisci che la storia del Paese verrà stravolta in pochi mesi a partire da domenica prossima, e tu sei stato scelto come unico e ufficiale cronista di questo evento eccezionale? Tutti i libri di storia riporteranno il tuo nome, non il mio! Non puoi cercare di essere almeno un po’ riconoscente nei mie confronti?” gli chiese, sforzandosi di non alzare la voce. Samuel non rispose, ma sapeva benissimo il motivo per cui il capo non sarebbe
mai stato scelto per quel compito. Si era schierato troppe volte esplicitamente dalla parte del partito progressista e i conservatori non lo avrebbero mai preso in considerazione. “Proprio uno come te non dovrebbe esitare nemmeno un secondo a cogliere un occasione del genere”. Samuel lo guardò di traverso e il capo cercò di rimediare all’ambiguità dell’affermazione aggiungendo quasi d’un fiato: “Un giornalista così giovane, certo talentuoso, ma qui parliamo di mediare la scissione del paese! Ti rendi conto che questo avvenimento segnerà la tua vita per sempre?” Samuel ormai rassegnato cominciò a sentire la testa pulsare e desiderò una cosa solamente: uscire da quella stanza il più presto possibile. Si alzò in piedi e guardando il capo dritto negli occhi gli diede la sua parola. “Va bene, questa domenica medierò l’incontro tra le due parti. Lunedì scriverò un articolo per la divulgazione degli accordi della scissione con tutti i punti salienti della discussione alla quale avrò assistito. Per il resto, vedremo”. Il capo redattore si sentiva a sua volta esausto e sapeva di avere ancora da trattare un tema delicato prima di poter congedare il giovane collega. Decise dunque di sorvolare sulla velata resistenza residua espressa da Samuel e gli spiegò rapidamente il necessario. Il luogo dell’incontro sarebbe rimasto segreto fino all’ultimo momento. Domenica mattina un elicottero lo avrebbe prelevato tra le cinque e le sei di mattina dal terreno del campo sportivo del suo comune di residenza, per poi portarlo direttamente a destinazione. Avevano il suo numero di telefono e lo avrebbero chiamato sabato sera per comunicargli un orario preciso. Per il momento poteva delegare ogni suo altro incarico a qualche collega per dedicarsi unicamente a questo nuovo compito. Nei giorni precedenti l’incontro tra i due partiti avrebbe dovuto leggere tutto il materiale disponibile sui vertici delle due fazioni e sulle loro famiglie, e preparare il materiale per registrare la mediazione. “Ricordati di criptare le registrazioni con una parola d’ordine e di cancellarle subito dopo aver redatto l’articolo” concluse il capo che nel frattempo si era alzato ed era ora appoggiato con la schiena alla porta chiusa. Samuel che si era avvicinato alla porta per uscire dall’ufficio, convinto che il capo si fosse diretto in quella direzione per aprirla, si trovava ora a non più di venti centimetri dal capo redattore. Samuel lo sovrastava di almeno una spanna,
ma fu lui a cedere davanti alla forte tensione creata da tale innaturale prossimità, facendo qualche o a ritroso. “Non ci posso credere, non è ancora finita” pensò Samuel amaramente, mentre indietreggiava. Immediatamente arrivò la conferma. “Samuel, c’è un’ultima cosa di cui ti devo parlare. La mediazione tra i due partiti e la pubblicazione di un bollettino d’informazione sono due ottime cose per il nostro giornale. Ci permetteranno di stampare articoli all’indirizzo dei lettori di entrambe le regioni, e almeno per i prossimi sei mesi questo ci consentirà di incrementare il numero delle copie, vista l’importanza e la grande risonanza che avranno i tuoi articoli. Il consiglio di amministrazione sarà sicuramente riconoscente nei nostri confronti”. Il capo redattore fece una pausa. Si allontanò dalla porta e si diresse verso la libreria in legno massiccio. Con la punta delle dita si mise a tracciare delle righe tra la polvere che si era accumulata sugli scaffali. Samuel lo seguì con lo sguardo, ma senza allontanarsi dalla porta. La certezza di poter fuggire rapidamente dalla tana del lupo, così come la chiamavano i suoi colleghi, lo rassicurava. Avrebbe giurato di percepire un netto calo della temperatura nella stanza e istintivamente diede un’occhiata alle finestre, che però erano tutte chiuse. Succedono delle strane cose in prossimità dei lupi. “Non dobbiamo dimenticare però che il futuro è più che mai incerto, Samuel. Le conseguenze della scissione per il nostro lavoro potrebbero essere molto significative” riprese il capo, come di consueto senza guardare Samuel negli occhi. “Nemmeno il consiglio di amministrazione è in grado di prevedere con certezza a quali condizioni o restrizioni saremo sottoposti tra un anno o due. Dobbiamo preoccuparci del nostro futuro, Samuel, nessuno lo farà per noi”. “Grazie per l’interessamento, ma io penso al mio e tu pensa pure al tuo” avrebbe voluto rispondere Samuel, che però, non avendo la minima idea di quale ennesima macchinazione la mente del capo stesse generando, decise di non interromperlo. “Insomma, bisogna saper anticipare i tempi, correre qualche rischio e intuire da
che parte tirerà il vento. Solo così ci si può spostare in acque favorevoli e superare la concorrenza. Capisci quello che voglio dire, no?” gli chiese il capo, guardandolo improvvisamente negli occhi per qualche nanosecondo. “Vagamente” rispose Samuel che francamente in questa sorta di regata, fatta di vento e onde trasversali, si sentiva piuttosto in alto mare. “Beh, qual è l’evento più probabile? Non dimenticare che tu, io e la maggioranza dei giornalisti di questo giornale vivremo nella regione progressista. Dopo il periodo di transizione chissà se i conservatori vorranno mantenere la distribuzione di un giornale prodotto prevalentemente da giornalisti che hanno scelto di andare a stare con i loro antagonisti. Dubito. Samuel quello che ti chiedo è molto semplice, e un ragazzo molto sveglio come te non dubito che sappia cogliere il messaggio senza ulteriori e inutili spiegazioni”. Ora Samuel avrebbe proprio voluto avere un termometro a portata di mano. Gli venne perfino la pelle d’oca. “Quando racconterai con i tuoi articoli gli eventi di domenica, come anche in seguito lo sviluppo e le peripezie che affronteranno le due ragioni autonome, cerca di tenerne conto. Non dimenticare coloro che saranno i tuoi amici, a medio termine”. Samuel era disgustato. Prima lo aveva incastrato, affidandogli una missione molto delicata senza consultarlo a tempo debito, e ora voleva addirittura imporgli di diventare il suo burattino. “Scordatelo”. Nel dirlo Samuel senti un calore intenso che partendo dal cuore dilagava in tutto il corpo, spazzando via come uno tsunami tutte le brutture che il vento gelido attorno a lui aveva fatto filtrare attraverso la pelle. Il capo incassò il colpo con stile, senza scomporsi e si mise a fissarlo negli occhi intensamente. Senza distogliere lo sguardo, come mai aveva fatto in precedenza. Non strizzava gli occhi per trasmettere ostilità, ma proprio come un lupo, con gli occhi ben aperti, attraversava con lo sguardo la sua preda facendogli intuire quanto è sottile il filo che regge la vita. Il capo evitò di gettarsi nuovamente in un conflitto verbale con quello che ormai riteneva essere un intollerabile ribelle. Non poteva rischiare ora di rimetter in gioco gli accordi presi in mattinata con i partiti, e poco prima con Samuel. Si
limitò a lanciare una piccola freccia avvelenata, nella speranza di indebolirlo, lentamente ma inesorabilmente. “Samuel, devi stare molto attento. Io ti ho spianato la strada per crescere in fretta e nello stesso modo, anzi più rapidamente, ti posso distruggere, in qualsiasi momento. Impara a scrivere nel modo giusto” concluse il capo redattore, prima di voltargli le spalle e rimettersi a spolverare gli scaffali con le dita. Uscendo dalla stanza, Samuel convenne che questo colloquio aveva rotto ogni equilibrio, definitivamente. Come e quando non lo sapeva, ma avrebbe messo molta distanza tra sé e quel viscido individuo. Per il proprio bene si augurava che fosse vicina l’alba del giorno in cui questo sarebbe stato possibile. Peter, che vedendolo uscire dalla tana del lupo piuttosto avvilito, gli andò incontro facendo segno di seguirlo fino alla sua scrivania, dove gli propose di sedersi. Samuel si sentiva sfinito e gli disse che non sarebbe rimasto a lungo in ufficio. Oltretutto aveva un forte mal di testa e non gli andava di parlare. Peter capì che il giovane giornalista, nonostante tutto, aveva un gran bisogno di sfogarsi, ma che l’ufficio, con tutti i colleghi che attorno a loro tendevano le orecchie attenti a captare ogni parola di quello che dicevano, non era il luogo adatto. “Senti, io avevo comunque deciso di partire presto oggi, perché devo andare a fare qualche commissione. Cosa ne dici di andare al bar all’angolo? Forse un bel caffè forte e un bicchiere d’acqua ti aiuteranno ad affievolire il mal di testa. Io invece mi berrò una bella birra. Ok?” gli propose Peter che si era già infilato il cappotto. Samuel, che francamente avrebbe preferito andarsene a casa, oppure a fare dello sport per distenderei i nervi, comprese che il collega lo voleva solo aiutare, e gliene fu grato. Accettò, dandogli una pacca sulla spalla e precisando che però si sarebbe trattenuto solo per poco. Arrivati al bar, presero posto in un angolo discreto del locale, per parlare indisturbati. Il locale non era vuoto, ma la comitiva di turisti indiani, che si stava riscaldando le ossa con del te bollente e rimpinzando lo stomaco con delle squisite torte al cioccolato, non avrebbero capito nemmeno una sillaba di quello che si sarebbero detti i due giornalisti. Il caffè, l’acqua e la birra, che avevano ordinato entrando, vennero serviti loro
pochi minuti dopo e il cameriere tornò a occuparsi unicamente della comitiva di indiani. “Allora, che cosa ti ha detto di tanto terribile il capo? Non ti ho mai visto tanto scuro in volto” gli chiese Peter, prima di godersi il primo lungo sorso di birra. A questa domanda, Samuel accennò un sorriso amaro quanto il caffè che stava bevendo, e gli rispose: “Sono stato incaricato di mediare le trattative tra i due partiti e da domenica, per un periodo di circa sei mesi, dovrò descrivere regolarmente, con i miei articoli, lo sviluppo della situazione nelle due regioni autonome”. Peter si mise a tossire forte. La birra gli era andata nei polmoni, invece che continuare la sua corsa naturale verso lo stomaco e, da lì a poco, verso la fogna. Samuel, che interpretò la reazione di Peter come un gesto teatrale volto a esprimere la sua incredulità, sbagliandosi visto che il poveretto stava effettivamente annegando nella birra, tagliò corto, in modo un po’ brusco. “Peter, ascolta: sono esterrefatto quanto te, e non ho voglia di mettermi a ripetere tutta la vicenda. Sono troppo stanco. Comunque, il peggio non te l’ho ancora detto”. Peter, paonazzo in volto per lo sforzo compiuto a riguadagnare una respirazione naturale, attese in silenzio senza interromperlo. “Mi ha chiesto di essere di parte nel descrivere i negoziati, e in seguito nel descrivere come se la caveranno le due regioni dopo la scissione. Vuole che io abbia un occhio di riguardo per i progressisti. È convinto di poter trarre dei vantaggi personali, in prospettiva di quello che accadrà al giornale dopo la scissione”. “Quel licantropo non ha ritegno. Anche se mi dispiace dover aggiungere, Samuel, che la cosa non mi sorprende affatto. Il capo ha sempre posto i suoi interessi davanti a tutto e tutti. È così da quando lo conosco. Comunque, tu cosa gli hai risposto?” gli chiese Peter. “Chiaramente, mi sono opposto. Gli ho detto che avrei portato a termine l’incarico che mi ha affidato, ma che si poteva scordare di forzarmi a essere una marionetta al suo soldo. A quel punto mi ha minacciato di rovinare la mia
carriera, in modo definitivo” rispose Samuel che, ricordando la scena, sentì accentuarsi il dolore tambureggiante alle tempie. “Ascoltami bene, Samuel, vorrei poterti dire che hai fatto bene a opporti, ma non è così. Il capo ha agganci ovunque nel nostro settore ed è troppo rischioso mettersi contro di lui. Capisco che ti peserà molto doverti adattare, ma non hai scelta, devi fare quello che ti ha ordinato”. Il consiglio di Peter era sincero e sicuramente valido. Il capo redattore aveva già in ato tagliato le gambe a numerosi giornalisti che si era trovato sulla strada, e che avevano intralciato volontariamente o meno la sua carriera. D’altro canto Peter era conosciuto per non essere particolarmente propenso al rischio. Non solo ora che era prossimo al pensionamento, ma già da molti anni, se non da sempre. Da dieci o forse anche quindici anni lavorava in funzione dell’imminente arrivo della meritata pensione, riducendo progressivamente la sua visibilità all’interno del giornale ed evitando come la peste i temi caldi della politica e i rischi che questi comportavano. Sintomaticamente, da molti anni non rinnovava il guardaroba. Oggi indossava una cravatta sgualcita che aveva già visto quattro capi redattori e altrettante ristrutturazioni del giornale. Samuel si era chiesto spesso se un giorno si sarebbe adagiato come Peter ad attendere la pensione. Al momento gli sembrava inconcepibile ridurre l’impegno e il sudore quotidiano in funzione di questo unico obbiettivo, ma era ben cosciente di essere solo all’inizio della sua carriera, a differenza di Peter. L’atteggiamento del collega più esperto era più che comprensibile, ma Samuel trovava triste il fatto di costringersi a una lunga attesa, senza sfruttare pienamente il suo talento e la sua energia. “Paradossalmente, presumendo che la vita è solamente una, vivere in funzione della pensione è una delle scelte più rischiose che si possa fare” pensava spesso Samuel, riferendosi alle incognite che riservano la salute e gli eventuali rimorsi che possono sopraggiungere con il tempo. Certo, non aveva tutti i torti dato che ora, con la scissione, le sorti delle pensioni erano divenute più che mai incerte. “Grazie del consiglio, Peter, ma ci devo pensare con calma. Per fortuna, ho ancora qualche giorno a disposizione” si limitò a rispondere Samuel, poi cortesemente aggiunse: “Meno male che ho sempre occasione di scambiare due parole con te, ne avrò particolarmente bisogno durante i prossimi mesi”. “Mi fa piacere sentire che parlare con me ti aiuta, ma io ho scelto la regione
conservatrice. Dubito che ci vedremo spesso”. Mentre lo diceva, Peter apparse come logorato dai segni di quello che doveva essere stato un lungo ed estenuante processo risolutivo. “Ma come? Anche tu! Perché Peter?” chiese Samuel ricordando le parole della signora Schwarzenbach. La scelta dell’anziana coinquilina non lo aveva colto particolarmente di sorpresa, mentre la decisione del collega ebbe su di lui l’effetto di una improvvisa doccia fredda. “Ho riflettuto a lungo e sono arrivato alla conclusione che per assicurarmi la pensione questa è la scelta migliore” rispose Peter che poi si scolò quel che restava della birra alla spina in un solo sorso. “Spiegati per favore. Solo una piccola parte dei giornalisti di questa testata ha scelto la regione conservatrice, e inoltre a medio termine è ben più probabile che il giornale finisca per essere distribuito solo nella regione progressista” ribatté Samuel, che si sentiva sempre più afflitto dai tanti colpi che aveva subito nel corso di quell’infelice giornata. “Ascolta, la sede principale del giornale è a Zurigo, che si troverà probabilmente nella regione conservatrice…” disse Peter, prima di essere interrotto con veemenza dal giovane collega. “Sì certo, ma all’inizio ci sarà concesso di distribuire il giornale nelle due regioni. Così hanno stabilito i due partiti questa mattina. In seguito sembra più probabile che la sede principale venga trasferita nella regione progressista. Anzi, più precisamente, con il capo redattore che ci ritroviamo nella nostra sezione di politica nazionale, non pensi che sarebbe proprio Berna il luogo più probabile dove trasferire la sede principale?” chiese Samuel. “Samuel, mi fido di te, ma devi promettermi di non fare parola con nessuno al giornale di quello che sto per raccontarti. Intesi?” chiese Peter con voce quasi impercettibile e girandosi verso il bancone, per accertarsi che nessuno potesse udire quello che si stavano dicendo. Rassicurato nel vedere che nel frattempo nessun cliente si era aggiunto al gruppo di turisti indiani, fece cenno al cameriere di portargli un’altra birra e si voltò nuovamente in direzione di Samuel. “Certo, sarò un tomba” rispose Samuel amaramente, considerando di aver già dovuto sopportare fin troppe sorprese in un giorno solo.
“Ho un amico di vecchia data nel consiglio di amministrazione. Abbiamo fatto la scuola reclute insieme e da allora siamo sempre rimasti in contatto. Ho sempre evitato di contattarlo per questioni di lavoro, temendo di rovinare la nostra amicizia, ma ora si tratta di un’emergenza. Ha accettato subito di aiutarmi e mi ha raccontato tutto quello che sa”. Samuel, chino sul tavolo, reggeva la testa con le due mani facendo leva sui gomiti, mentre con le dita si massaggiava le tempie. “Mi ha spiegato che ci vorrebbe del tempo per spostare la sede principale altrove, e inoltre, con l’istituzione delle due regioni autonome, non è nemmeno chiaro fino a che punto questo scenario è concretamente attuabile. Secondo lui, e un gruppo numeroso di membri del consiglio, è molto più probabile che il giornale mantenga la sede di Zurigo, e che alla testata venga imposto un nuovo indirizzo, conservatore, naturalmente”. “Scusa, ma questa storia non sta in piedi” intervenne Samuel, che con gli occhi chiusi era sempre intento a massaggiare la testa. “La maggioranza dei giornalisti è filo progressista e il consiglio di amministrazione non fa eccezione”. Peter lo guardò con il ghigno di chi ne sa una più del diavolo. “È qui che ti sbagli. Quasi tutti i membri del consiglio e i grandi azionisti vivono oggi in quella che sarà la regione conservatrice, e non si muoveranno da lì. Il poco velato favore verso il partito progressista, finora ostentato dalla redazione, e la tacita accettazione da parte del consiglio, sono scelte meramente lucrative, non politiche! Permettevano di vendere più copie. Ora che si sono sufficientemente arricchiti, resteranno nella regione conservatrice a godere di quella che probabilmente sarà una tassazione quasi inesistente”. Peter aggiunse che probabilmente, entro un anno, tutti i giornalisti che hanno scelto la regione progressista perderanno il lavoro. La sua prima reazione fu chiaramente di sconcerto, ma in un certo senso, pensò Samuel, era la prima notizia positiva della giornata. La strategia che il capo redattore aveva scelto di perseguire, per trarne vantaggi personali, si sarebbe rivelata sbagliata, o quantomeno inutile per la prosecuzione della sua carriera all’interno di questa testata. Peccato non poterglielo rivelare immediatamente, ma aveva appena promesso di tenere la bocca chiusa. “Cosa posso aggiungere, Peter? Significa che ci vedremo poco in futuro, mi
dispiace” disse Samuel sempre più smarrito al pensiero di ciò che comportava la scissione del paese. “Lo so, e chiaramente dispiace molto anche a me. Comunque, non dimenticare che tra meno di un anno sarò pensionato e che avrei comunque cessato la mia attività. Cercherò di venire a trovarti, ogni tanto”. Dopodiché, Peter osservò per qualche istante il collega di lavoro visibilmente abbacchiato. Gli dispiaceva veramente perdere il contatto con questo giovane e intraprendente giornalista, ma in quel momento niente e nessuno erano più importanti della pensione. Rimanere a mani vuote dopo una vita di lavoro, sarebbe stata una beffa insopportabile. A ogni modo gli sarebbe piaciuto aiutarlo, almeno un’ultima volta, e così riprese il discorso che avena lasciato poco prima a metà. “Non dimenticare che il capo ha agganci nelle alte sfere di quasi tutti gli altri giornali del paese, specialmente in quella che diverrà la regione progressista, e troverà sicuramente una soluzione per sé stesso, mentre voi resterete a piedi”. Poi Peter cercò esplicitamente lo sguardo di Samuel, per aggiungere enfasi alle sue parole. “Lui continuerà a essere una seria minaccia per il tuo futuro, indipendentemente da quello che accadrà a questo giornale. Dammi retta, non opporti a quello che ti chiede di fare”. Samuel non rispose. Non perché stufo di parlare con Peter, dato che questi cercava onestamente di consigliarlo, ma semplicemente perché si sentiva completamente svuotato. Nessun pensiero emerse dagli abissi per tramutarsi in parola. Il suo cervello era ormai fuori uso e in questi casi non conosceva altra soluzione che ossigenare il cervello facendo dello sport. Sudare lo aiutava a relativizzare i problemi, oltre che a mantenere la forma fisica. Dato che sentiva ancora male alla testa, decise che sarebbe andato in piscina. Nuotare lentamente e ascoltare il silenzio diffuso che offre l’acqua quando ci si immerge completamente gli avrebbero giovato doppiamente. Peter, vedendo il collega muto e con lo sguardo assente, cercò nuovi argomenti con cui persuaderlo. “Comunque, cosa pensi che accadrà alla nostra professione con la scissione?” gli chiese Peter, che senza attendere risposta, aggiunse: “Vivremo in regioni
costituite da due partiti posti oggi ai poli dello spettro politico. La libertà di stampa andrà comunque a farsi friggere, così come in tutti quei paesi dominati apertamente o subdolamente da un partito. Insomma, a termine, tra sei mesi o al massimo un anno, saremo ridotti a fare della propaganda per i governi locali. Non ho alcun dubbio”. A queste parole, Samuel rinvenne dallo stato di catalessi in cui era sprofondato, giusto per affermare ironicamente che per oggi ne aveva abbastanza di ricevere buone notizie e che sarebbe andato in piscina a nuotare. Peter insistette per pagare il conto e gli disse che sarebbe rimasto ancora qualche minuto per terminare la birra. I due si sarebbero rivisti ancora una decina di volte dopo questo giorno, ma il modo in cui l’anziano collega lo salutò in quell’occasione, sembrò più un addio che un arrivederci. “Propaganda” pensò Samuel, mentre camminava in direzione della piscina, “tutto, ma non questo. Piuttosto cambio professione”. I consigli di Peter erano certo motivati da buoni propositi, ma questo non era sufficiente ad assicurare che fossero dei buoni consigli. Samuel sentì il bisogno di seguire il proprio istinto. Ne andava della sua etica, del suo onore. Se li avesse persi ora, quante altre volte in futuro si sarebbe inginocchiato davanti a tale precedente? Inoltre, si disse che nel dubbio è meglio sbagliare facendo di testa propria, che fidarsi delle altrui certezze, dato che in realtà, spesso, sono solo presunte certezze. Assorto in questi pensieri, Samuel varcò l’entrata della piscina. Dalla grande vetrata notò con piacere che erano poche le persone in acqua e iniziò lentamente a distendere i nervi.
Capitolo 7
Ai primi di febbraio e alle cinque di mattina, il buio domina ancora ampiamente il cielo e le poche persone che capita di incontrare per strada sfidano l’aria gelida e i marciapiedi ghiacciati per recarsi al lavoro, di certo non per piacere. Samuel indossava ben quattro strati di vestiti composti dalla canottiera e dalle mutande termiche lunghe, un dolcevita leggero, un pile acquistato appositamente per l’occasione, la tuta da sci in due pezzi, le scarpe da tracking invernale, i guanti e la cuffia. Così imbottito si sentiva piuttosto ridicolo e, guardandosi allo specchio uscendo di casa, si era chiesto se lo avrebbero preso sul serio. D’altronde non aveva avuto scelta. Lo avevano chiamato la sera precedente per confermare che avrebbe dovuto farsi trovare pronto alle 5:25 al campo sportivo, dove un elicottero lo avrebbe prelevato per trasportarlo al luogo delle trattative. Non lo informarono con precisione sulla destinazione, ma quantomeno gli dissero che ci sarebbero voluti circa venti minuti di volo per arrivare a destinazione, e che sarebbero atterrati in un luogo discosto a milleseicento metri di altitudine. Durante il breve tratto a piedi, che aveva percorso per arrivare fino la campo sportivo, Samuel incrociò unicamente un conducente di tram, che stava per iniziare il turno di lavoro, e un uomo d’affari diretto verso l’aeroporto che a fatica cercava di mantenere l’equilibrio per sé e per il trolley da viaggio che si trascinava dietro. Arrivò con dieci minuti d’anticipo e seguendo alla lettera le indicazioni che gli avevano dato si piazzò al centro del campo da calcio ad attendere l’arrivo dell’elicottero. Fortunatamente il vento freddo e pungente lo irritava solo in viso, dato che il resto del corpo era ben protetto. In mezzo a un campo sportivo deserto, alle cinque di mattina, praticamente al buio e in pieno inverno, Samuel si chiese per l’ennesima volta se tutta questa vicenda fosse reale o semplicemente il frutto della sua fantasia. Abbinare il fatto di essere divenuto, nel suo nuovo ruolo di mediatore, una figura chiave per il futuro del paese con la solitudine imposta dalla scelta di quel singolare luogo di attesa, lontano dalla luce di ogni riflettore, compresi i quattro riflettori dello stadio ora spenti, gli risultava pressoché impossibile. Inoltre, il contrasto tra la
quiete e il silenzio di quel posto e la tensione del suo stato interiore, rendeva ulteriormente difficile ogni tentativo di comprendere appieno il significato di quella bizzarra avventura. Era molto agitato e la notte aveva dormito particolarmente male, raggiungendo il sonno profondo solo a sprazzi. Come spesso accade in questo tipo di circostanze, i giorni peggiori erano stati quelli dell’attesa, durante i quali l’immaginazione può sguazzare malignamente in congetture non suffragate da fatti concreti ed esperienze reali. Dal giorno del diverbio con il capo redattore, il giovane giornalista aveva immaginato lo svolgersi di questa giornata decine di volte, senza purtroppo trarne mai giovamento. Anzi, il suo stato interiore di angoscia e insicurezza era peggiorato a ogni tentativo. I pochi minuti di attesa gli sembrarono interminabili e insopportabili ore. Si chiese nuovamente cosa diavolo stesse facendo lì a scrutare il cielo, in apprensione per l’arrivo di un qualcosa al quale non riusciva a dare un significato. Si ripromise che se lo avessero fatto aspettare qualche minuto di troppo, sarebbe tornato sui suoi i e avrebbe rinunciato a quell’assurdo incarico. Così facendo, gli sciagurati artefici di tutta questa storia lo avrebbero perso per sempre. Invece, spaccando il minuto, il silenzio fu interrotto dal rumore dei rotori dell’elicottero militare, inizialmente lieve e in lontananza, poi sempre più forte con il rapido avvicinarsi dell’apparecchio al campo sportivo. Il frastuono permise però a Samuel unicamente di intuirne sommariamente la direzione di provenienza, dato che l’aeromobile, avvolto dal buio più completo, era reso totalmente invisibile dai colori mimetici, capaci nella fattispecie di affievolire la riflessione della luce diffusa proveniente dalla città. A circa duecento metri dal suolo, dall’elicottero accesero un forte riflettore che illuminò a giorno una porzione del campo poco distante da Samuel. Il fascio di luce si mise allora alla sua ricerca con dei movimenti casuali, finché lo individuò proprio al centro del terreno, e continuò a illuminarlo senza sosta anche durante l’atterraggio, accecandolo per qualche secondo. Dopo pochi istanti, due militari comparvero al suo fianco e lo accompagnarono all’elicottero, per poi prendere posto insieme a lui nel vano eggeri. Gli misero in testa delle cuffie corredate da un microfono e gli spiegarono che senza quell’apparecchiatura non sarebbe riuscito a comunicare con gli altri per il forte rumore. A causa del buio totale in cabina e ancora accecato dal riflettore, non si accorse subito degli altri
eggeri. “Io sono Jean-Luc Wicht. Quello assorto nei suoi pensieri è mio padre, Philippe. Mentre lei deve essere Samuel. I nostri colleghi addetti alla comunicazione ci hanno parlato molto bene di lei”. Era una strana sensazione sentire la voce in cuffia di una persona che era probabilmente seduta al suo fianco o giusto di fronte, senza però riuscire a vederla. “Lieto di fare la vostra conoscenza” rispose Samuel. “Scusi l’impertinenza, ma perché firma i suoi articoli sempre solo con il nome di battesimo? Come si chiama lei di cognome?” gli chiese una voce diversa, che per esclusione doveva essere quella di Philippe Wicht. “È semplicemente un’abitudine. C’è chi non li firma del tutto, chi usa delle abbreviazioni a tre lettere, e chi usa perfino degli pseudonimi. Io uso unicamente il nome di battesimo” rispose Samuel ignorando la seconda parte della domanda. I suoi occhi cominciarono ad abituarsi e allora riconobbe la sagoma degli altri due eggeri. Quando Philippe riprese a parlare comprese che si trattava della persona seduta al suo fianco. “Beh, signor Samuel, mi sembra di capire che non ha molta voglia di parlare. Francamente, mi va benissimo così. Per garantire la dovuta imparzialità suggerisco di stare in silenzio fino a destinazione” disse seccamente lo stratega dei progressisti, prima di sfilarsi le cuffie e porgerle a uno dei due militari. “Samuel, non faccia caso a mio padre. È solo molto nervoso per le trattative e non vuole perdere la concentrazione” si affrettò a precisare il figlio. “Certo, capisco. Non si preoccupi” rispose Samuel. “Vogliamo darci del tu? Senza un cognome, mi sembra la cosa più naturale, non ti pare?” gli chiese Jean-Luc. “Volentieri” rispose Samuel che sfilò le cinture di sicurezza per un breve istante necessario a raggiungere e stringere la mano al giovane parlamentare. Poi aggiunse: “Sai dove stiamo andiamo? Non me l’hanno voluto dire, solo che la
destinazione si trova in montagna”. “Andiamo sull’Alpe di Älggi, in Canton Obvaldo, a circa 1650 metri” rispose Jean-Luc. “E a chi è venuta questa geniale idea? Al primo di febbraio non era possibile trovare un posto altrettanto discreto, ma un po’ meno gelido?” chiese Samuel, che elencava il freddo tra le poche manifestazioni di madre natura che odiava profondamente. “Ah, sono perfettamente d’accordo con te, ma non possiamo farci niente, e francamente nemmeno i conservatori. È stato il Consiglio Federale a imporci questa scelta simbolica, piuttosto melodrammatica. Si dà il caso che l’Alpe di Älggi è conosciuta per essere il centro geografico della Svizzera, e, se pensiamo a quello di cui discuteremo oggi, beh, da domani quel luogo perderà ogni charme”. Dall’intonazione della voce di Jean-Luc, Samuel poté facilmente intuire che il giovane progressista non doveva essere particolarmente favorevole alla scissione. “Scusa la banalità, Samuel, ma al buio faccio proprio fatica a vederti bene in viso. Comunque mi sembri piuttosto giovane, della mia età o magari giusto qualche anno in più, o sbaglio?” gli chiese il Jean-Luc Wicht. “No, non ti sbagli. Ti chiedi come mai hanno deciso di mandare me a mediare e documentare un evento talmente delicato, giusto?” chiese Samuel, rassegnato al fatto quel giorno altri gli avrebbero rivolto la medesima domanda. “Sì, ma non fraintendermi. Ci hanno parlato dettagliatamente di te e in modo molto positivo. Il giornale per cui lavori ti ha proposto insieme ad altri candidati e la scelta degli esperti di comunicazione dei due partiti è caduta su di te. Quindi, dal punto di vista delle competenze e delle capacità, non mi pongo nessuna domanda. Mi chiedo solo come hai fatto a fare tanta strada in pochi anni. Si tratta, di pura curiosità” precisò il giovane progressista. “Bella domanda, anche se infondo è tutto legato a questa storia della scissione. Prima di questo incarico avevo già ottenuto buone soddisfazioni sul lavoro, ma niente in confronto a questo. Francamente, non so bene nemmeno io che cosa ci faccio su questo elicottero” rispose Samuel che sentì riaffiorare il senso d’insicurezza che lo aveva angustiato negli ultimi giorni e così si mise, come Philippe, a osservare dal finestrino il formicolio dei veicoli diretti al lavoro, ora
sempre più numerosi. Jean-Luc, che percepì il senso d’insicurezza che affliggeva il giovane giornalista, cercò di colmare il silenzio. Samuel gli stava simpatico e inoltre gli apparve evidente che quest’incarico non se lo era cercato, ma che probabilmente glielo avevano imposto. “I conservatori arriveranno con un altro elicottero, insieme a un notaio federale che redigerà la versione definitiva degli accordi per la ratificazione in parlamento. Per la parte formale delle trattative saremo solamente in sei, tu compreso, più otto militari a sorvegliare la zona”. Siccome Samuel non dava ancora segni di vita, forse troppo ansioso e di conseguenza incapace di reagire, Jean-Luc cercò di riportare il discorso su un binario informale, così come avevano iniziato: “Mi chiedo se riuscirò a stare in presenza dei conservatori. Marcel Schmidt, non lo sopporto proprio”. Sentendo queste parole Samuel tornò in sé e gli chiese gentilmente di continuare e di spiegargli il motivo di tanto astio nei confronti del capo dei conservatori. “Mi è capitato sovente di ascoltarlo in parlamento o talvolta in televisione e alla radio per i dibattiti politici. Il fatto è che sono colto da un’incredibile insofferenza non appena apre bocca” aggiunse Jean-Luc. “Immagino che in buona parte sia dovuto al fatto che sostenete posizioni politiche diametralmente opposte e che concretamente, se non mi sbaglio, l’anno scorso in parlamento voi due non avete votato nemmeno una volta allo stesso modo” commentò Samuel, che citando una piccola parte delle informazioni che aveva studiato durante i ati tre giorni, si sentì un po’ rassicurato, così come quando si dà prova di buona memoria poco prima di iniziare un esame orale importante. “Sulle statistiche non ti sbagli, e questo conferma che ti sei preparato a dovere. Però non è solo una questione politica. Anzi, oserei dire che la mia reazione è più epidermica di altro. Alla presenza di Marcel Schmidt mi viene la pelle d’oca e mi cresce dentro un’avversione difficile da controllare, e, credimi, non sono il tipo che vive la con particolare emotività. In genere, considero il mio lavoro non più che una fonte di reddito e basta, senza montarmi troppo la testa” spiegò JeanLuc. “Capisco, interessante” rispose Samuel, che ora iniziava a temere che il suo
ruolo di mediatore si sarebbe trasformato nell’arbitraggio di un incontro di pugilato. “Hai mai avuto occasione di parlargli a quattrocchi, così del più e del meno, durante qualche pausa dei lavori parlamentari?” gli chiese allora il giornalista. “No, francamente non ci ho mai provato, e non credo che sarebbe servito a qualcosa. Non ho dubbi sulla natura di un personaggio simile e sono convinto di sapere benissimo che cosa pensa un troglodita del genere. Non mi servono conferme ulteriori” rispose Jean-Luc sfoggiando una sicurezza un po’ forzata. Il silenzio di Samuel valse più di ogni commento. L’elicottero fece una forte virata verso destra che costrinse i due giovani a tenersi in equilibrio per evitare di urtare chi si trovava al loro fianco. Probabilmente erano ormai arrivati in prossimità del luogo di atterraggio. Jean-Luc, messo un po’ a disagio dalla velata critica del giovane giornalista, rincarò la dose: “Guarda, Samuel, di solito non mi sbaglio nell’inquadrare i politici e il loro entourage. Ti faccio un esempio a conferma di quello che sto dicendo. A quanto pare Marcel Schmidt sarà accompagnato dalla figlia, che non ho mai visto nemmeno in fotografia. Eppure me la posso immaginare benissimo, e vedrai che corrisponderà in pieno alla descrizione che ti farò ora”. Samuel, che in preparazione all’incontro, si era procurato una foto della ragazza, abbozzò un sorriso, ma non disse niente. “Me la immagino arrogante come il padre, scontrosa e dai movimenti nervosi da perenne incavolata. Fisicamente, paffutella, poco femminile nell’essere come anche nel vestire e, su questo mi ci gioco quello che vuoi, con i capelli corti, un taglio maschile. Insomma, la versione femminile di Marcel Schmidt, solo un po’ più giovane!” concluse il giovane parlamentare. Samuel non poté reprimere una bella risata. Jean-Luc gli risultò subito simpatico e gli fu molto grato di aver saputo sdrammatizzare un po’ la situazione con dei commenti non propriamente conformi all’etichetta. “Beh, chissà, su Nadia Schmidt forse ti sbagli, ma sul fatto che il poco femminile taglio corto di capelli, sia un flagello che ha colpito le donne del nostro paese, non posso che darti ragione!” commentò quindi divertito. Dopodiché i due risero insieme, ripensando a qualche esempio particolarmente
riuscito di esasperata emancipazione. Philippe Wicht che, toltosi le cuffie, si era estraniato dalla discussione e non aveva fatto altro che guardare dal finestrino per tutta la durata del volo, vide i due giovani ridere armoniosamente, come se si conoscessero da tempo. Diede allora a Jean-Luc un’occhiata severa, di rimprovero, che il figlio ignorò serenamente. L’elicottero iniziò la lenta manovra verticale d’avvicinamento all’alpe. Pochi metri prima di raggiungere il suolo, Jean-Luc si affrettò ad aggiungere: “Comunque Samuel non preoccuparti per quello che potrei fare o dire durante le trattative. Mio padre gestirà da solo il colloquio con i conservatori e io mi limiterò solo ad aiutarlo, nel caso avesse bisogno di consultarmi per schiarirsi le idee. A quel burino di Marcel Schmidt e alla sua fedele copia in versione femminile non rivolgerò nemmeno la parola”. Chiaramente non poteva sapere che la giornata si sarebbe svolta ben diversamente. Non appena uno dei due piloti aprì dall’esterno il portellone scorrevole dell’elicottero, una forte folata di vento gelido diede a Samuel e ai due rappresentanti del partito progressista il benvenuto sull’Alpe di Älggi. A quell’altitudine la neve era caduta in abbondanza e i militari dovevano avere avuto non poche difficoltà per preparare l’area di atterraggio e sgombrare la zona dove avevano installato la grande tenda da campo. Nello scendere dall’aeromobile, Samuel notò un apparecchio identico a un trentina di metri dal loro, con i rotori spenti e nessun membro dell’equipaggio a bordo. Ne dedusse che i conservatori e il notaio dovevano già trovarsi nella tenda ad attenderli. Philippe Wicht, seguito dal figlio e da Samuel, nell’ordine, i tre si avviarono con o spedito verso la tenda bianca che si confondeva con il paesaggio circostante. I militari avevano montato un accampamento dalla struttura piramidale, emulando la forma del simbolo di demarcazione che l’ufficio federale di topografia aveva montato nel 1988 per indicare la posizione del centro geografico del paese. La tenda era stata rinforzata con lunghi pali in legno grezzo che davano alla costruzione un aspetto di solidità e di sicurezza, nonostante il freddo e il maltempo. A un centinaio di metri dalla piramide di tela si poteva riconoscere la sagoma del muretto, ora ricoperto completamente di
neve, costruito anni prima attorno alla demarcazione del centro geografico. Il muro in pietra riproduceva fedelmente il profilo della Svizzera in scala ridotta, aggiungendo ulteriore pathos a questo luogo simbolicamente particolare. Insomma, nessun altro posto sarebbe stato più adatto, ironicamente, per ospitare le trattative del trattato che avrebbe spaccato il paese in due, ridefinendone i confini. L’alpe di Älggi assomiglia a un’arena naturale scavata nella roccia. Al suo interno, il tempo e le intemperie hanno dato vita a un’ampia vallata, là dove nessuno si aspetterebbe di trovare altro che pendii infiniti con tutte le insidie della montagna più selvaggia. Quell’ anfiteatro montano non si addice unicamente a ospitare un inaccessibile scontro tra gladiatori, evento che ci accingiamo a narrare in tutte le sue sfaccettature. Infatti, c’è chi si azzarda ad affermare che la magia di questa fetta di mondo, nascosta e protetta come un segreto millenario, sia capace di rivelare a un accorto pellegrino addirittura il baricentro della vita, oltre a quello del paese. Marcel e Nadia Schmidt, che avevano udito l’arrivo dell’elicottero, uscirono dalla tenda a osservare i loro antagonisti che si dirigevano rapidamente verso di loro. Anche da lontano, Samuel ebbe conferma della bellezza della giovane conservatrice, che gli apparse ancora più attraente che in fotografia. Anche JeanLuc se ne era accorto e la fissava con la bocca aperta, come un bambino a cui hanno fatto un bellissimo regalo di Natale completamente inaspettato. Samuel sostenne con il braccio l’incredulo ragazzo, che disorientato da quella visione si era dimenticato di sondare con gli occhi il terreno insidioso, finendo per scivolare su una lastra di ghiaccio. La prontezza di riflessi di Samuel gli evitò di fare una figuraccia sotto lo sguardo attento dei conservatori. Samuel nel vederlo così incantato accennò un sorriso, discretamente e senza farsi notare, ma non disse nulla. Non era necessario. “Ma chi è quel tizio che così imbacuccato sembra un misto tra un panda e arlecchino?” chiese Marcel alla figlia, quando i tre erano ancora abbastanza lontani da non poterli sentire. Nadia diede un’occhiataccia al padre, prima di rispondere: “Papà, quello è sicuramente Samuel, il giornalista che medierà le trattative e che documenterà per un certo periodo l’evolvere delle due regioni autonome”. Poi guardandolo negli occhi aggiunse: “So benissimo quello che pensi, ma lo hanno scelto proprio perché dà le migliori garanzie di imparzialità. Quel giornalista ha un
ruolo chiave in questa vicenda, quindi cerca di comportarti bene. Mi hai capito?” “Mah, sarà come dici tu. Anche se mi basta vederlo da qui per capire che questo tizio si schiererà con i progressisti. Altro che imparziale. Lo sapevo che nel reparto comunicazione avevamo degli idioti, ma non credevo che fossero negati fino a questo punto. In questa occasione sono riusciti a sorprendermi!” commentò Marcel sottovoce. Nadia non rispose, ormai già impegnata a sorridere ai nuovi arrivati e intenta a porgere loro la mano in segno di benvenuto. Rapidamente tutti e sei, compreso il notaio federale che era uscito in quell’istante dalla tenda, si strinsero la mano energicamente. Marcel non cercò, come vorrebbe la prassi, lo sguardo di Samuel mentre questi gli stringeva la mano e finse di voler accelerare i tempi volgendo la testa in direzione di JeanLuc Wicht. Il giovane progressista invece, mentre si presentava alla figlia del capo dei conservatori, fece esattamente il contrario. Fissò a lungo Nadia negli occhi, risultando anche piuttosto impacciato, tanto che la giovane conservatrice dovette tirare con forza per riappropriarsi della mano. Il notaio invitò tutti a entrare nella tenda dove li attendevano una caraffa di caffè e dei croissant, e spiegò che da protocollo avevano ancora quindici minuti prima dell’inizio delle trattative. Spiegò che lui si sarebbe limitato a prendere nota delle decisioni per poi trasmetterle al parlamento per l’atto formale di ratifica. Per il resto si sarebbe tenuto in disparte e avrebbe lasciato carta bianca al mediatore nel compito di dettare i tempi e i temi della trattativa. Tutti notarono che nel dire questo non si volse in direzione di Samuel. I due clan non sfruttarono l’occasione per cercare di alleggerire la situazione, bensì si ritirarono in due angoli opposti della tenda, per rivedere sottovoce i punti salienti della loro strategia. Samuel si trovò così solo con il notaio e, benché non ne avesse alcuna voglia, considerato che era piuttosto teso e impaziente di iniziare, si sentì in dovere di scambiare due parole. “Giornata pessima, in tutti i sensi, non crede?” disse cercando di fare intuire che faceva parte di quella minoranza che riteneva la scissione un errore. “Già”. Fu la poco loquace risposta del notaio, che evidentemente non era
interessato a dialogare con Samuel. Poi in tono supponente, quasi da lord feudale, aggiunse: “Mi chiedo quando diavolo arriverà il mediatore, non gli resta molto tempo a disposizione. Comunque non ho ancora ben capito chi è lei, signor Manuel o Samuel, come ha detto che si chiama? È forse l’addetto al ristoro?” Samuel squadrò il notaio dalla testa ai piedi, come se all’improvviso gli si fosse materializzato davanti. Doveva avere circa sessant’anni. Alto e secco come un chiodo, e con le labbra sottili, quasi invisibili. Era talmente magro, che visto di profilo gli appariva quasi incorporeo. In un’altra circostanza si sarebbe divertito facendo finta d’essere quello che il notaio credeva che fosse, per poi stupirlo iniziando senza preavviso a mediare le trattative. Solo che quel giorno era veramente troppo teso per mettersi a giocare al gatto e al topo, e non era certo in vena di scherzi. “Mi chiamo Samuel e sono io il mediatore” ripose allora il giornalista compostamente. Al notaio scivolò quasi la tazzina da caffè di mano. “Questa poi! Sapevo che tutta questa baggianata delle trattative su di un alpe a milleseicento metri era già abbastanza ridicola, ma vedo che non ci sono limiti alle assurdità!” Il commento del notaio gli scivolò fuori di bocca tutto d’un fiato. Altri si sarebbero ricomposti, eventualmente scusati, e avrebbero aggiunto qualcosa per mitigare tanta spontanea scortesia. Lui invece, imperterrito, diede le spalle a Samuel e senza aggiungere altro andò a sedersi al suo posto. Samuel che doveva ancora scontare la pena costituita da qualche minuto di attesa prima di poter iniziare, si mise a eggiare avanti e in dietro per la tenda, riando mentalmente ciò che aveva previsto di dire all’inizio delle trattative. Sentì sulla pelle lo sguardo dell’arrogante notaio che dal tavolo lo fissava strizzando occhi e bocca come un bambino dell’asilo che non ha ancora imparato a gestire e analizzare le proprie emozioni. Samuel era abituato a essere osservato, e il comportamento volutamente ostile del notaio non lo distrasse più di tanto. Anni addietro un amico di famiglia gli spiegò che il fatto di sentirsi osservati è
una sensazione molto diffusa, che accomuna tanti uomini per svariate ragioni, e che ci si abitua col tempo. Al contrario, per tutti coloro che ano inosservati per una vita intera, senza mai essere notati da nessuno, deve essere molto più difficile venire considerati quasi invisibili. Convivere con l’impressione di non essere percepiti dal mondo circostante deve essere un’esperienza brutale, e probabilmente impossibile da sopportare. La natura umana ha bisogno di ricevere conferme della propria esistenza, oppure, prima o poi, si ribella e cerca di portare improvvisante il proprio io al centro dei riflettori. Quando questo avviene, spesso si realizza attraverso una forzatura, nel migliore dei casi solo ridicola. Purtroppo, di tanto in tanto si tramuta in un processo a carattere violento, che termina in tragedia. Samuel col tempo aveva imparato a riconoscere rapidamente l’agonia di tali personaggi e sapeva che il notaio doveva essere uno di questi esseri invisibili e infelici. Poverino. Prima di iniziare, Samuel chiese in se ai Wicht se avrebbero acconsentito a procedere in tedesco. Marcel sentendo la domanda che il mediatore aveva posto ai progressisti cercò di far capire che avrebbero potuto anche fare uso della loro lingua madre per le trattative, cercando ironicamente di esprimersi in un se strascicato e tentennante. Chiaramente in questo caso i tempi si sarebbero allungati enormemente e fu lui il primo a burlarsi delle sue limitate capacità linguistiche, e a canzonare il suo ruvido accento. I Wicht e la figlia ne risero divertiti. L’inglese sarebbe stata l’alternativa più neutrale, ma Marcel Schmidt non lo parlava sufficientemente bene, come d’altronde nemmeno il se. In assenza di altre opzioni, i Wicht accettarono la proposta, anche se consapevoli che una lingua terza avrebbe posto tutti sullo stesso piano. Sapevano infatti molto bene che condurre delle trattative in una lingua straniera sarebbe stata un’operazione delicata di per se. Se in più la controparte si avvantaggia esprimendosi nella sua lingua madre, le cose si complicano. Samuel pensò che i due progressisti partivano male, in un certo senso, in svantaggio ancora prima di iniziare. Samuel accese il registratore. Con questo gesto diede il via ufficiale alle trattative che avrebbero rivoluzionato la storia del paese, e ogni traccia di allegria sparì immediatamente dal viso dei quattro rappresentanti politici. Samuel per farsi forza pensò che ormai il peggio era ato, e cioè l’estenuante
fase di attesa. Si era preparato a dovere, e ora non doveva fare altro che recitare la sua parte. Respirò profondamente un’ultima volta. Sentiva il cuore battere forte, con i quattro politici che lo osservavano attenti e concentrati, quasi in apnea. Spiegò brevemente che a suo avviso i temi principali erano la spartizione del territorio, della banca nazionale e del tesoro, dell’esercito e di tutte le altre maggiori istituzioni nazionali. Infine, avrebbero dovuto preparare lo schema di base dei primi accordi bilaterali tra le due regioni, per regolare eventuali collaborazioni e soprattutto il flusso delle persone. Aggiunse che riteneva ogni altro argomento marginale rispetto a quelli che aveva appena elencato e che ulteriori incontri tra i ranghi inferiori dei due partiti avrebbero permesso di chiarire tutti i dettagli. Chiarì anche che se non fossero riusciti ad accordarsi sui temi principali entro il calare del sole, le trattative si sarebbero protratte ancora per un giorno. In questo caso, avrebbe chiesto all’esercito di mettere a disposizione un luogo dove pernottare, per poi tornare l’indomani in elicottero alla tenda. Lo disse ben cosciente che questo scenario chiaramente non se lo augurava nessuno dei presenti. Concluse chiedendo apertamente se ci fossero obiezioni a quello che aveva appena detto o delle richieste particolari. La mancanza di obiezioni, combinata alla sicurezza che si acquisisce dopo i primi minuti di un discorso, gli permisero di distendere i nervi e rallentare il battito cardiaco a dei ritmi sostenibili. Sapeva che da quel momento in poi il suo compito sarebbe stato in discesa. Doveva semplicemente restare concentrato e intervenire solo se assolutamente necessario. Gli sguardi critici del notaio divennero rapidamente parte dell’arredamento, per poi svanire completamente insieme alla figura di quel misero scribacchino. Se glielo avessero chiesto in seguito, cosa che evidentemente non avvenne, dato che non interessava a nessuno, Samuel non avrebbe potuto affermare con certezza che il notaio fosse rimasto con loro fino alle fine delle trattative. Fece un ennesimo profondo respiro e continuò introducendo il primo tema in discussione: la spartizione del territorio. Il punto di partenza sarebbe stato dettato dalla percentuale totale di aderenza alla regione conservatrice, il 30% della popolazione. Era la scelta più logica e nessuno si oppose, né Samuel si sentì in dovere di chiedere esplicitamente il loro consenso. La suddivisione sarebbe avvenuta per cantoni, semplificando così il processo di spartizione. Fatti i dovuti calcoli, ai conservatori spettavano sei cantoni e tre
semicantoni. Per mantenere una certa equità anche in relazione alla superficie edificabile, se tra i cantoni assegnati ai conservatori non fosse stato incluso alcuno dei quattro cantoni più vasti, allora la quota sarebbe salita a sette cantoni e tre semicantoni. Inoltre, i cantoni prescelti per formare le due regioni dovevano essere confinati, evitando così di creare delle inutili enclave. Dopo queste precisazioni, Samuel fece una pausa per chiedere ai partiti se questi criteri andavano bene e ne approfittò per bere un sorso d’acqua. I quattro fecero qualche calcolo mentale, si consultarono brevemente e annuirono positivamente. Samuel riprese allora a elencare la procedura. Le quote cantonali di preferenza, che avevano indicato quali fossero le regioni con maggiore consenso, rispettivamente, per una visione conservatrice o progressista della società, avrebbero funto da importante informazione per le trattative, senza però limitare la paletta delle varianti a disposizione per raggiungere un accordo. Era difatti chiaro a tutti che, nel limite del possibile, l’emigrazione forzata da una regione all’altra andava contenuta il più possibile. Una fascia di cantoni tra la Svizzera orientale e quella centrale era chiaramente schierata con i conservatori, e sarebbe diventata il nucleo della regione conservatrice. In base alle percentuali di preferenza e alle restrizioni dettate dalla posizione geografica, in bilico c’erano i cantoni di Zurigo, Sciaffusa, Lucerna, Glarona, Grigioni e Ticino. Prima di dare la parola ai rappresentanti dei partiti, Samuel chiese di esprimere chiaramente la loro opinione, confermando se tale illustrazione della situazione corrispondeva alle loro aspettative, oppure no. Tutti, compreso Marcel Schmidt, annuirono compiaciuti dalle capacità comunicative del giovane giornalista, che stava dando prova di ineccepibile professionalità. Marcel si mostrò soddisfatto dell’operato di Samuel, non solo in quell’occasione, ma sostanzialmente mantenne questa linea conciliatrice nei confronti del mediatore per tutta la durata delle trattative. Samuel si permise in seguito perfino di interromperlo, quando questi divagava con commenti fuori dal tracciato consono alle trattative, senza che questi s’irritasse. Constatare tutto ciò tranquillizzò ulteriormente Samuel, che nei giorni precedenti l’incontro aveva temuto di sperimentare sulla sua pelle le famose sfuriate di Marcel Schmidt.
Probabilmente, e nonostante la sua natura scontrosa, l’esperto politico era capace di riconoscere le qualità altrui e, in casi eccezionali, sapeva cambiare opinione, concedendo un nuovo giudizio. “Siete voi i portabandiera di una società arcobaleno, no?” chiese Marcel ai progressisti, dando inizio a una provocazione che faceva parte di una precisa strategia ben preparata. “Marcel, evitiamo i giri di parole. Che cosa vuoi dire?” chiese Philippe spazientito. “Beh, mi sembra evidente. Noi vi cediamo volentieri Grigioni e Ticino, liberandoci definitivamente del fardello burocratico costituito dall’uso di quattro lingue ufficiali. Anzi, meglio, opteremo il più in fretta possibile per lo svizzerotedesco come unica lingua riconosciuta!” esclamò, corredando il tutto con una forte risata. “Volentieri, che gentile” commentò Philippe ironicamente, “e immagino che questa generosa concessione sia da compensare con il Canton Zurigo, giusto?” “È ovvio che non potete avere tutti i cantoni in bilico, è proprio questo il senso delle trattative” rispose secco Marcel, prima di aggiungere con aria di sfida: “Tra i cantoni selezionati finora per la regione conservatrice, nessuno ha una grande superficie. Come concordato in precedenza, in questo caso abbiamo diritto a sette cantoni e tre semicantoni. Insomma, a voi vanno tutti i cantoni più grandi e noi prendiamo Zurigo. Mi sembra equo”. La vecchia volpe diede un’occhiata a Samuel in cerca di consenso, ma questi si limitò ad attendere la replica dei progressisti. Il suo ruolo non prevedeva di giudicare cosa fosse equo oppure no, ma unicamente di dettare i tempi e i modi della discussione. “In linea di principio siamo d’accordo, ma ci risulta evidente che ci sono dei risvolti economici importanti, legati alla sede delle grandi banche. Cosa ci proponete come contropartita?” chiese Philippe Wicht seguendo le battute di un copione fedele alle aspettative, da entrambe le parti. Almeno, fino a quel momento. Samuel pensò che adesso era ufficiale: al giornale erano fritti. Se Peter avesse avuto ragione, nel giro di qualche mese avrebbe perso il lavoro insieme a tutti i
colleghi della sede di Berna. Poi si impose di scacciare dalla mente queste distrazioni, per tornare a concentrarsi sul dibattito in corso. Poteva immaginare quello che avrebbero risposto i conservatori, ma non sapeva precisamente fino a che punto si sarebbero spinti nel rinunciare alle strutture sociali dello stato, e se questo sarebbe bastato ai progressisti per ingoiare la pillola. Marcel si espresse lentamente, mettendo in rilievo ogni singola parola. “Philippe, parliamoci francamente: come controparte, per Zurigo, vi proponiamo esattamente quello che le due filosofie divergenti si augurano. Noi vogliamo l’esercito, l’arsenale al completo, mentre tutte le altre istituzioni e infrastrutture nazionali vanno a voi”. Il colpo andò in porto, Philippe e Jean-Luc si guardarono, visibilmente perplessi. Poi il padre si decise a chiedere un chiarimento: “Tutte? Senza eccezioni?” “Sì, nessuna eccezione. Beh, intendiamoci, logicamente il saldo delle pensioni dei cittadini che vivranno nella nostra regione, verrà trasferito sui conti bancari a Zurigo. Ci penseranno le banche a gestire e far fruttare questo denaro, in base a mandati individuali”. “Che rischio! Chissà se Peter metterà veramente le mani sulla pensione” pensò Samuel, poco convinto che questa parte del piano dei conservatori sarebbe andata a buon fine. “Ogni forma di burocrazia federale, secondo il modello vigente, resta nelle vostre mani. Onestamente, non sapremmo cosa farcene. Abbiamo intenzione di ridurre all’osso le interferenze dello Stato e per raggiungere rapidamente quest’obbiettivo, dobbiamo ricominciare da zero. L’alternativa di adeguare i giganteschi apparati oggi esistenti alla nostra visione della società e dello Stato sarebbe pressoché impossibile” spiegò Marcel, emotivamente partecipe della sua presa di posizione. Tutto questo era stato in gran parte preventivato dai progressisti, che però avevano previsto di doversi battere almeno per qualche altro bene comune, esercito e casse dello stato a parte. Per esempio, avevano previsto di dover raggiungere degli accordi sulla spartizione delle fonti d’energia o delle infrastrutture viarie. L’unica richiesta che li prese veramente di sorpresa era legata ai fondi delle pensioni e su questo diedero prova di una preparazione superficiale, dato che la
richiesta dei conservatori poteva essere prevista facilmente e il concreto impatto di un tale esodo di capitali si sarebbe potuto stimare in anticipo. A padre e figlio mancavano i dati necessari per valutare la situazione e se ne resero conto quando era ormai troppo tardi. Trovandosi in difficoltà chiesero qualche minuto per consultarsi privatamente. Marcel e Nadia acconsentirono di buongrado, scambiandosi uno sguardo complice di chi sa di essere in procinto di piazzare la prima stoccata vincente. Philippe e Jean-Luc presero nuovamente posto al tavolo delle trattative e, come di consueto tra i due, fu il padre a prendere la parola: “Accettiamo la proposta, a condizione che ci accordiate tre mesi per trasferire i fondi dal bilancio delle pensioni a quello delle banche”. “Accordato” si limitò a rispondere Marcel, imibile come un giocatore di poker che raccoglie il punto senza vantarsi di un bluff ben riuscito. Samuel pensò che si stavano delineando i primi segni evidenti di una sconfitta per i progressisti. Con le pensioni andavano indubbiamente incontro a dei gravi problemi di liquidità e tre mesi non sarebbero bastati a risolverli. Inoltre, come controparte per Zurigo, i progressisti avrebbero dovuto cercare di ottenere molto di più, ponendo per esempio delle condizioni sulla spartizione delle casse dello stato. Samuel prese nota dell’accordo che ricopriva ben due dei punti salienti che aveva elencato all’inizio: il territorio e le istituzioni su scala nazionale. Chiese ai convenuti di acconsentire a are al seguente tema di rilievo: la Banca Nazionale e le casse dello Stato. Propose che la suddivisione, anche in questo caso, si basasse sulla percentuale di popolazione che aveva deciso di aderire alle due regioni. Sembrava la cosa più sensata, ma Samuel in proposito, nel periodo preparatorio, aveva speso molto tempo a ragionare sulla questione. Il tentativo di anticipare quelle che sarebbero state le argomentazioni e le strategie dei due partiti, lo aveva portato ai margini della politica, la dove si possono incontrare filosofi e statisti, ati e presenti, che hanno costituito la fonte di quasi tutte, se non tutte, le forme di pensiero politico e democratico dei nostri tempi. Durante tale divagazione si era chiesto quanto potesse valere un uomo in termini monetari, dato che in sostanza era quello che si accingevano a stabilire. Anzi, per essere più precisi, questa situazione portava a quantificare il valore che la società attribuiva alla donna e
all’uomo medio, dimenticando ogni forma di etichetta o di reale pregio e difetto individuale. O meglio, quasi ogni forma di etichetta, come vedremo in seguito. Si chiese se fosse possibile, in modo ragionevole, tradurre un uomo in una cifra contabile, non tanto in senso materiale, dato che le Società di Assicurazione permettono da anni di assicurare individualmente la vita, un braccio o un dito, dandone implicitamente un valore, ma più che altro da un punto di vista collettivo. Quanto vale l’uomo medio per il mondo che lo circonda? Su quali criteri ci si deve basare? L’assurdità di tali domande lo avevano costretto ad abbandonare la vena filosofica per tornare a concentrarsi alla preparazione di quelle domande, più schiette e modeste, che stavano affrontando oggi. In questo caso Marcel si oppose con fermezza: “Non sono d’accordo. Il dato di riferimento per la spartizione deve esser la quota di aderenze di cittadini svizzeri, e non la quota generale. La ricchezza del paese è il frutto del lavoro di tante generazioni di famiglie svizzere e di conseguenza appartiene a loro e a nessun altro”. La quota di stranieri che avevano scelto la regione conservatrice era ben inferiore a quella dei progressisti e a conti fatti questa richiesta avrebbe fatto confluire una modesta somma supplementare nelle casse delle neonata regione conservatrice. Samuel, tornando per una frazione di secondo ai pensieri che lo avevano assillato durante la fase di preparazione, si disse che Marcel stava implicitamente attribuendo un valore agli stranieri. Philippe andò in escandescenza, tacciando l’avversario politico di essere un incivile e ingrato villano. I toni del dibattito si alzarono rapidamente sfociando in un diverbio senza ritegno da entrambe le parti e cancellando all’istante il clima pacato che aveva accompagnato la prima fase delle trattative. Samuel intervenne imponendo a tutti una pausa di mezzora, e invitando i due capi partito a controllare espressioni ed emozioni durante il prosieguo delle trattative. Decise di andare da solo a fare due i per rinfrescare la mente. S’incamminò verso la piccola collinetta che domina la vallata e che ospita al suo apice il simbolo di demarcazione del centro geografico del paese. Nell’insieme si sentiva soddisfatto di come si stavano sviluppando le trattative e anche per il modo cortese in cui era stato accettato nel ruolo di mediatore: fino a quel momento
tutto si era svolto agevolmente. Il diverbio scoppiato poco prima non lo preoccupava per niente. Aveva previsto che prima o poi gli animi si sarebbero infiammati e ritenne una fortuna che fosse avvenuto in quel momento e non durante le prime battute dell’incontro. Samuel pensò anche che la parziale estraniazione dei due giovani dalla parte attiva del dibattito fosse un elemento non previsto, e che aveva indubbiamente alleggerito la discussione. In questo modo gli bastava concentrarsi unicamente sugli umori e le reazioni dei due esponenti chiave, Marcel Schmidt e Philippe Wicht, mantenendo così le redini della trattativa. Tutto questo stava facilitando non poco il suo lavoro di mediazione, che per il momento gli era riuscito di ridurre a un ruolo di moderazione. Durante la mattinata Samuel aveva sporadicamente notato come Nadia e Jean-Luc si fossero mostrati attenti e indirettamente partecipi del dibattito condotto dai rispettivi padri, ma non particolarmente coinvolti dalle tematiche che avevano appena trattato ed emotivamente disinteressati. Insomma, tutto il contrario di Marcel e Philippe. Si chiese se questo fosse dovuto a una certo scetticismo nei confronti del processo di scissione, o se fossero stati altri pensieri a distrarli. I due, che al tavolo delle trattative sedevano una di fronte all’altro, si erano osservati di nascosto, cercando di evitare di incrociare gli sguardi e, nelle rare occasioni in cui questo si era accidentalmente verificato, Jean-Luc aveva abbozzato un sorriso ebete. Arrivato in cima alla lieve collina Samuel scavalcò il muretto in pietra, lasciandosi scivolare sulla neve. Avanzò verso il centro del perimetro e andò a sedersi vicino alla piramide in metallo che indicava simbolicamente la posizione del baricentro del paese. La piramide, aperta sui quattro lati, permetteva di osservare la grossa pietra posta sotto il suo apice. Samuel riconobbe alcune incisioni poste sulle placchette fissate ai lati della roccia, ora parzialmente ricoperte e illeggibili. Con i guanti scostò faticosamente la neve e il ghiaccio, facendo riapparire una lista di nomi, uno per ogni anno dal 2002. Politici, medici, imprenditori, sportivi, donne e uomini premiati pubblicamente per aver onorato il loro Paese, nel mondo e in Svizzera. Samuel, che comprensibilmente la testa colma di pensieri legati alle concrete mansioni che gli restavano da svolgere quel giorno, diede poco peso allo superficie liscia e immacolata che era stata con fiducia preparata ad accogliere negli anni a venire nuovi e illustri nomi. Dopo qualche minuto trascorso a cercare di dare un volto a ognuno di quei personaggi, il giovane giornalista iniziò a riflettere sui punti chiave che poteva trarre dalla prima fase delle trattative da inserire nell’articolo che avrebbe scritto in serata. Ripensando alle minacce del capo redattore e alla totale mancanza di perspicacia nelle negoziazioni dimostrata dai progressisti, sentì un nodo allo
stomaco. Ironia della sorte, proprio il suo nome, posto di fianco a quello di un personaggio per ora a lui sconosciuto, sarebbero stati i prossimi a essere incisi sulla placchetta ancora semivuota. Nonostante la magia di questo luogo ci conceda gentilmente di sbirciare nel destino di Samuel, dobbiamo umilmente ricordare che il significato di questo evento ci è tuttora oscuro. Non sappiamo infatti se i loro nomi, aggiunti dallo scalpello di qualche patriota solitario per onorare il loro tentativo di rimediare ai tristi avvenimenti di questa storia, sarebbero stati gli ultimi, per sempre, o se il successo dei loro intenti avrebbe permesso ad altri di ricevere tale onorificenza dopo di loro. Uscendo dalla tenda, Nadia scelse una direzione diversa da quella battuta da Samuel e si incamminò verso l’elicottero, dove i militari avevano preparato un tavolo con due caraffe di tè caldo e alcune confezioni di biscotti militari. I piloti, che seguendo le disposizioni di sicurezza non si erano mossi dal ristretto perimetro dell’area d’atterraggio, vedendola arrivare gonfiarono i petti e cercarono di attrarre la sua attenzione prodigandosi in delle pose improbabili da fotomodelli, in piedi con una spalla appoggiata al velivolo, le gambe incrociate e il casco sottobraccio. Questa scenetta la fece sorridere. Poi, per distrarre gli sguardi dei militari che non sembravano voler mollare la pesa, commentò positivamente, simulando un certo stupore, il sapore dei biscotti militari, che in realtà conosceva fin dall’infanzia, e chiese loro se poteva prenderne qualche pacchetto da portare con sé nella tenda per il prosieguo delle trattative. Con la coda dell’occhio Nadia notò che Jean-Luc si stava dirigendo nella sua direzione e ne fu compiaciuta per il semplice fatto che, con il sopraggiungere di un parlamentare conosciuto con il quale scambiare qualche battuta, i militari probabilmente si sarebbero distratti un po’. Riteneva Jean-Luc belloccio, anche se ne aveva già visti tanti come lui, e a prima vista gli era sembrato pure simpatico. Forse anche un po’ impacciato, ma forse si trattava solo di un’impressione. Jean-Luc si preparò una tazza di te, aggiunse una zolletta di zucchero e cercò immediatamente di attaccare bottone sotto lo sguardo attento dei piloti, che imperterriti li osservavano da pochi metri: “Che tempo da lupi. Purtroppo le previsioni annunciano brutto tempo anche per domani e i giorni a seguire”. “Già, speriamo che l’inverno i in fretta. Quest’anno tutto questo grigiore mi
pesa più del solito” rispose cordialmente Nadia, senza però nascondere che il tema scelto dal giovane progressista per rompere il ghiaccio non la interessava particolarmente. Jean-Luc decise allora di cambiare approccio. “Nadia, mi permetto di darti del tu, se non ti dispiace”. “No, assolutamente. Jean-Luc, giusto?” rispose la giovane conservatrice che a sua volta detestava usare la forma di cortesia con dei coetanei. “Sì, esatto. Senti Nadia, so che discutere ora delle trattative sarebbe fuori luogo, ma posso comunque farti una domanda a carattere generale?” chiese il giovane progressista. “Certo, se dovessi ritenerla inopportuna, beh, te lo dirò francamente” rispose Nadia, che però, girandosi verso il panorama offerto dalle montagne innevate e parzialmente avvolte dalla nebbia, fece capire chiaramente che non moriva dalla voglia di discutere delle trattative. Jean-Luc incassò il colpo, ma ormai non poteva cambiare nuovamente discorso senza portare a termine quello che aveva iniziato. “Cosa ne pensi di tutta questa storia? Voglio dire della scissione di per sé, non tanto delle trattative”. Nadia attese qualche secondo prima di rispondere. Infondo non conosceva il suo interlocutore che da qualche minuto e non si sarebbe confidata con chi doveva ancora dimostrarle di che pasta era fatto. “Poco importa che cosa ne penso io. Se siamo qui oggi vuol dire che la scissione è una realtà che dobbiamo accettare, che ci piaccia oppure no”. Infondo la risposta di Nadia diceva già più di quello che avrebbe voluto farsi sfuggire, eppure Jean-Luc interpretò le parole di Nadia come un palese e ulteriore segnale che avrebbe volentieri fatto a meno di continuare la conversazione. Addirittura, ebbe l’impressione di annoiarla a morte. D’altronde come biasimarla? Jean-Luc immaginò che Nadia dovesse ascoltare ogni giorno sempre lo stesso ritornello da uomini diversi, che cercavano tutti, con poca fantasia, seguendo sempre gli stessi schemi e usando parole simili, di attrarre la sua attenzione.
A conferma dei suoi pensieri, Nadia cambiò discorso. “Ho notato questa mattina che ti massaggi sovente il gomito, come mai? Hai avuto un incidente?” gli chiese la giovane conservatrice. “Sì, qualche giorno fa facendo del jogging sono scivolato e sono andato a sbattere contro una vettura. Comunque niente di grave è solo che con il freddo sento ancora dei lievi dolori, di tanto in tanto” rispose Jean-Luc senza spiegare i dettagli della vicenda. Un errore, dato che sicuramente a Nadia sarebbe piaciuto sentirgli raccontare l’inseguimento attraverso la città e quello che poi era accaduto in stazione. Purtroppo, Jean-Luc era ancora parzialmente prigioniero dei suoi preconcetti sul carattere della giovane conservatrice e temeva che lei lo avrebbe giudicato male per non aver assicurato alla giustizia i due piccoli scippatori. “Mi pare che hai in generale un problema a stare in piedi da solo, o sbaglio? Anche prima mentre vi avvicinavate alla tenda ho notato che per poco non finivi a gambe all’aria!” lo canzonò lei sorridendo per la prima volta da quando JeanLuc l’aveva avvicinata. Da esperto dongiovanni com’era, Jean-Luc doveva sapere che queste piccole provocazioni sono in genere segnali positivi. Invece, oggi, era talmente stralunato che colse la battuta malamente, credendo che non solo non riusciva a interessarla, ma che lei iniziava pure a farsi beffa dei suoi goffi tentativi di fare conoscenza. Eppure, non poteva darsi per vinto. Sorridere le aveva illuminato il volto e gli occhi, di un colore unico, accattivante. Jean-Luc non aveva mai incontrato prima d’ora una donna il cui viso, la voce, i movimenti, insomma tutto era armonioso e delicato. Le mani affusolate sembravano muoversi al ritmo di una musica impercettibile e i capelli color oro si posavano sulle spalle avvolgendo il collo, fine e all’apparenza liscio come la seta. Il giovane parlamentare fu completamente fulminato da tanta bellezza, come mai gli era accaduto in ato. Siccome Jean-Luc non dava più segni di vita e le appariva imbambolato e incapace di continuare la loro breve conversazione, Nadia si congedò incamminandosi verso la tenda, camminando lentamente per non rovesciare la tazza di tè fumante che aveva riempito nuovamente fino all’orlo.
Mentre la osservava allontanarsi, Jean-Luc cercò di capire perché si sentiva tanto attratto da Nadia. Forse, pensò, tale magnetismo era dovuto alla strana combinazione di donna forte e decisa, ma molto fragile al tempo stesso, che si alternavano vorticosamente senza preavviso. Infatti, gli parve facilissimo immaginarla bambina, cresciuta e protetta come una piccola principessa. “No Jean-Luc, non puoi lasciartela scappare senza nemmeno fare un ulteriore tentativo. Con la scissione alle porte, le probabilità di rincontrarla casualmente sono quasi nulle. Adesso o mai più. Devo fare un gesto inatteso, oppure continuerà a non vedermi” si disse, alla ricerca del coraggio necessario. Sapeva che il padre lo avrebbe moralmente scorticato per un gesto del genere, ma decise di accettare comunque il rischio. In queste situazioni, Jean-Luc metteva da parte la veste perbenista che lo aveva aiutato a entrare in parlamento e lasciava uscire quella porzione di anima un po` da mascalzone che solo pochi amici conoscevano veramente. Era fatto così, paradossalmente, più assurda diveniva la situazione, più Jean-Luc Wicht si sentiva a suo agio. Il giovane recuperò rapidamente il terreno perduto, dato che Nadia avanzava molto lentamente, concentrata a non perdere l’equilibrio. Quando la raggiunse, Jean-Luc si sentì sorprendentemente disteso e lucido, come se stesse per esprimere il concetto più naturale di questo mondo. Verosimilmente proprio perché di questo si trattava. Iniziò a parlarle nel momento in cui solo pochi i gli avrebbero permesso di raggiungerla e continuò a farlo andole di fianco, senza fermarsi: “Nadia, sei la donna più bella e affascinate che ho mai avuto la fortuna di incontrare. Probabilmente non ci rivedremo mai più e col tempo diventerai solo un lieto ma remoto ricordo inciso nel profondo della mia mente. Mi auguro unicamente, con tutto il cuore, che tale ricordo non diventi una distrazione costante, durante tutto il corso della mia vita. Se invece questo dovesse avverarsi, sarei condannato a rievocare per sempre questa data come la più triste di tutte. Il giorno in cui non ho saputo interessarti”. Jean-Luc disse le ultime due frasi guardandola diritta negli occhi, mentre la sorava, e lasciando la giovane donna immobile tra la neve e ammutolita da tanta audacia. Jean-Luc Wicht non attese repliche e continuò imperterrito per la sua strada, come se niente fosse. In realtà, mentre si allontanava, sentì distintamente alle sue spalle lo sguardo di lei, alla ricerca di risposte per le tante domande che poche
parole avevano provocato. Nadia si sentì come pietrificata da un incantesimo che oltre ad averla ancorata al suolo le aveva anche sottratto in un baleno la capacità di pensare. Non ci riusciva, malgrado si sforzasse con tutta la volontà che aveva in corpo, nessun pensiero limpido e trasparente fuoriusciva dalla sua mente. Era chiaramente confusa e solo dopo qualche interminabile minuto riuscì a rimettersi in moto. Entrando nella tenda Jean-Luc vide che suo padre era già seduto e pronto a riprendere le trattative. Fece due respiri profondi e si augurò di non aver appena dato il via a un disastro irreparabile. Nadia guardandolo negli occhi, aveva capito che quelle parole erano sincere e fedeli ambasciatrici del suo stato d’animo e che non si trattava di trucco improvvisato allo scopo di scombussolare il processo di negoziazione? Per lo spavaldo giovane si trattava di una sensazione nuova. Si abbandonò all’idea di essere completamente nelle mani di una donna, senza sapere come sarebbe andata a finire. Cercò di tranquillizzarsi, dicendosi che a ogni modo ne era valsa sicuramente la pena, o quantomeno era quello che gli diceva una tenue voce che al suo interno si rallegrava per tanto ardire. Mentre si sedeva al suo posto di fianco al padre, sorrise al pensiero di quello che le aveva detto. Non si credeva capace di tali parole. Samuel aveva visto tutto da lontano, mentre stava tornando alla tenda, senza poter udire quello che i due giovani si erano detti. A ogni modo la mimica dei il loro visi e la dinamica della scena non richiedevano sottotitoli. Pensò che come nel più romanzato dei film, i due giovani, belli, potenti e appartenenti a famiglie contrapposte, facevano scintille al primo incontro. “Nell’insieme di tutte le assurdità che mi è toccato sentire e vedere nelle ultime settimane, questa forse le batte tutte. Mah, speriamo di concludere le trattative in fretta e lasciare questi quattro al loro destino senza che tutto si complichi inutilmente per via di due incoscienti”. Quando Nadia varcò l’entrata della tenda, Marcel Schmidt, che stava raccontando un aneddoto divertente legato alle sue esperienze in veste di ufficiale dell’esercito, con l’intento di attenuare la tensione creatasi con Philippe Wicht, ebbe una ben percettibile inflessione della voce per poi addirittura interrompere il suo racconto. Gli altri interpretarono questo gesto come un atto
di cortesia per permetterle di riguadagnare serenamente il posto al tavolo delle trattative, ma in realtà Marcel aveva riconosciuto all’istante un certo turbamento sul volto della figlia. Oltre alle guance arrossate, che potevano essere semplicemente dovute al freddo, Marcel riconobbe subito che i muscoli della faccia di Nadia si erano contratti, modificando lievemente le simmetrie di quel viso tanto perfetto. Colse anche il movimento nervoso delle mani di Jean-Luc Wicht e l’innaturale indifferenza ostentata dal giovane nei confronti del tardivo ritorno della figlia. Tutto questo non gli piaceva, per niente. Marcel si chiese se non avesse appena compiuto un banale errore, da principiante, nel non averla accompagnata all’esterno della tenda. Poi, rassicurato dalla mano di Nadia, posta delicatamente sulla sua spalla a indicargli che poteva continuare, scacciò questi cattivi pensieri e si concentrò nuovamente nell’applicazione della strategia di negoziazione. Marcel aveva visto giusto. Jean-Luc evitava volontariamente, facendo uno sforzo non indifferente, di guardare Nadia per non metterla a disagio. Anche se, durante le ore che seguirono, ebbe sovente l’impressione che lei lo stesse osservando attentamente. Quella stessa voce all’interno del suo animo, che si era complimentata con lui per il coraggio dimostrato, gli disse che il colpo era andato a segno. Le parole che le aveva sussurrato si sarebbero moltiplicate lentamente ma inesorabilmente attraverso il corpo della giovane donna, come un potente siero, che, anche se somministrato in dosi infinitesimali avrebbe raggiunto ogni vena e ogni capillare. Improvvisamente tanta euforia fu raggelata dalla constatazione che, anche se effettivamente era riuscito ad aprire una breccia nella corazza di Nadia, con l’incombere della scissione del paese, niente e nessuno poteva assicuragli che la avrebbe rivista. Il panico si rimpossessò dell’animo del giovane progressista. Samuel riprese la parola e riassunse la situazione, riportandoli o per o al punto in cui prima della pausa si erano arenate le trattative. Poi chiese agli esponenti dei due partiti se avevano dei nuovi elementi da aggiungere alla riflessione. L’invito fu colto da Philippe Wicht che prima di iniziare a parlare schiarì rumorosamente la voce. “Il tipo di società che ci auguriamo di costituire nella regione progressista non sarà incentrata sul denaro, ma cercheremo di ritrovare dei valori diversi da assegnare all’uomo”. Philippe fece una breve pausa e bevve
un sorso d’acqua. Nel frattempo Marcel Schmidt s’impegnò in un teatrale sbadiglio. Lo stratega dei progressisti riprese dicendo: “Fedele a quest’obiettivo non mi posso permette di mettere a rischio le trattative unicamente per ottenere qualche soldo in più. Oggi, oltre a difendere le file dei progressisti, il mio compito più importante è assicurare un accordo che ci permetta finalmente di distanziarci, per sempre, da chi la pensa come Marcel Schmidt”. Philippe guardò Marcel con aria di sfida, mentre questi lo osservava con un ghigno vittorioso dipinto sul volto. “Poveri illusi, farete una brutta fine voi e le vostre utopie” pensò Marcel che sapeva di avere dato prova oggi a una delle sue migliori prestazioni da sempre. “Insomma, per farla breve, accettiamo le condizioni dei conservatori per la spartizione della casse dello stato e saremmo lieti di poter are al prossimo tema senza perdere altro tempo” concluse Philippe con un tono di voce da generale, ma con una postura sulla sedia che si addiceva meglio a un caporale. “Tanto di cappello, per le intenzioni” pensò Samuel rinvigorito dall’idea che la fine di questa estenuante giornata si stava finalmente materializzando. “Comunque, sarà anche vero che ottenere delle concessioni da Marcel Schmidt sul tema del denaro sarebbe stato molto arduo, ma cedere senza battersi mi sembra una scelta poco saggia. Philippe Wicht avrà anche l’impressione di aver vinto moralmente, ma chi al giorno d’oggi determina ancora vincenti o perdenti in base alla morale? Mah, francamente facendo un bilancio direi che stiamo due a zero per i conservatori, e palla al centro”. Jean-Luc, che nella sostanza la pensava come Samuel, alle fine del discorso del padre ebbe però un pensiero ben diverso, rivolto alla nonna, che oggi sarebbe stata molto fiera di suo figlio, e forse adesso lo stava applaudendo dall’alto. A conferma di queste considerazioni metafisiche si levarono all’improvviso tre fortissime folate di vento che fecero temere a tutti per qualche secondo che la tenda avrebbe preso il volo. Il resto delle trattative si svolse rapidamente e senza discussioni degne di nota. Le due neonate regioni si accordarono per mantenere entrambe lo stato di paesi neutrali, ma quest’implicito accordo di non aggressione non fu rinforzato da delle forme di collaborazione economica. I due partiti concordarono che
eventuali accordi bilaterali potevano venire ridiscussi a tempo debito e si limitarono unicamente a tracciare le linee guida per un accordo per il transito dei beni e delle persone. Per quanto riguardava il transito delle persone, senza creare nessuna sorpresa, i conservatori imposero delle restrizioni significative, che avrebbero ridotto all’osso il numero di autorizzazioni di transito o di soggiorno nella regione autonoma, che avrebbe preso il nome di Helvetia. La regione progressista si sarebbe chiamata invece Nuova Frontiera, nome che Philippe Wicht aveva scelto personalmente per emulare le parole di uno dei suoi beniamini.
Capitolo 8
Alla fine delle trattative Samuel si sentì molto stanco e rinunciò a rientrare a Berna con i progressisti. Voleva evitare a tutti i costi di discutere ulteriormente delle trattative durante il volo e immaginò che un viaggio in treno da una parte lo avrebbe aiutato a distendere i nervi e dall’altro a riordinare le idee per poi scrivere il suo articolo per l’edizione straordinaria del giorno seguente. I militari accolsero la sua richiesta senza obbiettare e dopo pochi minuti di volo si posarono con l’elicottero nei pressi della piccola stazione ferroviaria di Sarnen. Il buio si era impadronito nuovamente del cielo, anche se non erano nemmeno le sei di sera. Dopo aver consultato l’orario dei treni Samuel dedusse che alle otto e trenta al più tardi sarebbe arrivato in ufficio e avrebbe potuto redigere l’articolo. L’idea che forse ce l’avrebbe fatta ad andare a dormire prima della mezzanotte gli scaldò le membra, mezze congelate dal freddo pungente. Il termometro digitale posto sopra il cartellone orario segnava meno cinque gradi Celsius. Per riscaldarsi, decise di entrare nell’area d’attesa della stazione e trascorrere i dieci minuti che mancavano all’arrivo del treno vicino a un termosifone. All’interno vi trovò una ventina di persone, due famiglie numerose, alcune coppie e, in un angolo, un giovane seduto da solo. L’uomo, che avrà avuto una ventina d’anni, attrasse la sua attenzione proprio perché sembrava fe di tutto per divenire invisibile. Si era seduto il più lontano possibile da tutti, e immobile come una statua di cera dava quasi l’impressione di non osare nemmeno respirare. Accortosi che Samuel lo stava fissando, ricambiò lo sguardo con aria supplichevole, come se lo scongiurasse di lasciarlo in pace. Samuel, che si lo osservava ma senza pensare a niente in particolare, distolse lo sguardo e si mise a consultare una rivista di viaggi che qualcuno aveva dimenticato sulla sedia vicina alla sua. Marocco, Egitto e Tunisia erano le proposte del momento per scappare dalle temperature invernali e andare a riscaldarsi al sole del mediterraneo o del mar rosso. In treno accese il piccolo computer portatile, attaccò le cuffie al registratore che aveva appoggiato sul tavolo delle trattative e riascoltò in rapida sequenza le fasi salienti della giornata, soffermandosi di tanto in tanto per prendere degli appunti.
Dopo circa un’ora di tragitto sentì il bisogno di recarsi al bagno. All’inizio del vagone incrociò il controllore che studiò attentamente entrambi i lati del suo abbonamento generale prima di lasciarlo are. Mantenere l’equilibrio mentre si urina in piedi su un treno in movimento non è un’operazione facilissima, ragione per cui ci si augura in genere di poter svuotare la vescica rapidamente. Stranamente, niente da fare. Nemmeno una goccia. Samuel si sentiva come in una di quelle scomode situazioni in cui, all’interno di una toilette con una serie di pissoirs posti uno di fianco all’altro, la presenza alle spalle di un estraneo, in attesa che si liberi un posto, ha l’effetto di bloccare madre natura. Eppure lì non c’era nessuno. Le toilette dei treni sono fatte per una persona alla volta. Che strano scherzo gli stava giocando la mente? Aveva davvero l’impressione di essere osservato, o stava cominciando a dare i numeri? Samuel cominciò a temere di aver chiesto troppo a se stesso accettando quest’incarico delicato. Si disse che presto avrebbe cominciato a sentire delle voci o a vedere dei personaggi di fantasia, e alla fine lo avrebbero ricoverato con una grave forma di esaurimento da stress sul lavoro. Rassegnato e più che altro sconcertato rinunciò ad attendere oltre e decise che ci avrebbe riprovato più tardi. Forse in un tratto dove il treno sballottava meno sarebbe stato più facile. Lavandosi le mani si diede una rapida occhiata allo specchio. Considerando la maratona alla quale aveva partecipato oggi poteva ritenersi soddisfatto di non trovarsi di fronte un’immagine ancora più sciupata di quella che vi vide riflessa. Poi, sempre rivolto verso lo specchio, notò qualcosa di piuttosto ambiguo alle sue spalle. Una scarpa da ginnastica bianca spuntava dalla griglia d’aerazione agganciata al soffitto e, cosa ancora più sorprendente, questa si mosse lentamente per poi scomparire dietro la griglia. Samuel si girò di scatto e a metà tra lo spaventato e il divertito, rivolgendosi verso il sistema di aerazione, chiese chi si nascondesse al suo interno. “Non parlo il tedesco. Tu da dove vieni?” rispose in se una timida voce da uomo. “Sono cresciuto a Zurigo” rispose Samuel in se e ancora incredulo, “ma tu piuttosto, chi sei e cosa diavolo ci fai nascosto lassù come un ladro?”
L’uomo, che si rivelò essere il ragazzo che aveva notato alla stazione di Sarnen, spinse la griglia in avanti facendola ruotare verso il basso. Se non lo avesse visto con i suoi occhi Samuel non avrebbe mai creduto che qualcuno potesse infilarsi in uno spazio tanto angusto. Gli mancò quasi il respiro alla sola idea di provarci, e il giovane probabilmente ci era riuscito solamente perché estremamente esile. Samuel si disse che nonostante il girovita da ballerina questo funambolo dei treni sarebbe anche potuto rimanere incastrato nel sistema di aerazione con la testa o con le spalle, facendo una brutta fine. “Promettimi che non mi denuncerai e ti rispondo” gli rispose il ragazzo sottovoce e senza considerare nemmeno per un secondo l’idea di uscire dal suo nascondiglio. “Promesso” rispose Samuel senza riflettere oltremodo prima di rispondere. “Sono entrato due giorni fa in Svizzera da clandestino, nascosto nel montacarichi di un camion, con altri tre miei coetanei. L’autista ci ha scaricati nei pressi di Chiasso di notte nel posteggio di un’area di servizio e se ne andato senza darci nessuna indicazione”. “Gli altri dove sono?” chiese Samuel che per qualche istante temette di aver sottovalutato i pericoli di tale casuale incontro. “Si sono fatti beccare poco dopo, mentre camminavamo lungo l’autostrada. Li hanno portati al centro rifugiati di Chiasso. Io sono l’unico che è riuscito a svignarsela. Immagino che mi stiano dando la caccia. Da allora, vago per la Svizzera a bordo dei treni in cerca di un posto dove potermi nascondere. Solo che, preso dall’agitazione e dalla stanchezza, ho già sbagliato direzione un paio di volte. Prima di partire non mi sono procurato nemmeno una cartina del paese” disse il nordafricano con aria rassegnata. “Beh non puoi mica girare all’infinito nascosto nelle toilette dei treni. Dove pensi di andare?” gli chiese Samuel anch’egli sottovoce, dato che gli parve di udire qualcuno fuori dal porta in attesa che si liberasse la toilette. “Alle stazione di Zurigo ho recuperato un giornale scritto in se ed ho letto che il paese si accinge a essere spaccato in due regioni”. Poi esitante chiese a Samuel di aiutarlo. “Se ho ben capito quel che ho letto, devo a tutti i costi raggiungere Ginevra e nascondermi nella regione progressista. O mi sbaglio? Sai qualcosa di più preciso sui confini delle due regioni? Non posso raccontarti tutta
la mia storia in pochi minuti, ma credimi si tratta di una questione di vita o di morte!” Samuel si disse che era troppo stanco per chiarire la buona fede di quel individuo e decise semplicemente di rispondere alla domanda. Qualcuno bussò alla porta con fare spazientito. “Beh, neppure io ti posso spiegare il perché o il per come di questa informazione, ma sappi che potresti anche fermarti alla stazione di arrivo di questo treno, a Berna, e saresti già in quella che da qui a poco diverrà la regione progressista. Comunque, non ti sbagli, se riesci a raggiungere Ginevra, va bene lo stesso”. Avrebbe dovuto aggiungere mille altri commenti e spiegargli che indipendentemente dalla regione si sarebbe dovuto annunciare alle autorità per chiarire la sua posizione. Il rinnovato bussare alla porta lo fece desistere. Il ragazzo annuì in silenzio e Samuel gli diede il tempo di richiudere la grata prima di aprire la porta. Si ritrovò davanti il controllore che gli bloccò il o e gli disse: “Signore, tutto ok? Mi è parso di udirla parlare con qualcuno”. “Oh sì, in effetti ho scambiato due parole con una della mie tante vite parallele” rispose Samuel facendosi are per un pazzo. Il controllore diede un’occhiata furtiva all’interno della toilette e continuò per la sua strada borbottando delle parole incomprensibili. Quando arrivò in ufficio la maggior parte dei suoi colleghi aveva lasciato l’ufficio già da tempo e nel giro di un’ora Samuel fu l’unico a essere ancora in sede, oltre agli addetti alla stampa che si trovavano al primo piano e che attendevano ansiosamente il suo articolo per lanciare la battitura delle prime pagine dell’edizione straordinaria. Per la prima volta dal giorno in cui aveva accettato l’incaricò, Samuel abbozzò un pensiero positivo. Si disse che ci era riuscito, che se l’era cavata tutto
sommato bene e che poteva ritenersi fiero di aver tenuto botta in una situazione tanto incredibile. Attese a lungo prima di mettersi a scrivere, come se si trattasse solo di una formalità che poteva essere sbrigata rapidamente e con poco dispendio di energie. In effetti, aveva preparato l’articolo mentalmente durante il viaggio di ritorno, parola per parola, e quando finalmente si decise a battere la tastiera, scrisse il pezzo di cinque pagine quasi di un fiato. Rilesse l’articolo una volta sola, facendo delle sporadiche modifiche e qualche correzione. Il prodotto del suo lavoro rispecchiava fedelmente le trattative, senza confutare minimamente gli indiscutibili successi di Marcel Schmidt. Samuel aveva già deciso da alcuni giorni di non seguire le devianti richieste del capo redattore, eppure, l’inconsueto incontro appena avvenuto sul treno aveva avuto l’effetto di mostrargli ancora più chiaramente quanto irresponsabile sarebbe stato comportarsi altrimenti. Si ripromise di non dimenticare quanto sia essenziale saper distinguere tra le situazioni nelle quali ci è concesso scherzare o essere superficiali, da altre, che invece richiedono tutta la nostra onestà e attenzione, e che possono avere degli effetti nefasti su delle persone che nemmeno conosciamo. Aggiunse il titolo e i sottotitoli solo alla fine. Quelli concordati con Peter in precedenza. Firmato il trattato della discordia, seguito da, L’accordo siglato ieri pone fine al concetto di Svizzera e getta le basi per la realizzazione delle due regioni autonome. Samuel come ipnotizzato dalla schermo esitò qualche secondo prima di schiacciare energicamente il bottone “invia”.
Capitolo 9
Quella notte Samuel dormì molto bene, ritrovando un sonno sereno e rigeneratore, che da tempo gli era mancato, e al risveglio non ricordò altro che l’attimo in cui si era gettato esausto sul letto. Pensò di aver stabilito un nuovo record personale, addormentandosi nell’istante stesso in cui aveva spento la luce. Aveva dormito tanto profondamente da non accorgersi minimamente dell’insistente vibrazione del suo telefono portatile che, appoggiato sul comodino vicino al cuscino, si era agitato parecchie volte durante le ultime tre ore. Una lucetta rossa intermittente gli annunciò che qualcuno aveva cercato invano di contattarlo. Samuel consultò l’apparecchio, mentre con l’altro braccio teso verso l’alto si stiracchiava, in sincronia con un sano e prolungato sbadiglio. Delle quindici chiamate non corrisposte, ben otto provenivano dall’ufficio del capo redattore. Il giovane giornalista non si scompose più di tanto. Il contrario, e cioè non trovare al suo risveglio alcuna testimonianza dell’inevitabile ira del capo, lo avrebbe sicuramente turbato molto di più. Difatti, questi segni d’irritazione annunciavano sì l’incombere delle inesorabili ostilità, ma erano anche ben prevedibili e di conseguenza stanzialmente innocue. L’ultima chiamata era recente e indicava le 8:41. Malauguratamente per Samuel non c’era alcun dubbio, era decisamente ora di alzarsi e di andare in ufficio. Si vestì rapidamente in modo sportivo e, deciso a non lasciarsi sottomettere nuovamente dalla frenesia dei giorni precedenti, si preparò delle uova sbattute arricchite con del formaggio e della pancetta. Per una volta tanto, quella gustosa e abbondante colazione era più importante di qualsiasi cosa gli avrebbero chiesto di fare oggi. Incombenze di cui si sarebbe potuto occupare a tempo debito. Durante la notte la temperatura era salita di qualche grado, sufficiente a trasformare il maltempo da neve in pioggia, che si abbatteva ora abbondantemente sulla città rendendo pesante e sgradevole la neve ammassata ai bordi delle strade. Samuel ci mise un bel po’ a raggiungere la stazione del tram, attento a non scivolare sui rimasugli di neve ancora presenti sui marciapiedi e resi ancora più insidiosi dalla pioggia battente.
Purtroppo, i tram moderni hanno perso tantissimo dello charme che per decenni aveva accompagnato i loro predecessori. C’è stato un tempo in cui questi simpatici mezzi di trasporto cittadini emanavano un senso d’internazionalità, richiamando fedelmente nelle forme i loro simili sparsi in città vicine o lontane, da Milano a Zurigo, ando per Tokyo e San Francisco, tanto per citarne alcune. Un forestiero, turista, uomo d’affari o emigrante, indifferentemente dalle ragioni del suo viaggio, cresciuto in una città che può annoverare tra il proprio patrimonio storico questi buffi mezzi di trasporto su rotaia, salendo su di un tram si sentiva, anche solo per qualche secondo, come a casa. Questo perché le piccole e ricorrenti scenette quotidiane, certo farcite e abbellite dal folclore locale, si ripetono in modo analogo ovunque nel mondo. Il giovane che si alza per lasciare il posto a sedere a un’anziana signora, o meglio, lo sguardo severo dell’anziana signora rivolto al giovane che rimane seduto e fa finta di niente. Lo sciagurato clandestino dei trasporti pubblici, che accerchiato da una schiera di controllori, fruga il portafogli in cerca di un biglietto che si è incomprensibilmente volatilizzato, ma che in realtà non è mai esistito. Oppure il semplice stridere delle ruote sui binari, che nelle curve più anguste fanno dubitare che la corsa vada a buon fine. Questi all’apparenza insignificanti momenti di internazionale spensieratezza, sono in realtà l’essenza di un fatto inconfutabile. Tutte le città del mondo e i loro abitanti si assomigliano parecchio, basta essere pronti ad ammetterlo. Purtroppo i tram del giorno d’oggi, come quasi tutte le innovazioni poco ragionate, invece che facilitare e sostenere questi momenti di positiva nostalgia, sono riusciti a rovinarli attraverso una disposizione dei posti all’interno delle carrozze che cozza contro ogni logica. I cari vecchi tram di un tempo non avevano nessuna pretesa e allineavano in file composte i sedili tutti, o quasi, rivolti verso il senso di marcia. Questo permetteva a ognuno, di distrarsi talvolta con le sopra citate scenette, ma soprattutto, permetteva a tutti i eggeri di perdersi nei propri pensieri, rilassarsi e osservare lo scorrere lento della città attraverso il finestrino. I tram moderni invece no, hanno delle pretese, si credono dei piccoli treni, senza però ammettere di essere larghi la metà dei loro cugini più esperti. La disposizione dei posti a sedere, simile a quella dei vagoni dei treni, in piccoli scomparti da quattro persone, invece che facilitare la conversazione, creano delle situazioni scomode, all’antitesi del distensivo. In piedi pigiati uno vicino all’altro o seduti in una di queste rare isole di posti a sedere, ci si vede costretti a fissare degli sconosciuti a distanza ravvicinata, mettendo la più parte dei eggeri a disagio. Queste forzate interazioni creano delle nuove scenette, a essere onesti talora anche divertenti, che hanno
prepotentemente preso il posto della generazione precedente. Per esempio è facile notare un eggero, che pur di evitare lo sguardo fisso, e anche po’ psicopatico, del eggero che gli sta di fronte, legge e rilegge una pubblicità affissa a uno dei finestrini come se contenesse la notizia più interessante e sconvolgente della sua vita. O ancora, è facile individuare coloro, che per evitare il prolungarsi di una di queste situazioni scomode, anticipano clamorosamente di una o più fermate il momento di avvicinarsi alla porta per poi abbandonare la carrozza quasi di corsa, prendendo un profondo respiro, come se fossero appena riemersi dalle profondità di un lago. Insomma, su queste versioni moderne dei tram cercare di rilassarsi è divenuta un’operazione particolarmente difficile. Ci si sente osservati, proprio come Samuel questa mattina. Eppure, a quest’ora della mattina, il tram era semivuoto e il giovane giornalista si chiese nuovamente se non stesse cominciando a dare i numeri, per via di questa nuova e ossessiva impressione di essere controllato. Dal finestrino vide molte persone nei pressi delle edicole o sui marciapiedi, intenti a leggere il suo articolo. La sensazione di aver prodotto qualcosa di concreto, certo in sostanza solo un pezzo di carta, ma in ogni caso un oggetto tangibile e reale, di cui tutti si erano procurati una copia, era molto appagante e lo ricompensò all’istante per i momenti difficili che aveva vissuto nei giorni precedenti. Scrivere, anche se come in questo particolare caso avviene a indirizzo delle masse, non implica automaticamente di finire sotto i riflettori come succede invece facendo della televisione, del cinema o della politica. La sua inusuale e minimalista firma, Samuel, gli permise anche in questa occasione di mantenersi invisibile agli occhi della gente comune, dietro le quinte, un sorta di messaggero senza volto. Difatti, nessuno gli rivolse la parola alla ricerca di qualche notizia confidenziale o semplicemente in cerca di un po` di glamour. Tuttavia, Samuel non riuscì a togliersi dalla testa la fastidiosa impressione di essere sotto osservazione. Sensazione che lo aveva assalito nel momento stesso in cui aveva varcato il portone della palazzina in cui viveva per immettersi in strada. Nel tentativo di scacciare questi pensieri ossessivi, Samuel si mise a consultare il suo telefonino, facendo scorrere rapidamente i messaggi di posta elettronica con i quali lo avevano bombardato fin dalle prime ore del mattino. In gran parte i
messaggi provenivano da dei colleghi di lavoro, giornalisti della stessa testata o addetti ai lavori con cui aveva avuto a che fare in ato, che si complimentavano con lui per l’articolo e in generale per lo stupefacente incarico che gli era stato affidato. In qualche raro caso, Samuel non riconobbe nemmeno il nome del mittente. Anche Peter, gli aveva scritto, scusandosi di non poter festeggiare con lui oggi il successo di questa prima e decisiva tappa del mandato di mediazione, perché aveva preso qualche giorno di vacanza per recarsi a Zurigo. Samuel pensò che l’esperto collega non aveva voluto perdere nemmeno un minuto di tempo prezioso per cercare un appartamento nei pressi della Limmat e organizzare il trasloco da Berna. Entrando in ufficio fu accolto da un applauso scrosciante che lo mise non poco in imbarazzo. Ricevette pacche sulle spalle e ammiccamenti da colleghi e colleghe con cui non ricordava di avere nemmeno parlato in precedenza. Samuel imbarazzato dalla situazione si diresse verso la sua scrivania dove trovò addirittura un mazzo di fiori freschi e una bottiglia di vino pregiato ad attenderlo. Cominciò a temere di doversi prodigare in un piccolo discorso improvvisato, in risposta a tanta spontanea euforia. Poi si spalancò la porta dell’ufficio del capo, attirando lo sguardo di tutti i presenti, Samuel compreso. “Samuel, vieni subito qui. Dobbiamo parlare”. Telegrafico e ostile. Come da copione. Camminò verso l’ufficio del capo avvolto dal silenzio di tomba che si era impossessato improvvisamente di tutta la sede del giornale, scalzando in un niente la precedente aria di festa. Sfilando lungo la fila di colleghi immobili e silenziosi, che lo osservavano con una gravità tanto teatrale da temere che si trattasse di una vera e propria esecuzione, Samuel riconobbe anche qualche sguardo appagato e di rivincita. Qualche inevitabile gelosia, che si tramutava ora in soddisfatto e sadico piacere per quello che ci si aspettava che sarebbe accaduto nell’ufficio del capo. Sentiva alcuni di questi bisbigliare che il lupo lo avrebbe divorato ed eliminato, a parole si intende. Il capo chiuse la porta e tese le tendine dell’ufficio, poste sulle pareti interne in vetro.
“Seduto” gli disse, con un tono di voce tutto sommato abbastanza pacato. “Vieni qui. Seduto. Non sono mica un cane” pensò Samuel, che senza discutere prese comunque posto su una delle due poltroncine poste davanti alla scrivania. “Non ho intenzione di fare molti giri di parole. Sono troppo deluso e incavolato per permettermi un tale lusso. Quindi verrò subito al dunque”. Gli parlava di spalle, senza dargli punti di riferimento attraverso le espressioni della faccia. “Hai voluto fare di testa tua, e chiarante non hai seguito i miei consigli. Hai messo in cattiva luce i progressisti e in particolare Philippe Wicht”. “Non è assolutamente vero” si oppose Samuel che si sentiva oltremodo sereno, considerata la situazione. “Io ho solo descritto le trattative così come si sono svolte. Purtroppo per i progressisti, la strategia dei loro antagonisti si è rivelata meglio preparata ed ha dato frutti migliori”. Il capo si girò verso di lui con gli occhi iniettati di sangue. In un gesto d’ira improvviso, chiuse violentemente lo schermo del suo computer portatile, facendolo sbattere contro la base dell’apparecchio talmente forte da romperlo irrimediabilmente. “Ma chi se ne frega dei dettagli e della verità!” lo incalzò il capo chinato minacciosamente sulla scrivania, come un felino che sta per spiccare un balzo. “Non capisci che l’esito delle trattative si poteva condire a dovere, omettendo qualche dettaglio di troppo e aggiungendone qualcuno un po’ fantasioso, senza dover cambiare una virgola alla sostanza degli accordi? Avresti raccontato la tua tanto vitale verità e fatto al tempo stesso un favore a me e a te stesso. Cosa diavolo ci vuole per capirlo?” “Beh ormai è fatta” rispose Samuel secco e fiducioso di avere fatto la cosa giusta, anche se sentiva che il peggio doveva ancora venire. “Cosa vuoi fare? Mi togli l’incarico? Mi licenzi?” gli chiese cercando di camuffare ogni segno d’apprensione con un tono di voce piatto e quasi indifferente. Senza rispondergli, il redattore capo prese in mano la cornetta del telefono e digitò un numero interno a cinque cifre. Quasi subito qualcuno dall’altra parte della linea rispose. “Puoi venire adesso e porta con te il dossier che ti ho detto di preparare”.
Nemmeno un minuto dopo entrò uno dei due leccapiedi che il capo si portava sempre dietro, con il fiatone di chi ha appena fatto una corsa. Il fedele segugio prese posto di fianco a Samuel sulla poltroncina ancora libera. Lo sforzo fisico non scompose minimamente la capigliatura del nuovo arrivato, che ricordava Clark Kent, celebre figura dei fumetti e poi hollywoodiana. Un giornalista, tra l’altro. Il leccapiedi portava la riga su un lato della testa, perfettamente curata. Si sarebbe detto, che non un solo capello osava migrare nel campo sbagliato, non tanto grazie a un fenomeno di autodisciplina collettiva, ma a causa della dose massiccia di lacca che faceva apparire la capigliatura come una parrucca, di plastica. Samuel abbozzò un sorriso immaginando il giovane leccapiedi che si strappava la camicia per lasciare trasparire il costume da super eroe, che però nel suo caso invece che sfoggiare sul petto il simbolo del super-uomo al massimo avrebbe indicato quello di un super-idiota. “Ti presento il tuo sostituto. Informerò i partiti domani mattina per telefono” gli spiegò il capo senza aggiungere altro. “Non che me ne importi particolarmente di essere rimpiazzato, ma con che scusa ufficiale hai intenzione di togliermi il mandato?” chiese Samuel, che, anche se non voleva ammetterlo, aveva stranamente iniziato ad affezionarsi a tutta questa vicenda e ai loro attori. “Dirò che sei esaurito, che non hai retto la tensione e che dopo le trattative sei crollato in uno stato psicofisico semi-vegetativo. Spiegherò che mi dispiace enormemente doverti rimpiazzare, ma che non ci sono alternative” rispose il capo, prima di aggiungere: “Probabilmente ti chiameranno subito dopo, sul tuo telefonino, per chiedere conferma. Non dovrai fare altro che fingere di capire male le domande, come se fossero troppo complesse. Insomma, fai finta di avere appena preso una forte dose di sedativi. Capito?” gli chiese il capo in attesa di una reazione. Samuel fu veramente tentato di accettare. Fin dall’inizio avrebbe voluto tenersi alla larga da questa folle storia della scissione, e malgrado fosse fiero di aver tenuto botta nel giorno delle trattative e nonostante il desiderio puramente giornalistico di poter seguire ora la vicenda fino in fondo, ci mancò un niente dal rassegnarsi al volere del capo redattore. D’altro canto non voleva dargliela vinta, non faceva parte della sua natura.
Attese un attimo, poi si alzò in piedi e ripose: “Francamente oggi mi sento in forma splendida”. Sorrise al capo, dando a capire che non temeva il confronto. Poi aggiunse, rivolto al leccapiedi: “Sei tu invece che mi sembri un po’ pallido. Se non ti reggi in piedi dopo una corsetta di nemmeno cinquanta metri, forse è segno che hai bisogno di prendere qualche ricostituente. Hai bisogno di qualche consiglio a riguardo?” Il super-idiota si alzò in piedi per rispondere all’affronto, ma fu subito bloccalo dal capo redattore che gli fece segno di porgergli il dossier che si era portato dietro e che teneva ancora in mano. Il capo redattore prese il dossier, lo sfogliò rapidamente, in cerca di non si sa quali conferme e poi lo sbatté sul bordo della scrivania dalla parte in cui era seduto Samuel. “Quella che ti ho proposto prima è la variante caritatevole, ma non si tratta dell’unica opzione a nostra disposizione” gli disse il capo, alzando attraverso una sorta di riflesso incondizionato il labbro superiore e mettendo in mostra gli incisivi su entrambi i lati della bocca. “Accidenti, un tic nervoso che non avevo mai visto prima. Tra poco gli crescerà il pelo, gli si allungheranno le orecchie e la lingua, e inizierà a ululare” pensò Samuel. “Jakob ha preparato un dossier che rappresenta la versione meno piacevole della storia, per quanto ti riguarda” annunciò il capo redattore. “Ma che bravo Jakob, hai scoperto che nel tempo privato accumulo tonnellate di kryptonite per impossessarmi del mondo?” chiese Samuel divertito dall’idea di provocare nuovamente il leccapiedi. “Non proprio. La storia narra di come sei da sempre in difficoltà economiche e come ti sei fatto comperare dai conservatori, per sopperire ai debiti. Le stime riportano che su una serie di conti cifrati a Zurigo ti attendono tra i quattro e i cinquecentomila franchi” rispose il capo redattore con un ghigno malefico, tanto ben riuscito da ricordare a Samuel altre figure note dei fumetti. Samuel aprì a sua volta il dossier e sfogliò rapidamente la documentazione, riconoscendo una lettera che lui aveva spedito alla redazione poco prima di trasferirsi a Berna.
“Ma è ridicolo, ho chiesto in una sola occasione un anticipo per pagare la cauzione dell’appartamento, e su questa base volete costruire un dossier?” chiese Samuel che era improvvisamente divenuto serio. “Certo, è più che sufficiente. I conservatori chiaramente negheranno di averti comprato, ma il minimo sospetto tra le file dei progressisti sarà sufficiente per farti rimpiazzare. Inoltre, pubblicheremo la notizia prendendo due piccioni con una fava. Tutti penseranno che hai contribuito disonestamente a fare pendere le trattative dalla parte dei conservatori. I progressisti ne usciranno rafforzati”. Leccapiedi e mentore si diedero uno sguardo vittorioso e appiccicoso. “Jakob, gioco d’azzardo! Lo devi inserire nel dossier, ecco come ha accumulato i debiti. Comincio a crederci pure io a questa storia!” aggiunse il capo ridendo, e poi, rivolto a Samuel: “Non sei mica andato a Las Vegas qualche mese fa? Devo avere salvato una tua e-mail da qualche parte che lo conferma”. In effetti, Samuel ci era andato, ma di certo non per giocare. Un amico di vecchia data, che viveva da anni a San Francisco, lo aveva invitato al suo matrimonio, e qualche giorno prima a festeggiare il suo addio al celibato a Las Vegas. Samuel non dubitava che qualsiasi inchiesta ufficiale lo avrebbe scagionato, ma sapeva benissimo che questo tipo di insinuazioni, anche se inventate di sana pianta, lasciano sempre dei segni nella memoria della gente. In particolare, in situazioni in cui il pregiudizio la fa da padrone, un precedente del genere poteva rovinargli seriamente il futuro. “Pensaci bene e dammi una risposta entro le otto di questa sera. Io ti consiglio di accettare la prima versione. Datti per rimbambito e non precluderti il futuro”. Il capo redattore riprese il dossier tra le mani e lo ripose in un cassetto della scrivania. Poi disse: “Comunque sia, con questo giornale hai chiuso, non farti più vedere. Riceverai una lettera di licenziamento ufficiale, non appena avrò avuto occasione di parlare con il consiglio di amministrazione. Forse oggi stesso. Se dovessi usare la zucca e scegliere la versione caritatevole, beh, in questo caso ti regaliamo pure sei mesi di salario, per comperare il tuo silenzio”. Poi il lupo si diresse verso la porta dell’ufficio e indicandogli l’uscita aggiunse: “E ora vattene, con te abbiamo finito”.
Uscendo dall’ufficio Samuel si rese conto di essere ben più sconvolto di quello che lasciava trasparire. Si era aspettato un certo accanimento da parte del capo redattore, per non aver seguito le sue indicazioni, ma non si era certo preparato all’idea di vedersi sbattere in faccia un piano talmente perfido. Come se non bastasse gli aveva concesso solo poche ore per prendere una decisione. Peter non era in ufficio, e con nessun altro collega si sentiva sufficientemente in confidenza da potersi sfogare in cerca di un buon consiglio. Scosso e afflitto decise di andare a fare due i. Per uscire dall’immobile attraversò la porta girevole in vetro e si incamminò in direzione della piazza federale. Riuscì però a compiere non più di una quindicina di metri, prima di essere accostato da una lunga limousine, di colore blu notte con i vetri oscurati. Samuel continuò per la sua strada, sperando che il sopraggiungere di quest’inusuale vettura fosse semplicemente un caso e che non avesse niente a che fare con lui. La porta dalla parte del conducente si aprì sbarrandogli la strada. L’energumeno che gli si parò di fronte assomigliava a una montagna che per sbaglio aveva deciso di indossare una specie di frac, un capello da autista e dei guanti bianchi. “Signor Samuel, la prego di salire in macchina. Il signor Gabus desidera parlarle”. L’autista si era espresso cordialmente, ma con un tono che non lasciava alternative. “Ecco ci mancava solo la mafia” pensò Samuel perplesso, “non avranno mica la sfrontatezza di venirmi a chiedere anche loro in che regione gli consiglio di andare ad abitare?” L’autista apri una delle due porte posteriori e gli fece segno di salire. Samuel obbedì senza discutere. Ci teneva a mantenere intatto l’osso del collo. All’interno trovò un vero e proprio salotto in pelle sintetica, un bar e un orologio enorme appeso al tetto della limousine. L’uomo che lo attendeva, comodamente seduto sui sedili, che niente avevano da invidiare alla first class di un intercontinentale, portava degli occhiali spessi come dei fondi di bottiglia. “Gabus! Ora ricordo a chi appartiene questo nome. Il magnate dell’orologio. Beh, sempre meglio che la mafia! Forse da adesso la giornata sarebbe stata in
discesa” si disse Samuel più per rincuorarsi che per convinzione. “Prego si sieda di fronte a me. Non si preoccupi per Viktor, sembra minaccioso, ma in realtà è buono come il pane. Non farebbe del male a una mosca”. L’autista riprese il suo posto alla guida della vettura, facendo traballare tutta la carrozzeria. “Altro che mosche, quello è un elefante” pensò Samuel ancora piuttosto scombussolato dagli eventi. “Sono David Gabus, sa chi sono?” gli chiese l’orologiere, mentre gli stringeva la mano in segno di saluto. “Sì, certo. Il fondatore e capo del consiglio di amministrazione dell’impero Gabus” rispose Samuel. Pochi in Svizzera non conoscevano il volto di uno dei cinque uomini più ricchi del paese. “Ora se non le dispiace vorrei giusto sapere che cosa ci faccio su questa vettura. Di grane al momento ne ho già abbastanza e tempo da perdere ne ho decisamente poco”. La vettura si mise in moto silenziosamente. Doveva trattarsi di un motore ibrido, elettrico per gli spostamenti in città. “Per prima cosa, vorrei scusarmi con lei. L’ho fatta seguire fin da quando è uscito di casa questa mattina, pur di assicurarmi che questo incontro avvenisse il più presto possibile. Da quando ho scoperto che è stato lei a mediare le trattative non attendevo altro che l’occasione di poterle parlare” gli spiegò Gabus. Dunque l’impressione che aveva avuto poche ore prima era veritiera. Per la seconda volta in due giorni, il suo sesto senso si era rivelato un affidabile alleato. Samuel si ripromise di imparare ad ascoltare meglio questo tipo di percezioni, senza metterle subito in discussione solo perché, a volte, portatrici di presentimenti ambigui. “Francamente poteva anche chiamarmi in ufficio ed evitare tutta questa messa in scena da film giallo di seconda o terza categoria” rispose Samuel piuttosto diffidente. “No, si tratta di una cosa troppo delicata. E poi avevo proprio il desiderio di conoscerla. A ogni modo, ho capito che discutere su questa vettura, con Viktor
alla guida, la mette un po’ a disagio. Le dispiace l’idea di fare due i, anche se piove?” gli chiese l’orologiaio. In effetti aveva ricominciato a piovere, facendo cadere dal cielo delle gocce fini e diffuse, che al minimo colpetto di vento sembravano in grado di muoversi orizzontalmente. Samuel non si fece scappare l’occasione di scendere dalla limousine e propose di eggiare sulla piazza federale. Anche se i turisti oggi erano assai pochi, per via delle condizioni atmosferiche, preferiva in ogni caso rimanere in un luogo centrale e relativamente ben frequentato. L’autista accostò la vettura in zone vietata, proprio davanti all’entrata di palazzo federale. La limousine attirò l’attenzione dei anti, che credevano di assistere dal vivo all’arrivo di un ministro di qualche paese importante. Viktor apri la porta dall’esterno, diligentemente pronto a proteggerli dalla pioggia con un ombrello, che per dimensioni ricordava un ombrellone da spiaggia. “Grazie Viktor, ci puoi aspettare in macchina”. Samuel colse una certa esitazione da parte dell’autista, ma non poteva sapere che questa era semplicemente dovuta al precario stato di salute di David Gabus. “Oggi mi sento un po’ fiacco. Posso chiederle ti reggere l’ombrello?” gli chiese l’orologiaio. “Signor Gabus, finora ho avuto una giornataccia. Il mio capo mi ha sostanzialmente messo alla porta. L’ombrello lo tengo volentieri, ma la prego di venire al dunque” rispose Samuel, mentre una comitiva di turisti cinesi li avvolse per qualche secondo, per poi allontanarsi rapidamente come un branco di pesci che con movimenti sincroni e repentini evita le insidie. “Sì, certo. Capisco. Senza troppi giri di parole, ho bisogno del suo aiuto per mettere in atto un piano della massima importanza” gli confidò David Gabus. I due avanzavano a o lento. Samuel ebbe l’impressione di intuire sul viso di David Gabus delle piccole smorfie di dolore. Si chiese se non fosse tutta una messa in scena per chiedergli chissà quale assurdo favore. Certi ricchi possono rivelarsi dei veri e propri campioni in ambito di sfrontatezza.
“Ma prima di spiegarle i dettagli devo farle una domanda. Questa mattina ho letto il suo articolo, come d’altronde praticamente tutti gli svizzeri. Descrive molto bene le trattative in modo chiaro e sistematico, senza inquinare l’informazione con il suo punto di vista personale. Adesso però ho proprio bisogno di capire che cosa ne pensa lei, Samuel, di tutta questa vicenda”. David Gabus fece una pausa, trasferendo parte del peso sul bastone in legno di ciliegio che si era portato appresso. Samuel non avrebbe voluto dire niente. Perché mai avrebbe dovuto raccontare la sua opinione a quest’estraneo? Poi però, si disse che a ogni modo gli avevano appena tolto il mandato di mediazione. Inoltre, accontentandolo, probabilmente avrebbe potuto mettere fine rapidamente a questa forzata intervista, in cui, per la prima volta, era lui nel ruolo dell’intervistato. “Penso che sia un’idiozia. Per dare sfogo a dei desideri finora repressi e a delle utopie irrealizzabili, il paese verrà spaccato in due. Dubito che le due regioni andranno incontro a un futuro roseo, anche se francamente, finora, non ho avuto il tempo di riflettere bene alle ragioni che mi portano ad avere tali presentimenti”. David lo scrutò attentamente, sorridendo con gli occhi ingigantiti dalle spesse lenti degli occhiali. “Bene. Lo sapevo, che avrei trovato in lei un alleato essenziale. La penso così anche io e sono determinato a fare di tutto per fermare questa fesseria prima che sia troppo tardi. Prima di spiegarle in che modo potrebbe aiutarmi, penso che valga la pena chiarire insieme il perché di questi presagi negativi”. David Gabus riprese a camminare con un o più deciso. Le fitte all’addome, gli accordarono una caritatevole tregua. “Il radicalismo, l’incapacità di adattare le proprie opinioni, anche davanti all’evidenza dei fatti, o l’inattitudine all’ascolto e all’analisi di tesi contrapposte, insomma, ogni forma di estremismo, pacifico o violento che sia, non ha mai prodotto niente di buono in nessun luogo e in nessun periodo storico. I conservatori vogliono fare scorrere il tempo al contrario. Vogliono tornare a un’epoca in cui il forestiero era solo di aggio e i paesi esotici talmente lontani, in tutto e per tutto, che tradizioni e costumi facevano parte unicamente di enciclopedie e racconti per bambini, invece che essere a portata di mano,
rappresentati dal vicino della porta accanto. Se solo avessero quel minimo di concentrazione e istruzione necessarie a capire, senza farsi abbagliare dall’ignoranza imposta loro dagli slogan, dal populismo o da dittatori classici e moderni, vedrebbero anche loro di che pasta sono fatte le leggi della natura. Capirebbero dei concetti fondamentali come quello dell’entropia, che inesorabile rende i loro sforzi vani e destinati al fallimento, proprio perché contro natura. Certi processi sono irreversibili, volontariamente, dato che qualcuno gli deve avere inventati con un scopo ben preciso. I progressisti invece voglio fare scorrere il tempo più in fretta del dovuto e stravolgere la scaletta degli eventi. Hanno la presunzione di sapere già oggi dove porta il viaggio collettivo costituito dalla nostra società e vogliono egoisticamente arrivarci il più presto possibile per poterlo toccare con mano, dimenticando che l’attesa è sempre la parte più nobile di ogni conquista, personale o collettiva. Rincorrono delle utopie, ridefinendole e rimodellandole senza tenere conto della natura umana e della sua componente temporale. Nel loro voler accelerare la ruota del tempo, dimenticano a loro volta che la forza di una società sta nei grandi numeri e che gli unici grandi i collettivi in avanti sono quelli in cui, per un piccolissimo e imprevedibile istante, interi popoli pensano spontaneamente alla stessa cosa, senza bisogno che una presunta élite glielo spieghi. Questi due comportamenti, volti a forzare il corso del tempo e lo sviluppo della società in direzioni contrapposte, sono entrambi assurde e destinate, per definizione, a cozzare continuamente contro con le leggi dell’universo. Mi creda, forse non me ne intendo molto di uomini, ma ho costruito la mia via attorno alla misura dello scorrere del tempo e ho imparato che si tratta dell’unica dimensione della nostra vita che non possiamo influenzare” aggiunse l’orologiere mentre consultava rapidamente un bellissimo orologio da tasca in argento di fine ottocento. “Queste due ideologie antitetiche sono per lo più innocue. Si limitano a vicenda. Non direi che si annullano, perché in realtà il risultato di una mediazione tra questi due poli è solitamente un’entità ben concreta, ponderata ed equilibrata. Se però, per un qualsiasi motivo, una delle due ideologie inizia a dominare sull’altra, allora possono diventare pericolose e inesorabilmente dannose. Costituire due regioni autonome per accelerare il realizzarsi di tali estremismi non può che andare a finire male. Non crede?” concluse David indicando a
Samuel che potevano tornare sui loro i e incamminarsi in direzione della limousine. Samuel rimase completamente affascinato dalle parole di questo magnate dell’orologio e avrebbe voluto avere un registratore a portata di mano, per evitare di dimenticarne anche solo una sillaba. “Signor Gabus, non poteva dare un senso più chiaro ai pensieri che mi ronzano caoticamente in testa fin dall’inizio di tutta questa vicenda. Le assicuro che farei di tutto per poterla aiutare. Ma come? Il capo redattore mi ha appena licenziato e così non giocherò più nessun ruolo di rilievo in questa storia” rispose Samuel, arreso all’evidenza che ormai per lui era troppo tardi per cercare di influenzare gli eventi. “Tutto quello di cui ho bisogno sono delle informazioni affidabili e repentine. In questo momento, nessuno meglio di lei può accedere ai vertici dei due partiti…” “Signor Gabus mi scusi, ma forse non mi sono spiegato bene. Le dicevo che…” lo interruppe Samuel prima di essere interrotto a sua volta dall’anziano orologiere. “Ho capito quello che mi ha detto, ma ne riparliamo dopo. Ora ho innanzitutto l’assoluto bisogno di capire bene la situazione” disse Gabus. Samuel, che anche se si sentiva ora a suo agio in compagnia di questo inusuale personaggio, continuava a dubitare di poterlo aiutare, considerati i recenti avvenimenti, ma decise che infondo non gli costava niente starlo a sentire ancora un po’. Anzi, il magnetismo di David Gabus conciava a fare il suo effetto e il giovane giornalista cominciò a pensare a una miriade di domande che gli sarebbe piaciuto porgli. “Per esempio, nel suo articolo di questa mattina non viene riportato niente riguardo il futuro della bandiera rossocrociata. Ne avete parlato durante le trattative? Cosa ne faranno le due regioni autonome?” gli chiese David Gabus. Non si trattava probabilmente del tema più delicato e urgente da discutere, ma David voleva semplicemente mettere alla prova il giovane giornalista ed essere sicuro che Samuel si sarebbe fidato, dandogli accesso a tutte le informazioni necessarie per poter intervenire al momento giusto. “Sì, la bandiera e l’inno nazionale sono stati entrambi tema di discussione. In
sostanza, le due regioni costituite, Helvetia e Nuova Frontiera, per una questione di equità, non hanno il diritto di ereditare e riutilizzare ne la bandiera rossocrociata ne il salmo svizzero. Entrambe le regioni dovranno crearsi dei nuovi emblemi e comporre un nuovo inno” rispose Samuel, mentre cambiava il braccio con cui reggere l’ombrello, per riequilibrare lo sforzo. David Gabus fece una piccola smorfia di sconcerto e non disse niente, come se fosse stato travolto da una notizia tremenda. Una delle sue premonizioni si realizzavano, e questo lo preoccupava seriamente. La bandiera rossocrociata, marchio di riconoscimento dei prodotti dell’impero Gabus, svaniva nel nulla. Samuel intuì un certo turbamento nell’animo dell’orologiere e aggiunse: “Signor Gabus, non la facevo così patriota. Infondo la bandiera è solo un simbolo che può venire rimpiazzato. Non crede?” David sentendosi richiamato alla realtà, si riprese da quel piccolo momento di disorientamento e rispose ponderando ogni singola parola: “Il patriottismo è un sentimento nobile. Non deve essere visto come qualcosa di negativo o sorato, destinato ad andare scemando con la globalizzazione. Naturalmente per distinguere il patriota costruttivo da quello distruttivo, bisogna andare alla radice di questo sentimento e dare un nome ai valori che guidano l’animo del patriota. Il patriottismo positivo è contagioso. A dire il vero, anche quello negativo, ma in quel caso è spesso l’ignoranza a essere l’elemento contagioso. Nel rendere onore agli eroi del ato o del presente non c’è niente di male, anzi. E poi in nessun modo questo implica rinnegare altre culture o sentirsi minacciati dall’esistenza di quei virtuosi paesi, sparsi ovunque nel mondo, che sanno interpretare il presente meglio di altri. Il vero patriota è sociale, nel senso di collegiale, e sa benissimo che una squadra vincente, come nello sport, riesce solo se è unita ed esprime un’anima propria, coerente e adattabile al tempo stesso, indipendentemente da chi la compone. Il patriottismo elitario invece è distruttivo, senza futuro, triste, frustrato e malauguratamente anche violento. Il vero patriota si adatta i tempi perché non vive solo in funzione del ato, ma riconosce anche le bellezze del presente e si impegna a riconoscere le nuove opportunità, per portare avanti il suo paese e la sua gente. Sa mostrarsi forte con
chi lo mette alla prova e conciliante con chi lo affianca”. A una ventina di metri Viktor li attendeva teso e concentrato a monitorare ogni o del suo datore di lavoro. In piedi, a fianco della limousine, senza lasciarsi distrarre minimamente dai anti o dalla pioggia, sembrava personificare una nuova e bizzarra statua, portata in dono da un qualche diplomatico estero, ed esposta temporaneamente in bella vista sulla piazza federale. David si rese conto di aver forse confuso il suo nuovo e giovane alleato. Smise di camminare e aggiunse sorridendo: “Temo di averle dato una risposta un po’ confusa. Non so se può esserle d’aiuto, ma posso provare a esprimere lo stesso concetto raccontandole un piccolo aneddoto. L’estate scorsa stavo eggiando in montagna con il mio cane e mi sono imbattuto in una scenetta che mi ha fatto riflettere. Faceva molto caldo, anche ad alta quota, e un gruppo di pecore, una dozzina, si era rifugiato sotto un grande albero per riposare e proteggersi dal sole di mezzogiorno. Malgrado il caldo, e alla ricerca di un momento di sicurezza e di tranquillità, si erano raggomitolate una sull’altra formando un gruppo compatto. Si trattava di un’immagine molto commovente, mi creda. Al centro del gruppo avevano preso posto due agnellini, che dormivano profondamente. Il sentiero che stavamo seguendo ava a una decina di metri dall’ombrellone naturale sotto il quale si erano piazzate e a separarci c’era unicamente un fine filo elettrico, molto probabilmente in disuso. Il mio cane non era particolarmente attirato dalla loro presenza, un po’ a causa della sua natura bonaria e un po’ per via del caldo torrido, che gli faceva stramazzare la lingua quasi fino al suolo. A ogni modo per le pecore il cane rappresentava una potenziale minaccia. Difatti, in quella regione, i lupi che attraversano la frontiera di tanto in tanto fanno regolarmente della stragi, scegliendo le loro vittime particolarmente tra le greggi di pecore. Solo una di esse, non saprei dire se scelta a caso o seguendo una gerarchia ben determinata, ha alzato la testa per valutare la situazione in nome dell’intero gregge. Le altre le hanno fatto affidamento e non hanno neppure aperto gli occhi, rassicurate dalla certezza che ogni movimento improvviso da parte della loro ‘sentinella’ si sarebbe trasmesso all’istante attraverso tutto il gregge, così come una vibrazione si propaga veloce attraverso ogni materiale rigido.
Ho pensato che quel gruppetto di pecore mi stavano offrendo un esempio limpido e molto naturale di appartenenza e di protezione”. Samuel annuì, facendo capire all’orologiere di aver colto il messaggio che cercava di trasmettergli. “La versione deviata della stessa storia, vorrebbe che di gruppi in realtà ce ne fossero due, dalla lana di un colore diverso. Ma essendo la natura ben più intelligente dell’uomo, sarebbe una storia inventata. E inoltre lascio volentieri ad altri l’onta di abusare delle povere pecore per scadere nella rappresentazione delle loro più intime paure. Ma immagino che questo le sia ben chiaro da tempo, o sbaglio?” chiese David appoggiando una mano sulla spalla di Samuel. “Sì, in effetti, quella che lei chiama la versione deviata, non mi tange ormai più di quel tanto, già da tempo. Anche se, chiaramente, la speranza di poter sviluppare un’immunità completa a un certo tipo di provocazione e di pregiudizio resta solo un’illusione” rispose Samuel amaramente. Samuel e David discussero ancora per una decina di minuti. L’orologiere gli chiese in particolare di raccontargli che impressione gli avevano fatto i protagonisti della scissione, Marcel Schmidt e Philippe Wicht. A un certo punto estrasse un piccolo taccuino dalla giacca, che teneva sempre a portata di mano in una tasca interna, per annotare qualche appunto. Samuel gli descrisse brevemente anche i due giovani, Nadia e Jean-Luc. Il giovane giornalista esitò un po’, indeciso se soffermarsi oltremisura sul ruolo dei due giovani, ma infine decise che non stava a lui distinguere tra le informazioni importanti o meno. Il suo interlocutore sembrava perfettamente in grado di valutare la rilevanza di ogni informazione. Fu così che gli fece capire di avere assistito a distanza a una scenetta che senza dubbio aveva poco a che fare con le trattative per la scissione, e che molto più probabilmente era dovuta all’indiscutibile bellezza della figlia di Marcel Schmidt. David si dimostrò piuttosto interessato a questa parte del racconto e la commentò affermando che Samuel aveva fatto bene a raccontargli anche quest’episodio. Gli disse che anche una minima sfaccettatura di questa vicenda, come questa, all’apparenza insignificante, si sarebbe potuta rivelare un elemento chiave per sbrogliare la matassa e fondere nuovamente le due regioni sotto un unico tetto.
Arrivarono alla vettura, dove Viktor li attendeva con la portiera aperta per fare salire David Gabus. “Ora devo andare. Questa sera sono atteso a un ricevimento in Liechtenstein. Spero, di non averla confusa troppo con i miei sermoni, ma a una certa età diventa molto difficile non credersi dei saggi” gli disse David facendogli capire che presto si sarebbe dileguato, così come gli era apparso dal nulla un’ora prima. “No per niente. Anzi, la ringrazio di cuore. Tra i tanti discorsi che mi è toccato ascoltare durante le ultime settimane, le sue parole sono decisamente le sole ad avere avuto un senso compiuto”. Poi Samuel aggiunse: “Non voglio trattenerla, ma avrei anche io una domanda da porle”. David annuì compiaciuto. Samuel gli sembrava proprio un bravo ragazzo. Era ben felice di aver trovato un valido alleato per quest’impresa dall’esito tutt’altro che scontato. “Non le chiedo di raccontarmi i dettagli, ma concretamente cosa pensa di fare?” chiese Samuel. “Il mio piano è molto semplice, ma non per questo potenzialmente meno efficace” rispose l’orologiere. “Cercherò di sfruttare i mie contatti, e mi creda sono tanti, per intervenire al momento giusto. Il tassello fondamentale per fare girare l’ingranaggio di questa strategia me lo ha offerto lei, accettando di schierarsi dalla mia parte. Accedere alle informazioni in modo diretto e tempestivo, in modo da intuire quando si presenteranno alle due regioni i primi seri problemi, è un elemento vitale per perseguire nei nostri intenti. Ma non voglio illuderla, per il resto, sarà la fortuna e il destino a determinare se avremo successo, oppure no”. David gli porse un telefonino dell’ultima generazione, annunciandogli che questa era una linea sicura con la quale sarebbero potuti rimanere discretamente in contatto. Samuel pensò che, contando i due telefonini che aveva ricevuto per comunicare con i vertici dei due partiti, con questo facevano tre. Si rabbuio all’idea che fossero tutti e tre assolutamente inutili, dato che era stato sollevato dall’incarico. Decise però di non soffermarsi oltre su questa nota dolente con David Gabus. Era sicuro di essersi spiegato sufficientemente bene. Probabilmente l’orologiaio si sarebbe rivolto a più fonti per assicurarsi un accesso diretto alle informazioni,
e che lui, Samuel, altrettanto probabilmente sarebbe presto uscito di scena. Come se gli avesse letto nel pensiero, David che stava già entrando in macchina, tornò sui suoi i e gli chiese: “Esattamente, che cosa è successo con il capo redattore?” “Per farla breve. Mi ha messo alla porta perché mi sono rifiutato di descrivere le trattative in modo fazioso, pompando le capacità di mediazione di uno dei due partiti. Ha già trovato un rimpiazzo. Una marionetta che seguirà ogni sua indicazione alla lettera. Entro questa sera devo fargli sapere se preferisco farmi are per uno che ha fuso il cervello o essere accusato di corruzione”. David Gabus smise per qualche istante di sorridere con gli occhi, facendo scomparire quell’espressione che lo distingueva e che era in grado di mettere a proprio agio ogni interlocutore. Diede una rapida occhiata a Viktor, che li ascoltava con aria solo in apparenza assente. Poi scosse la testa, come se avesse deciso di scartare una particolare opzione. Si volse verso Samuel e gli chiese: “Vogliamo darci del tu?” “Certo, per me va bene. Il saggio è lei. Voglio dire sei tu. Io mi adatto volentieri”. “Al capo redattore ci penso io. Tu non chiamarlo questa sera. Spegni il telefonino. Cerca solo di rilassarti e durante i prossimi mesi tienimi al corrente di quello che succede. Intesi?” chiese l’orologiaio. “Va bene, farò quello che dici, ma francamente non credo che ci sia ancora molto da fare per rimediare alla situazione. Quello sciacallo ha intenzione di raccontare le sue menzogne al consiglio di amministrazione il più presto possibile. Forse oggi stesso”. David Gabus che aveva già preso comodamente posto all’interno del suo salottino su quattro ruote, abbassò il finestrino e gli rispose, ritrovando quel sorriso distensivo che sarebbe stato in grado di trasformare un coniglio impaurito in un fiero elefante africano. “Il brutto degli insoddisfatti è che tendono a prendersela con gli altri. I frustrati sono un serio problema, uno dei peggiori, della nostra società. Spesso la soluzione migliore è quella di liberarli da tale perseverante stato di infelicità
cronica, imponendo loro un cambiamento radicale. Al primo impatto reagiscono sdegnati, ma poi, con il are del tempo, diventano riconoscenti verso coloro che li hanno esonerati dal peso della competizione e da incarichi per i quali non erano all’altezza”. L’orologiere chiuse il finestrino e Samuel seguì con lo sguardo la vettura allontanarsi silenziosamente della piazza, per poi scompartire dietro la sagoma della sede della Banca Nazionale Svizzera. Samuel si chiese che cosa avesse voluto dire David Gabus proponendosi di alleviare le pene del frustato capo redattore. Si augurò che il rapido sguardo che l’orologiere aveva dato poco prima a Viktor, mentre rifletteva sul da farsi, non avesse nessun significato particolare. Il capo era una iena di cui avrebbe fatto volentieri a meno, ma non lo odiava al punto da auguragli del dolore fisico. Tornò in ufficio per recuperare le chiavi di casa, che nella fretta di abbandonare l’immobile dopo il colloquio con il capo redattore aveva dimenticato sulla sua scrivania. La porta dell’ufficio del capo era aperta, segno distintivo della sua assenza. Chiese all’assistente personale del capo se sapeva dirgli dove era andato il redattore. Questi rispose, sfoggiando un risolino ambiguo, che il consiglio di amministrazione del giornale lo aveva convocato urgentemente a Zurigo per una riunione straordinaria. Samuel si disse che aveva le ore contate, ma non c’era niente che potesse fare per cambiare le carte in tavola. Tanto valeva farsene una ragione e cercare di distrarre la mente dedicando un po’ di tempo a se stesso. Decise di seguire i consigli di David Gabus, personaggio talmente fuori dal tempo che avrebbe potuto benissimo essere trasportato in un’altra epoca, ata o futura, senza battere ciglio. La borsa da sport che teneva sempre pronta, sotto la scrivania, gli diede il primo impulso. Per prima cosa sarebbe andato a nuotare in piscina, dato che aveva decisamente bisogno di fare del movimento. Sull’Alpe di Älggi non si era mosso dalla tenda per tutto il tempo delle trattative, tranne che durante il piccolo intermezzo nel quale era uscito per sgranchire le ossa. Poi, deciso a seguire i consigli di David alla lettera, spense tutti i telefonini che si stava portando appresso e si ripromise di tornare a casa verso mezzanotte, per
essere certo di risultare irreperibile a chiunque avesse cercato di raggiungerlo. Dopo la piscina, andò in pizzeria, nei pressi della Zytglogge. Divorò una pizza di piccole dimensioni ma molto ricca e gustosa, che il ristorante annoverava tra le sue specialità più richieste. Annaffiò il tutto con un’ottima bottiglia di vino vallesano e infine ordinò per dessert una selezione di frutta e formaggi. Sazio e anche un po’ brillo, dato che si era scolato quasi tutta la bottiglia, decise di fare due i per digerire. Fortunatamente aveva smesso di piovere. La città di Berna è un luogo per certi versi abbastanza curioso. D’estate, durante le giornate di caldo torrido, il numero di persone che si possono incontrare sulle sponde dell’Aare, o immerse a mollo nel fiume, ricorda per densità certe scene che è possibile osservare solo in India, in prossimità di fiumi o sulle spiagge della costa. D’inverno invece, di sera, come in questo momento, la città dà talvolta l’impressione di essere disabitata, talmente poche sono le persone che capita di incrociare sotto i portici. L’unico segno di vita che gli capitò di vedere all’uscita dal ristorante, fu una coppietta di giovani, che abbracciati molto stretti, per riscaldarsi a vicenda, gli sfilarono davanti con o spedito. I due giovani, lei bionda e lui moro, gli ricordarono Nadia Schmidt e Jean-Luc Wicht. Forse influenzato dalle parole di David Gabus, Samuel si sentì meno negativo, rispetto al giorno precedente, dinnanzi alla prospettiva che i due potessero sviluppare un intessesse reciproco. Anzi, si disse, se si fosse reso necessario il suo intervento per facilitare i loro incontri, li avrebbe aiutati volentieri. Sull’onda di questi pensieri, Samuel si incamminò nella stessa direzione della coppietta. Li vide voltare l’angolo in una stradina laterale ed entrare in un cinema, per assistere a un proiezione delle ore 21:00. Il giovane giornalista non era un abitudinario del grande schermo, ma in questo caso si disse che l’occasione cascava a pennello. Distrarsi con un film era proprio quello che gli ci voleva. Consultò la locandina delle offerte e si decise per l’ultima commedia di Woody Allen. Il film, ambientato a Parigi, gli piacque molto, non solo perché riuscì a liberarlo per due ore da ogni preoccupazione, ma anche perché gli ricordò quanto sia utile
una buona dose di ironia per sdrammatizzare la vita e le sue imprevedibili virate. Rientrò a casa poco prima della mezzanotte. Stanco, ma non sufficientemente per andare subito a letto, fu piuttosto combattuto dall’idea di riaccendere i telefoni e verificare se lo avevano cercato. Per finire, si decise per un compromesso. Avrebbe controllato unicamente le sue e-mail, con il computer, senza riattivare i telefonini. Aveva ricevuto ben 32 e-mail da quanto aveva lasciato l’ufficio. La prima e-mail gliela aveva scritta il capo redattore, indirizzandola a tutti i collaboratori della redazione di politica interna. Tutte le altre e-mail, che avevano dato seguito a quella del capo in un crescendo di botta e risposta tra colleghi, si riducevano unicamente a commenti, esternazioni colorite e qualche sporadico richiamo alla ragione. Samuel rilesse ben tre volte l’e-mail del capo redattore prima di essere veramente sicuro di averne afferrato il contenuto: “Cari colleghi, vi annuncio che ho appena ottenuto la nomina a corrispondente dal medio oriente, con sede a Tel Aviv, che da anni stavo rincorrendo assiduamente. Per mia fortuna mi è stato concesso partire al più presto e mi vedo quindi costretto a lasciare l’incarico attuale a effetto immediato. La direzione del giornale vi informerà prossimamente con i dettagli della mia successione. Grazie per la vostra collaborazione e buona fortuna”. Qualche stolto osò commentare la notizia affermando che il capo redattore si era assicurato così uno dei pochi posti sicuri in prospettiva futura, dato che sotto qualsiasi direzione e indirizzo politico il giornale non avrebbe potuto fare a meno dei corrispondenti dall’estero. Ma a parte queste azzardate interpretazioni, la grande maggioranza dei commenti dei colleghi ipotizzava una sorta di punizione per un qualche cosa, che però non riuscivano a capire. Nessuno, o quasi, ne conosceva le ragioni. Samuel chiaramente sospettava che fosse tutta opera dell’orologiere. Gli aveva promesso che se ne sarebbe occupato lui. Eppure, era veramente possibile che un magnate dell’orologio avesse tanto potere? Infondo erano ate solo poche ore dal loro incontro. Euforico e scombussolato da questa notizia, Samuel si rese conto che non sarebbe mai riuscito ad addormentarsi in queste condizioni, nemmeno
mettendosi a leggere un buon libro. Per rompere il silenzio che dominava il suo monolocale, decise di accendere il televisore e guardare il notiziario della notte. Il telegiornale stava già volgendo al termine. Le ultime notizie riguardavano poco spettacolari avvenimenti di cronaca nazionale. L’ennesimo ingorgo al portale sud della galleria autostradale del San Gottardo, la vittoria del Kloten nel derby di hockey della città di Zurigo e alcune immagini riguardanti una serata di gala, organizzata a scopo di beneficenza dal Principe del Liechtenstein. Tra gli ospiti illustri si annoveravano Miss e Mister Svizzera, un campione di sci del ato, il direttore della banca nazionale, alcuni industriali di spicco, tra cui anche David Gabus e, seduto allo stesso tavolo dell’orologiere, l’editore del giornale domenicale. Diventa ora inutile precisare, che quando Samuel riaccese i telefoni, questi non riportarono alcuna chiamata. Nessuno aveva sentito il bisogno di chiedergli delucidazioni sul suo stato di salute o di chiarire eventuali casi di presunta corruzione.
Seconda Parte
Capitolo 10
Nel mese di giugno i colori delle colline dell’Appenzello sono intensi e si alternano tra il verde dei prati, frutto di una primavera ricca di pioggia, il verde scuro, quasi blu, dei boschi e le sporadiche chiazze più chiare dei campi coltivati. L’estate, che si annunciava quest’anno come particolarmente calda, aveva preso da qualche giorno in mano le redini della natura, e per tre mesi avrebbe lottato con i denti per mantenere il suo posto in cattedra, per poi arrendersi all’autunno, seguendo un’alternanza prestabilita e incontestabile. Il calore del sole, le lunghe giornate di luce e il cielo azzurro, non ancora offuscato dall’afa dei mesi di luglio e di agosto, hanno un indiscusso potere benefico sull’umore della gente, che già in primavera si rallegra all’idea di poter riscoprire i rumori e gli odori dell’ambiente che li circonda, ando tutto il tempo loro consentito all’aperto, anche fino a tarda ora. Non da ultimi i contadini, che naturalmente non dimenticano come la stagione calda comporta anche una buona dose quotidiana di fatica e di sudore, si rallegrano fortemente per il sopraggiungere della stagione produttiva. Dell’estate apprezzano inoltre particolarmente quei pochi momenti di riflessione, specialmente alla sera, in cui è loro concesso osservare come l’immancabile tramonto sembra essere stato inventato proprio per coronare il frutto della loro intensa giornata di lavoro. Anche Marcel Schmidt, che ritroviamo nella stalla con Nadia e intento a sbrigare le ultime mansioni della giornata, era particolarmente di buon umore. Nel suo caso però, la ragione principale di tanta allegria non andava cercata nel bel tempo o nell’irreprensibile qualità del latte delle sue vacche. Sempre a capo del partito conservatore, e di conseguenza a capo del neonato stato Helvetia, Marcel poteva vantare un bilancio intermedio di tutto rispetto. La scissione con la regione progressista si era svolta come da programma, senza intoppi degni di nota, e le frontiere erano state chiuse da ormai più di un mese. Recentemente anche l’ultimo tassello nella creazione della nuova regione era stato completato, con la cerimonia d’inaugurazione della nuova bandiera. Si trattava di un omaggio al paladino Guglielmo Tell, raffigurato da una balestra marrone e una mela rossa, messi in rilievo su uno sfondo blu.
I conservatori avevano messo in atto quasi subito la gran maggioranza delle misure che si erano prefissi di instaurare con il nascere della regione autonoma. La rapidità di applicazione delle riforme furono sostenute dall’euforia generale, che regnava tra tutti i loro concittadini, e dalla semplificazione della politica dovuta all’unanimità degli intenti. “Senti papà, devo ammettere che le cose vanno piuttosto bene, ma quand’è che reintrodurremo le votazioni popolari?” chiese Nadia mentre dava del latte a un vitellino nato da pochi giorni, che la sua mamma, indebolita dagli effetti di un parto lungo e travagliato, non riusciva ancora ad allattare pienamente. “Ah, non ti preoccupare di queste inezie. Nella nostra regione è vero che abbiamo un partito unico, ma molto democratico. Inoltre con il livello di disoccupazione ridotto praticamente a zero, nessuno ha voglia di perdere tempo con la politica. Ci fanno tutti pieno affidamento e si godono la vita, proprio come dovrebbe essere” rispose Marcel. In effetti, il tasso di disoccupazione era stimato al 0,3%, anche se la mancanza di un ufficio accreditato di statistica non permetteva di confermare queste cifre in modo rigoroso. Venne reintrodotto il servizio militare obbligatorio per tutti gli uomini insieme a innumerevoli altri riti e costumi popolari, che con gli anni erano andati scemando, rischiando di andare perduti. Le grandi banche e l’intera piazza finanziaria di Zurigo stavano godendo di una nuova primavera, segnata da un afflusso eccezionale di nuovi capitali provenienti da ogni continente. Il fatto di avere messo in cima alle priorità del nuovo stato il mantenimento a oltranza del segreto bancario aveva sicuramente influito in questo senso, ma c’era chi attribuiva buona parte di questo successo alla mancanza di un’autorità di sorveglianza che avrebbe sorvegliato la provenienza del denaro e monitorato la conformità delle pratiche di tassazione con le leggi dei paesi d’origine di tali fondi. Indistintamente dalle ragioni che avevano fatto confluire tanta ricchezza verso i forzieri delle banche zurighesi, questo stava portando beneficio anche alle casse dello stato le cui prospettive erano più che rosee. Da una parte c’erano le entrate fiscali che malgrado fossero state fortemente limitate da una revisione delle legge fiscale che aboliva l’imposizione sul patrimonio e riduceva al 10% le imposte sul reddito per tutti, comprese le imprese, rappresentavano comunque una fonte costante e affidabile
di denaro, mentre dall’altra, c’erano le spese dello stato che furono drasticamente ridotte all’osso. Le assicurazioni sociali come quella per l’invalidità e il primo pilastro della pensione vennero aboliti senza eccezioni. Per volere del partito, degli anziani, che non avevano saputo risparmiare per la terza età, e degli invalidi se ne sarebbero occupate le rispettive famiglie. Sorprendentemente, si decise di mantenere un’esigua copertura in caso di perdita di lavoro, limitata a tre mesi, che però con una disoccupazione ai minimi storici influiva marginalmente sulle casse dello stato. Il tasso di criminalità era stato quasi azzerato e i pochi stranieri che avevano scelto di andare a vivere nella regione conservatrice venivano espulsi con rito accelerato in seguito al minimo sgarro alla legge. Insomma, tutto quello che i conservatori predicavano di voler applicare da anni in Svizzera, venne introdotto alla lettera nel giro di tre mesi dalla data di fondazione di Helvetia. “Sai Nadia, francamente nemmeno io credevo che saremmo riusciti a mettere in atto tante riforme, cosi in fretta e con tanto successo. Se penso a quegli idioti dei progressisti che ci hanno impedito per decenni di arrivare al punto in cui siamo oggi, mi viene un gran nervoso” disse Marcel, mentre con dei gesti vigorosi spazzava la stalla, facendo confluire lo sporco nel canale in pietra che avrebbe poi permesso loro di risciacquare il pavimento per l’ultima volta quel giorno. Nadia sempre intenta a occuparsi del vitellino, non diede seguito al commento del padre, assorta com’era nella sua mansione o forse distratta da altri pensieri. Il padre rincarò allora la dose: “In particolare, se penso ai Wicht, a quel comunista di Philippe e al suo bell’imbusto di figlio, mi ridono le budella. Nelle trattative, lo scorso inverno, li abbiamo proprio fatti fessi. La conferma di quanto li abbiamo sovrastati con la nostra strategia allora, sta proprio nell’indiscutibile realtà del presente. Adesso, noi siamo indubbiamente messi molto meglio di loro”. Marcel Schmidt fece una pausa per stiracchiare la schiena e riprendere fiato. Il capo di governo stava inesorabilmente invecchiando e questo tipo di mansioni, anche a causa della sua ragguardevole mole, gli provocavano rapidamente il fiatone. Di solito lasciava sbrigare i lavori pesanti ai suoi collaboratori, ma uno di loro si era recentemente infortunato a un piede e sarebbe mancato almeno per una settimana. Nadia, che al momento non aveva ancora trovato un ruolo ben definito all’interno della nuova regione Helvetia, accettò ben volentieri di are qualche giorno alla fattoria con i suoi genitori per dare una mano al padre.
“Ma mi ascolti, o sto parlando con le vacche?” aggiunse Marcel irritato dal silenzio della figlia. “Certo che ti ascolto. Come potrei altrimenti? Parli così forte che probabilmente anche a San Gallo riescono a sentire quello che stai dicendo. Semplicemente ho poco da dire. Se già ti congratuli tanto da solo per i tuoi successi, che cosa dovrei aggiungere io?” rispose Nadia senza usare mezzi termini. “Ma che le prende?” si chiese il padre mentre la osservava attentamente. Sapeva certo che gli umori delle donne possono subire delle fluttuazioni improvvise e indecifrabili per un uomo. Eppure, pochi minuti prima, lei stessa aveva ammesso che i risultati ottenuti dal partito con la stesura della costituzione per la regione autonoma conservatrice avevano superato le attese. Qualche cosa in quello che le aveva appena detto la aveva irritata. Ma cosa? Decise che in quest’occasione valeva la pena di rischiare di perdersi nel labirinto della mente femminile. Così, seguendo un’ispirazione improvvisa, aggiunse: “Va beh, sarà come dici tu. La smetto di vantarmi per il successo schiacciante. Comunque, realizzo ora che dopo le trattative tutto si è svolto in modo frenetico e non abbiamo mai avuto occasione di parlarne insieme, da padre a figlia. Mi interesserebbe sapere che impressione ti hanno fatto i Wicht”. Nadia, sorpresa dalla richiesta del padre, gli diede un’occhiata di traverso e smise di allattare il vitellino. Questi, affamato e impaziente, si mise a cercare il gigantesco biberon dandole dei colpetti con la nuca sotto l’ascella. Nadia che ebbe subito il sentore di dove voleva andare a parare il padre, diede una risposta molto vaga. “Ma guarda papà, quel giorno io ho parlato pochissimo con i Wicht. Inoltre durante le trattative, da un punto di vista delle idee politiche, non mi sembra che abbiano detto niente di stupefacente o di particolarmente rivoluzionario”. “Francamente non mi riferisco tanto alla politica, ma più che altro al carattere dei nostri avversari. È vero che Philippe ormai lo conosciamo molto bene, e da tempo, ma invece io per esempio con il figlio non ci avevo ancora parlato prima. Cosa ne pensi di Jean-Luc Wicht? Secondo te, che tipo è?” insistette Marcel simulando una certa indifferenza nel porre la domanda, determinato però a non mollare la presa. Nadia esitò un po’ prima di rispondere, cercando le parole giuste per non tradire i
suoi pensieri. Il padre aveva difatti colto nel segno. L’improvvisa irritazione e lo strano senso di disorientamento di cui era stata assalita nuovamente pochi istanti prima erano dovuti al ricordo del giovane progressista e alle temerarie e inusuali parole che egli le aveva sviolinato sull’Alpe di Älggi. “Con Jean-Luc Wicht ho scambiato solo poche parole durate la pausa. Non ricordo nemmeno di cosa abbiamo parlato esattamente, ma immagino che non si trattasse di niente di particolarmente interessante”. Mentì spudoratamente, decisa a non farsi scappare nemmeno il minimo dettaglio. Sentendo quelle parole Marcel ricordò all’istante la strana impressione che le aveva fatto la figlia di ritorno alla tenda delle trattative, dopo la pausa, e il silenzio quasi assoluto in cui era calata Nadia durante li viaggio di ritorno. “Sei proprio sicura che non successe niente di particolare? Ricordo di averti vista come scossa da qualcosa, e poi d’animo assente durante la seconda parte delle trattative. Anche durante il volo di ritorno verso casa non hai fatto altro che guardare fuori dal finestrino dell’elicottero, senza scambiare una sola parola con me” rievocò suo padre. “Non ti avrà mica minacciata o proposto qualche sporca combine per aiutarli a salvare la faccia?” aggiunse Marcel battendo volontariamente una falsa pista. Nadia abboccò ingenuamente subito all’amo, e con impeto sospetto rispose d’un fiato: “Minacciata? Ma non dire scemenze papà. Jean-Luc è un ragazzo di per se molto simpatico e sincero”. Poi, dopo aver fatto un respiro profondo, si rese conto di dover rimediare a quello sfogo impulsivo, e sicuramente un po’ ambiguo, e aggiunse: “Quantomeno io non ricordo nessun comportamento antipatico da parte sua. Naturalmente avendoci parlato solo una volta, e per poco tempo, potrei anche sbagliarmi sulla sua persona”. Marcel capì di aver visto giusto. Non sapeva esattamente cosa, ma qualche cosa era successa durante quella pausa. Calato nel ruolo naturale di padre apprensivo, in altre occasioni, avrebbe insistito con la figlia per saperne di più, ma in questo caso decise di lasciare correre. Si disse che con la creazione delle due regioni autonome molto probabilmente Nadia e Jean-Luc Wicht non si sarebbero mai più rivisti, e qualsiasi cosa fosse effettivamente accaduta quel giorno sull’alpe, con il are del tempo, sarebbe finita nel dimenticatoio. Così si limitò a
rispondere: “D’accordo Nadia, mi interessava semplicemente conoscere le tue impressioni, ma se non ti va di parlarne ora, beh, allora ti lascio volentieri in pace. Francamente, di per sé dei Wicht non me ne importa più un tubo”. Poi diede una grossa pacca sul fianco di una delle sue amate mucche, per farla avanzare nel suo box ora ben ripulito da ogni sporcizia. Dopo che questa ebbe preso posto al fianco di tutte le altre bestie, Marcel si assicurò che il livello d’acqua negli abbeveratoi fosse sufficiente a dissetarle fino alla mattina, e si incamminò verso l’uscita della stalla. Proprio in quel momento sopraggiunse Emil, che da tesoriere del partito era stato promosso a ricoprire l’onorevole carica di ministro delle finanze della regione conservatrice. “Marcel, Nadia che cosa ci fate ancora nella stalla a quest’ora?” chiese il fedele braccio destro di Marcel Schmidt, prima di venire assalito a tradimento da una serie infinita di starnuti, provocati dall’allergia al fieno e al polline. Le forme di Emil ricordavano quelle di Babbo Natale o di Omer Simpson. La circonferenza della sua pancia, che superava di gran lunga la sua altezza, la barba appena accennata, le basette lunghe e l’immancabile pipa alla bocca, gli conferivano quell’aria da bonaccione che gli permetteva di suscitare simpatia immediata in chiunque. Inoltre, da quando il partito aveva introdotto l’obbligo di indossare i vestiti tradizionali della regione, Emil era costretto a intrattenere una comica lotta quotidiana con le bretelle, per evitare che queste si staccassero puntualmente dopo ogni respiro profondo o in seguito a qualche movimento azzardato. Al gilet, che considerata la notevole pancia lo avrebbe fatto assomigliare a un pinguino, rinunciava per pudore. “Insomma, mi avete invitato voi per cena o no? Adesso sono le otto ate e vi faccio notare che non abbiamo nemmeno iniziato l’aperitivo. Stacanovisti!” li ammonì Emil. “Lasciamo perdere i comunisti. Comunque dal bicchiere di vino bianco semivuoto che tieni in mano, ne deduco che in realtà l’aperitivo tu l’hai già iniziato”. Rispose Marcel, commentando maliziosamente l’incapacità di Emil di attendere pazientemente davanti a una bottiglia di vino bianco senza aprirla. “Cosa c’entrano i comunisti adesso?” chiese Emil, che talvolta faceva sue delle espressioni dopo averle sentite utilizzare ad altri, senza conoscerne la provenienza.
“Ciao Emil, non badare a papà. Anche dopo la scissione continua a vedere comunisti nascosti dietro ogni angolo” lo schernì Nadia dopo averli raggiunti all’esterno della stalla. La signora Schmidt, come sua consuetudine, aveva distribuito con grande cura estetica una gran quantità di pietanze sull’ampio tavolo in granito sotto la pergola in giardino. Il cibo, disposto ordinatamente su tre assetti di legno, comprendeva salumi, prosciutto, carne secca e una selezione di formaggi che avrebbe fatto concorrenza a qualunque ristorante rinomato. Di suo aveva aggiunto due tipi di pane fresco appena sfornati, una treccia al burro e un pane scuro dalla crosta croccante, una teglia con delle verdure, delle patate bollite e una salsiccia anch’essa bollita che andava accompagnata con della senape piccante. Insomma, invece che per quattro persone, la tavola così imbandita avrebbe potuto sfamare un intero reggimento. Marcel prese posto a capotavola, Nadia ed Emil al suo fianco, mentre la signora Schmidt andò in cucina a riempire la caraffa con l’acqua dell’alpe, che sgorgava direttamente dal rubinetto di casa. La serata si presentava stupenda, ancora ricca di luce e di vita. Il suono dei grilli nei campi era per il momento solo accennato ed era ancora ampiamente sovrastato dal ritmico scampanare delle mucche in movimento. “Mai rinuncerei a questa quiete, agli odori e ai rumori di queste serate. Perché mai lasciarsi assalire dallo stress, dalla bolgia e dall’inquietudine delle città se è possibile godersi tanta pace e tenere a distanza le idiozie dei nostri giorni?” pensarono un po’ tutti prima di iniziare a servirsi. L’aria era comunque frizzante, e le temperature dopo una certa ora, con lo scemare del sole, ricordavano come l’estate fosse solo agli inizi. Le due donne si premunirono entrambe di indossare una felpa prima di iniziare a mangiare. Emil, al quale il vino aveva già attribuito un colorito , le osservò divertito al pensiero che anche lui si sarebbe riscaldato dopo cena con l’aiuto di grappini e digestivi vari. “Alla salute, nostra e di Helvetia!” disse Marcel alzando il bicchiere di vino bianco prima di iniziare a sorseggiarlo. “Senti Marcel, sai che condivido ognuna delle scelte che abbiamo fatto per rinvigorire il folclore all’interno della regione conservatrice, però quella di
reintrodurre le lezioni di canto e di flauto obbligatorio nelle scuole elementari, per riportare alla luce le antiche canzoni popolari mi fa venire il mal di testa” disse Emil con aria sinceramente afflitta. “Ma di che diavolo stai parlando ora Emil?” gli chiese Marcel perplesso. “Beh Marcel, il fatto è che letteralmente mi viene il mal di testa. Il più giovane dei miei figli è completamente negato con il flauto e per recuperare si esercita dopo scuola a casa, in camera sua. Così facendo, per mia sfortuna, riproduce puntualmente, ogni sera, dei suoni tanto striduli che ho addirittura fatto visionare il suo flauto da un esperto di strumenti musicali, per assicurami che non si trattasse di un difetto di fabbrica. Purtroppo, il flauto non c’entra niente. Mio figlio ha semplicemente ereditato dal padre l’incapacità assoluta di leggere e interpretare le note musicali!” aggiunse mimando goffamente le gesta del bambino intento a suonare il flauto. Nadia, sorrise all’immagine di Emil e della moglie costretti a tapparsi le orecchie per cercare di alleviare tale tortura quotidiana. “Mica ci metteremo a rivedere la costituzione di tutta la regione autonoma solo per dare seguito ai tuoi capricci! Non sono mica un despota che da udienza nella sala del trono una volta alla settimana per valutare tutte le richieste più astruse!” rispose Marcel. Nadia arricciò il naso, ma si trattenne dal commentare l’ultima frase pronunciata dal padre. “Eh poi, sappiamo benissimo entrambi che il mal di testa spesso lo devi mettere sul conto della grappa. Altro che flauto magico!” aggiunse Marcel, lasciandosi andare a una bella risata, senza mancare di dare una robusta pacca sulla spalla al suo ministro delle finanze. “Va beh, vorrà dire che mi fornirò di una quantità industriale di tappi per le orecchie” commentò Emil, prima di aggiungere con gli occhi fissi sul bicchiere: “Comunque dovremmo parlare anche di quella richiesta assurda che viene dall’ala intransigente del partito”. “Quale richiesta?” chiese Nadia. “Il portavoce degli agricoltori ci ha comunicato che la maggioranza della loro
categoria sarebbe in favore di un divieto assoluto d’importazione di prodotti alimentari dall’estero, per sostenere la produzione locale” spiegò Marcel alla figlia, e poi le chiese: “Che cosa ne pensi?” “Innanzitutto se dovessimo prendere una decisione del genere dobbiamo aspettarci che altri paesi impongano la stessa restrizione all’importazione dei nostri prodotti. Inoltre se proprio dovessimo voler azzardare una tale decisione, mi chiedo quanto tempo ci vorrebbe prima che a qualche altra categoria di lavoratori venga la buona idea di estendere il divieto ad altri beni. Insomma, non so quanto possa valere la mia opinione, ma io vi sconsiglio chiaramente di perseguire questa strada”. La riposta di Nadia mirava anche a ribadire le sue preoccupazioni per il sistema decisionale, che per il momento vigeva nella regione autonoma. O meglio, l’attuale assenza di un chiaro processo decisionale. Marcel in cuor suo dava perfettamente ragione alla figlia, ma per il momento si astenne dall’esprimere la sua opinione. A rompere il silenzio, intervenne Emil: “Do pienamente ragione a Nadia. Credetemi, quello che più mi preoccupa non è di perdere i vini si, che come ben sapete adoro, ma piuttosto la reazione della mia primogenita se dovessimo proibire l’importazione dei telefonini Mellon. Tre settimane fa, per assicurarsi subito un esemplare dell’ultima generazione si è accampata per due giorni interi davanti all’entrata del negozio. Vi rendete conto con che razza di fanatica ho a che fare?” Julia, sedicenne, la più grande di quattro figli, era l’anima ribelle nella famiglia di Emil e aveva già minacciato in due occasioni di fuggire da sola nella regione progressista se Helvetia avesse cominciato a schermare il flusso di informazioni e prodotti provenienti dal resto del mondo. Nadia trattene a fatica le risa nel constatare come certe teorie talvolta vanno a cozzare immediatamente con la realtà di ogni giorno, perfino in casa del ministro delle finanze. Marcel si sentì in dovere di intervenire. “Emil, ora basta, lo sai che la tua famiglia mi sta molto a cuore, ma comincio a temere che abbiamo messo in piedi un immenso parco giochi per i tuoi figli, invece che una nazione. Quindi, almeno per oggi, risparmiaci il resoconto delle tue tegole personali. Ognuno è responsabile di mantenere l’ordine nella propria stalla, chiaro?”, il tono scelto da
Marcel fu si scherzoso, ma dallo sguardo che diede all’amico di vecchia data trapelava anche una certa nota di biasimo. “Eh poi” aggiunse Marcel che volle alleggerire la nota di rimprovero che aveva appena distribuito al suo folcloristico ministro delle finanze, “io questi giovani proprio non li capisco. Chi diavolo ha il lusso di buttare via due interi giorni impalato davanti a un negozio per aspettare l’uscita di un telefono? Ci sono luoghi su questo pianeta in cui dei loro coetanei fanno code di due giorni per assicurarsi il pane o l’acqua, altro che telefonini!” Con questo commento Marcel suscitò il consenso di tutti, rinstaurando almeno per il momento l’armonia a tavola. Marcel Schmidt era particolarmente noto per la sua assoluta astinenza dall’autocritica. Odiava letteralmente ogni giudizio, specialmente se proveniente dalle sue stesse fila, in grado di scalfire o di arrecare il ben che minimo sgarro alla sua creazione, ad Helvetia. Per questo motivo, e data la piega che aveva preso finora la discussione durante la cena, avrebbe preferito mettere da parte ogni questione di governo e parlare d’altro. Purtroppo però, sapeva di avere tra le mani un dossier delicato da risolvere, ed era consapevole che rimandare non sarebbe servito a niente. “Sentite, dobbiamo trovare una soluzione per la questione della crescita demografica. Vi ricordo che il secondo articolo della nostra costituzione, sotto la voce della protezione del territorio, prevede un tetto massimo per il numero di anime aventi diritto di vivere nella nostra regione. Ricordo anche che questo limite è molto vicino al valore attuale e che è nostro dovere, nei confronti dei nostri compatrioti, di mettere in piedi le misure necessarie per rispettare l’impegno preso”. Marcel fece una pausa per addentare l’ultimo boccone, prima di riporre coltello e forchetta nel piatto. “Certo, ricordo benissimo che abbiamo definito quest’ articolo della costituzione principalmente per dare una base forte a ogni conseguente legge restrittiva sull’immigrazione. Solo che non possiamo dimenticare anche le dinamiche dovute alla crescita naturale della popolazione”. “Casa vuoi dire esattamente papà? Per quanto riguarda le nascite, di sicuro siamo ben sotto la media di due figli per ogni nucleo famigliare, o no?” chiese Nadia perplessa.
“Beh, non proprio” ripose Marcel. “L’anima contadina di buona parte dei nostri compatrioti è particolarmente produttiva”. Emil lo guardava allibito con la forchetta ferma a metà strada tra il piatto e la bocca. Marcel aggiunse: “Siamo per il momento appena sotto il valore di due nascite per coppia. Questo dato, combinato a una reimpostazione tradizionale della famiglia, che porterà ad abbassare l’età media dei matrimoni, aumentando così la fertilità, e al fatto che la popolazione tende a vivere sempre più a lungo, beh, ci porterà inesorabilmente a vedere crescere il numero della popolazione. Insomma, non ci resta altro che limitare costituzionalmente a due le nascite per ogni nucleo famigliare. Non vi pare?” Emil che nel frattempo si era azzardato a mettere in bocca la forchetta, iniziò a tossire, paonazzo per via delle due fette di carne secca che gli si erano bloccate in gola. Marcel, che aveva intuito i pensieri dell’amico, si mise a ridere fragorosamente e gli disse: “Ma Emil, cosa diavolo ti sei messo in testa? Questa regola non è mica retroattiva! Rilassati e finisci il tuo bicchiere di vino, che tra poco vado a prendere le grappe”. Nadia nuovamente, per evitare di irritare il padre, evitò di commentare quanto ritenesse spropositata quest’ennesima misura di governo. Contrapporre le proprie idee a quelle di Marcel Schmidt era sempre stata una cosa difficile, ma con la creazione di Helvetia il problema si era fortemente accentuato. Per finire avrebbe comunque deciso lui e discutere risultava essere un esercizio assolutamente inutile. “Non lo avrei mai creduto possibile, eppure il potere potrebbe dare alla testa anche a mio padre” pensò Nadia, terrorizzata dall’idea che Marcel potesse trasformarsi rapidamente in un dittatore, portavoce totalitario del dogma conservatore. Marcel notò lo sguardo angosciato della figlia e si sentì in dovere di chiarire la situazione. “Nadia, Emil, ma che cos’è quest’aria da funerale? I piccoli problemi che abbiamo da risolvere noi sono delle vere e proprie inezie. Avete perso la misura
delle cose? I progressisti sì che hanno dei problemi. Noi abbiamo solo l’incombenza di dover ritoccare e ottimizzare la perfezione di Helvetia con qualche piccola misura correttiva. Niente di tanto tragico, no?” Marcel si alzò in piedi riponendo il tovagliolo sul tavolo vicino al piatto. “Per quanto riguarda il controllo delle nascite io non vedo altre soluzioni che quella di limitarle, ma ne possiamo tranquillamente riparlare domani. Ora basta discutere di questioni di governo, vado a prendere le grappe”. Poi rivolgendosi al ministro delle finanze, aggiunse strizzando l’occhio: “Emil, ne ho ricevuta una alle ciliegie che è eccezionale!” Al suo ritorno il silenzio regnava ancora a tavola, ed era proprio il suo amico di vecchia data ad avere l’espressione più cupa. Nel suo intimo Emil si stava maledicendo per non aver affrontato subito la questione che avrebbe introdotto da lì a poco. Parlarne ora sarebbe stato ben più difficile. Eppure una risposta ufficiale da parte di Helvetia era attesa e dovette così raccogliere tutte le forze prima di iniziare a parlare. Il primo grappino al fiato lo aiutò a sciogliere la lingua. “Marcel, prima di venire qui sono ato alla cancelleria dello stato e ho trovato della corrispondenza indirizzata a te da parte di esponenti di spicco della comunità internazionale”. “Eh che cosa dicono queste lettere?” chiese Marcel cauto. “In sostanza si complimentano con noi per la scissione e la capacità dimostrata di metter in piedi in così poco tempo una regione autonoma e indipendente a tutti gli effetti” rispose Emil. “Ecco vedete! Altro che piccole bagatelle famigliari. Il mondo si sta complimentando con noi per la nostra lungimiranza” commentò Marcel. Emil sollevato dall’ondata di buonumore che la notizia scaturì nel suo capo, fu fortemente tentato di omettere i dettagli. “Ah, lo sapevo. Vedrete quante altre nazioni ci seguiranno a ruota. Paesi sviluppati ed emergenti, a nord o a sud, cristiani o musulmani, tutti, nel giro di pochi decenni il nuovo ordine mondiale sarà dettato da una chiara distinzione tra
conservatori e progressisti. E tutti ci riconosceranno come i padri fondatori di questa nuova forma di umanesimo”. “Umanesimo?” pensò Nadia fissando il padre con lo sguardo di chi osserva uno sconosciuto per la prima volta per intuirne i tratti principali del carattere. “Ah ragazzi, ve lo avevo detto che sarebbe successo. È proprio ora che ritroviate il sorriso. Dimmi Emil, chi sono gli illuminati ad aver intuito l’importanza storica della nostra scissione per primi?” chiese Marcel più che mai orgoglioso della neonata Helvetia. Emil esitò lungamente prima di rispondere, facendo finta di sorseggiare lentamente il bicchierino di kirsch che teneva in mano. Essendo abituati a vederlo tracannare grappe e liquori d’un solo fiato, la messa in scena del ministro delle finanze apparse palese a tutti. Nadia, che mentre il padre era andato a prendere i digestivi in casa aveva già appreso da Emil i dettagli contenuti nelle sopra citate lettere, in quest’occasione, non riuscì a trattenersi e scoppiò in una sonora risata. Marcel Schmidt cambiò colore, gradualmente, prima di divenire paonazzo, mentre altrettanto lentamente gli si afflosciava il sorriso sul volto per lasciare il posto a una smorfia di disapprovazione. “Allora Emil, vuoi dirmi da chi abbiamo ricevuto queste benedette lettere o devo legarti alla sedia e obbligarti a guardarmi finire le bottiglie da solo?” gli chiese Marcel. “Marcel, non ricordo tutti i dettagli, ero di fretta. Domani potrei riare in cancelleria e chiamarti a casa…” fu la risposta di Emil, che stava cercando di aggrapparsi con le unghie alla possibilità di concludere il discorso in modo prematuro, ma Marcel lo interruppe in modo deciso. “Non dire scemenze. Certo che te lo ricordi. Allora?” Emil, che nel tentativo di guadagnare tempo si era trangugiato ben tre cicchettini in pochi minuti, iniziò a sentirne gli effetti sull’organismo. Cosa che gli permise di avventurarsi nel mondo delle formulazioni creative. “Sono arrivate tre lettere. La prima arriva dal nord, dalla terra dei cavalieri e di Re Artù. In sostanza”, e a questo punto persino Emil si concesse una piccola risata ironica, “si congratulano con noi per il nostro animo celta”.
“Celta? A parte che io ho sempre sostenuto che le nostre genti hanno molto probabilmente un’origine celta, e che quindi non ci trovo niente da ridere, non potresti essere un po’ meno filosofico e un po’ più concreto?” lo incalzò Marcel indispettito. “Come vuoi. La lettera è stata scritta dai movimenti secessionisti irlandesi”. Certo, sarebbe stato meglio se il mittente fosse stato un altro, ma dato che Marcel aveva ormai temuto il peggio, si disse che non era poi tanto sorprendente. “Ne prendo atto. Domani abbozzerò una risposta per chiarire che noi non siamo mossi da motivazioni religiose. E le altre lettere?” chiese Marcel. “La seconda arriva dalle terre dei mulini a vento, di Don Chisciotte e Sancho Panza” rispose Emil in tono solenne. Nadia si disse che Emil doveva aver letto non poco in vita sua, indubbiamente più di quello che ci si sarebbe potuti aspettare a prima vista. In questo caso Marcel stette al gioco e azzardò subito un commento positivo. “Ma certo, il Premier conservatore spagnolo. Beh, lo capisco, per far quadrare i conti, una scissione come la nostra gli farebbe certamente comodo per liberarsi dei comunisti”. A questo punto intervenne Nadia divertita. “Papà, quello che Emil non osa dirti è che in realtà si tratta del gruppo secessionista catalano”. La Vecchia Volpe si afflosciò un po’ sulla sedia, evidentemente insoddisfatto nell’apprendere l’origine dei mittenti delle prime due lettere, e si limitò ad assicurare che l’indomani si sarebbe occupato di rispondere anche a questi ultimi. Riguardo al contenuto della terza lettera non chiese delucidazioni. Emil però, oramai rincuorato dal fatto di aver potuto scaricare il fardello rappresentato dalle prime due lettere, era ben determinato a liquidare definitivamente la questione e così, disinibito dai fumi dell’alcool, continuò con le sue stravaganze verbali. “Dulcis in fundo, con la terza lettera ci viene chiesto di dare vita a una sorta di gemellaggio”.
“Non oso chiedere da parte di chi” commentò Marcel affranto. Emil si mise allora a canticchiare una canzone in inglese, in modo talmente stonato, e con un accento talmente pronunciato, che nemmeno il più talentuoso degli indovini avrebbe saputo riconoscere di che brano si trattasse. Nadia, che essendo a conoscenza del mittente della lettera aveva ben capito dove voleva andare a parare l’improvvisato giullare di corte, intervenne prontamente spiegando al padre che Emil stava citando The Eye of the Tiger, noto pilastro della colonna sonora nella saga cinematografica del pugile Rocky Balboa. Marcel ci pensò per un momento, poi gli si illuminò il volto e cambiò persino postura sulla sedia, raddrizzando le spalle e spinse in fuori il petto. Gli venne alla memoria l’immagine di Rocky Balboa in calzoncini a stelle e strisce mentre combatteva a Mosca contro Ivan Drago, il comunista sovietico dopato. Un eroe della quella fredda, che da solo era andato a battersi per tenere alto l’onore della patria contro una armata di tifosi inferociti. “Il partito repubblicano americano! Ma certo, chi meglio di loro può mettersi nella nostra pelle e capire l’inutilità di un sistema bipolare a oltranza! Certo che potevi dirmelo anche all’inizio, con tutto il rispetto per gli irlandesi e i catalani”. Nadia ed Emil si guardarono sorridendo al cospetto dell’ingenua interpretazione di Marcel Schmidt. E fu Emil a tagliare la testa al toro. “Marcel, francamente la richiesta di gemellaggio viene dalle tigri Tamil”. Marcel si afflosciò nuovamente sulla sedia come una mongolfiera che ha terminato il suo viaggio e si distende su un campo per essere sgonfiata. A intervenire in sostegno del vecchio capo di governo fu la moglie, che fingendo di non aver colto come il marito era appena stato messo alle corde da una serie ravvicinata di tre ganci sotto la cintura, ruppe il silenzio alzandosi da tavola per chiedere chi avrebbe trovato ancora un po’ di posto per la crostata di mele. Emil, che in queste occasioni non diceva mai di no, ne richiese una bella fetta con tanto di panna montata sopra. Nadia che riteneva di aver già mangiato fin troppo disse che l’avrebbe assaggiata per colazione, mentre Marcel non rispose. Probabilmente non sentì nemmeno la domanda.
La Vecchia Volpe cominciava a sentire il peso dell’età. Al cospetto di questo tipo di situazioni era sempre più frequentemente tentato di lasciar perdere, e incassare la botta senza farne una questione di stato. Il fatto è che se ci si è abituati per tutta una vita a rispondere colpo su colpo, proprio come il pugile Rocky Balboa, trovando sempre la forza di rialzarsi anche quando questo sembra impossibile, caparbietà e determinazione entrano nei geni, e a venti come a settant’anni l’orgoglio viene attivato come fosse un riflesso incondizionato e incontrollabile. L’uomo che è convinto di avere ragione, che è persuaso di portare la bandiera dei giusti, è inarrestabile. Una macchina perfetta che affronta ogni ostacolo come mosso da un moto perpetuo, che si autoalimenta. In tutto ciò, di per sé, non c’è niente di male, anzi. Il vero problema si crea unicamente quando l’individuo dimentica, o peggio non lo ha mai saputo, avendo delegato l’incombenza di capire ad altri fin dall’inizio, il perché delle sue convinzioni o il significato della sua bandiera. In questo caso, determinazione, caparbietà e resistenza scadono in fanatismo e ignoranza. Ma tutto questo non ha riscontro in Marcel Schmidt. La Vecchia Volpe non ha mai perso di vista le sue convinzioni e non ha mai rinunciato ad avere saldamente in mano le redini del proprio pensiero e della propria vita. A maggior ragione ora che ha realizzato il sogno di sempre, dando vita a una comunitànazione ai suoi occhi senza inghippi e senza pecche. Come se si fosse appena svegliato improvvisamente da un brutto sogno di corta durata, Marcel scosse ripetutamente la testa e si rivolse freddamente a Emil e alla figlia. “Tutto questo è assurdo e sbagliato. Abbiamo ato la serata a dibattere di stupidaggini invece che a celebrare il trionfo di Helvetia”. Scacciato lo sconforto con un solo e netto colpo di scopa, la Vecchia Volpe ritrovò subito la fierezza e l’aggressività dell’animale ferito. “Sono i progressisti” aggiunse, “ad avere dei problemi veramente gravi da risolvere. I loro centri di accoglienza alle frontiere sono stracolmi. Non sanno più come contenere il flusso migratorio. L’apparato statale è un bisonte sproporzionato ai loro bisogni fondamentali, e sta creando loro delle brutte gatte da pelare con le finanze. Alcune pensioni hanno annunciato di andare incontro a dei concreti problemi di liquidità e i pensionati in panico si sono già riversati in massa per le strade di Ginevra per dimostrare il loro dissenso. Questi sono i
primi segnali della sconfitta. Quegli incapaci andranno a scatafascio ancora prima della fine dell’anno!” “Papà, ma queste sono solo delle speculazioni, perché in fondo ci speri, o hai ricevuto delle informazioni precise? E se sì, da chi?” chiese Nadia. Marcel guardò la figlia come se lei avesse ancora sette anni. Quel tipo di sguardo la indispettiva enormemente. “Ma per cosa credi che ci si siamo tenuti a denti stretti i servizi segreti?” le chiese retoricamente il padre, “per tenere sott’occhio la figlia ribelle di Emil?” Nadia non voleva credere a quello che aveva appena udito. “Servizi segreti? Ma come hai potuto fare una cosa del genere senza nemmeno avvertirmi? Ho messo la mia firma di fianco alla tua sugli accordi che abbiamo siglato con i Wicht! Te lo ricordi, vero? Ci siamo impegnati a non fare uso dei servizi segreti sul loro territorio!” “Certo, come no. Ma sei tu che ti dimentichi che il primo principio del trattato che abbiamo firmato riguardava una netta e indiscutibili scissione in due nazioni autonome, in tutto e per tutto. Da allora ognuno è padrone del proprio destino. Beh, grazie ai poteri che mi sono stati conferiti da Helvetia ho dato subito delle chiare disposizioni per assicurare la sicurezza nazionale”. “Non capisco cosa c’entra tutto questo con la sicurezza nazionale” affermò Emil quasi sottovoce. “Ah Emil, non metterti anche tu a interpretare il ruolo del bambino innocente! Nuova Frontiera è un colabrodo. Anche lo stupido nome che hanno scelto sembra un invito a nozze per ogni sbandato di questo pianeta. Senza esercito si ritroveranno con così tanti clandestini da fare concorrenza persino alla frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico”. Nadia rimase senza parole. Si chiese che tipo di uomo sarebbe divenuto il padre da lì un anno e chi avrebbe mai osato fermarlo. Per niente al mondo si sarebbe abbandonata all’angoscia sotto gli occhi di tutti, eppure trattenne a stento la prima lacrima. “Quando Nuova Frontiera collasserà su se stessa, così come si squaglia un gelato
al sole, dove diavolo credete che andranno a bussare tutti quei disperati? Beh, verranno a bussare alla porta di casa nostra! Non capite che si tratta di una minaccia molto seria per la nostra sicurezza e che dobbiamo tenerci pronti, se vogliamo avere una chance di riuscire a respingerli efficacemente alle frontiere?” concluse Marcel Schmidt, che in quando ad anticipare gli eventi politici si era sempre dimostrato come secondo a nessuno. A Emil ò la sbornia all’istante, come anche la voglia di scherzare che lo aveva accompagnato per tutta la sera. Timidamente abbozzò una replica: “Marcel, lo sai che sono convinto anch’io che il modello di vita che portano avanti i progressisti non è sostenibile ed è destinato al fallimento, ma non ti sembra comunque di esagerare un po’ adesso?” Marcel Schmidt si alzò in piedi e fece qualche o in avanti per strappare un dente di leone dal campo. “No, per niente. Quante volte ve l’ho già spiegato? Lo slogan dei Wicht e di tutti i loro seguaci, che sostengono una società solidale, è artificiale tanto quanto lo sono i pesticidi e non può che portarli rapidamente alla rovina. Tutto questo è contro l’indole dell’uomo. In natura vige la legge del più forte. Certo, ci si allea con i proprio simili per aumentare le proprie chance di successo, ma non di certo perché questo è sociale, o da credito a una buona azione da bravo boyscout”. Marcel si sedette nuovamente a tavola. “Cerco di spiegarvelo con un esempio. Molti anni fa la mia prima moglie, facendo leva sulla mia ione per la caccia, riuscì per la prima e l’ultima volta a portarmi in Africa. Durante una battuta di caccia all’elefante le nostre guide ci proposero di fare una deviazione nei pressi di un fiume. Il nostro viaggio cadeva proprio nel periodo della grande migrazione degli gnu. Una mandria talmente vasta da rendere il paesaggio scuro a perdita d’occhio. A migliaia si avvicinarono tutti all’unico punto adatto all’attraversamento delle acque, senza altre opzioni su una distanza di centinaia di chilometri”. Nadia ricordava di avere visto da bambina molte volte le fotografie di quell’evento naturale e di esserne rimasta affascinata, ma anche inorridita. “I coccodrilli” disse Marcel riprendendo il suo racconto, “abituati al ripetersi di questo avvenimento, sempre in quel punto del fiume, anno dopo anno,
inesorabilmente dai tempi dei tempi, sapevano benissimo di non dovere fare altro che aprire la bocca al momento giusto per potersi assicurare una scorpacciata di carne fresca. Beh, sapete che rispetto porto alla natura, ma nel vederli cadere a decine tra le fauci dei coccodrilli mi chiesi perché nessuno gnu avesse mai pensato a sviluppare delle alternative a quel rituale, in modo da evitare il massacro l’anno seguente. Finché capii che questo avveniva, senza alterazioni da millenni, proprio perché è quello che la natura vuole. E cioè fare una selezione. I forti arrivano sull’altra sponda ed è concesso loro di riprodursi e di godere della vita ancora per un anno. I deboli soccombono e vengono offerti in pasto ai coccodrilli. Questa è la dura è cruda legge della vita. Per l’uomo sostanzialmente valgono esattamente le stesse regole. Bisogna sapere offrire qualcuno ai coccodrilli, oppure saranno i coccodrilli a uscire dal fiume e a stravolgere le regole del gioco. Capite ora?” Nadia poté visualizzare chiaramente quelle immagini nella sua mente, come se fossero delle fotografie sparse sul tavolo. In particolare, ricordò una straziante sequenza di scatti che immortalavano un coccodrillo mentre lentamente portava verso gli abissi un giovane gnu di poche settimane, tirandolo per una delle zampe posteriori. Il giovane animale era quasi arrivato sulla sponda opposta seguendo la scia tracciata della madre, che lo attendeva ora inerte sulla riva. Pochi metri, l’ultimo balzo, e ce l’avrebbe fatta anche lui. Invece no. A un palmo dal successo la morsa mortale si era chiusa attorno alla caviglia di una delle zampe posteriori. La madre rispose al suo pianto sporgendosi in avanti con il muso fino a toccare il naso inumidito del piccolo, come se volesse dargli un bacio d’addio. Nadia ricordò di avere pianto di nascosto davanti a quelle immagini, senza capirne il perché. Gli gnu di ogni età, forza e destrezza che erano sfilati a fianco di quello stesso coccodrillo, un secondo prima, o un istante dopo il are del piccolo sventurato, si erano salvati. Questa sera, da adulta, si chiese se per quel piccolo gnu quella che il padre definiva la legge del più forte, la selezione naturale, non fosse stata in realtà poco più che semplice sfortuna. Stanca di ricordare queste crude immagini andò in cucina ad aiutare la madre nel riassettare la cucina, e si abbandonò ad altri pensieri. Ne sentì il bisogno. Ricordò l’immagine di Jean-Luc Wicht e l’impertinente espressione del suo viso.
Capitolo 11
A poche settimane di distanza ritroviamo Jean-Luc Wicht seduto a un’estremità del tavolo in vetro posto nel soggiorno dell’appartamento dei suoi genitori, con una tazza di tè alla menta quasi vuota tra le mani. Gli occhi del giovane sono fissi sul grande quadro appeso alla parete, velati da quella patina tipica di chi si è perso con lo sguardo e sta navigando con la mente al di là di quello che vede. Difatti, da quel giorno d’inizio febbraio in cui avvennero le trattative con i conservatori, la tela completamente blu, che in precedenza quasi disprezzava, tanto semplice e anonima, aveva assunto nel frattempo una funzione ben precisa. In quelle sfumature tra il blu e il viola, JeanLuc non cercava di vedere il cielo, il mare, del succo d’uva o un cesto di prugne. Quello che si sforzava di ricordare era il colore degli occhi di Nadia. Quel quadro era diventato come una gigantesca lente d’ingrandimento in grado di riportarlo indietro nel tempo e di catapultarlo a pochi centimetri dalla donna che lo aveva magicamente incantato. Da mesi ormai gli capitava sovente di lasciarsi attrarre da quel dipinto e di abbandonarsi inerme davanti a tanto potere ipnotico, senza opporre resistenza. Philippe Wicht, divenuto primo ministro di Nuova Frontiera, negli ultimi tempi era stato assai poco a casa con la famiglia, come anche oggi d’altronde. Preso dalle pratiche di governo e dal suo ruolo di leader della regione progressista, non si era accorto minimamente di questi ricorrenti episodi di riflessione del figlio. La madre invece, che in questo momento stava ritoccando il trucco e l’acconciatura facendo da spola tra il bagno e il soggiorno per seguire a intermittenza il discorso del marito alla televisione, aveva notato in più occasioni l’aria assente del figlio e quelle espressioni di disorientamento che non aveva mai osservato prima di allora in Jean-Luc. Philippe Wicht, attraverso lo schermo piatto del televisore, stava elencando con fierezza le conquiste ottenute da Nuova Frontiera. “Abbiamo creato una società aperta, che attrae genti di ogni origine e cultura. Stiamo lavorando sodo a un programma di risorse che renderà questo paese il
più sociale e solidale al mondo. Abbiamo rinunciato a perdurare su un’economia prigioniera del volere della piazza finanziaria e stiamo dando il via a un solido progetto economico basato su dei nuovi valori di ricchezza”. La signora Wicht commentò ad alta voce il discorso del marito: “Ah, tuo padre deve stare attento a non confondere dei fatti compiuti con della semplice propaganda e tante speculazioni. Mica siamo così sicuri che questo nuovo concetto finanziario stia in piedi. Non trovi?” Jean-Luc non rispose, probabilmente perché nemmeno si accorse di essere stato chiamato in causa. La voce di Philippe riprese a diffondersi attraverso l’appartamento. “Abbiamo rottamato dei concetti antichi come quello del segreto bancario e ci stiamo concentrando su quella che è la vera nuova frontiera delle banche, quella delle banche dati. Grazie alla nostra idea di utilizzare i bunker militari in disuso come luoghi di stoccaggio per i centri di raccolta dei dati e di calcolo, abbiamo attirato rinomate ditte informatiche provenienti da ogni continente ed enti internazionali di ogni sorta. La prospettiva di trasferire i dati, che sono il cuore pulsante dei loro affari e del loro successo, in un paese politicamente stabile e di conservarli al sicuro sotto qualche centinaia di solida roccia alpina, ha suscitato grande interesse tra i manager di mezzo mondo. Nessuno ha messo in dubbio il valore del nostro progetto. Tra pochi anni saremo conosciuti come il paese del formaggio, del cioccolato, degli orologi e delle banche dati”. La signora Wicht, che aveva terminato di prepararsi, si recò in soggiorno portandosi appresso le scarpe col tacco in una mano e la borsetta nell’altra. Abbassò il volume del televisore, riducendo la voce del marito a un sussurro, e andò a sedersi sulla poltrona posta vicino al tavolo, dove il figlio la stava aspettando immobile. Nel frattempo, Philippe Wicht, imperterrito, stava concludendo il suo messaggio alla nazione soffermandosi sull’importanza di avere un paese solido e stabile affinché altre ditte informatiche si decidessero a spostare i loro centri di raccolta dati sul territorio di Nuova Frontiera. In questa fase del loro “progetto” la neonata regione progressista doveva perseverare indisturbata lungo la strada intrapresa, mantenere dei buoni rapporti di vicinato ed evitare di dare inutili scossoni all’indirizzo politico. In particolare, senza dirlo esplicitamente, Philippe fece capire che di elezioni popolari non se ne sarebbe parlato per almeno due anni.
“Jean-Luc questa sera a cena dobbiamo assolutamente fare un discorsetto a tuo padre. Secondo me sta correndo troppo. Non si può mica rivoluzionare un’economia in pochi mesi. Ci vuole più cautela. Condividi le mie preoccupazioni?” Silenzio. “Jean-Luc, ma che ti prende? Solamente qualche mese fa non ti saresti perso nemmeno una sillaba del discorso di tuo padre, per poi rinfacciargli ogni minimo margine di miglioramento. Adesso, nemmeno lo ascolti!” Jean-Luc rinvenne con un sussulto, come se qualcuno avesse staccato improvvisamente la corrente alla macchina del tempo che gli aveva permesso di viaggiare nel ato. In pochi secondi ripercorse i cinque mesi che lo separavano dall’incontro con Nadia Schmidt, ritornando al presente. “Come scusa? Mi hai chiesto qualcosa?” fu la timida replica del giovane progressista. Prima di rispondere la madre lo osservò attentamente, vedendo il figlio presente fisicamente, ma nell’animo distante parecchie miglia, quasi fosse solo un ologramma di se stesso. Aveva sì finalmente attenuto la sua attenzione, ma chiaramente la sua mente continuava a essere occupata in parallelo da altri pensieri. Ma da che cosa? “Jean-Luc che cosa ti prende ultimamente? Sei sempre assorto nei tuoi pensieri e oltretutto sei particolarmente taciturno”. “Oh mamma, non ho niente. Semplicemente anch’io mi sento alquanto stanco dopo aver vissuto un periodo d’intenso stress. Tutta questa storia della scissione è spossante, e purtroppo pure io non ho più vent’anni”. “Ma non dire baggianate” lo riprese la madre. “Un uomo alla tua età è nel pieno delle sue forze mentali e fisiche. Non venire a raccontarmi certe sciocchezze. E poi tu in queste circostanze ci sguazzi. Sei fatto su misura per sdrammatizzare le situazioni di stress, a differenza di tuo padre”. Jean-Luc cominciò a irritarsi. “Beh, se sai già tutto tu, perché diavolo mi vieni a chiedere che cosa mi succede?”
La signora Wicht non si lasciò intimorire dal figlio. “Se non fosse che ti conosco bene, e che lo ritengo praticamente impossibile, sospetterei che tu ti sia innamorato. Ma un Don Giovanni collaudato quale sei tu, che finora mi ha fatto l’onore di portarmi in casa solo quattro ragazze in trent’anni, per di più solo per la prima colazione, e che non ho mai rivisto una seconda volta, dubito che ne sia capace”. Jean-Luc non rispose ed evitò di incrociare lo sguardo della madre. La donna incredula dinnanzi a quella che interpretava essere una tacita confessione, inizialmente sorrise, poi con un riflesso incondizionato si calò pienamente nel ruolo di chiocciola materna e si rivolse al figlio con tono affabile e avvolgente. “Jean-Luc, sai che mi puoi raccontare qualsiasi cosa. Ne vuoi parlare? Hai incontrato una donna speciale?” Il giovane era indeciso sul da farsi. Non dubitava di potersi confidare con la madre e nemmeno del fatto che essa avrebbe mantenuto la massima discrezione. Eppure, come avrebbe potuto aiutarlo? A cosa sarebbe servito raccontarle tutto? Infine si decise a parlare, tanto era forte il bisogno di condividere il suo turbamento. “Beh, francamente è proprio così. Ho conosciuto qualche mese fa una ragazza e da allora non faccio altro che pesare a lei. Purtroppo da quel giorno non l’ho più rivista”. “E chi sarebbe questa fanciulla in grado di trasformare il rospo in principe? O meglio, il polpo del lago Lemano, o non è così che ti chiamano i tuoi amici?” Jean-Luc, esitante, diede una risposta vaga. “È la figlia di un noto politico”. “Ottimo! Questo assicura una continuità nelle tradizioni di famiglia. Allora probabilmente la conosco, o quantomeno conosco i suoi genitori. Non sarà mica la figlia dei Fidelis? Lo sai che non li sopporto”. “Mamma, non credo che la conosci. Anzi, probabilmente non l’hai nemmeno mai incontrata di persona. È Nadia Schmidt, la figlia di Marcel Schmidt. L’ho
conosciuta il giorno delle trattative sull’Alpe dell’Älggi”. La signora Wicht sgranò gli occhi portandosi una mano davanti alla bocca. Jean-Luc conosceva bene quel gesto che la madre sfoggiava spesso in presenza della portinaia spagnola per commentare gestualmente delle indiscrezioni particolarmente scandalose. “Ecco, lo sapevo. Avrei fatto meglio a non raccontarti nulla. Dimentica quello che ti ho detto e non ne parliamo mai più. Intesi?” le chiese il figlio, che si era già alzato in piedi, impaziente di lasciare al più presto l’appartamento. La signora Wicht si riprese rapidamente dallo sgomento e bloccò il figlio trattenendolo per una mano. “Siediti per favore. Scusami, non avrei dovuto reagire così. Certo che Nadia Schmidt è decisamente l’ultimo nome che mi ero immaginata di sentirti pronunciare”. Jean-Luc, incerto, riprese lentamente posto sulla sedia dalla quale si era appena alzato. Il viso della madre si distese assumendo quell’espressione conciliante e armoniosa, davanti alla quale, fin da bambino, Jean-Luc si era abituato a raccontare ogni cosa. “Beh, quantomeno adesso raccontami quello che è successo. Cerca di descrivere questa ragazza” gli disse sua madre. “Nadia è molto bella. Una donna affascinante. E mi è piaciuto molto parlarle, anche se credo di esserle apparso particolarmente impacciato”. La madre lo ascoltò in silenzio, senza interromperlo o fare inutili commenti. Jean-Luc allora aggiunse: “Mi sono subito reso conto di esserne fortemente attratto. Nei giorni che seguirono quell’incontro non ho fatto altro che ripensare a lei e al perché di tanto interesse. Insomma, ho cercato invano di riflettere in modo più razionale, e capire se per caso non stavo esagerando. Infondo, la conosco appena”. La signora Wicht arricciò il naso, temendo che il figlio scadesse nuovamente in quel ruolo collaudato di rubacuori che tanto poco le piaceva. Fortunatamente, si
trattenne dall’intervenire. “Il fatto è che con il are del tempo” riprese Jean-Luc, “invece che dimenticarla, ho iniziato a pensare a lei sempre più spesso. Nadia è divenuta per me quasi come un’ossessione. Una cosa del genere non mi era mai accaduta”. “A parte quando, a sedici anni, ti eri messo in testa di comprare un puledro che avevamo visto a una fiera nel Giura. Per un anno intero non hai mollato la presa. Finché non lo abbiamo acquistato per una cifra da capogiro e affittato tanto di stalla e stalliere fuori città” commentò la signora Wicht. “Cosa c’entra questo adesso?” le chiese il figlio. “Niente, a parte il fatto che dopo solo due anni, quando la ione per le cavalcate si era ridotta a una noiosa e ingombrante routine, lo abbiamo dovuto rivendere. Ricordi?” Jean-Luc ripensò con aria colpevole a Caffè Nero, il suo cavallo. L’animale gli si era visibilmente affezionato, e lui lo aveva scaricato perché stufo di doversi recare in stalla ogni giorno per farlo muovere. “Jean-Luc, lasciamo perdere questo episodio. Non è mia intenzione confonderti le idee. Ora hai trent’anni e non posso che essere felice nel sentirti dire che sei in grado di interessarti alle donne in modo diverso dal ato. Eppure, mi viene comunque spontaneo chiederti se non pensi che tanto interesse non possa andare a esaurirsi rapidamente, come un fuoco di paglia. Come d’altronde è successo con molte altre ragazze, prima di questa”. Jean-Luc assunse un’espressione risoluta che sorprese la madre. “Il problema è proprio questo. Il dramma è che rischio di non poter dare risposta a questa domanda. Con la scissione le probabilità di rivederla sono divenute quasi nulle. Inoltre, sappiamo benissimo che Marcel Schmidt ci detesta e farebbe carte false per tenermi a distanza da sua figlia, anche e soprattutto nel caso in cui a Nadia non dispie l’idea di rivedermi”. Poi, fissando il quadro blu, Jean-Luc aggiunse: “Il fatto di non sapere se è capitato anche a lei di pensare a me durante questi mesi, mi tormenta”. La madre di Jean-Luc rispose lentamente, come se stesse citando delle parole
udite pronunciare da altri anni addietro. “Anche se oggi ti sembra quasi impossibile di poterla rivedere, ti ricordo che c’è sempre una soluzione. Sono sicura che troverai il modo di crearti un’occasione per parlarle ancora, oppure, se così vuole il destino, tale occasione ti si creerà da sola”. Jean-Luc guardò la madre con aria interrogativa. “Grazie tante per il consiglio, eppure suona alquanto ambiguo. Mi stai spronando a prendere l’iniziativa o ad attendere gli eventi? Credo di non aver capito bene”. La signora Wicht si alzò i piedi sorridendo e rispose: “Ah, questo lo devi sapere tu. Non sono mica la fata turchina. Adesso andiamo a cena che mi è venuta una gran fame”. La donna si infilò le scarpe e si diresse verso la porta, lasciando il figlio esterrefatto alle sue spalle. “Mah, si vede che non me ne intendo di fatti di cuore. Questa proprio non l’ho capita” pensò il giovane politico mentre si alzava per incamminarsi a sua volta verso l’uscita. Quello che Jean-Luc non sapeva era che la madre, colta di sorpresa dalle confidenze del figlio, si era trovata completamente impreparata a rispondere a tali quesiti, e stava solo cercando di guadagnare tempo per rifletterci a dovere. Durante il tragitto in macchina, che li avrebbe condotti alla sede della televisione, Jean-Luc e la madre rimasero in silenzio, entrambi intrappolati nella ragnatela dei loro pensieri. L’autista, taciturno di natura, si limitò a chiedere ai due eggeri di confermare la destinazione della corsa e accese immediatamente la radio, in modo da spazzare ogni dubbio sulla sua avversione per ogni forma di small talk. La radio stava diffondendo la parte finale del discorso alla nazione di Philippe Wicht, quella dedicata alle domande dei giornalisti. La signora Wicht pensò che quel che stava accadendo al figlio era da ritenersi alquanto delicato. Si disse che un uomo che non si è mai esposto in trent’anni alle pene d’amore, sicuramente non dispone degli anticorpi necessari ad
affrontare un’eventuale rifiuto. Temeva che se Jean-Luc si fosse lanciato a cuore aperto alla ricerca di questa ragazza, e se le cose fossero volte al peggio, molto probabilmente si sarebbe scottato irrimediabilmente. In questo caso, il figlio si sarebbe chiuso a riccio, cristallizzandosi in un’irrecuperabile sciupa donne. La madre, che ci teneva a mantenere viva qualche remota chance di abbracciare un giorno dei nipotini, proprio non riusciva a farsene una ragione. Voleva aiutarlo, ma si ritrovò alquanto incerta sul da farsi. “…I rapporti di vicinato con i paesi che ci attorniano sono assolutamente ottimi. Certo, la rinuncia al segreto bancario ha contribuito in modo decisivo a creare le premesse giuste, ma francamente credo che più in generale sia l’indirizzo sociale dato a Nuova Frontiera ad aver trovato molti sostenitori all’estero”. La voce di Philippe alla radio suonava di una o due tonalità più basse che in realtà, attribuendogli un tono più autoritario. “Altre domande? Sì prego, la signorina seduta laggiù nell’angolo”. “Buonasera signor Primo Ministro, sono Miriam Biaschina, della Gazzetta del Mattino. Alcune non precisate voci di corridoio affermano che gli abitanti della regione dell’Emmental hanno preso contatto, in modo informale, con la regione conservatrice per sondare la possibilità di abbandonare Nuova Frontiera e are sotto il tetto di Helvetia. Ci può dire qualcosa a questo riguardo?” La risposta di Philippe Wicht si fece attenere qualche istante, lasciando intuire chiaramente, persino attraverso la radio, che la domanda gli era piaciuta poco. “Sì, più precisamente la regione dell’Emmental ha usato i social network per dare il via a un gemellaggio con alcuni comuni dell’Appenzello, che come ben sapete si trovano sul territorio di Helvetia. Comunque, per il momento, al nostro governo non è ancora pervenuta nessuna richiesta ufficiale di alcun tipo, né da parte dei nostri concittadini dell’Emmental, né da parte di Helvetia”. “Capisco” commentò la giornalista per poi aggiungere con tono arrogante, “eppure non è difficile immaginare che ben presto si cominci a parlare concretamente dell’eventualità di vedere nascere un’enclave di Helvetia nel bel mezzo del nostro territorio. Signor Primo Ministro, la sicurezza della nostra nuova nazione forse non la preoccupa?” Questa volta la replica di Philippe non si fece attendere, e fu di carattere impulsivo: “Ma cosa ne sa lei di cosa mi preoccupa e cosa no? Cosa crede che
me ne importi di un paio di colline e una manciata di fattorie? Senza offese, ma abbiamo ben altre cose di cui preoccuparci in governo”. “Non lo metto in dubbio” lo riprese la giornalista, “ma si dice anche che gli abitanti dell’Emmental sono stati avvicinati di persona da degli agenti segreti di Helvetia, infiltrati sul nostro territorio. Gli accordi di scissione esplicitamente escludevano l’uso di agenti segreti, e saperli ora a piede libero a sguazzare indisturbati attraverso Nuova Frontiera, con il chiaro intento di creare lo scompiglio, mi sembra proprio un colpo basso. Non le pare che questo rappresenti un affronto personale di Marcel Schmidt a lei e indirettamente a tutto il nostro paese? Ha intenzione di protestare ufficialmente?” “Ah, voi di Gazzetta del Mattino siete sempre molto lucidi e attenti a descrivere la minima indiscrezione e a mischiarla con la realtà in modo molto sottile. Mi auguro che lei possa capire che in governo non possiamo permetterci di confondere le carte in tavola, così come usate fare voi. Innanzitutto, staremo a vedere se quelle che lei chiama non precisate voci di corridoio sbocceranno in fatti concreti”. La giornalista avrebbe voluto avere l’ultima parola, aggiungendo un ennesimo commento, ma l’addetto stampa del governo intervenne tempestivo, annunciando che il tempo per le domande era terminato e congedò tutti senza troppi convenevoli. Con tempismo perfetto l’autista spense la radio e accostò la vettura davanti all’entrata di quella che fino a pochi mesi orsono era stata la sede della radiotelevisione romanda, e che ora era divenuta il quartier generale della rete pubblica nazionale. Dopo pochi minuti, madre e figlio videro attraverso le grandi vetrate poste al piano terra Philippe Wicht uscire dall’ascensore insieme al suo staff. Philippe strinse mani a destra e a manca e diede le ultime indicazioni della giornata ai suoi collaborati, per poi abbandonare l’immobile e andare a sedersi di fianco alla moglie nella vettura in attesa. “Non potete nemmeno immaginare quanto sia lieto di farmi rapire da voi per andare a cena, senza dover portarmi dietro tutto il circo di consiglieri e faccendieri con le loro liste interminabili d’incombenze” disse Philippe non appena la macchina si mise in moto.
“Hai avuto una giornata pesante?” chiese la moglie. “Non mi sono fermato nemmeno un minuto. Avete seguito la conferenza stampa?” chiese Philippe. “Sì, anche se l’ultima parte unicamente alla radio, mentre venivamo a prenderti” rispose la signora Wicht, prima di aggiungere: “Senti, ma questa storia dell’Emmental non sarà mica vera, no?” “Mah, le informazioni di cui disponiamo sono poche e assai frammentate. Comunque, devo ammettere che c’è una buona parte di vero. Francamente, che facciano come gli pare. Se proprio vogliono cambiare bandiera, beh, allora non sarò certo io a impedirglielo”. “Ma come? E la casa di vacanza di mia sorella? Te ne sei scordato?” gli chiese la moglie sinceramente preoccupata. “Ah, per favore, non ti ci mettere anche tu adesso. Mi è bastata quella befana della Gazzetta del Mattino. Quei giornalisti sono degli autentici talenti nel mettere zizzania pur di vendere il loro ridicolo pezzo di carta. Hai sentito con che tono cercava di mettermi in ridicolo?” La moglie non rispose, consapevole che ormai i rapporti già delicati con la sorella sarebbero peggiorati drasticamente. L’egocentrica sorella avrebbe sostenuto di fronte a tutta la famiglia che Philippe stava svendendo l’Emmental a Helvetia di proposito, unicamente per farle un dispetto. Se solamente il marito avesse avuto la delicatezza di evitare di annunciare implicitamente ai quattro venti che non gliene importava un fico secco della sua bella casa di vacanza…. “Però la faccenda degli agenti di intelligence di Helvetia sul nostro territorio mi sembra comunque degna di nota” commentò Jean-Luc voltandosi per vedere meglio l’espressione del padre. “È successo veramente?” “Sì, purtroppo. Sembra che su questa parte della storia non ci siano dubbi” rispose Philippe sbadigliando. “Quello che non capisco è come avete fatto a venirne a conoscenza. Voglio dire, noi abbiamo rinunciato all’intelligence, o sbaglio? Come avete fatto a beccarli senza disporre a vostra volta di osservatori in incognito?” chiese Jean-Luc.
“Francamente, lo abbiamo scoperto in modo piuttosto fortuito. Uno dei contadini a capo del movimento secessionista si è pentito ed è venuto spontaneamente a spifferarci tutto”. “Pentito? E di che cosa?” chiese il figlio perplesso. “Beh, lo hanno informato che Helvetia sta portando avanti un politica di sussistenza alimentare che molto probabilmente avrà delle ripercussioni anche sull’esportazioni. Insomma, ha temuto che con il cambio di bandiera avrebbe visto crollare la produzione del suo formaggio, finendo per venderne all’estero unicamente i buchi”. Jean-Luc sorrise all’immagine del contadino che in un bagno di sudore si recava in commissariato per denunciare il complotto. “Ah, quel maledetto Marcel Schmidt! E io che sognavo di essermelo tolto di torno per sempre! Spero proprio che s’ingozzi fino a soffocare, quel ciccione” aggiunse Philippe, che si stava lentamente rendendo conto di come questa vicenda avrebbe potuto sviluppare un impatto politico da non sottovalutare. “E adesso cosa farai?” gli chiese Jean-Luc. “Beh, per il momento niente. Insomma, non metteremo certo in piedi un servizio d’intelligence solo per dare la caccia agli agenti di Helvetia. Sarebbe una cosa totalmente spropositata”. Philippe fece una breve pausa per bere dalla bottiglietta d’acqua che si era portato appreso, poi aggiunse: “Vedrete che presto si stancheranno di venirci a spiare. Non abbiamo niente da nascondere e con il tempo se ne renderanno conto anche loro”. Il traffico quella sera era sorprendentemente fluido. Un’assoluta eccezione per Ginevra, a quell’ora. La famiglia Wicht era diretta verso un rinomato e costoso ristorante posto sulle rive del lago Lemano, conosciuto per le sue specialità a base di pesce. Philippe, che negli ultimi mesi aveva potuto dedicare sempre meno tempo al figlio e soprattutto alla moglie, cercava assiduamente di rispettare puntualmente quest’appuntamento settimanale, in cui i tre uscivano insieme a cena. Finora si era visto costretto ad annullare la cena una sola volta, in occasione della visita congiunta della signora Cancelliere tedesca e del Premier se.
Nel momento in cui cominciarono a sentire le sirene della polizia in lontananza la loro vettura si trovava a non più di due chilometri dal ristorante, che in condizioni normali avrebbero raggiunto dopo pochi minuti. Inizialmente i Wicht non ci prestarono particolare attenzione, ma poi, dato il crescente frastuono provocato da quella mandria imbizzarrita di veicoli della polizia lanciati a tutta velocità, si resero rapidamente conto che il numero di vetture che si stava dirigendo verso quella parte della città doveva essere molto numeroso. I Wicht si girarono tutti a osservare la strada attraverso il parabrezza posteriore, guardando in direzione dei lampeggianti blu che comparivano a intermittenza con lo sfrecciare delle vetture tra un palazzo e l’altro. Come se fossero un gruppo compatto di tori scatenati, liberati di proposito per le strade di Pamplona, le vetture della polizia comparvero improvvisamente all’imbocco della strada, immettendovisi in un stridere di pneumatici e motori spinti al massimo delle loro capacità. Come si conviene dinanzi a un toro imbestialito che si avvicina rapidamente, gli altri utenti della strada si spostarono alla ben che meglio sui lati della carreggiata, alcuni andando a finire sul marciapiede o sull’erba degli spartitraffico. Il loro autista invece, forse un po` sopraffatto dalla situazione, decise di bloccare la vettura nel bel mezzo della strada e spense pure il motore. Si voltarono tutti nuovamente in direzione del senso di marcia, convinti che quel piccolo tornado sarebbe sfilato su entrambi i lati, per poi dissolversi alla stessa velocità con la quale era comparso. Con loro grande sorpresa le prime due vetture bloccarono di colpo i freni in prossimità della loro limousine, lasciando vistosi sfregi sull’asfalto. Con una sterzata all’ultimo minuto le due automobili della polizia si chio sui due lati a tenaglia davanti agli occhi increduli del loro autista. Philippe contò dieci vetture che li circondavano su tutti i lati. La signora Wicht, visibilmente impaurita, strinse forte la mano del marito e si spostò verso il centro della vettura. Jean-Luc non poté evitare di ricordare quel film italiano degli anni novanta sulla mafia, che aveva rivisto recentemente. In quel lungometraggio, un politico di spicco, la sua famiglia e tutti i membri della scorta erano stati freddati con dei precisi colpi di pistola alla fronte dopo essere stati intercettati e bloccati sulla strada da dei sicari che avevano camuffato le loro vetture con i simboli e i colori del corpo dei carabinieri, indossandone anche le divise ufficiali.
Dalle vetture sui lati scesero alcuni agenti, tutti con il fucile mitragliatore a tracolla e il giubbotto anti-proiettili. Philippe si disse che non c’erano dubbi. Doveva essere successo qualcosa di estremamente grave. Da una delle due vetture che guidavano il gruppo, e che avevano sbarrato loro la strada, scese Fabien Dubois, il comandante della polizia di Nuova Frontiera. Il comandante Dubois, promosso con la scissione da capo della polizia del cantone di Ginevra alla massima carica possibile, per quanto concerneva la sicurezza e l’ordine di Nuova Frontiera, aveva compiuto da poco i sessant’anni e portava ormai da anni dei baffoni folti con le punte leggermente arrotondate verso l’alto. Fisicamente non era certo un adone. A coloro cui piace etichettare le persone a vista d’occhio, sarebbe apparso naturale aggiudicare Dubois ai conservatori, invece che vederlo agire in primo piano in Nuova Frontiera. In effetti, Fabien Dubois fin da ragazzo non aveva mai nascosto una certa antipatia e intolleranza per tutto quello che proveniva da “fuori”, di provenienza non strettamente rossocrociata. In particolar modo, ai tempi in cui era stato a capo della polizia di frontiera del cantone, a inizio degli negli anni ottanta, aveva lanciato una populistica campagna di dissuasione nei confronti dei frontalieri si che giornalmente si recano a Ginevra per lavoro. L’azione di Dubois era improntata ad allungare a dismisura i tempi di attraversamento della dogana, provocando delle code d’attesa interminabili. L’operato di Dubois prese delle connotazioni comiche a causa di un frontaliere, ben noto a tutte le guardie di frontiera, che a ragione del tipo di attività commerciale che svolgeva, era costretto ad attraversare la frontiera in più occasioni durante il giorno. I prodotti alimentari freschi, che consegnava a privati o ristornati di Ginevra, erano delle vere e proprie leccornie e l’intraprendente esercente non mancava di regalare ogni tanto qualche pasticcino alle guardie di frontiera. Esasperato dai nuovi controlli imposti da Dubois, il pasticcere chiese se non era possibile che gli si domandassero le generalità non più di una volta al giorno, invece delle puntuali otto o perfino dieci volte in cui questo accadeva. Le guardie di confine lo sostennero con una petizione a Dubois, che però la ignorò e richiese invece di essere chiamato di persona per compiere i controlli a ogni aggio del commerciante. Da quel momento i due si incontrarono inesorabilmente una decina di volte al giorno, seguendo un copione pressoché identico. “Nome, cognome e documenti, prego”. Di solito, al primo aggio della mattina, il pasticcere aveva fretta e rispondeva senza polemizzare.
“Paul Dupont. Dubois stai attento a non fare cadere il aporto per terra come è successo ieri”. “Professione?” “Pasticciere”. Poi seguivano delle domande sulle motivazioni che lo portavano in Svizzera e un controllo della merce. All’incirca un giorno su due Dupont perdeva le staffe, e questo avveniva sovente verso le due o le tre del pomeriggio, al sesto o settimo aggio della dogana. Le reclute facevano a volte persino delle scommesse sulla tempistica delle sfuriate di Dupont. “Nome, cognome e documenti, prego”. “Sono Biancaneve e vorrei sdoganare i sette nani che tengo nel bagagliaio. Imbecille d’un Dubois, almeno la domanda sul nome me la potresti risparmiare di tanto in tanto!” “Professione?” chiedeva allora Dubois imperterrito. “Sono un seguace del Dio Pendolo e per epurare i miei peccati devo andare a Ginevra dieci volte al giorno per baciare il sedere di tua nonna, Dubois!” E via dicendo. Questa tiritera andò avanti per un anno intero e portò persino agli arresti di Dubois in due occasioni, per oltraggio a pubblico ufficiale. Si dice che nella sera del veglione di Capodanno, rientrando dall’ultima consegna, dal finestrino della vettura invece che la faccia di Dupont comparve il suo didietro con incisa sopra la scritta Buon anno Dubois. In realtà, il comandante Dubois era un bonaccione. Era sicuramente poco dotato di flessibilità mentale, in particolare nei confronti dell’applicazione delle regole, ma in sostanza non avrebbe fatto male a una mosca. Non parlando una parola di tedesco e fiero delle terre in cui era nato e cresciuto, Dubois non aveva mai realmente preso in considerazione l’opzione di trasferirsi nella regione dei conservatori.
Dubois non si era mai sposato e l’unica donna che gli permetteva di tanto in tanto di sentirsi un uomo era un’ungherese di mezza età che prima di divenire la cameriera del caffè posto di fronte alla centrale di polizia aveva svolto una professione ben diversa. Si raccontava inoltre che il comandante Dubois avesse qualche scheletro nell’armadio. Le malelingue affermavano come Dubois, tanti anni prima, in occasione di una retata in un bordello in periferia ci mise ore prima di ricomparire in centrale, quando in realtà tutti i controlli e gli arresti erano stati terminati in pochi minuti. Insomma, il comandante Dubois negli anni aveva mantenuto la facciata di ufficiale tutto d’un pezzo, ma nel suo intimo aveva sviluppato un minimo di flessibilità e tolleranza per i fatti imprevedibili della vita. Dubois chiese a Jean-Luc di andare a sedersi con i genitori sui sedili posteriori, mentre lui prese posto di fianco all’autista. Il comandante era visibilmente sconvolto e si espresse balbettando. “Signor Primo Ministro, questo pomeriggio ho ricevuto una chiamata molto allarmante. Molto allarmante. È avvenuto un fatto senza precedenti. Anzi, due fatti senza precedenti. La devo pregare di seguirmi immediatamente in centrale. Subito. Insomma, adesso”. Philippe si disse che non sarebbe stata la prima volta in cui Dubois esagerava nel valutare la gravità della situazione ed ebbe così una reazione misurata. “Dubois dopo aver spaventato la mia famiglia, mi auguro fortemente che la gravità della situazione giustifichi questo circo. Ma lei non conosce i telefoni? Perché non mi ha chiamato sul mio telefonino invece che darmi la caccia come se fossi un criminale?” Dubois guardò nel vuoto senza rispondere subito. Il telefono, chissà perché non ci aveva pensato. “Mi creda signor Primo Ministro, la situazione è veramente grave”. “D’accordo Dubois” rispose Philippe, “portiamo mia moglie e mio figlio a casa e poi verrò subito in centrale con lei”. “Scordatelo” risposero quasi in coro Jean-Luc e la madre. Poi fu la signora Wicht ad aggiungere: “Prima ci fate venire il batticuore e poi volete mandarci a casa senza nemmeno dirci quello che sta accadendo. Nemmeno per sogno.
Veniamo anche noi”. “Cara, cerca di capire. Si tratta sicuramente d’informazioni riservate. O sbaglio, Dubois?” chiese Philippe al comandante lanciandogli un’occhiata decisa, che chiariva molto bene le sue attese. Dubois rispose senza esitare: “Francamente, buona parte della notizia è già ata pochi minuti fa in televisione. Ormai, lo sanno già quasi tutti”. Philippe si chiese come aveva fatto a mettere a capo della polizia questo tizio, che non sarebbe stato capace di leggere tra le righe di un commento nemmeno se costretto a farlo sotto tortura. “Sì, ma potrebbe durare ore e poi…” cercò di replicare Philippe, ma venne subito interrotto dalla signora Wicht. “Philippe, non discutere. Veniamo anche noi in centrale. Punto e basta. Comandante Dubois, andiamo”. Philippe sapeva riconoscere le occasioni in cui la moglie non avrebbe cambiato opinione per niente al mondo, e così si arrese. L’autista mise in moto la vettura e si diresse verso la centrale della polizia. Seguirono alcuni minuti di silenzio. Philippe irritato dal fatto di aver perso la una preziosa serata di svago e per aver subito nuovamente il volere della moglie, non disse niente per riattivare la conversazione. “Allora comandante Dubois, le piace tenerci sulle spine?” chiese la signora Wicht. “Non mi permetterei mai signora Wicht” ripose Dubois senza aggiungere altro. Silenzio. Solo allora Philippe perse le staffe e si rivolse al comandante in tono ironico e offensivo. “Dubois, devo farle un disegno o ci arriva da solo?”
“Un disegno? E a quale scopo signor Primo Ministro?” chiese Dubois onestamente perplesso. Jean-Luc estenuato dalla piega che stava prendendo la conversazione intervenne e si rivolse a Dubois con la sola formula comunicativa che funzionava con il comandante. Ordini chiari, precisi e niente sottointesi. “Dubois, ci vuole dire quello che è successo? Per diamine!” “Certo. Sono venuto a cercarvi apposta”. Il viso del comandante s’illuminò, come in tutte le occasioni in cui credeva di aver risolto un enigma particolarmente complicato. Capì finalmente che stavano tutti solo aspettando di venire a conoscenza di quel che era accaduto. “Questo pomeriggio, verso le cinque, il centralino mi ha ato la chiamata di uno sconosciuto che si è presentato come un rappresentante dei fratelli combattenti. All’inizio ho pensato che si trattasse di uno scherzo. Poi invece, questo tizio mi ha detto che un commando ai sui ordini aveva fatto irruzione nella sede dell’ufficio postale di Grand-Lancy, prendendo otto persone in ostaggio, tre dipendenti e cinque sventurati che si trovavano in quel momento agli sportelli”. “Immagino che avrà fatto controllare l’informazione” disse Philippe, divenuto improvvisamente serio. “Sì, ho mandato una pattuglia a controllare ed è stato tutto confermato. Pare che ci sia addirittura un ferito. Hanno sparato alla gamba di uno dei dipendenti che aveva cercato di barricare l’accesso al retro degli sportelli”. “Accidenti! E cosa vogliono?” chiese Philippe. “Purtroppo, non è tutto. Prima di venire alle richieste devo informarla che quel commando non è l’unico pericolo che incombe sulla città. Anzi”. “Dubois, mi vuol far credere che c’è di peggio?” chiese Philippe Wicht preoccupato. “Beh, sì. Una decina di minuti dopo la prima telefonata, lo stesso tizio ha chiamato nuovamente. Di questa seconda chiamata mi sono portato una registrazione”.
Il comandante Dubois infilò un CD nel lettore al centro del cruscotto e la registrazione iniziò automaticamente. “Dubois”. “Comandante Dubois, immagino che abbia saputo sfruttare gli ultimi dieci minuti per verificare che non si tratta di un bluff”. “Con chi parlo?” fu la risposta di Dubois. “Come, con chi parlo? Idiota! Sono quello che ha chiamato prima, il rappresentante dei fratelli combattenti”. “Mi scusi, volevo solo assicurarmi che fosse proprio lei”. Jean-Luc guardò il padre che era appena sbiancato, alzando gli occhi al cielo, o meglio, verso il tetto della vettura. “Abbiamo piazzato una grossa bomba in un centro pubblico ad alta affluenza della città e non esiteremo a farla saltare entro quarantotto ore se le nostre richieste non verranno soddisfatte”. Alla signora Wicht scappò un commento, che represse parzialmente con una mano posta davanti alla bocca: “Oh Signore!” Silenzio. “Ma con che razza di poliziotto ho a che fare?” sbraitò la voce del terrorista, “non mi chiede nemmeno quali sono le nostre richieste?” “La prego di procedere con la descrizione delle richieste. Prenderò atto delle sue affermazioni e per correttezza di protocollo la devo informare che questa conversazione è registrata”. Dubois diede un sorriso ebete a Philippe e aggiunse che adesso veniva il pezzo forte. Philippe avrebbe voluto strangolarlo con le sue stesse mani. “Meno male! Cominciavo a temere di essere incappato in un mentecatto capace
solo di farmi perdere tempo prezioso. Molto bene, allora riporti immediatamente a Philippe Wicht le seguenti richieste”. Si udì un lieve vociferare e il rumore di una busta che veniva aperta con un tagliacarte. “In nome della libertà di culto, tanto preziosa alla costituzione di Nuova Frontiera, noi fratelli combattenti chiediamo che:
Primo, a nessuna donna di confessione mussulmana sia concesso di insegnare in un’università o in qualsiasi scuola di tipo superiore. Secondo, a nessuna donna di confessione mussulmana sia concesso di fare politica. Terzo, a nessuna donna di confessione mussulmana sia concesso di partecipare a degli eventi pubblici senza la presenza del marito o del padre. Quarto, a nessuna donna di confessione mussulmana sia concesso di guidare un veicolo.
Se le nostre richieste non verranno accolte e trasformate in legge da una seduta straordinaria del parlamento entro quarantott’ore, ci sarà un bagno di sangue. Chiaro?” Si udì Dubois che si schiariva la voce e poi chiese: “Signor rappresentante dei fratelli combattenti, avrei una domanda volta a chiarire i termini della terza richiesta”. “E cosa cavolo ci sarebbe da chiarire?” chiese l’uomo bruscamente. “Cosa succede se il padre e il marito sono deceduti? Viene a cadere la regola o vengono sostituiti da un fratello o da un figlio?” chiese Dubois. “Figlio? Sentimi bene, se pensi di potermi prendere in giro, sappi che ti sbagli di grosso. Un’altra domanda come questa e faccio mozzare la testa a uno degli
ostaggi”. La signora Wicht strinse così forte la mano del marito da bloccargli per qualche secondo la circolazione. “Bene, vedo che non ci sono ulteriori domande. Ci faremo risentire noi. Il tempo scorre. Muovetevi” concluse il terrorista interrompendo la conversazione. Sulla vettura, nessuno osò dire niente per un minuto intero. Fu Dubois il primo a cedere al peso del silenzio, affermando che in realtà avrebbe voluto chiarire se la quarta richiesta riguardava unicamente i veicoli a motore, ma aveva deciso di non porre la domanda per evitare di irritare il terrorista. “Bravo Dubois, una scelta saggia” commentò sarcasticamente Philippe. “Papà, tutto questo è inaccettabile, lo sai. Purtroppo credo che ci troviamo in un vicolo cieco” disse Jean-Luc. “Sì lo so, Jean-Luc” rispose Philippe, che aveva riguadagnato un minimo di colore in viso, prima di aggiungere: “Stavo pensando che eventualmente potremmo cedere alla quarta richiesta, ma per quanto riguarda le altre…” La signora Wicht diede una tale occhiataccia al marito da strappargli il fiato, ottenendo lo stesso effetto di un ceffone improvviso. La madre di Jean-Luc si rivolse al comandante Dubois: “Comandante, in genere temo un intervento armato più di ogni altra cosa, ma in questo caso non crede che sarebbe quantomeno da valutare?” Dubois rispose subito, lasciando intuire un certo disagio: “Beh, in effetti, secondo il protocollo 31 2011 dovremmo sondare l’opzione di un intervento delle forze speciali. Il fatto è che le forze speciali non le abbiamo più. Il commando di pronto intervento per gli scenari di terrorismo, insieme a tutto l’apparato dei servizi d’informazione, è ato sotto il controllo di Helvetia con la scissione”. “Questo lo so, ma immagino che tra tutti gli effettivi ci saranno almeno una decina di poliziotti qualificati a rilevare l’incarico, no?” lo incalzò la signora
Wicht. “Purtroppo si tratta di operazioni molto delicate, che richiedono una preparazione specifica. Mi creda signora, andrebbe probabilmente a finire molto male. Lo sconsiglio fortemente”. Philippe annuì a quella che ritenne essere la prima cosa sensata espressa quest’oggi dal suo comandante della polizia. Dubois aggiunse lentamente, come se stesse riflettendo ad alta voce: “Se solo potessimo usufruire del commando d’élite della polizia di Zurigo o dell’esercito di Helvetia, forse riusciremmo a intervenire in tempo”. “Grazie Dubois, per la sua valutazione tecnica. Peccato che tutto questo non sia possibile. Mi sembra quindi assolutamente inutile discuterne ulteriormente” commentò Philippe categorico. “Sì, ma allora cosa farai? Non puoi mica stare a guardare senza intervenire, no?” chiese il figlio. “Si tratta di una questione troppo delicata. Devo riunire il consiglio dei ministri, preparare la lista delle opzioni e sottometterle a votazione”. “Riunione? Opzioni? Voto? Ma papà quegli svitati ti hanno dato quarantott’ore! Non hai il tempo materiale per mettere d’accordo tutti!” rispose Jean-Luc seriamente preoccupato. Jean-Luc temeva che in quest’occasione al padre mancasse la forza di carattere necessaria a prendere da solo delle decisioni in modo tempestivo. “No, Jean-Luc non posso prendermi carico della sorte di tanta gente da solo. Dio solo sa quante vittime potrebbe provocare l’esplosione di un tale ordigno in un luogo ben frequentato”. Philippe era un uomo dalla morale di ferro, che avrebbe dato la vita per salvare quella dei suoi concittadini. Ma se c’era una cosa che temeva fortemente da sempre, era la prospettiva di are alla storia per un grave errore. Il solo pensiero di poter compiere un fatale o falso, e di esporsi così alle critiche della comunità politica per l’eternità, gli bloccava la circolazione impedendogli di riconoscere che in quest’occasione non poteva scaricare il fardello al consiglio dei ministri.
La signora Wicht, che conoscendolo per bene, riconobbe subito lo stato di stallo psicofisico del marito, si espresse in tono pacato, lentamente. “Philippe, Jean-Luc ha ragione. Devi intraprendere immediatamente qualcosa. In seguito informerai il consiglio dei ministri sulla situazione e darai loro la possibilità di valutare insieme eventuali ulteriori provvedimenti. Purtroppo non puoi permetterti di aspettare per delle ore senza fare le prime mosse”. Philippe sapeva molto bene che la moglie e il figlio avevano ragione, ma immobilizzato dall’angoscia di fallire non riusciva a ragionare in modo lucido. Non gli veniva in mente nessuna misura concreta d’intervento che avesse un minimo di utilità. La signora Wicht diede un’occhiata supplichevole al figlio, che colse immediatamente l’invito. “Insomma abbiamo solo quarantotto ore e tra le nostre fila non possiamo contare su nessun esperto antiterrorismo. Inoltre non abbiamo dei servizi in grado di darci delle informazioni utili su questi fratelli combattenti. A mio avviso non abbiamo alterativa a quella di chiedere immediatamente aiuto internazionale”. “Signor Jean-Luc, mi permetto di farle notare che l’aiuto internazionale di gran lunga più efficace di tutti sarebbe quello che ci potrebbe fornire Helvetia. Le loro forze speciali conoscono bene il nostro territorio. Fino a pochi mesi fa si esercitavano sovente anche qui a Ginevra” disse Dubois. “Marcel Schmidt non ha nessun interesse ad aiutarci. Non lo farà mai. Scordatevi quest’ opzione una volta per tutte”. Per Philippe l’argomento era da considerarsi chiuso. Avrebbe accettato tutto, tranne che dover chiedere aiuto al suo rivale storico. La signora Wicht fece are in rassegna mille pensieri in pochi secondi. Si rese conto che Dubois aveva certamente ragione e simultaneamente ricordò anche le confidenze che il figlio le aveva fatto poche ore prima. Convinta di aver trovato la quadratura del cerchio si espresse con un tono da sergente maggiore. “Philippe, ascoltami bene e fai quello che ti dico. Dobbiamo contattare Helvetia e richiedere il loro intervento. Infondo, che cosa rischiamo a provarci? Forse dovrai scalfire un pochettino il tuo orgoglio, ma qui si tratta di vita o di morte. Se ci dicono di no, non eremo la vita a rimpiangere di non avere fatto
nemmeno un tentativo”. Si espresse fissando il figlio invece che il marito, e così Jean-Luc si chiese se per caso non c’erano dei doppi sensi da cogliere nelle parole della madre. Concordarono che per prima cosa avrebbero preso contatto con il mediatore, Samuel, affinché questi organizzasse al più presto un incontro tra le due parti. Essendo fin troppo evidente che Marcel Schmidt e Philippe non sarebbero stati capaci di accordarsi sulle modalità di un intervento, la signora Wicht affermò che andavano individuati degli altri rappresentanti per poter dare a un tale incontro almeno una minima chance di riuscita. Concluse che per poter accelerare i tempi l’unica opzione era quella di fare incontrare Jean-Luc e Nadia Schmidt. Quantomeno i due si erano già conosciuti sull’Alpe di Älggi e non sarebbe stato necessario perdere altro tempo prezioso per are le informazioni e le richieste a un rappresentante diverso di Nuova Frontiera. Nel frattempo Philippe avrebbe preso contatto con il Premier se, per sondare la possibilità di un loro intervento armato, mentre Dubois si sarebbe occupato di mantenere vivo il dialogo con i terroristi, e li avrebbe rassicurati su dei fantomatici piani di misure straordinarie messe in atto per trasformare in legge le loro richieste. Nell’udire i dettagli di questo piano d’azione Jean-Luc ebbe un fremito e, nonostante le tragiche circostanze, non poté impedirsi di sorridere a sua madre.
Capitolo 12
Nel giro di poche settimane dall’entrata in vigore del trattato della discordia, e così per i mesi che seguirono, Samuel si calò rapidamente nel ruolo di corrispondente dai due fronti che gli era stato assegnato. Organizzò la sua settimana lavorativa in modo da poter assicurare alla redazione un articolo da inserire in ogni edizione domenicale. Il giovane giornalista alternava due giorni sul territorio di Helvetia, alla ricerca di notizie di rilievo, a due giorni nella regione progressista, solitamente facendo la spola tra Berna e Ginevra. Il resto della settimana lo ava in sede a selezionare appunti, fotografie e interviste per poi dedicarsi alla stesura della sua rubrica. Inizialmente gli articoli vennero puntualmente assegnati alle prime pagine del giornale, mentre da un mese a questa parte la redazione decise di pubblicare la rubrica a partire dalla decima pagina. Inoltre, Samuel non aveva alcun dubbio che la sua rubrica con il are del tempo sarebbe stata declassata ulteriormente. La scelta della redazione era assolutamente comprensibile, dato che rispecchiava fedelmente il volere dei lettori. I sondaggi di vendita avevano difatti segnalato recentemente una chiara svolta negli interessi degli abbonati. Quel che accadeva “nell’altra regione”, ai loro ex concittadini, era ormai da considerarsi un tema di secondo piano. Ogni regione si stava abituando alla sua nuova connotazione di stato indipendente e quello che avveniva a quella parte di paese da cui si erano recentemente dissociati interessava tanto quanto comune cronaca estera. Raccogliere informazioni, scorrazzando attraverso il territorio di Nuova Frontiera, si dimostrò un gioco da ragazzi, non solo perché Samuel ne faceva ufficialmente parte, ma anche perché la stampa in generale si era creata nelle regione progressista ampi margini di manovra. Sovente per Samuel era sufficiente riprendere le notizie battute dalle agenzie di stampa o citare delle inchieste pubblicate da qualche altra testata giornalistica. Ben altra storia era andare a caccia d’informazioni utili sul territorio di Helvetia. Con la scusa di dover provvedere alla sua incolumità, in veste di giornalista straniero senza permesso di residenza, i vertici di Helvetia pensarono bene di appioppare a Samuel un accompagnatore ufficiale, che lo seguiva come un’ombra ovunque questi si recasse. Gli accompagnatori venivano sostituiti di settimana in
settimana, ma si comportavano tutti allo stesso modo, evidentemente istruiti a dovere sulle disposizioni da eseguire. Venivano a prenderlo in macchina non appena Samuel varcava la frontiera e gli restavano appiccicati fino al momento in cui, terminati i consueti due giorni d’inchiesta, egli lasciava il paese per tornare a Nuova Frontiera. Allo scopo di ammazzare il tempo durante gli spostamenti in vettura, Samuel aveva cercato invano di scambiare qualche parola con queste pseudo guardie del corpo. I diligenti impiegati del governo di Helvetia troncavano rapidamente il discorso ed evitavano come la peste di avventurarsi nel ben che minimo giudizio di tipo personale, timorosi che questo sarebbe stato citato in seguito negli articoli del giornalista. Con lo scorrere dei mesi quest’assurda situazione si era spinta talmente all’estremo che Samuel, un po’ per divertimento e un po’ per noia, si dilettava nel cercare di metterli in difficoltà. Per esempio, usava torturarli per ore, obbligandoli ad ascoltare dei CD di musica di stampo sessantottino, chiedendo loro puntualmente alla fine di scegliere quale fosse il loro brano preferito. Nove volte su dieci i funzionari dichiaravano di considerarli tutti ugualmente di cattivo gusto, senza preferenze. Raramente qualche accompagnatore distratto, specialmente se non dei più giovani, cedeva sotto gli effetti dei tambureggianti ritmi rock anni sessanta e si lasciava andare, confessando la sua ione per i Beatles o i Rolling Stones. Comunque questi accompagnatori non gli impedirono mai di recarsi la dove si era prefisso di andare e nemmeno gli impedirono di parlare con qualche esponente del governo di Helvetia, anche quando Samuel rivedeva la scaletta degli appuntamenti senza preavviso. Però, in innumerevoli occasioni, e di questo Samuel ne era convinto, fecero in modo di rallentare i tempi del suo procedere attraverso Helvetia, dando vita a degli imprevisti molto fantasiosi. Tali presunte improvvise sviste apparirono inizialmente agli occhi di Samuel come assolutamente casuali, ma con il are dei mesi si rivelarono sempre meno credibili. Per esempio, il fatto di aver forato i pneumatici della loro vettura per ben cinque volte in sei mesi era alquanto difficile da tollerare come una semplice e sfortunata coincidenza. Samuel non diede particolare importanza a questi episodi, ma si sentì comunque in dovere di informare il nuovo capo redattore. Quantomeno, così facendo, non gli si sarebbe potuto rinfacciare in seguito di non aver reagito per tempo. Il nuovo capo redattore aveva iniziato da poco. La direzione del giornale aveva
aperto un concorso di assunzione in seguito alla partenza improvvisa del precedente direttore, del quale non si avevano più notizie da quanto questi era partito per Tel Aviv come inviato speciale. C’era chi sostentava che la mancanza di espliciti segni di vita da parte del lupo fosse semplicemente da attribuire al periodo di relativa stabilità che regnava attualmente in terra sacra e che di conseguenza l’appetito della redazione per inchieste e interviste da Israele fosse ai minimi storici. C’era invece chi sosteneva che in realtà lo scorbutico ex-capo redattore non fosse mai partito per il Medio Oriente e che si trovasse invece da mesi rinchiuso in una clinica nei pressi di Lucerna per curare una grave forma di esaurimento nervoso. Il nuovo capo redattore era l’antitesi del suo predecessore. Infatti, come spesso avviene quando qualcuno è sostituito senza indugio perché divenuto ormai insopportabile, sul lavoro come anche nella vita privata, la direzione del giornale assunse un esperto giornalista, facendo cascare il pendolo della loro selezione al polo caratteriale completamente opposto dal precedente. Il nuovo capo, dallo sguardo sincero e rassicurante, era un personaggio molto discreto e conciliante, che non andava mai in escandescenza. Samuel, che era abituato a lavorare in modo indipendente e apprezzava i superiori che sapevano valorizzare questo modo di operare, senza dubbio lo preferiva al lupo. Eppure, andava riconosciuto che anche il nuovo direttore non era privo di pecche. Difatti, era quasi impossibile storcere al nuovo capo un ordine preciso e a volte persino una semplice opinione. Questi, pur di assecondare il volere dei suoi giornalisti di spicco, spesso rispondeva alle domande con delle altre domande, e per finire non faceva altro che affermare di condividere l’opinione dei suoi dipendenti. Anche in quest’occasione il discorso tra i due seguì fedelmente tale copione. Samuel raccontò l’accaduto al capo redattore, descrivendo nei dettagli in che modo gli accompagnatori di Helvetia lo avevano spesso rallentato nelle inchieste, inscenando piccoli e teatrali contrattempi. “Capo, che cosa pensa di fare? Vale la pena di informare i due governi e mettere così un po’ di pressione su Helvetia affinché non esagerino con queste sceneggiate?” chiese Samuel in conclusione al suo rapporto settimanale. Il capo redattore ci pensò su un po’ e poi chiese a sua volta: “Tu cosa ne pensi? Credi che sarebbe necessario?” “Ecco ci risiamo” pensò Samuel.
“Beh, i conservatori si comportano in modo palesemente scorretto, in particolare se lo confronto con le ampie libertà di cui godo quando faccio le mie inchieste sul territorio di Nuova Frontiera”. Samuel fece una pausa, poi, rievocando il fatto che mancavano solo due settimane alla fine del suo mandato, aggiunse: “Comunque, finora non mi hanno creato dei problemi seri. Sono sempre riuscito a ottenere le informazioni di cui avevo bisogno. Inoltre, molto francamente, in febbraio ho lottato con le unghie con la direzione del giornale affinché il mio mandato per la redazione degli articoli sugli sviluppi delle due regioni, insieme al ruolo di mediatore tra le due parti, fossero limitati a sei mesi. Adesso che mi rimangono da scontare solo una dozzina di giorni, prima di terminare quest’avventura, preferirei evitare ogni tipo di rogna, se non assolutamente necessaria”. “Capisco benissimo Samuel” commentò il capo. “Oltretutto, ti sei districato in modo egregio durante questi mesi. Hai sempre trovato il modo di mettere d’accordo i due governi. Se non erro, non c’è stata nessuna vera e propria crisi degna di nota, o dimentico forse qualcosa?” “Già, grazie al cielo mi è andata più che bene” rispose Samuel, ben cosciente che finora il processo di scissione si era svolto più o meno serenamente, contro ogni previsione. Il giovane giornalista ripercorse rapidamente con il pensiero gli avvenimenti degli ultimi sei mesi. Il suo intervento, nel ruolo di mediatore tra le due parti, si era reso necessario in pochissime occasioni, di cui probabilmente solo una degna di nota. Il governo di Helvetia si era fissato sull’idea di impedire, o quantomeno di ridurre drasticamente, il aggio di merci e persone attraverso il suo territorio utilizzando la rete autostradale nazionale. Il piano escogitato dai conservatori prevedeva delle esorbitanti tasse di pedaggio che avrebbero fatto rizzare i capelli in testa alla stragrande maggioranza di camionisti e automobilisti. I paesi confinanti reagirono con sdegno e minacciarono di abbandonare completamente l’asse autostradale del Gottardo, trasferendo il traffico nord-sud su altri portali alpini, in Francia e in Austria. Siccome questo scenario avrebbe avuto dei risvolti economici considerevoli anche per Nuova Frontiera, Samuel fu chiamato a mediare una soluzione meno radicale. Il giovane fece incontrare i rispettivi ministri dei trasporti e dopo due giorni d’intensi dibattiti poté annunciare il raggiungimento di un accordo. Helvetia avrebbe mantenuto il diritto di
aggio per merci e persone, ma unicamente limitato alle autostrade. Tutte le uscite sarebbero state dotate con una piccola dogana presidiata dalla polizia, per impedire a qualunque non residente di entrare in Helvetia senza il consenso delle autorità. Le aree di servizio vennero ampliate con degli improvvisati containerletto e qualche area verde aggiuntiva per assicurare ai viandanti un minimo confort. Il tutto sarebbe stato finanziato in parte da dei pedaggi alquanto onerosi in entrata sul territorio di Helvetia, con persino un supplemento in uscita per chi aveva trascorso più di due ore sulla rete autostradale, e in parte da dei contributi annuali provenienti dalle casse di Nuova Frontiera. Il capo redattore, accortosi che il giovane si era assentato con il pensiero cercò di riportarlo al presente con un breve commento. “Beh, direi che non vedo perché dovremmo fare altrimenti. Se credi che non sia necessario intervenire, faremo come pensi. Infondo, chi può valutare meglio di tè la situazione?” “Chissà perché non ne sono stupito?” pensò Samuel senza rispondere. Fece solo cenno di sì con la testa. “Bene, allora la questione è chiarita” affermò il capo. “Per favore, riempi i moduli ufficiali per documentare quello che è accaduto. Giusto per il protocollo”. “Sì certo, lo farò oggi stesso” disse Samuel. “Samuel, ho ancora una domanda” lo bloccò il capo, mentre si accingeva a lasciare l’ufficio. “Hai avuto occasione di riflettere a quello che farai dopo lo scadere dei sei mesi?” “Francamente, non molto. Forse mi lascerò tentare dall’idea di scrivere un libro, cosa che potrei tranquillamente conciliare con il lavoro al giornale. Potrei però anche valutare più seriamente le offerte di lavoro che ho ricevuto dall’estero. Onestamente, non so ancora che cosa fare”. Il futuro del giornale era incerto, anche se per ora la direzione aveva trovato una scaltra formula di vendita. Il domenicale pubblicava due edizioni distinte. La prima veniva distribuita solo ai cittadini di Helvetia, mentre l’altra unicamente agli abbonati di Nuova Frontiera. Inutile precisare che le due versioni avevano degli indirizzi politici manifestamente contrapposti. Confrontare come la
medesima notizia veniva riportata con connotazioni completamente diverse, faceva sanguinare il cuore a ogni giornalista degno della sua funzione. L’unico denominatore comune, ancora per pochi giorni, era la rubrica di Samuel, che era fedelmente pubblicata in entrambe le edizioni. Non era facile prevedere per quanto tempo questa formula di giornalismo bipolare e fazioso sarebbe sopravvissuta, ma sicuramente non per molto. “Capisco, non si tratta certo di una scelta facile. Samuel sai che farei l’impossibile per tenerti tra le nostre fila, ma sono troppo vecchio per non riconoscere che le probabilità sono piuttosto basse. Quindi, ti prego giusto di informarmi per tempo nel caso decidessi di lasciarci. Per trovare un eventuale sostituto all’altezza dovrò sudare sette camice e iniziare le ricerche per tempo”. L’espressione del capo lasciava intuire che aveva una chiara prospettiva di come sarebbe andata a finire. “Certo capo, e grazie per il suo apprezzamento. Mi sono prefissato di prendere una decisione durante questo fine settimana. Lunedì dovrei poterle comunicare la mia scelta”. “Hai il mondo ai tuoi piedi, ragazzo. Approfittane” concluse il capo, congedandosi da Samuel per poi rispondere al telefono che si era messo a squillare prepotentemente. “Esagerato” pensò Samuel camminando verso la sua scrivania. Certo, non andava negato che la vicenda della scissione e l’improbabile gioco del destino che lo aveva catapultato a sorpresa nel ruolo di mediatore gli avevano regalato notorietà e un minimo di gloria. Oltretutto, tale popolarità non era limitata al circolo chiuso dei giornalisti. Nel giro di sei mesi aveva ottenuto più offerte di lavoro che durante i cinque anni precedenti messi insieme. Alcune di queste offerte erano molto vantaggiose, anche da un punto di vista economico. Gli vennero proposte delle attività al livello di capo redattore per dei quotidiani con sede in Nuova Frontiera, come anche delle stimolanti opportunità all’estero, a New York, Londra e Berlino. Non da ultimo, la bellezza di sei editori avevano bussato alla sua porta per proporgli di scrivere un libro sulla scissione che ne avrebbe documentato tutti i retroscena più significativi. Insomma, Samuel era ancora indeciso su che strada seguire alla conclusione del suo mandato, ma non aveva dubbi sul fatto che non sarebbe rimasto a piedi.
Anzi, sapeva benissimo che si sarebbe sistemato egregiamente. Sulla bilancia della vita, finora quest’avventura gli era costata qualche precoce capello grigio e tanta pazienza, ma d’altro canto lo aveva forgiato in determinazione, rendendolo ben consapevole delle sue qualità. Il giovane e talentuoso giornalista, che fino a poco tempo addietro si lasciava troppo spesso opprimere dall’angoscia di sbagliare e da certe insicurezze, si era trasformato in un uomo determinato e disinvolto. Sintomaticamente, Samuel dormiva da mesi per lo più molto bene, profondamente, svegliandosi al mattino rigenerato e carico di energie. Eppure, il suo umore non andava per niente a braccetto con l’eccellente stato psicofisico di cui godeva al momento. Proprio perché divenuto conscio di quel che era in grado di fare, Samuel si chiedeva spesso se non avrebbe potuto e dovuto tentare di più e agire per tempo, cercando di impedire o quantomeno frenare il processo di scissione. Questi pensieri lo rendevano infelice. Sapeva di aver compiuto il suo dovere in modo impeccabile, o meglio, di aver interpretato il ruolo che gli era stato assegnato, recitando senza errori il copione dettato degli eventi. “Tuttavia” rimuginava sovente Samuel, “anche un soldato o un boia fanno spesso il loro dovere senza sbagliare un colpo. Eppure, sono in pochi coloro che portando a termine con successo questo tipo di missioni si realizzano al punto da ritenersi felici. Perché?” Probabilmente, ne concludeva Samuel, per realizzarsi conta di più che cosa si fa che non tanto il come. Quanti sono i manager di successo, gratificati giornalmente per la loro efficienza, che nel loro intimo scambierebbero più che volentieri i ruoli con un pediatra o un ricercatore? La sensazione di sconforto di Samuel era alimentata anche dal comportamento d’indifferenza ostentato oramai da quasi tutti coloro che gli stavano intorno. Peter, la signora Schwarzenbach e molti altri personaggi erano scomparsi dalla circolazione. Si erano come dileguati nel nulla, lasciando, ognuno in modo diverso, un vuoto da colmare. Eppure, colleghi, vicini di casa e conoscenti si comportavano tutti come se non fosse accaduto niente. Si erano calati tutti nei rispettivi nuovi ruoli, all’interno di Helvetia o di Nuova Frontiera. Voltarono pagina, accettando rapidamente gli eventi e tornando in men che non si dica a concentrarsi sull’unica cosa che gli stava a cuore, e cioè se stessi.
Samuel, fortemente disilluso dalla presenza di tanta apatia attorno a sé, avrebbe voluto dare sfogo alla frustrazione confidandosi con qualcuno, ma con chi? L’orologiaio sarebbe stato sicuramente la persona più adatta ad affrontare un tale discorso, ma da febbraio a oggi le circostanze non lo permisero. Difatti, gli eventi degli ultimi mesi non erano stati degni di particolare attenzione. Come pattuito, Samuel prese contatto regolarmente con David Gabus per mantenerlo aggiornato sugli sviluppi della scissione, ma in nessuna occasione ritennero utile approfondire i fatti a quattr’occhi.
Quando ricevette la chiamata di Jean-Luc, Samuel era ancora in sede intento a scrivere gli ultimi paragrafi della sua rubrica settimanale, che poco dopo avrebbe consegnato agli addetti alla rilettura. Gli bastarono poche parole per intuire la gravità della situazione. Promise al giovane progressista che avrebbe chiamato subito Nadia Schmidt, e propose Berna come luogo per l’incontro. In treno ci avrebbero impiegato entrambi all’incirca due ore. Nel frattempo Samuel avrebbe fatto del suo meglio per individuare un angolo della città propenso a quella che si annunciava come una trattativa particolarmente delicata. Fortunatamente riuscì a rintracciare Nadia al primo tentativo. La ragazza fu comprensibilmente sorpresa davanti a tanta urgenza e si mise a martellarlo di domande, senza dargli nemmeno il tempo di rispondere. Ciononostante, Samuel fu molto vago nelle spiegazioni e si limitò a farle capire che si trattava di una questione di vita o di morte, precisando che neppure lui era a conoscenza dei dettagli. Per saperne di più avrebbe dovuto partecipare all’incontro. Nadia, scettica di fronte a tanti misteri, esitò a lungo e si decise solo quando Samuel le disse che per i progressisti sarebbe stato Jean-Luc a recarsi a Berna. Improvvisamente non disse più niente e ascoltò attentamente le parole del mediatore. Quando Samuel aggiunse che era stato proprio Jean-Luc Wicht a chiedere esplicitamente che fosse lei, e nessun altro, a rappresentare i conservatori, Nadia divenne inaspettatamente conciliante e confermò che alle undici al più tardi sarebbe arrivata a Berna. Samuel si disse che un luogo informale avrebbe aiutato i due giovani a rompere il ghiaccio, saltando così gli inutili convenevoli. D’altronde di tempo da perdere non ne avevano nemmeno un po’. Siccome la serata si presentava come molto calda, una delle poche quell’anno di tipo tropicale, in cui le temperature non
scendono sotto i venti gradi Celsius nemmeno di notte, decise di fare incontrare i due giovani all’aperto, nei pressi della fossa degli orsi. In realtà la storica fossa degli orsi di Berna era stata rimpiazzata ormai già da qualche anno da un parco più vasto, posto su una sponda del fiume. In estate, il parco è ben frequentato, di giorno dai turisti di aggio, mentre alla sera da una schiera di coppiette che sfilano sotto gli occhi assonati degli orsi, con la stessa regolare e ipnotica cadenza delle acque dell’Aare. Nessuno si sarebbe stupito nell’osservare due giovani appartarsi su una panchina in riva al fiume per discutere indisturbati dei fatti loro. Il primo ad attraversare a o spedito il Nydeggbrücke e ad arrivare al parco fu Jean-Luc, che salutò Samuel dandogli una vigorosa stretta di mano. Poi, nonostante il fiatone che gli era venuto percorrendo a o di marcia i due chilometri che dalla stazione portano alla fossa degli orsi, si mise immediatamente a descrivere i dettagli che aveva omesso di elencare poche ore prima al telefono. Samuel lo ascoltò senza perdersi una sillaba e cercando di valutare all’istante il da farsi. Eppure, senza perdere il filo del discorso, notò come il giovane progressista, malgrado la fretta e le gravi circostanze, avesse trovato il tempo di radersi, di selezionare un paio di jeans alla moda e una camicia nera che metteva in risalto i folti capelli scuri e la pelle lievemente abbronzata. Al collo indossava persino una collana di legno che lo ringiovaniva di qualche anno. Nadia arrivò poco dopo, in taxi. L’orologio di Samuel indicava le undici e due minuti. La ragazza scese dalla vettura e ringraziò il tassista, che con zelante e inusuale dedizione al lavoro era accorso ad aprirle la portiera. Il taxi non poteva certo competere con una carrozza fiabesca, né quell’incontro aveva la magia del ballo delle debuttanti, eppure, l’entrata in scena di Nadia quella sera non fu meno principesca. Anche lei sembrava aver scelto con cura ogni dettaglio, affidandosi probabilmente a una combinazione di abbigliamento che teneva da tempo in riserbo per un appuntamento galante. I capelli biondi sciolti ondeggiavano su un bellissimo vestito bianco senza maniche, ornato con dei disegni floreali che alternavano dei petali verdi e blu.
Liberatasi della miriade di strati protettivi nella quale si era avvolta d’inverno, sull’alpe dell’Älggi, ora la pelle chiara e uniforme liberava nell’aria un profumo irresistibile. Samuel poté chiaramente percepire i pensieri di Jean-Luc, come se questi fossero comparsi sotto forma di ologrammi sulla sua testa. Certo, si disse il giornalista, Nadia Schmidt era proprio bella e non c’era molto di cui stupirsi se Jean-Luc o chiunque altro uomo se ne fosse infatuato all’istante. Mentre i due giovani si salutavano, Samuel ricordò istintivamente la teatrale scenetta che gli era capitato di osservare da lontano il giorno delle trattative. Samuel propose di cercare un posto lungo la riva del fiume, e invitò i due rappresentati delle rispettive regioni a seguirlo. Nadia e Jean-Luc s’incamminarono uno di fianco all’altra, senza parlare. I tre superarono la terrazza del ristorante che costeggia il lato superiore del parco e poi discesero le gradinate che portano all’altro lato della recinzione, a pochi metri dall’Aare. I due giovani politici si sedettero su un muretto rialzato che funge da argine per il fiume, mentre Samuel si mise di fronte a loro, in piedi su un gradino inferiore. Alle sue spalle la massa d’acqua, non particolarmente alta in questa stagione, scorreva costante, generando un piacevole venticello rinfrescante. Il giornalista ringraziò entrambi, e Nadia in particolare, per aver reso possibile quell’incontro e riassunse in pochi minuti quel che era successo a Ginevra. Poi spiegò che Jean-Luc non aveva ancora avuto il tempo necessario per ravvisarli di eventuali sviluppi dell’ultima ora e che quindi, prima di are alle concrete richieste di sostegno, Jean-Luc avrebbe condiviso con loro le ultime notizie. Prima di iniziare a parlare il giovane cittadino di Nuova Frontiera lasciò sfilare un gruppo di ragazzi che, nonostante l’ora tarda e la visibilità limitata, ò in gommone schiamazzando sonoramente e violando per pochi secondi la quiete del luogo. “Beh, francamente non c`è molto da aggiungere. Su questo movimento che si fa chiamare i Fratelli Combattenti ne sappiamo tanto quanto prima, e cioè poco. Quel che è certo è che fanno sul serio”. “Ci sono già state delle vittime?” chiese Nadia. “Hanno sparato a un impiegato dell’ufficio postale. Per fortuna abbiamo potuto evitare il peggio. Ci hanno concesso di fare entrare per pochi minuti un’equipe di medici per medicarlo e rifornirlo di antidolorifici. A quanto pare la pallottola nel
suo percorso attraverso il corpo non ha tranciato nessuno dei vasi sanguinei principali ed è uscita da dietro lasciando un piccolo foro. Se lo lasceranno disteso, senza forzarlo a movimenti inutili, e se gli daranno da bere a sufficienza, beh allora ce la dovrebbe fare a resistere quarantottore”. “Brutta storia” commentò Nadia. “Comunque non mi avete ancora detto che cosa vogliono questi terroristi”. Jean-Luc rispose quasi con imbarazzo, come se si ritenesse in parte colpevole per le assurde rivendicazioni di quel gruppo armato. “Vogliono farci integrare nella costituzione delle leggi discriminatorie nei confronti delle donne di confessione musulmana. Per esempio il divieto di recarsi a degli eventi pubblici senza essere accompagnate dal marito o dal padre”. Nadia lo guardò con espressione pressoché disgustata e sbottò indispettita: “Purtroppo per voi, credo che in buona parte ve la siete andati a cercare. Sono anni che vi diciamo di fare attenzione con questa gente. Invece voi, no, imperterriti, vi siete sempre schierati in loro difesa, senza nemmeno prendere in considerazione i nostri moniti”. Jean-Luc incassò il colpo come se fosse stato scaraventato a tradimento sotto una doccia gelata. Realizzò che quell’incontro forse non sarebbe mai andato al di là di una formale trattativa. Meglio togliersi subito dalla testa gli interessi personali e concentrarsi invece sul compiere appieno il proprio dovere. Jean-Luc rispose a Nadia tenendo lo sguardo fisso sulla superficie del fiume, evitando in tal modo espressamente di voltarsi nella sua direzione. Quanto è difficile contrapporsi a una donna talmente attraente, senza farsi intimorire dal suo fascino. Eppure, per poterne guadagnare il rispetto, mantenere la mente lucida e dimostrare la giusta dose di determinazione è essenziale. “Non è vero. Abbiamo semplicemente sostenuto il concetto di libertà di culto senza negare che questo implica inevitabilmente una certa dose di tolleranza per le differenze culturali che trovano le loro radici in fedi diverse. Allo stesso tempo abbiamo però sempre, e fermamente, condannato ogni forma di messaggio violento e anticostituzionale”. Poi, in tono provocatorio aggiunse: “Inoltre, per quanto riguarda la tutela dei
diritti delle donne, ti ricordo che è stato il tuo partito a bocciare tutte le iniziative che i progressisti hanno proposto negli ultimi cinque anni”. “Bravi” replicò Nadia sarcasticamente, “nulla toglie al fatto che se questo disastro avviene adesso a Nuova Frontiera e non ad Helvetia ci sarà pure una ragione, o no? Questo genere di balordi noi non li lasciamo neppure entrare…” Jean-Luc la interruppe bruscamente, fissandola ora fermante negli occhi: “Nadia, non ho richiesto quest’incontro per darvi l’occasione di farci una ramanzina sulle pratiche d’immigrazione e d’integrazione. Non ne abbiamo il tempo, e onestamente nemmeno molto interesse”. Nadia preferì non aggiungere niente, lasciando che il giovane progressista venisse al dunque. “La ragione per cui ho richiesto esplicitamente la tua presenza è che con tuo padre non si può parlare di queste cose, come sai molto bene anche tu. Abbiamo bisogno urgentemente il sostegno di Helvetia, delle vostre squadre speciali e dei servizi d’intelligence. Chiaramente pagheremo ogni prezzo senza discutere”. Jean-Luc concluse quasi sottovoce: “Forse tu potresti esporre a tuo padre la situazione senza che questi perda tempo a burlarsi della nostra sventura”. Nadia cercò lo sguardo del giovane progressista, scacciando i tratti tesi e innaturali che finora avevano oscurato il dolce faccino. Assunse invece un’espressione distesa, che permise agli occhi di ridiventare gli assoluti protagonisti del viso, mettendone in risalto l’indefinibile colore. La giovane conservatrice sembrò scrutare all’interno di Jean-Luc, interrogandone le viscere per cercare di capire se quello che le aveva appena detto fosse realmente l’unica ragione per cui aveva voluto incontrarla. Poi distolse lo sguardo e, scegliendo di proposito un’intonazione piatta e inespressiva della voce, disse: “Quindi la ragione per cui sono qui adesso è unicamente quella di fare da tramite tra le vostre richieste e mio padre. Non fatevi illusioni. Forse non capite che papà non muoverebbe un dito senza una chiara controparte politica, che in questo caso chiaramente non c`è. Non è una questione di soldi”. Nadia fece una pausa, guardò prima Samuel e poi Jean-Luc, e aggiunse: “Ma onestamente il motivo per cui nemmeno gliene parlerò è che sono io la prima a
non credere che Helvetia debba giocare il ruolo di balia a Nuova Frontiera. Sin dal giorno della scissione i due governi hanno fatto delle chiare scelte politiche e hanno fissato le rispettive priorità, e ora è il momento di raccoglierne i frutti. Mi dispiace”. Samuel vide Jean-Luc sbiancare, probabilmente per una serie di ragioni che andavano al di là del rifiuto di assistenza della giovane conservatrice. In quest’occasione il giornalista non avrebbe trovato le parole per ribaltare la situazione e condurli a un accordo. Sostanzialmente non c’era niente di politico da mediare. Tutto dipendeva dalla volontà di Nadia e dalla determinazione di Jean-Luc a persuaderla. Percepì addirittura che la sua presenza limitava il dialogo tra i due giovani, impedendo loro di dare sfogo a dei pensieri più personali che probabilmente entrambi conservarono in attesa sulla punta della lingua. Dopo qualche istante di assoluto silenzio Samuel si congedò con una scusa. Disse loro che doveva andare al bagno e che non dovevano attendere il suo ritorno per continuare la conversazione. Risalì la scalinata che dalla riva del fiume porta in cima al pendio e si incamminò pensieroso verso la fossa degli orsi in disuso. La fossa, che per anni aveva ospitato al suo interno degli sventurati orsi, assomiglia a un ampio pozzo asciutto, profondo quel che basta per assicurarne il ruolo di cella di detenzione senza vie d’uscita. Per chi si trova al suo interno la fossa appare come un muro circolare e infinito. Per anni, agli orsi che ci hanno vissuto, il mondo si è sempre presentato dall’alto verso il basso, sotto forma di un aereo di aggio, del vento tra le foglie degli alberi o di una miriade di bambini di ogni età e altezza che li fissava sporgendosi in avanti sul muretto di recinzione. Insomma, a sufficienza da fare ammattire anche il più equilibrato e resistente degli orsi bruni. Una voce alle sue spalle gli si rivolse in inglese: “Questa fossa non è un bel vedere, vero? Incute una sorta di struggente tristezza”. Samuel voltandosi riconobbe l’esperta di comportamento degli orsi che la città di Berna aveva fatto arrivare dal Canada per monitorare l’integrazione di una coppia di orsi, aggiunti recentemente ai due che da tempo dimoravano nel parco. Samuel aveva già scambiato qualche parola con lei in più occasioni, durante le sue soventi eggiate lungo l’Aare.
“Ora, nel nuovo parco, stanno molto meglio. Si vede chiaramente come apprezzano gli ampi spazi e sviluppano un comportamento sano” aggiunse l’esperta dando a sua volta un’occhiata all’interno della fossa vuota. “In ato ha avuto occasione di osservare il comportamento degli orsi nella fossa?” le chiese Samuel. “No, non in questa fossa. Però ho studiato il loro comportamento in innumerevoli luoghi simili a questo, sparsi in tutto il mondo. Zoo, circhi e persino delle recinzioni private in Russia e in Cina. Chiaramente gli spazi limitati e il monotono trascorrere delle giornate fa perdere loro il senno”. “Quanto tempo ci vuole in media per vedere insorgere i primi segni evidenti di disturbi gravi nel comportamento?” chiese il giornalista. “Beh, dipende da un sacco di fattori, come la superficie della gabbia e la sua geometria, o il numero di bestie che essa contiene. Ci sono degli studi precisi a riguardo. Comunque quando si tratta di una coppia di orsi, indipendentemente dal sesso, uno dei fattori determinanti ad allungare il più possibile il periodo iniziale di lucidità mentale è il livello di armonia tra i due animali. Se questi si sostengono e interagiscono in modo positivo, possono superare lunghi periodi di stabilità comportamentale, ben al di la di quello che si potrebbe immaginare. Se invece s’ignorano e condividono la loro cella in modo individuale, il decadimento avviene molto più in fretta”. Samuel si disse che probabilmente tale generale principio fosse valido non unicamente per una copia di orsi in una fossa. Un rumore attrasse l’attenzione della donna. Nel parco uno degli orsi si era svegliato per andare a tuffarsi nella vasca posta all’altezza del fiume e godersi così un bagno di mezzanotte. Le acque del fiume lo avrebbero aiutato a scrollarsi di dosso l’insolita canicola notturna. La ricercatrice e Samuel si spostarono sul lato superiore del parco ottenendo una visione d’insieme di quello che vi stava avvenendo al suo interno. “A proposito di coppiette”, cambiò discorso la donna indicando con un cenno del capo in direzione di Nadia e Jean-Luc, “quei due laggiù sembrano formarne una particolarmente affiatata. Siete arrivati insieme al parco, o sbaglio?”
“Sì, in effetti, e tra poco dovrò tornare da loro. Speriamo che abbiano trovato un modo per venirsi incontro” rispose Samuel parlando più a se stesso che non tanto alla ricercatrice. “Qualche frizione tipica del periodo di rodaggio?” chiese la donna curiosa. “Purtroppo, ben più di qualche frizione. In sostanza, non sanno nemmeno ancora di essere una coppia” rispose Samuel sorridendo. Samuel e la ricercatrice discussero ancora per un po’ della loro ione comune per i grandi animali. Lei gli raccontò dei suoi viaggi in Alaska per osservare la vita dei grizzly in luoghi ancora parzialmente incontaminati all’uomo, e Samuel, le descrisse le sue sensazioni nel vedere una tigre allo stato brado in India o un clan di gorilla di montagna sulle pendici dei Virungas in Ruanda. Nel frattempo il dialogo tra Nadia e Jean-Luc si era arenato sullo scoglio della banalità. I due giovani mantennero viva la conversazione per evitare l’imbarazzo del silenzio, ma senza fare nessuno sforzo per dare un significato a quell’incontro. Il rifiuto da parte di Nadia, di compiere il ben che minimo tentativo per persuadere il padre ad aiutare i progressisti, sembrava essere assolutamente categorico. Jean-Luc si alzò in piedi e iniziò a lanciare dei sassi verso l’altra sponda. I movimenti nervosi e forzatamente ripetitivi del giovane lasciavano trapelare un forte disagio e una certa dose di frustrazione. Non era riuscito a ottenere l’aiuto necessario a risolvere la minaccia terroristica e, come se questo non bastasse, Nadia appariva estremamente fredda nei suoi confronti. Nadia dal canto suo si sentiva delusa e tradita nelle aspettative per un incontro sul quale aveva fantasticato sovente durante gli ultimi tempi e che invece si era ridotto a una formale richiesta di sostegno ad Helvetia. Desiderò fortemente di porre fine il più rapidamente possibile all’agonia di quell’appuntamento mancato, ma l’etichetta imponeva a entrambi di attendere il ritorno di Samuel prima di tornare a casa. Per ammazzare il tempo si sforzò di chiedere a Jean-Luc la prima cosa che le venne in mente: “Quand’è che ti sei deciso a entrare attivamente in politica? Voglio dire, quand’è che hai capito che questa sarebbe stata la tua strada?” Jean-Luc ebbe la decenza di terminare l’infantile tiro al bersaglio e si sedette nuovamente al suo fianco prima di risponderle.
“Probabilmente l’ho sempre saputo. Ricordo di quando ero piccolo che a casa non si parlava d’altro e io sognavo di poter partecipare agli intensi dibattiti che scoppiavano a tavola durante i pasti. Ai tempi in cui mia nonna era ancora in vita, non dico che si ava alle mani, ma quasi. Devo dire che ne ho sentite di tutti i colori” rispose, sorridendo al pensiero di quei bei tempi. Poi aggiunse: “Proprio a mia nonna promisi di entrare pure io in politica, una volta divento adulto. Poi, francamente, crescendo persi progressivamente interesse per la politica e avrei quasi certamente finito per scegliere un’altra strada. In realtà, la svolta avvenne ad Harvard in occasione di una conferenza di due giorni dedicata al tema della politica. Non so bene spiegare il perché, ma il discorso che fece l’ospite principale mi diede un vero e proprio scossone e mi rimise sulla via che mi ha portato fino in parlamento”. “Harvard? Che conferenza? In quale anno?” chiese Nadia che aveva compiuto parte degli studi in diritto presso il rinomato ateneo americano. “Se non sbaglio, è stato durante l’estate del 2002. Mio padre mi aveva spedito ad Harvard per due mesi, per partecipare a un corso intensivo di inglese e assistere a quella conferenza. Un amico di mio padre, il famoso Professor Rochelle, organizzava l’evento. Se non fosse stato per un conflitto d’impegni, papà vi avrebbe partecipato volentieri di persona. La mia partecipazione fu solo un ripiego, per non urtare la sensibilità di quel suo amico di vecchia data”. “Beh, non ci crederai, ma pure io ho assistito a quella conferenza. Ho dato gli esami del quinto e del sesto semestre ad Harvard, tra il 2001 e il 2002. Anche mio padre conosce Rochelle dai tempi in cui questi si occupava di sondaggi politici in Svizzera, e così mi fece ottenere un invito. Ricordo anche la cena, organizzata alla fine della prima giornata. Pomposa e interminabile, con un esercito di camerieri che serviva ai tavoli”. “Già, me ne ero dimenticato” sorrise Jean-Luc. “Io ebbi la sfortuna di essere assegnato a un tavolo in cui l’età media rasentava gli ottant’anni. Un vero strazio”. “Peccato” pensarono entrambi quasi simultaneamente. In quell’occasione ci sarebbero stati tutti i presupposti per are una serata diversa. “Dunque, immagino che anche tu conosci Marta, la figlia di Rochelle. Vero?” gli chiese Nadia.
“Sì, la conosco abbastanza bene. Tra i sedici e i ventun anni, fino al 2003, sono andato regolarmente al campo estivo di Davos. Quello aperto alle sezioni giovanili dei partiti. Marta ci ha sempre preso parte anche lei. Anche se da allora ho perso ogni contatto”. Nadia assunse un’espressione perplessa. “Che strano. In quello stesso periodo, ho partecipato anch’io al campus di Davos per quattro anni consecutivi”. Il giovane progressista la scrutò attentamente. Questo spiegava perché avesse avuto la netta sensazione di averla già vista in precedenza. Sull’onda dello stesso pensiero, Nadia aggiunse: “In effetti, quando ci siamo conosciuti sull’Alpe dell’Älggi, ho avuto l’impressione di averti già incontrato da qualche parte, senza però ricordare dove e come. In seguito mi sono detta che probabilmente mi confondevo con qualche intervista che è ata in televisione, dato che sei divenuto un personaggio pubblico già da qualche anno”. “Insomma, a quanto pare abbiamo avuto molte occasioni in ato per fare conoscenza. Che però non si sono mai concretizzate, fino al giorno del trattato per la scissione” commentò Jean-Luc, indeciso sul tipo di significato che avrebbe potuto dare a questa piccola rivelazione. Nadia, invece, che apparteneva a coloro che credono fermamente nel potere del destino, era sempre molto attenta a cogliere le strane coincidenze della vita. Solitamente non si lasciva sfuggire i segnali disseminati sul suo percorso dal fato. “Mi fa strano pensare al fatto che ci siamo già incrociati tante volte in precedenza, senza scambiare nemmeno una parola”. Jean-Luc non rispose. Pensò che, in effetti, era alquanto bizzarro di non essere venuti nemmeno minimamente a contatto l’uno con l’altra, durante i campus estivi. In particolare, come poteva una ragazza tanto bella non aver attirato la sua attenzione? Eppure, andava riconosciuto che i partecipanti erano moltissimi, sparsi in più sezioni e attività diverse. Forse, non c’era poi tanto di cui stupirsi. Nadia si assentò con il pensiero per qualche istante. Ricordò una delle poche cose veramente profonde che le confidò suo padre. Non sapeva bene il perché, ma le parole del padre le riaffiorarono alla mente adesso, come se fossero state appena pronunciate. Il giorno in cui Nadia partì per Harvard, mentre l’accompagnava in vettura
all’aeroporto internazionale di Zurigo-Kloten, Marcel si sentì in dovere di prevenire la giovane figlia dalle insidie che si celano nell’animo maschile. Le consigliò di valutare attentamente gli incontri che essa avrebbe probabilmente vissuto durante quella prima esperienza lontana da casa. In sostanza, le disse che fortunatamente sono in molti ad avere la buona sorte di incrociare prima o poi “la persona giusta”, quella con cui condividere tutti i piaceri e le difficoltà della vita. Mentre, purtroppo, è proprio il tempismo di tale incontro a essere spesso l’elemento più complesso. Probabilmente non sono in molti coloro ai quali tale occasione si propone in quello che essi stessi definirebbero “il momento giusto”. Riportando il pensiero al presente, su quello scalino posto sulla riva dell’Aare, Nadia si rivolse nuovamente a Jean-Luc: “Al campus di Davos ho conosciuto il mio primo ragazzo. Un tipo tutto d’un pezzo che giocava nelle giovanili di hockey della compagine locale, con delle buone prospettive di are in prima squadra. Era un tipo geloso e facilmente irascibile, che mi teneva a debita distanza da ogni altro ragazzo. Ripensandoci, non mi stupisce molto di non averti conosciuto allora”. Jean-Luc capì che Nadia alludeva al fatto che quel ragazzo fu solo una comparsa e che, se il destino ci avesse messo la sua parte, al suo posto, magari, sarebbe potuto esserci stato lui. Solitamente, in questo tipo di occasioni, non gli mancavano mai le parole giuste, ma in questo caso rimase muto come un pesce. Il giovane non macò di percepire che Nadia aveva disattivato gli schermi protettivi che finora avevano impedito il dialogo, eppure, si sentì incapace di approfittarne. Così, fu Nadia a parlare nuovamente: “Jean-Luc, credi al destino?” “Non saprei. E tu?” “Cerco di dare il giusto peso ai segnali della vita, perché dubito che sia il caso a dominare gli eventi” rispose Nadia. “Probabilmente il fatto di crederci, oppure no, è soprattutto una questione di definizioni” commentò il giovane progressista. “In che senso?” chiese lei. “Beh, come fai a distinguere il destino dal caso?” chiese a sua volta Jean-Luc.
“Per me il destino è qualcosa di bello che ti si presenta dopo mille insidie, quando ci si è quasi arresi ad accettare una sorte avversa. Anche se nel tuo intimo non hai ancora completamente perso ogni speranza”. “Certo che descritto in questo modo, mi piacerebbe molto crederci” commentò il ragazzo, sfoggiando un malizioso sorriso. Durante il momento di silenzio che ne seguì, i due giovani avrebbero potuto dare voce all’assurdo pensiero che sfilò come una meteora attraverso la mente di entrambi. Forse tutta questa storia della scissione faceva parte di un disegno che li riguardava da vicino. Uno dei tanti e complicatissimi intrighi del destino. Prima che potessero aprire nuovamente bocca, con perfetto tempismo, arrivò Samuel. Il giornalista si scusò per la prolungata assenza. Improvvisò una scusa, spiegando che l’unico bagno pubblico aperto si trovava dall’altra parte del ponte. “Allora, avete trovato un accordo?” chiese loro giusto per rigore di protocollo e con poca convinzione. Jean-Luc si ò entrambe le mani tra i capelli e si accinse rassegnato a confermare l’insuccesso della mediazione: “Purtroppo…” iniziò a dire, ma venne subito interrotto dalla ragazza, ancora seduta al suo fianco. Nadia, gli pose una mano sul ginocchio e con un intenso sguardo, che lo percorse lungo tutto il corpo dal cervello alle dita dei piedi come una forte scossa elettrica, gli fece capire di tacere. “Domani mattina, per prima cosa, parlerò personalmente a mio padre e cercherò di convincercelo a dare seguito alla richiesta di sostegno da parte della regione progressista” affermò la giovane conservatrice, per lo stupore di entrambi i suoi interlocutori, e aggiunse: “Però, non voglio creare false speranze. Non credo che il mio sostegno basterà a convincerlo. Vi suggerisco di non farci troppo affidamento”. Samuel e Jean-Luc si sentirono estremamente sollevati nell’udire quelle parole, ma nessuno dei due, ancora in parte interdetti dall’improvvisa svolta, trovò il modo di ringraziarla adeguatamente. “Ora devo andare, oppure perderò l’ultimo treno” disse Nadia, senza però
incamminarsi verso la scalinata. Jean-Luc ci mise qualche secondo a capire che quello era un invito ad accompagnarla. Scattò in predi come una molla e spiegò a Samuel che anche l’ultimo treno per Ginevra sarebbe partito pochi minuti dopo quello di Nadia e che quindi pure lui doveva sbrigarsi. Samuel rimase in piedi a osservare i due giovani che con o spedito risalivano i gradini in sasso per poi sfilare rapidamente lungo il ponte e infine dileguarsi sullo sfondo della città vecchia. Vedendoli avanzare così affiatati percorrendo la stessa via, pensò al paradosso rappresentato da quella scena, visto che, di lì a poco, sarebbero ripartiti in treno in due direzioni contrapposte. Decise di godersi ancora un po’ quel clima notturno eccezionale, la temperatura ideale, il cielo stellato e lo scorrere indisturbato del fiume. Si incamminò lungo la riva e rovistò tra le tasche alla ricerca di uno dei tanti telefonini che aveva ricevuto per quell’incarico. Forse qualcosa si stava finalmente muovendo nella giusta direzione e valeva decisamente la pena di informare David Gabus. L’orologiaio rispose al terzo squillo.
Capitolo 13
Le corna del cervo più grande che ebbe occasione di uccidere in tanti anni ati a cacciare tra le montagne della regione imponevano grande rispetto. Ben ramificate e robuste, simboleggiavano perfettamente l’animo fiero e combattivo di quello splendido esemplare di maschio adulto. Marcel Schmidt ne aveva fatto imbalsamare il collo e la testa e gli aveva assegnato il posto d’onore nella sala dei trofei di caccia, al centro della parete meglio illuminata. Guardando intensamente il cervo negli occhi, Marcel riusciva ancora a cogliere quello strano luccichio che aveva intravisto il giorno in cui gli aveva sparato, e che di tanto in tanto riaffiorava persino in sogno, sotto forme diverse. Imbalsamarlo e conservarlo in un luogo della casa che frequentava sovente, era stata una scelta ben precisa. Ripensare a quella mattina d’ottobre, mettendosi a quattr’occhi di fronte al busto della bestia, che lo sovrastava di mezzo metro, rappresentava una sorta di terapia per Marcel. Quella mattina, alleggerito da una ventina di anni in meno all’anagrafe e di altrettanti chili sulla pancia, partì molto presto, da solo, e dopo tre ore e mezza di marcia arrivò fino alla piccola radura che si era prefisso di raggiungere e dove il giorno prima aveva osservato con il cannocchiale un gruppo di animali che vi si aggirava indisturbato. L’esperto cacciatore si sdraiò di fianco al tronco di una grande pino montano, ai confini dello spiazzo naturale d’erba che era andato a cercare, ben nascosto dall’ombra che avrebbe offerto la pianta alle prime luci del mattino e con il fucile di precisione a portata di mano. Il sole sorse pochi minuti dopo, rendendo visibile l’aria frizzante e cristallina. Delle goccioline di pioggia fine avano a folate attraverso la boscaglia insieme a degli strati di nebbia che si sarebbero dissolti da lì a poco. Marcel adorava quei momenti di attesa dopo la marcia, e soprattutto la certezza di essere solo a tu per tu con la natura che le sue montagne gli offrivano in dono, come ogni autunno, fin da bambino. Dall’altra parte, a monte della piccola radura, un ruscello scorreva tra i sassi, rimbalzando da una parete all’altra della roccia che lo conteneva, guidandolo verso valle. Il corso d’acqua, che sembrava nascere dalla roccia stessa,
percorreva una ventina di metri nel mezzo di quella terrazza naturale ricoperta di erba alpina, per poi scomparire misteriosamente nel suo centro. Probabilmente, continuava il suo corso sotto terra, per poi ricomparire più a valle. Per Marcel non vi erano dubbi, gli sarebbe bastato concentrare la sua attenzione in direzione di quella sorgente naturale per ottenere il suo bottino. E infatti non dovette attendere a lungo. Per qualche istante la visibilità fu ridotta a pochi metri da uno degli ultimi fitti banchi di nebbia che ancora resistevano alla pressione del sole e alle correnti d’aria mattutine. La siluette di una femmina adulta di cervo comparse come dal nulla con il diradarsi della nebbia. China con le zampe anteriori nel ruscello e con le orecchie tese a captare ogni rumore sospetto, si stava abbeverando frettolosamente. Marcel era partito quel giorno con l’intento di scovare e uccidere un maschio, trofeo che gli mancava ormai da ben cinque stagioni. Eppure, la cosa che detestava più di tutte era ritornare a casa da una battuta di caccia a mani vuote. In particolar modo, dopo aver ato due settimane a martellare i suoi compaesani nella bettola del paese, facendo la voce grossa e rivendicando le sue pressoché sovrumane capacità di stanare le bestie sui pendii della montagna. Si mosse lentamente, da manuale, senza togliere gli occhi dal collo della cerva. Tolse la sicura del fucile, fece un profondo respiro per stabilizzare il tremolio al braccio e prese la mira, pronto a fare fuoco. Improvvisamente comparve un piccolo, di quattro o cinque mesi, con ancora dei puntini bianchi sui fianchi che adornavano il pelo di colore misto tra il marrone e il rossiccio. Con fare giocoso il cerbiatto si mise a saltellare da una parte all’altra del ruscello con la spensieratezza tipica di ogni piccolo, che inconsapevolmente delega la responsabilità di gestire le insidie della vita agli adulti. La cerva, infatti, smise all’istante di bere e affidandosi ciecamente alle sue capacità istintive, che è assolutamente inutile cercare di spiegare con la ragione, guardò in direzione del fucile, senza vederlo distintamente, ma intuendo il pericolo. Marcel, ebbe pochi secondi per riflettere, sapeva che i due animali sarebbero scomparsi nei boschi in un batter d’occhio. Quell’anno, dato che era stata registrata una certa abbondanza nella popolazione di cervi, non era proibito sparare alle cerve con i piccoli. Eppure, nessuno sarebbe stato testimone della sua rinuncia. Solo la natura. Nessuno lo avrebbe in seguito schernito dicendogli che con il are del tempo gli si stava intenerendo il cuore. Inoltre, si sarebbe
risparmiato il rancore di sua figlia, che se avesse premuto il grilletto uccidendo un cerbiatto lo avrebbe punito severamente facendogli il broncio per giorni. Tolse il colpo dalla canna e si alzò in piedi per appoggiare il fucile al tronco dell’albero. La cerva scattò rapida in direzione del bosco con il piccolo alle calcagna, convinto che l’improvvisa gara di corsa fosse un gioco al quale non ci si poteva sottrarre. Marcel iniziò a preparare la pipa. Avrebbe avuto tutto il tempo in seguito per cercare un nuovo punto d’osservazione. Non fece in tempo ad accendere la pipa. Un rumore di bastoni che cozzano fragorosamente l’uno contro l’altro si fece udire alle sue spalle, attirando la sua attenzione. Più o meno alla stessa altezza in cui si trovava Marcel, orizzontalmente lungo il pendio, un esemplare gigantesco di cervo maschio stava affilando le corna sulla corteccia di una pianta. L’animale che si trovava a non più di una trentina di metri, era il più grande che avesse mai visto in vita sua, dal vivo o in fotografia. Il collo peloso e possente era largo quasi come il suo busto e le corna spiegate avrebbero potuto scaraventare a terra tre uomini robusti in un solo colpo. Il suo primo pensiero fu di gratitudine per la sorte che gli stava offrendo una preda memorabile su un piatto d’argento, ma tale pensiero venne rapidamente rimpiazzato da un crescente e fondato timore per la sua incolumità. Il cervo abbassò le armi che portava in testa in direzione del cacciatore e grattò due volte con gli zoccoli anteriori sul terreno, come un toro che si prepara alla carica. Nell’instante in cui l’animale scattò in avanti Marcel sentì il cuore pulsargli in gola e la vista gli si annebbiò brevemente. Quando estrasse istintivamente dalla tasca una pallottola per caricare il fucile, il cervo aveva già ricoperto un terzo della distanza che li separava. Nell’agitazione la pallottola gli cadde a terra e dovette freneticamente buttarsi in ginocchio per recuperarla. Nell’istante in cui finalmente fu pronto a sparare, le corna del cervo gli erano ormai quasi addosso, a una distanza di cinque metri. La pallottola colpì l’animale al collo e lo fece stramazzare rovinosamente a terra. Sullo slancio della corsa la bestia scivolò in avanti sul manto di foglie umide, e Marcel dovette fare un balzo indietro per non farsi infilzare alle gambe dalla punta delle corna. Il cervo non era ancora morto. Sanguinava copiosamente, ma lo sguardo era ancora lucido e attento. Fu quello il momento che gli rimase scolpito nella mente
come se fosse stato registrato da una telecamera digitale, e che avrebbe ricordato senza sbavature persino a distanza di vent’anni. L’animale lo fissava dal basso in modo strano. Avvicinandosi Marcel vide chiaramente che in quei grandi occhi scuri i sentimenti di paura e di sconfitta non si erano ancora materializzati, nemmeno in minima misura. Era difficile da spiegare a parole, ma nell’espressione del muso dell’animale ferito Marcel intravide la fierezza del capo famiglia, di chi ha combattuto con onore e offerto la vita per proteggere la propria discendenza. Sfilò dal taschino della giacca una nuova pallottola e caricò il fucile. Al movimento di carica, il cui significato dopo decenni di caccia era divenuto evidente anche per un cervo, l’animale non fece una piega. Quel che vide Marcel, non lo avrebbe mai raccontato a nessuno, neppure alla moglie o alla figlia. Invece che riconoscere nel luccichio degli occhi dell’animale le pena di chi consapevolmente si accinge alla propria fine, vi lesse un messaggio di comione per lui, per il cacciatore. Imbarazzato da quella situazione e irritato per un qualcosa che quell’animale dimostrava di poter vantare persino in punto di morte e che lui invece non riusciva a capire pienamente, prese la mira e gli diede il colpo di grazia. A Marcel venivano ancora i brividi nel ripensare a quella scena. Anche se imbalsamato e segato dal collo in giù, l’animale continuava a guardarlo così come un adulto guarda amorevolmente un bimbo che ha appena fatto un piccolo danno, concedendogli la scusante della giovane età e dell’ignoranza. Ognuno ha le proprie stranezze e i propri indicibili segreti. Fissare lungamente quel busto, come se fosse un intimo rituale in grado di farlo sentire piccolo e mantenerlo così sempre saldamente ancorato alla realtà, era probabilmente la stranezza più palese nella vita di Marcel Schmidt. “Sì, te lo concedo. È proprio una bella bestia. Certo però Marcel, che sei un po’ tanto vanitoso. Quante volte ti ho già beccato in questa sala ad ammirare il tuo trofeo?” gli chiese Emil, che entrando nella grande sala da dietro lo prese un po’ di sorpresa. “Sei in ritardo” rispose seccamente Marcel, irritato per essere stato disturbato nel bel mezzo della sua terapia. Emil, che da ministro delle finanze si era imposto, senza veramente desiderarlo,
come numero due del governo di Helvetia, si recava ogni mattina alla fattoria di Marcel Schmidt per informarlo sulle questioni più importanti e gli avvenimenti degni di nota. “Allora, novità?” chiese Marcel, e prima di dare a Emil il tempo di rispondere aggiunse: “Spero che tu ne abbia di migliori rispetto a quelle che mi hai portato nel corso di tutta la settimana”. Emil si sedette su una delle sedie poste attorno al grande tavolo ovale in legno di ciliegio e assunse un’espressione affranta, da cane bastonato. No, purtroppo non aveva buone notizie da riportare, ma solo guai e crescenti difficoltà. Difatti, dopo i primi mesi all’insegna dell’euforia e dell’armonico sviluppo della regione conservatrice, da qualche giorno alla segreteria di stato andavano accumulandosi ripetute segnalazioni di disagi e scaramucce che ne avevano più o meno seriamente minato la perfezione e il roseo futuro. Inoltre, seguendo quel malaugurato tempismo che permette ai guai di presentarsi sempre in gruppo, anche la comunità internazionale si era espressa in più occasioni in modo molto critico nei confronti del governo di Helvetia, richiedendo una radicale inversione di rotta. “Ieri a San Gallo c’è stata una manifestazione di piazza alla quale hanno partecipato all’incirca diecimila persone. I dimostranti hanno richiesto l’intervento del governo per porre fine alla penuria di budella di bovino d’importazione” esordì Emil leggendo da un foglietto con degli appunti che si era portato appresso. “Che cosa? Emil, oggi non è il primo d’aprile e io non sono per niente in vena di scherzi. Cosa diavolo se ne fanno delle budella di bovino?” chiese Marcel. “Viene utilizzata come pelle per ricoprire il nostro tipico cervelat. Non lo sapevi?” chiese Emil a sua volta, stupito da quella che giudicava come una grave mancanza. “No, non lo sapevo e francamente non me ne importa un tubo. Comunque, esattamente di cosa si lamentano? Non basterebbe produrre più budella di bovino o rimpiazzarle con qualcos’altro?” “La produzione locale è insufficiente e non saremmo mai in grado di aumentarla in proporzione alla domanda di mercato, nemmeno tagliando il collo a tutte le
bestie di cui disponiamo. Da decenni ci siamo abituati a importare la materia prima necessaria a modellare la pelle della salsiccia da paesi sud americani come il Brasile e l’Argentina. Inoltre, essendo il cervelat un dei prodotti tradizionali protetti per legge, dobbiamo sottostare al decreto cinquantotto che impone ai produttori di mantenere il processo di fabbricazione inalterato negli anni. Ricordi? Lo abbiamo approvato con il primo pacchetto costituzionale” disse Emil, che essendo una buona forchetta conosceva con precisione ogni dettaglio per la preparazione di centinaia di prodotti alimentari caratteristici della regione. “Certo che me lo ricordo” borbottò Marcel, che nel corso degli ultimi giorni era divenuto particolarmente irascibile e insofferente d’innanzi a certe inezie. Poi aggiunse: “Continuo a non capire dove sta il problema, se veramente ce n’è uno”. “I paesi dai quali solitamente importiamo le budella hanno cessato di rifornirci, come forma di rappresaglia nei confronti della nostra legge protezionista sui prodotti agricoli. Durante le ultime due settimane le scorte si sono esaurite e la popolazione se ne è accorta perché non si trovano più cervelat sugli scaffali dei negozi di alimentari. Per di più, siamo in piena stagione di grigliate”. “Un vero dramma” commentò Marcel sarcasticamente. Deciso a non perdere tempo con questioni di poco conto, e quindi aggiunse: “Non ho certo intenzione di stravolgere la costituzione per salvare il cervelat. Sopravvivremo tutti a una carestia di salsicce. Altro?” “Abbiamo ricevuto numerose segnalazioni di commerci che sono falliti o si trovano in cattive acque, e probabilmente falliranno tra poco. Appartengono a dei nostri concittadini con dei cognomi non ortodossi. La gente comune non li frequenta più per marcare distanza dalle loro origini” spiegò Emil. Marcel intuì che questa era potenzialmente una tegola ben più seria della precedente. “Non ortodossi, cosa significa esattamente? Non sono mica stranieri, no?” “No in effetti, non lo sono. Sono compatrioti a tutti gli effetti, da generazioni, ma hanno nel loro albero genealogico una qualche storia di migrazione e per questo non si chiamano Schmidt, Müller o Huber”. “Marcel, non si è salvata nemmeno una pizzeria in questa zona” aggiunse Emil affranto.
“Beh, dovranno trovarsi dei soci o cambiare tipo di attività” commentò Marcel lapidario, anche se lui stesso era poco convinto che questa fosse realmente una valida soluzione. “Altro?” “Alcuni giovani scalmanati hanno creato delle ronde che di notte vanno a caccia dei pochi stranieri che dopo la scissione dalla regione progressista sono rimasti sul nostro territorio. Si sono messi in testa che quest’ultimi minacciano la loro incolumità e li aggrediscono se li beccano ad aggirarsi nei pressi di una delle loro abitazioni. Sembra che si tratti in particolare di concittadini che lo sono divenuti da poco, di seconda o terza generazione, e che cercano di rivendicare in modo netto la loro appartenenza ad Helvetia, marcando in modo violento la differenza con coloro che non hanno il nostro aporto”. “Teste calde” commentò Marcel. “Purtroppo ci dobbiamo convivere. Si è già fatto male qualcuno in modo serio?” chiese nel tentativo di ridimensionare la gravità dei fatti, ma ben consapevole del fatto che prima o poi sarebbero dovuti intervenire. “Per fortuna finora si sono limitati a provocare solamente qualche ammaccatura” rispose Emil. “Un postino è stato malmenato per sbaglio perché alle sei di mattina si era avvicinato di soppiatto a una casa di questi scalmanati per non svegliare il cane e così tutto il vicinato”. Marcel diede di sfuggita un’occhiata al busto del cervo, che della sua prospettiva continuava a fissarlo intensamente. “Devi fare in modo di tenere questa notizia lontana dai media. Non voglio che si crei il panico. Fai anche in modo di tenere a bada quel giornalista. Mi pare che si chiami Samuel. Non abbiamo bisogno di fare trapelare all’estero questo piccolo inghippo. I panni sporchi li laveremo tra le mura di casa. Intesi?” Emil fece segno con la testa di avere capito il messaggio. “Altro?” chiese Marcel, abbandonandosi alla remota speranza di vedere svanire la lunga lista di lamentele e l’insorgere di nuovi problemi. Emil fece scorrere rapidamente con gli occhi i suoi appunti. Per quel giorno decise che sarebbe bastato menzionare un solo ulteriore punto. “Ah ecco. Molte famiglie hanno denunciato delle serie difficoltà nel occuparsi dei vecchi, dei disabili e in generale di tutti coloro che hanno bisogno di
assistenza. In alcuni esasperati casi, quei poveretti sono finiti per strada, dove nessuno se ne occupa”. “Emil, su questo punto c’è poco da discutere. Uno dei pilastri della nostra costituzione prevede di mantenere il ruolo dello stato ridotto ai minimi termini, confinato ai mandati di sicurezza, di ordine e a quel poco di servizio amministrativo che riteniamo assolutamente indispensabile. Di più non serve. Di queste persone se ne devono occupare le famiglie” sentenziò Marcel, che aveva fatto molte battaglie politiche in ato per difendere questa posizione. “Sì lo so, ma non è sempre così semplice. Ci sono casi in cui…”, Emil cercò di intervenire, ma fu stroncato da Marcel ancora prima di poter terminare la frase. “No. Lo stato non deve fare da balia alla popolazione. Ognuno deve prendersi le proprie responsabilità”. “Sì in teoria, ma tu non conosci mia suocera!” si ribellò il ministro delle finanze con un tono di voce che Marcel gli aveva sentito usare solo in rare occasioni. “Da quando è venuta ad abitare con noi, la mia casa si è trasformata in una reggia al comando della regina. Le poche ore che mi restano a disposizione dopo il lavoro le dovrei are con mia moglie e i nostri figli, invece, le faccio da maggiordomo, da autista e persino da psicoanalista!” concluse Emil esasperato. Marcel strabuzzò gli occhi. Solitamente quando Emil cominciava con le sue diatribe famigliari, i racconti si protraevano a lungo e potevano volerci ore prima di riuscire a calmarlo. Nadia si presentò nella sala dei trofei con la faccia assonnata e i capelli scompigliati. Doveva essersi alzata da poco. Per Marcel fu come una benedizione. Probabilmente adesso sarebbe riuscito a liberarsi di Emil con una qualche scusa. “Buongiorno Nadia. Va tutto bene? Hai dormito male?” le chiese Marcel al quale non sfuggirono le borse sotto gli occhi. “Buongiorno. Francamente ho dormito poco e piuttosto male” rispose rivolta ai due uomini. Buona parte della notte l’aveva ata in treno e questa mattina si era svegliata con un noioso torcicollo. “Papà, dobbiamo parlare. È molto urgente”. Nadia sapeva di non avere molto
tempo a disposizione e decise di non perdersi in inutili preamboli. Marcel che non aspettava altro per dare un taglio al briefing mattutino, colse l’occasione al volo, si congedò dal suo ministro dalle finanze con una pacca sulla spalla e le propose di uscire a fare due i. Un po’ d’aria avrebbe fatto bene a entrambi. In effetti, il sole era già alto nel cielo e gli odori estivi gli accolsero all’esterno della fattoria come un caloroso abbraccio di benvenuto. Si incamminarono sulla strada sterrata che porta a valle, seguiti a distanza da un gatto con il pelo a strisce rosse e bianche che sovente li accompagnava per strada come se fosse un cane. Incrociarono alcuni dei collaborati della fattoria, tutti indaffarati nello svolgere le mansioni che Marcel gli aveva assegnato per quella giornata. Non appena si furono allontanati sufficientemente dalla fattoria Nadia raccontò al padre i fatti di Ginevra e l’incontro con Jean-Luc Wicht che era avvenuto la sera precedente. Evitò di perdersi in dettagli, concentrandosi sull’essenziale. Marcel, sorprendentemente, reagì in modo ponderato. Infondo si era recata a un incontro ufficiale con i progressisti senza chiedere il suo consenso. Con chiunque altro, sarebbe andato immediatamente in escandescenza. Continuò a camminare senza fermarsi e poi le chiese: “Quindi, se capisco bene, mi suggerisci di dare assistenza a quegli imbranati?” “Sì è esatto. Possiamo chiedere qualsiasi compenso, e poi un nostro intervento gioverebbe alla nostra immagine. Ti ricordo che per il momento non siamo ben visti dalla comunità internazionale” rispose Nadia. “Ah, non c’è bisogno che tu me lo ricordi. Anzi, il problema è proprio quello. Ho già abbastanza grane con la comunità internazionale. Non ho tempo per occuparmi anche di quelle di Nuova Frontiera. I Wicht se la dovranno sbrigare da soli”. “Papà, ci sono in gioco…” Nadia tentò di abbozzare una replica alla scontata bocciatura, ma Marcel le strappò la parola. “Nadia, in questo momento ci stanno mettendo tutti sotto forte pressione. In particolare, abbiamo ricevuto un attacco molto diretto al segreto bancario,
sferrato da alcuni paesi europei e guidato dal Primo Ministro britannico. È convinto che la nostra scissione dai progressisti ha contribuito a rilanciare i movimenti estremisti in Irlanda, e questa sfortunata coincidenza se l’è legata al dito. Come se fosse colpa nostra. Anche se c`è poco da stupirsi, lo sai a che schieramento appartiene quel tizio, no?” “Ok, capisco che sei preoccupato. Ma cosa c’entra tutto questo con la richiesta dei Wicht? Hanno bisogno dei nostri sevizi segreti e delle squadre speciali, giusto per qualche giorno. Poi tutto tornerà come prima”. Nadia era decisa a battersi. Lo aveva promesso a Jean-Luc. “Mi chiedi, cosa c’entra?” ripeté Marcel un po’ indispettito, “non capisci che vogliono fare fuori la piazza finanziaria di Zurigo? Grazie a quegli stolti idealisti dei progressisti, che hanno ceduto subito il segreto bancario come se fosse la peste nera, i riflettori si sono tutti concentrati su di noi. Minacciano di istaurare in tempo record un embargo per gli scambi commerciali se non cediamo in fretta!” Nadia si rese conto che una tale misura, col tempo, avrebbe rovinato Helvetia e che le preoccupazioni del padre erano più che giustificate. Marcel era troppo intelligente per dare corda alle spropositate divagazioni di alcuni membri del partito che immaginavano un’Helvetia autosufficiente e isolata in un mondo ormai completamente globalizzato. La ragazza assunse un’espressione cupa. La stanchezza e la cocciutaggine del padre si combinarono in un cocktail di emozioni che avrebbero steso anche un elefante. La romantica euforia che la aveva accompagnata sulla strada di casa la notte precedente si dileguò come un miraggio estivo, riportandola all’amara realtà. Smise di camminare e si appoggiò con la schiena alla recinzione di un maneggio per cavalli. Alle sue spalle un magnifico stallone arabo, nero come la pece e dai lineamenti precisi e lineari, come scolpiti nella pietra, le si avvicinò alle ricerca di una carota da sgranocchiare o quantomeno una carezza sul muso. Marcel non si accorse di quello che le stava accadendo. Nadia si portò le mani agli occhi, massaggiandoli con le punta delle dita. Il padre attribuì quel movimento alla stanchezza e alla forte luce che sprigionava il sole quella mattina. “Intervenire ci costerebbe comunque molte energie, che in questo momento
dobbiamo riservare per le nostre battaglie” disse Marcel, continuando imperterrito nell’esporre il suo punto di vista. “E poi Nadia, non prendermi per un maledetto cinico, ma dobbiamo riconoscere che i guai di Nuova Frontiera sono come una manna caduta dal cielo. Ci permetteranno infatti di ridistribuire l’attenzione della comunità internazionale lontano da Helvetia e dalle nostre banche”. Le lacrime le rigarono il viso scorrendo lungo entrambe le guance. Nadia se ne vergognò. Avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di poter evitare quello sfogo, ma dovette arrendersi alle forti emozioni delle ultime dodici ore. La giovane donna era ata dalla gioia all’amarezza tanto in fretta da incrinarne inevitabilmente la corazza, così come si crepa il più duro dei materiali esponendolo a dei repentini sbalzi di temperatura. Marcel reagì con un misto di paterna apprensione, dato che non la vedeva piangere da almeno quindici anni, e di irritazione. “Nadia, che ti prende? È colpa di quel Don Giovanni di Jean-Luc Wicht, vero? Lo sapevo che c’era sotto qualcosa. Se lo becco lo strozzo con le mie stesse…” questa volta fu la figlia a interromperlo. “Papà, ti prego. Lascia perdere tutte le argomentazioni possibili e cerca di ascoltare unicamente la voce del cuore”. Marcel provò per qualche secondo a fare come diceva la famiglia, ma sentì solo il rumore dei grilli e quello provocato dalla coda del cavallo che la faceva schioccare sui fianchi per scacciare le mosche. “Il tuo intervento potrebbe salvare delle vite umane, e Dio solo sa quante” aggiunse la ragazza che si avvicinò al padre appoggiandogli le mani sulle spalle. Marcel riconobbe quel movimento, che la ragazza compiva sovente da adolescente per estorcergli un consenso, e capì di essere in trappola. L’imposizione degli occhi della figlia bagnati dalle lacrime gli provocò una piccola fitta al petto che lo costrinse a compiere due i indietro per liberarsi da quella sorta di ipnosi. “Accidenti, non diventerai mica una specie di figlia dei fiori a trent’anni! Mi preoccupi!” Nadia capì di avere creato una breccia nella posizione intransigente del padre e fece a sua volta un o indietro, appoggiandosi nuovamente alla staccionata. “Darò disposizione affinché i nostri servizi d’intelligence, che per puro caso
hanno già degli uomini sparsi sul territorio di Nuova Frontiera, facciano delle ricerche su questi Fratelli Combattenti. Invieremo anche la squadra di pronto intervento antiterrorismo per valutare la situazione sul posto” affermò Marcel Schmidt, strappando un sorriso di approvazione alla figlia. Poi aggiunse: “Ma che sia ben chiaro, io resto dell’idea che questa faccenda non è un problema nostro e non mi basta la promessa di un lauto compenso per intervenire. Nuova Frontiera dovrà offrirci ben altro come controparte. Cerca di ottenere delle nuove concessioni territoriali, possibilmente corredate da qualche florida azienda. E comunque, nessuno muoverà un dito o erà informazioni utili ai Wicht senza il mio consenso. Chiaro?” “Sì, ho capito. Grazie papà” rispose la figlia, che ritenne di avere ottenuto dal padre dei favori ben al di là delle attese. Marcel rientrò alla fattoria di malumore. Aveva ceduto su una questione che riteneva innanzitutto una grossa perdita di tempo e che per di più temeva si potesse trasformare in un’ulteriore grana da aggiungere alla lista di Emil. Nadia decise di rimanere ancora un po’ ai bordi della staccionata ad accarezzare il cavallo sul muso. Con la mano libera compose il numero di telefono di Samuel e lo mise al corrente della decisione del padre, come anche dei problemi che Helvetia stava fronteggiando con la comunità internazionale e che impedivano in questo momento a Marcel Schmidt di pensare ad altro. Samuel si propose di informare i progressisti e di organizzare nel pomeriggio un incontro con Jean-Luc Wicht per fare il punto della situazione. La necessità di un nuovo incontro suonò ai due giovani come superflua, dato che per il momento non c’era molto da aggiungere, ma per finire accolsero favorevolmente la proposta del giornalista nella speranza di poter dare un seguito al discorso a sfondo personale che avevano interrotto la sera precedente. Samuel, che invece colse l’occasione per seguire un piano ben preciso, per il momento si limitò ad annunciare che l’appuntamento avrebbe avuto luogo nella regione di Neuchâtel e che li avrebbe attesi alla stazione della cittadina neocastellana alle quattro di pomeriggio.
Capitolo 14
In quest’occasione, fu Nadia ad arrivare per prima alla stazione ferroviaria di Neuchâtel. Riconobbe subito Samuel che la attendeva appoggiato al cofano della limousine di David Gabus, sotto lo sguardo severo di Viktor, l’autista, preoccupato per eventuali ammaccature. Insieme osservarono l’arrivo del treno di Jean-Luc, in ritardo di pochi minuti. I due giovani si salutarono con tre baci sulle guance e un caloroso abbraccio. Presero posto uno di fianco all’altra sui sedili posteriori della vettura, con le mani teneramente intrecciate, come fossero una delicata erella tra i due mondi. Attraverso questo spontaneo e liberatorio contatto fisico, si congedarono tacitamente dall’epoca delle formalità e delle esitazioni, aprendo le porte a un nuovo capitolo nella loro storia. Samuel li osservò compiaciuto e fece segno a Viktor che potevano partire. Il giornalista spiegò rapidamente che si stavano recando al castello del famoso magnate dell’orologio, David Gabus, di cui si sarebbero potuti fidare ciecamente. David era un uomo sopra le parti, ato da un’influente e ben ramificata rete di contatti. Nessun altro meglio di lui sarebbe stato in grado di aiutarli a risolvere le gravi minacce che incombevano in questo momento sulle due regioni. Per un corto tratto l’elegante limousine blu sfilò lungo la riva del lago, diretta verso la parte ovest di Neuchâtel. Dopodiché s’immesse su una piccola strada che li avrebbe portati in cima alle alture poste sul lato nord della cittadina. Quelle che a prima vista appaiono come delle piccole montagnette, in realtà non servono unicamente a limitare i contorni di Neuchâtel, ma definiscono per chilometri i confini dell’altipiano, dando il via a una catena montuosa che arriva fino in Francia. Viktor, abituato a percorrere i tornanti di quella strada più volte al giorno, apparse indifferente al magnifico panorama che si presentava loro guadagnando quota. Samuel e i due giovani politici, invece, osservarono attentamente dall’alto le case, i giardini e la gente a eggio lungo la riva, e cercarono di cogliere all’orizzonte le forme del lago. In certe giornate estive,
particolarmente calde, con un po’ di foschia provocata dall’umidità, l’altra sponda del lago diventa impercettibile, sfuggevole, e crea un’illusione ottica che permette a un modesto lago di diventare un mare. Tornante dopo tornante, anche la torre del castello Gabus rivolta verso sud, che è possibile vedere distintamente anche dalla città, guadagnò progressivamente di visibilità. Samuel spiegò ai due ragazzi che quello era il luogo in cui si stavano dirigendo e che il castello comprendeva anche una torre gemella, quella posta a nord della tenuta, e ora nascosta dalla prospettiva. Arrivati al grande cancello, Viktor rallentò lievemente e fece scattare l’automatismo di apertura. Nadia e Jean-Luc notarono come il tragitto tra i confini della proprietà e la casa durò qualche minuto, e pensarono entrambi che doveva trattarsi del più vasto terreno privato che avessero mai visto in vita loro. Il giardino prosperava di colori sgargianti, messi in mostra da piante e fiori di origini e forme diverse. Il parco, adornato da quell’arcobaleno di colori, creava un curioso e intrigante contrasto con la classica e ordinata struttura medioevale del castello posto al suo centro. Giardino e castello rappresentavano insieme una sorta di biglietto da visita per gli ospiti dei Gabus, introducendoli così all’universale personalità dell’orologiaio. Viktor si immesse in senso orario sul vialetto ricoperto di ghiaia, per poi arrestare la corsa della vettura davanti all’entrata principale del castello. Marianne e Nicolas Fournier, una coppia se che da molti anni lavorava a tempo pieno in casa Gabus, accolsero i nuovi arrivati come se fossero degli importanti ambasciatori venuti da lontano, e porsero loro un vassoio con dell’acqua e del succo di frutta. Dopo essere ati all’interno del portone principale Samuel e i due giovani politici seguirono Nicolas Fournier lungo un corridoio su i cui lati si alternavano delle statue romane e greche a degli antichi orologi a colonna in legno massiccio. I tre ospiti si sentirono tutti un po’ intimoriti da tanto sfarzo, dato che probabilmente ognuno di questi oggetti valeva più di tutti i loro averi messi insieme. Il signor Fournier, abituato a osservare la reazione di meraviglia che suscitava il castello Gabus in tutti coloro che vi si recavano per la prima volta, commentò lo sfilare di quella collezioni di oggetti antichi, così come sempre gli capitava di
fare in queste occasioni: “Questo non è niente in confronto alla collezione di orologi che il signor Gabus custodisce nella torre nord del castello. Ci ha messo decenni a recuperare tutte le opere più importanti di suo padre. Gli orologi del maestro Gabus sono stati venduti a privati e imprese in ogni angolo del globo. Eppure David ricordava tutte quelle creazioni distintamente, senza eccezioni, così come un esperto d’arte sa riconoscere una tela del suo pittore preferito anche se nascosta tra mille altre”. Prima di entrare nel salone principale al piano terra, dove David Gabus li stava aspettando, il signor Fournier si fermò per un momento e voltandosi verso i tre giovani con aria grave aggiunse: “Però, se posso permettermi di consigliare ai gentili ospiti due temi di conversazione da evitare con David Gabus, beh, uno è proprio il padre defunto e l’altro è la mancanza di una discendenza”. Evidentemente, dopo tanti anni al servizio dei Gabus, Nicolas si era distanziato dal semplice ruolo di dipendente, divenendo per David nientemeno che una sorta di angelo custode. Prima di congedarsi, il signor Fourier si assicurò che tutti sarebbero rimasti per cena e che nessuno fosse sottoposto a una dieta particolare. David Gabus li stava attendendo seduto comodamente su un’ampia poltrona in stoffa. Con una mano stava accarezzando il capo della sua fedele cagna, sdraiata letteralmente sui suoi piedi. Non appena David smetteva anche solo per qualche secondo di coccolarla, il suo pastore bernese indispettito alzava la testa per dargli degli espliciti colpetti sulla mano con il muso. Il mondo visto dalla prospettiva di quel cane era tanto bello quanto semplice, con i rispettivi ruoli ben definiti e immutabili nel tempo. Lei lo avrebbe seguito fedelmente ovunque, scodinzolando felicemente, mentre David doveva semplicemente accarezzarla, senza sosta. David accolse calorosamente i suoi ospiti, senza però alzarsi in piedi. I tre giovani non potevano sapere che la malattia e i dolori avevano ormai raggiunto uno stadio avanzato. L’orologiaio li ascoltò attentamente elencare gli avvenimenti accaduti durante le ultime ventiquattr’ore a Ginevra, in aggiunta alle grane internazionali che minavano attualmente la pace di Helvetia. In conclusione al loro discorso, David rimase per qualche minuto in silenzio, senza commentare l’accaduto ne preoccuparsi del bizzarro clima di attesa che questo suo comportamento suscitò
nei due giovani politici. Si limitò a guardare fuori dalla finestra, con lo sguardo perso tra i colori delle piante del giardino, in apparenza assente e indifferente da quello che aveva appena udito. Nadia e Jean-Luc si scambiarono uno sguardo che palesava un’evidente dose di scetticismo e di frustrazione. Poi, come rinvenendo da una proiezione sul futuro, l’orologiaio, con lo sguardo ancora rivolto verso la finestra spalancata, sorrise, mettendo in evidenza il ventaglio di rughe che partivano dagli angoli degli occhi e che le spesse lenti degli occhiali da vista ingigantivano come al microscopio. Prima di parlare David Gabus consultò attentamente il suo orologio da tasca, non come aveva fatto decine di migliaia di volte in precedenza dando sfogo a una sorta di riflesso incondizionato, bensì, con molta circospezione, come se stesse soppesando la clessidra della sua vita. “Ragazzi, capisco benissimo che questi eventi sono molto gravi e che è più che comprensibile che siate particolarmente preoccupati. Eppure, credetemi, per il futuro del nostro paese ne avevamo quasi bisogno. Sapevo che tutto questo, in una forma o in un’altra sarebbe accaduto, e in un certo senso, addirittura, ci speravo”. Samuel che già da molto tempo aveva capito a cosa mirasse esattamente David Gabus, non fu per niente sorpreso dalla reazione dell’orologiaio. Parole che invece ebbero un effetto ben diverso sui due giovani politici. Fu Jean-Luc a dare per primo fiato alla sua irritazione: “Signor Gabus, forse non ha capito bene, ma ci sono in gioco delle vite umane. Con che coraggio può affermare di avere sperato di vedersi realizzare un disastro simile? Sappiamo tutti benissimo che si è rifiutato di scegliere una delle due regioni autonome in segno di protesta verso la scissione. E per questo, penso di poter dire a nome di tutti in questa sala, le portiamo grande rispetto. Ma se ci ha fatto venire qui oggi solo per crogiolarsi dietro il fatto di aver previsto correttamente che le regioni autonome sarebbero andate a cozzare contro delle serie grane, beh, allora tante grazie e arrivederci. Non abbiamo tempo da perdere e penso che dovremmo andarcene subito”. Jean-Luc diede uno sguardo severo a Samuel, che riteneva responsabile di quest’inutile scampagnata nella regione neocastellana, e si mise al fianco di Nadia deciso a lasciare il castello all’istante.
Con grande sforzo fisico David si alzò dalla poltrona per bloccare loro la strada. Non riuscì a camuffare le smorfie di dolore, mettendo a nudo il suo grave stato di salute. La cagna, che a sua volta era scattata sulle quattro zampe per liberargli i piedi e permettergli il aggio, assunse un’espressione di tenera partecipazione, come se condividesse il male. Abbassò le orecchie impotente dinnanzi al dolore del suo padrone e ritrasse la coda sotto la pancia, per marcare distintamente il sentimento di paura che la affliggeva. Jacqueline Gabus, che nel corso degli ultimi mesi aveva sviluppato una sorta di sesto senso nell’intuire i momenti più penosi nella malattia del marito, apparve sulla soglia del salotto e in un batter d’occhio fu al suo fianco per sostenerlo fisicamente e moralmente. Jacqueline, comprensibilmente, non si preoccupò di salutare i tre ospiti, ma si dedico unicamente ad accertarsi che David non sottostimasse nuovamente il suo stato di salute per poi cadere a terra incosciente. Cosa che purtroppo era accaduta sovente durate gli ultimi giorni. “David, penso che dovresti andare a riposare in camera. Mi occuperò io dei tuoi ospiti” disse la moglie decisa nel costringerlo al riposo. “Ora non posso Jacqueline, ma per favore resta. Tra pochi minuti andrò in camera a distendermi sul letto come dici tu” rispose David che sembrava riprendersi lentamente dal dolore, riguadagnando la lucidità necessaria a riordinare le idee. Poi aggiunse: “Jean-Luc Wicht, per favore calmati e sparatutto cerca di fidarti di me. Tua nonna era decisa e diretta tanto quanto lo sei tu ora, o forse anche di più, ma comunque si fidava di me e in non poche occasioni ha seguito i miei consigli”. La scelta di menzionare la nonna di Jean-Luc per distendere gli animi andò a segno. Jean-Luc e Nadia si sedettero nuovamente sul divano. “Jean-Luc, mi permetto di darti del tu. Uno dei pochi privilegi della vecchiaia” riprese a dire David. “Credo di potervi aiutare e farò tutto quello che è in mio potere per assistervi in questa delicata situazione. Penso che abbiate capito che purtroppo non ho più molto tempo a disposizione su questo mondo. Ma comunque, se ho ben capito, l’ultimatum dei Fratelli Combattenti scade tra circa ventiquattr’ore, e quindi di tempo ce n’è comunque poco”. Jean-Luc non sapeva cosa rispondere. Certo se sua nonna si era veramente fidata di quest’uomo, anche lui avrebbe potuto o dovuto fare altrettanto. Eppure che
garanzie stava dando loro questo sconosciuto, se non la sua parola? Nadia colse l’esitazione di quello che poche ore dopo sarebbe divenuto ufficialmente il suo compagno, e intervenne al suo posto. “Signor Gabus, ci dispiace molto per il male che la affligge e le siamo estremamente riconoscenti per averci accolto in casa vostra in un momento tanto delicato”. Lo disse come se stesse parlando a David unicamente, ma con lo sguardo si rivolse a Jacqueline. La signora Gabus rispose a quelle anticipate condoglianze con un semplice ma significativo cenno del capo, riassunto di compostezza e dignità che solo una donna è in grado di dimostrare. “Però” aggiunse la giovane conservatrice, “deve capire che non abbiamo la minima idea di come intende risolvere la situazione. Anche perché non è nostra intenzione rimanere con le mani in mano ad attendere il realizzarsi di un qualche miracolo”. David Gabus, sempre appoggiato alla moglie con un braccio avvolto attorno alle spalle della minuta compagna, le diede risposta, ma centellinando le parole. I dolori dovevano essere talmente forti da rendere persino questo dialogo un piccolo supplizio. “Per quanto riguarda Ginevra, mi sembra che vi siate messi da soli sulla buona strada. Le forze speciali di Helvetia e i loro servizi di informazione dovrebbero essere in grado di sbrogliare la matassa. Il problema, è convincere tuo padre, Nadia, a concedere il suo aiuto”. Nadia non rispose, abbandonandosi a un profondo respiro. Finora l’orologiaio non aveva aggiunto niente di significativo a quello che già sapevano. Gabus, sotto lo sguardo supplichevole della moglie si sentì in dovere di accelerare i tempi e aggiunse: “Quasi ogni potente di questo mondo, direttamente o indirettamente, attraverso un parente o una amico stretto, ha cercato di proteggere la sua privacy facendo affidamento al nostro paese. C’è chi vi ha mandato a scuola un figlio illegittimo, chi vi ha spedito un parente a curare qualche forma di dipendenza, o chi semplicemente vi ha nascosto dei beni, affinché nessuno ne fosse a conoscenza. Per quanto riguarda le attuali diatribe di Helvetia con la comunità internazionale, basterà capire chi tra questi potenti che vi stanno mettendo sotto pressione nasconde nell’armadio lo scheletro più grande, per poi intimidirlo con l’eventualità di aprire l’armadio al mondo. Se non
vogliono riconoscere il valore che merita il rispetto della privacy, beh, allora sarà proprio la loro di privacy a are in prima pagina. Per quanto riguarda il resto del piano è molto semplice. Forniremo tali informazioni a Marcel Schmidt in cambio del suo sostegno per disarmare la minaccia che incombe su Ginevra”. “E come faremo a ottenere in così poco tempo le informazioni di cui abbiamo bisogno?” chiese Jean-Luc scettico per quello che gli appariva come un piano totalmente campato in aria. David chiuse brevemente gli occhi, forse per concentrarsi nell’evitare l’ennesima smorfia, o forse per cercare in se stesso quella convinzione che lo aveva spinto finora a occuparsi delle sorti della Svizzera, malgrado l’imminente condanna al riposo assoluto e malgrado le cocenti delusioni che i suoi ex concittadini gli avevano servito come ultimo pasto durante gli ultimi sei mesi. “Abbi fede ragazzo. Abbi fede in quello che ti pare, ma sforzati di non perdere la speranza, oppure sarai perduto. Io attiverò la mia rete di conoscenze e sono convinto che entro le prime luci del mattino avremo tra le mani una pista da seguire. Non ti posso promettere più di questo, ma francamente non mi sembra che abbiate molte altre alternative”. Jean-Luc non rispose. Non che lo avesse particolarmente convinto, ma su un punto l’orologiaio aveva sicuramente ragione. Non avevano nessun piano alternativo. “Ed ora vi prego di scusarmi, devo andare a distendermi un momento. Mi auguro di vedervi tutti per cena”. I Gabus s’incamminarono lentamente verso le scale, ma già dopo il primo o si dovettero arrestare. Nadia spontaneamente rivolse loro un’ultima domanda. “Perché?” chiese la ragazza. “Perché fate tutto questo per una nazione che non esiste più e dalla quale vi siete distanziati? Che cosa sperate di ottenere in cambio?” David Gabus sorrise e fece cenno a Samuel di rispondere in sua vece. Quella parte del discorso l’avevano già discussa al telefono poche ore prima. Prima di rispondere alla giovane conservatrice, Samuel attese che i congiungi Gabus fossero usciti dalla stanza.
“Il signor Gabus ha posto delle condizioni al suo impegno. Si tratta comunque di una sola richiesta, molto semplice e modesta. Se grazie al suo intervento le difficoltà di Helvetia e di Nuova Frontiera dovessero davvero risolversi, beh, allora come controparte chiede unicamente che i due governi si riuniscano per due giorni di discussioni, nella stessa forma in cui fu discusso il trattato per la scissione. Insomma, un incontro comprendente voi due e i vostri rispettivi padri. Luogo e forma dell’incontro lo deciderà lui”. “Tutto qui?” chiese Jean-Luc stupito. “Sì, tutto qui. Ho la vostra parola?” ribadì Samuel. “Hai la nostra parola” rispose Nadia per entrambi, prima di aggiungere: “Il signor Gabus crede di poterci condurre a una riunificazione, vero?” “Nadia, ne riparleremo a suo tempo. Sarebbe assolutamente inutile speculare ora su degli scenari che per il momento sono tanto poco probabili quanto un sei al lotto” rispose Samuel categorico. Quella sera cenarono molto presto. A tavola, la signora Gabus prese in mano le redini della conversazione. Descrisse brevemente la malattia che aveva colpito il marito e spiegò come questi ormai da settimane arrivava alle ore serali in uno stato sempre più critico, devastato dalle fitte all’addome e stremato dalla continua lotta per la sopravvivenza. Spesso, andava a riposare quasi subito dopo aver terminato il pasto. Si trattava difatti delle poche ore di riposo effettive che gli erano concesse, dato che, nel bel mezzo della notte, iniziavano i disturbi più fastidiosi e che spesso lo costringevano ad abbandonare il letto all’alba per andare in giardino a cercare sollievo all’aria fresca. Jacqueline guardò il marito mangiare con un misto di materna apprensione e disperata gelosia per quell’entità indefinita, che, rispondendo al nome di morte, presto si sarebbe portata via l’essenza di suo marito, risucchiandola per sempre fuori dal corpo. Il corpo di David sarebbe rimasto inchiodato al letto, immobile, svuotato di quella vitalità che per cinquant’anni la aveva accompagnata fedelmente e protetta così come un re virtuoso protegge la sua regina da ogni barbaro e barbarie. Una di quelle mattine la morte non avrebbe più permesso a David di uscire dal letto per andare a eggiare in giardino. Purtroppo, l’alba di quel giorno era prossima a sorgere e Jacqueline vi si era rassegnata già da qualche tempo. Terminata la cena Marianne e Nicolas Fourier fecero vedere ai tre ospiti le stanze
della torre sud alle quali erano stati assegnati, e li accompagnarono a deporre il necessario per la notte. Le stanze circolari ricoprivano l’intera superficie interna della torre ed erano molto ampie e luminose. All’incirca un terzo della circonferenza del muro, rivolta in direzione del lago di Neuchâtel, era completamente in vetro, offrendo un colpo d’occhio principesco sulla regione. A Nadia fu assegnata la camera più bella, quella al terzo piano, l’unica dotata anche di una terrazza circolare sul tetto e raggiungibile attraverso una scala a chiocciola posta al centro della stanza. Per recarsi nuovamente in salotto, dove i Gabus li aspettavano per bere il te, i tre ragazzi dovettero riattraversare la erella in vetro che collegava la torre alla struttura principale del castello. L’ultimo ad arrivare fu Jean-Luc, che nel frattempo aveva provveduto per ottenere informazioni sugli eventuali sviluppi delle ricerche in corso a Ginevra, ottenendo delle preoccupanti conferme sulla serietà della situazione. In base alle piste investigative perseguite dalla polizia cittadina, i sospetti sul presunto luogo prescelto dai Fratelli Combattenti per nascondere l’ordigno si focalizzarono su tre eventi a grande affluenza di pubblico, che malauguratamente erano tutti previsti per il giorno seguente. Afflitto dall’idea che non sarebbe stato possibile evacuare mezza città in tempo, Jean-Luc comparve in sala con un’espressione del viso molto tirata, che ne deformava i tratti e lo abbruttiva oltremisura. Il giovane parlamentare si sedette al fianco di Nadia. I due innamorati si sforzarono di scambiare qualche parola di circostanza con Samuel e i Gabus, ma fu ben presto evidente a tutti che i due avevano una certa fretta di ritirarsi nelle stanze della torre per poter continuare il discorso lasciato a metà la sera precedente sulle rive dell’Aare. Abbozzarono così la scontata scusa della stanchezza e della necessità di dormire profondamente almeno questa notte, e si congedarono rapidamente. Samuel si sentiva altrettanto esausto ma rimase nel salotto con i Gabus, in parte perché cosciente che non avrebbe avuto molte altre occasioni per porre le sue domande a David Gabus, e in parte per lasciare ai due ragazzi il completo e indisturbato usufrutto della torre sud del castello, almeno per un paio d’ore. Jean-Luc seguì Nadia nella sua stanza. Non sentì il bisogno di chiederle il permesso e Nadia non ritenne necessario usare le parole per invitarlo a entrare. I due giovani richio la porta alle loro spalle come se stessero seguendo un copione ben preciso che non lasciava spazio a inutili divagazioni. Tuttavia da
questo momento in poi, il copione di questo episodio della storia dettava solo le grandi linee di quello che sarebbe accaduto, abbandonando i due attori al doverepiacere di modellarne i dettagli. Paradossalmente, il più intimorito dall’incertezza provocata dalla libertà di plasmare a piacimento la sequenza di azioni da interpretare in quest’atto fondamentale nella loro relazione, fu Jean-Luc. Il giovane donnaiolo, che si era già trovato decine di volte in una stanza solo con una donna, e che solitamente proprio in queste occasioni sguazzava nel suo elemento naturale, si sentì ora perso, timido e impacciato. Incapace di scegliere tra il dire e l’agire, tra l’avvicinarsi o l’attendere, intrappolato tra la magia del primo o e il trionfale appagamento che segue una lunga attesa. Nadia, che malgrado il poco tempo trascorso insieme fino a ora, era già riuscita a imparare a cogliere rapidamente le esitazioni di Jean-Luc e a leggere i suoi pensieri, lo invitò a seguirla sul tetto della torre. Visto dalla terrazza posta in cima alla torre, il cielo limpido di questa sera di mezza estate stava offrendo un velo di stelle tanto bello quanto mistico, regalando loro una cornice pressoché perfetta alla fotografia di una notte memorabile. Fotografia che i due giovani avrebbero in seguito conservato segretamente nell’album più recondito dei ricordi. Nadia intuì che per fare distendere Jean-Luc avrebbero dovuto conversare un po’. Sciogliere la lingua avrebbe permesso a entrambi di rilassare la mente e in seguito tutto il corpo. “Jean-Luc, a che cosa serve il cielo? Noi non lo raggiungeremo mai, e forse nemmeno tra un milione di anni qualcuno sarà in grado di viaggiare fino alla stella più vicina. Eppure è lì, immenso, visibile quasi ogni notte. Ma a che scopo?” chiese Nadia con il naso rivolto verso l’alto. “Non lo so. Forse serve solo a ricordarci quanto siamo piccoli di fronte all’infinito. La terra stessa è solo un granello di sabbia tra le stelle, e noi, in fondo non siamo altro che delle piccole formiche che girano freneticamente attorno a questo granello di sabbia”. “A ecco, quindi mi vedi come una formichina…” sorrise Nadia ironicamente. “Sì, ma ci sono formiche e formiche. Tu sei una di quelle particolarmente belle e misteriose, e soprattutto non mordi!” rispose Jean-Luc cavalcando il gioco. Adorava questa donna che si dimostrava capace di allentargli i nervi e di
guidarlo a parole sulla retta via. “Non mordo? E tu cosa ne sai?” domandò Nadia con evidente ironia per quel che sarebbe accaduto in seguito. Ma per questo era ancora un po’ troppo presto, e così la ragazza aggiunse: “Comunque, non mi hai mica convinta. Diciamo pure che l’universo serve a farci sentire piccoli. Bene. Ma a che scopo? Per frustrarci costantemente dinnanzi al fatto che non viaggeremo mia al di la della casa dei nostri vicini di casa, senza oltreare la dimore del Signor Marte e la Signora Luna? O forse per martellarci la mente senza riuscire ad ammettere che non riusciremo mai a svelare fino in fondo tutte le leggi che governano l’universo? Perché tutto questo ci dovrebbe fare del bene? Siamo forse per natura masochisti?” Jean-Luc esitò un momento, l’eccitazione gli stava annebbiando la vista e un discorso serio in queste condizioni richiese molta concentrazione. “Nadia, ognuno di noi vede se stesso in prospettiva. Io ti vedo con i miei occhi, ti penso con la mia mente, ti desidero con i miei sensi. In prospettiva, nella mia prospettiva, il mio universo è il solo a esistere realmente, tutto il resto è come un sogno, una cornice che spesso dimentichiamo o di cui persino rinneghiamo l’esistenza. E questo vale per me, come per ogni altro individuo. Il rischio di vedere il mondo e l’universo sempre e solo dalla propria prospettiva è di confondere il proprio, e legittimo universo personale, con quello che li contiene tutti, e credere così erroneamente di essere non un individuo tra tanti, ma l’individuo al centro del mondo dei mondi. Mentre invece siamo semplicemente al centro di una mera esistenza. Chi non capisce questa differenza, spesso è incapace di relativizzare la vita e finisce per soffrire costantemente la delusione di non essere il baricentro della vita degli altri. Io credo, che le stelle sono lì per ricordarci ogni notte che di universi ce ne sono tantissimi, tanti quanti le stelle, uno per ogni anima, eppure nessuno di questi è migliore degli altri, sono solo diversi. Questi pensieri a volte mi aiutano a non montarmi la testa quando la vita, volente o nolente, mi porta sotto i riflettori della vita pubblica. È essenziale per non perdere la bussola della ragione”. “Interessante, credo di capire quello che vuoi dire. Qualsiasi cosa facciamo, anche se si tratta di qualche cosa di grandioso visto dalla nostra personale prospettiva, rimaniamo pur sempre semplici donne e uomini” commentò Nadia, affascinata da quel ragazzo, certo belloccio, ma soprattutto capace di stupirla a parole, cosi come aveva appena fatto.
Nadia fece due i in avanti e pose entrambe le mani sulle spalle di Jean-Luc. Gli occhi le brillavano talmente forte che Jean-Luc ne rimase abbagliato. Si chiese se quel colore tra il blu e il viola assumesse quella tonalità particolarmente scintillante ogni qualvolta il desiderio si fosse accesso, o se invece stavano semplicemente riflettendo come in uno specchio lo splendore della Via Lattea sopra le loro teste. Prima di concedersi Nadia sentì il bisogno di porgli un’ultima domanda: “Ricordi quello che mi hai detto sull’alpe di Älggi?” “Sì, me lo ricordo molto bene” rispose Jean-Luc. “Le pensavi davvero quelle parole, oppure le avevi già dette mille volte e le hai giusto ripetute un’ennesima volta tanto con l’intento di fare colpo su di me?” Jean-Luc attese un momento prima di rispondere: “Io credo in quello che ti dissi, e ti assicuro che non mi ero mai espresso così con nessun’altra prima. Eppure, devo ammettere che il vero significato di quelle parole non mi era perfettamente chiaro allora. Non avevo ancora capito fino a che punto sarei caduto negli abissi se non fossi riuscito ad attrarre la tua attenzione. Nadia, non sei unicamente la donna più bella e affascinante che mi è mai capitato di incontrare, ma d’ora innanzi tutto il mio universo sei tu”. Nadia distese una mano dietro la nuca del ragazzo e iniziò a baciarlo. Jean-Luc rispose al bacio lentamente, prendendo progressivamente l’iniziativa. Finalmente liberato da ogni incertezza riguardo all’interesse di Nadia nei suoi confronti, Jean-Luc ritrovò rapidamente la disinvoltura naturale di cui era capace, e Nadia intuì immediatamente che ora era lui a essere entrato nel suo elemento. Di conseguenza la ragazza si abbandonò alle sue mani, che delicatamente la spogliarono di ogni vestito. Il corpo nudo di Nadia apparve a Jean-Luc come un inno alla femminilità, come una venere del Botticelli, ma dalle forme ancora più accoglienti e delicate. Non appena lei cominciò a spogliarlo, furono entrambi travolti da irrefrenabile ione. Il tempo di un sospiro e i due giovani scivolarono a terra avvinghiati l’uno all’altra con tutte le forze. Prima di socchiudere gli occhi, Nadia vide distintamente la Via Lattea che scintillava in lontananza nel cielo stellato, mentre il suo intimo universo si riempiva di piacere.
Nel frattempo Samuel e i Gabus erano rimasti in salotto a discorrere a ruota libera su vari temi. Questo permise loro di conoscersi meglio e rilevare che avevano molto in comune. Malgrado le storie delle rispettive famiglie si fossero realizzate in contesti completamente diversi, i valori che avevano tramandato loro, e che in gran parte ne avevano forgiato i caratteri, combaciavano perfettamente. Addirittura, e ben al di là della semplice constatazione di condividere una particolare visione della vita, il giovane giornalista poté vantare a sua volta una sorta di conquista femminile, anche se di natura completamente diversa da quella che Jean-Luc Wicht aveva appena consumato nella torre sud del castello. Jacqueline Gabus s’interessò molto alla storia del giovane giornalista, dimostrando sincero coinvolgimento per le sorti della sua famiglia e per i tempi non facili che Samuel dovette superare in seguito alla morte prematura dei genitori. La signora Gabus gli pose anche mille domande su quei primi diciannove anni della sua vita ati a fianco dei suoi genitori. Samuel rispose alle domande spontaneamente, per niente messo a disagio dall’interesse di Jacqueline per il suo ato. I Gabus, in parte per una mera questione di età, ma soprattutto grazie alla calorosa accoglienza che riservarono al loro ospite, apparirono agli occhi di Samuel come dei cari parenti o amici di vecchia data con cui potersi confidare apertamente. Jacqueline sembrò interessarsi particolarmente agli anni della sua infanzia, ai processi d’integrazione e di come da bambino aveva vissuto eventuali pregiudizi e cattiverie. Samuel le spiegò come la vicinanza della sua famiglia in quegli anni fu molto importante e come ogni ostacolo si tramutò fortunatamente in un positivo tributo alla sua personalità, rendendolo sempre più forte e determinato. All’apice di quel comportamento premuroso, quasi materno, Jacqueline gli fece portare da Marianne Fournier un bicchiere con delle vitamine, senza nemmeno chiedergli il suo consenso. Sostenne che il giovane aveva l’aria stanca e che senza dubbio sarebbe stato meglio farsi prescrivere una cura di ricostituenti. David, al quale fortunatamente i dolori all’addome stavano concedendo una tregua, osservò divertito le attenzioni di Jacqueline per il loro giovane ospite, sempre ben consapevole di come tutto ciò non stesse accadendo per puro caso. Sapeva molto bene di aver contribuito in buona parte a suscitare quello stato d’animo nell’amata compagna. Difatti, in seguito al loro primo incontro, qualche
mese orsono sulla piazza Federale, David Gabus descrisse Samuel alla moglie con singolare coinvolgimento, che Jacqueline seppe interpretare immediatamente in ogni sua sfaccettatura. Cinquant’anni vissuti insieme avevano saputo creare dei canali percettivi anche per le parole non dette. Per il momento, il magnate dell’orologio non aveva ancora raggiunto nessuna decisione precisa, ma l’idea di aver trovato una colorita e originale alternativa per il futuro della sua azienda, lo stuzzicava e, soprattutto, lo rassicurava dinnanzi alle opzioni che avrebbero visto un’orda di manager rampanti scannarsi per lo scettro del potere, con indubbie conseguenze catastrofiche per la ditta. Ma per questi pensieri aveva ancora del tempo, anche se non molto. David scacciò dalla mentre le ombre che in questo periodo oscuravano le prospettive della sua ditta e si riallacciò al discorso che la moglie stava intrattenendo con Samuel. “Samuel, che cosa fai per scaricare la pressione in momenti come questi?” “Non ho delle ricette ben precise, comunque di solito mi impegno a fare movimento a sufficienza. Vado a correre o a nuotare. Insomma, evito di restare chiuso in ufficio o in casa senza dare sfogo fisico alla tensione” rispose il giornalista. “Aprire regolarmente una valvola per dare sfogo alla pressione è un’ottima cosa” commentò Gabus. “Fare del movimento e liberare così la mente dai cattivi pensieri è un prerequisito essenziale per potersi mantenere in salute, fisica e mentale. Io purtroppo, di quest’aspetto me ne sono curato troppo poco, e ora forse ne pago le conseguenze”. Samuel annuì in segno di approvazione. “Però, questo in genere non è sufficiente” riprese il discorso l’orologiaio, “una volta liberata la mente bisogna anche preoccuparsi di nutrirla di pensieri positivi, altrimenti lo sforzo fisico diventa inutile”. “È un po’ come arieggiare una stanza e subito dopo permettere a qualcuno di fumarci un sigaro” aggiunse Jacqueline, usando un’espressione che piacque molto a David, perché tanto somigliava al tipo di metafore che lui stesso spesso utilizzava.
“Esatto! Tu che cosa fai per occupare la mente con dei pensieri positivi? Ti piace leggere?” gli chiese David. “Francamente leggo assai poco. Ho sempre un libro pronto sul comodino, ma di solito riesco a sfogliare sole poche pagine la sera. E talvolta, nemmeno quelle”. “Se mi posso permettere, ti consiglio di sforzarti di trovare il modo e il tempo per leggere di più. Inizialmente, ognuno di noi parte alla ricerca di un libro da leggere, tanto per are il tempo o per conciliare il sonno. Navighiamo un po’ alla cieca, tra autori e stili diversi, ma con il tempo le cose cambiano. Dopo un po’ sono i libri e venirti a cercare, e proprio al momento giusto ti raccontano la storia che avevi bisogno di sentire in quel particolare momento della tua vita. Non so dirti come fanno, eppure, a me è già successo un sacco di volte. Purtroppo, la mia vista è peggiorata progressivamente negli ultimi tempi, e già da qualche mese non posso più leggere niente. Se non ci fosse mia moglie sarei stato costretto a congedarmi prematuramente dalle mie letture preferite. Jacqueline amorevolmente mi legge ogni sera qualche pagina”. La signora Gabus, sentitasi chiamata in causa, si alzò in piedi faticosamente. Quelle erano giornate lunghe e anche per lei il tempo ava inesorabile. Diede un bacio al marito, augurò a Samuel una buona notte, e si diresse verso le scale tallonata dalla cagna che sperava di riuscire a sgattaiolare per tempo in camera da letto per la notte. Di solito questo non le era concesso, ma da quando David si era ammalato risultava loro meno noioso concederle un angolo all’interno della stanza che non doversi alzare in piena notte per farla smettere di grattare con le zampe sull’esterno della porta. “Vi concedo ancora dieci minuti, poi sarà ora di andare a riposare. Nel frattempo ti preparo le medicine. David, dieci minuti, non un minuto in più. Intesi?” disse la donna ad alta voce e in tono perentorio, mentre stava già salendo i primi gradini. “Non si preoccupi signora, non è mia intenzione strapazzare suo marito oltremisura” rispose Jean-Luc che a differenza di David aveva nei polmoni il fiato necessario per farsi sentire a distanza. “Tu non sei sposato, e quindi forse non puoi ancora rendertene conto, ma sappi che è un vero privilegio essere cullati da una donna tanto premurosa” disse David con lo sguardo rivolto verso le scale e prima di riportare la conversazione
sui binari che stavano battendo in precedenza. “E per quanto riguarda la tua parte creativa? In che modo permetti alla fantasia di sfogarsi in modo costruttivo?” gli chiese David. Samuel non rispose subito a quella che gli apparve inizialmente come una domanda bizzarra, un po’ fuori contesto. “Beh, io scrivo per lavoro. Si tratta di articoli di giornale, ma ci sono comunque mille modi di raccontare una notizia, e migliaia di parole diverse che si possono selezionare per dire la stessa cosa. Per quanto mi riguarda, il fatto di riportare su carta una notizia, a modo mio, è pur sempre una forma creativa” rispose Samuel, anche se non pienamente convinto di avere risposto alla domanda di David Gabus. “Già, è vero. Il tuo lavoro ti permette in parte di dare fiato alla vena creativa, ma francamente non credo che questo sia sufficiente. Si tratta pur sempre di una professione, per la quale il fine primo è di riempire il portafogli per pagare le bollette a fine mese. O sbaglio?” gli chiese David. “Diciamo che cerco di non ridurre la mia visione del lavoro a una mera fonte di sostentamento, ma devo ammettere che non è facile trovare delle nobili motivazioni in tutte le situazioni” rispose Samuel sempre più perplesso. “Samuel, per mantenere l’equilibrio è molto importante sapere riconoscere la vitale necessità di sfamare l’anima, oltre che allo stomaco. L’arte e la cultura, esistono proprio per questo. In giovane età si tende a snobbare gli effetti di una razionalizzazione eccessiva della vita, eppure, con il are del tempo, il rischio di ridursi a degli automi privi di fantasia è molto serio”. Il giornalista ascoltò Gabus senza interromperlo. “In ognuno di noi risiede una forma di vocazione creativa. Coloro che invece di abbandonarsi a tale propensione malauguratamente decidono di soffocarla, si condannano a un’esistenza tanto stereotipata da divenire poco più di una marcia funebre, prevedibile, piatta e puntuale, e soprattutto insopportabile”. Il senso delle parole di Gabus era divenuto più chiaro, così Samuel lo mise giustamente in relazione allo stato di salute dell’orologiaio. “Quanto tempo le resta ancora da vivere?”
“Poco. A parere dei medici, le circostanze che permettono al mio organismo di non essere ancora collassato sono scientificamente inspiegabili, già da alcuni mesi” rispose David senza esitazioni. Samuel cercò di formulare un commento, ma non gli venne in mente niente di appropriato. Benevolmente, fu l’orologiaio a liberarlo rapidamente dall’imbarazzo. “Essere ridotti a un semplice fenomeno statistico, per il semplice fatto di essere ancora in vita, è piuttosto deprimente” aggiunse Gabus senza nascondere una comprensibile dose di tristezza e forse ancor più d’irritazione per la sorte avversa. “Ma nessuno la ridurrà mai a un semplice dato statistico! Con tutto quello che ha fatto e creato in vita sua. Tutti la ricorderanno per l’impero dell’orologio che ha messo in piedi da solo!” replicò Samuel motivato dalle migliori intenzioni. David Gabus notò che Samuel continuava a dargli del lei, a differenza di quello che avevano concordato in occasione del loro primo incontro, ma non diede molto peso alla cosa. Si trattava unicamente di una forma di rispetto alla quale il giovane non riusciva a sottrarsi. “Tutto quello che ho fatto?” chiese retoricamente Gabus prima di aggiungere: “Ho guadagnato tantissimi soldi, e poi? Oltre a questo, che cosa ho fatto?” Samuel rimase nuovamente senza parole, anche se chiaramente non era nelle intenzioni di Gabus attendere una replica. “Parlare in prima persona è a volte più difficile che non fare affidamento a degli esempi disinteressati. Conosco bene un imprenditore greco che ha fatto una marea di soldi con le sue aziende. Molti più di me. Ha sempre adorato i riflettori della vita pubblica, e per una serie di ragioni si è persino occupato attivamente di politica. Ora, a ottant’anni suonati, gode di un discreto stato di salute e potrebbe godersi la serenità di questa fase spensierata della vita. Invece no, si aggrappa con le unghie alla sua immagine pubblica ed è completatamene incapace di mollare la presa. Sai perché?” gli chiese l’orologiaio. “Penso di sapere a chi si riferisce. Ho sempre pensato che si occue di politica unicamente per poter godere dell’immunità parlamentare e non andare in prigione. Ci sono decine di processi per presunta corruzione a suo carico. Non
sapevo che fosse un suo amico” rispose Samuel seccamente. Stavano parlando di una delle figure più dibattute degli ultimi vent’anni. “Non ho detto che è un mio amico. Ho detto che lo conosco” precisò Gabus sorridendo, e aggiunse: “Ma questo poco conta per quello che stavo cercando di dire”. “Alla sua età e con un ato tanto controverso, legato a mille lobby di potere” riprese l’orologiaio, “non lo metteranno mai in prigione. Troveranno sempre una forma di compromesso. No, la ragione non è questa, o perlomeno non lo è più. Il fatto è molto più semplice. È arrivato in una fase della vita in cui si tirano dei bilanci e quello che gli preme di più ora è lasciare un segno indelebile e incontestato nella storia del suo paese. Si augura di essere ricordato come un giusto, un paladino della patria, un cavaliere senza macchia. Insomma qualcuno da emulare e in seguito compiangere. È questo che più di tutto lo motiva a cavalcare ancora l’onda della notorietà. Vuole essere amato dalla gente comune, così come lo sono i calciatori della nazionale o gli eroi di battaglie del ato”. “Non avevo mai visto le cose da questa prospettiva” commentò Samuel sempre più affascinato da quest’uomo che come un libro aperto gli stava donando incondizionatamente il bene più prezioso di cui disponeva. La saggezza di una vita vissuta a osservare se stesso e gli altri. “Credimi, anche il più scellerato degli egoisti al momento di sdraiarsi sul letto di morte scambierebbe volentieri il suo ato con quello di Maria Teresa. Non tanto perché confrontato con la resa dei conti celeste, ma perché anche il più stolto degli individui riconosce che con la morte ogni bene materiale svanisce nel nulla e tutto quello che rimane su questo mondo è il ricordo che si lascia di se stessi” concluse David, che ora chiaramente stava parlando di se stesso. “È per questo motivo che ci tiene tanto a riavvicinare conservatori e progressisti, dedicandovici persino quelli che potrebbero essere i suoi ultimi giorni di vita?” gli chiese Samuel in cerca di conferme. “Penso proprio di sì” rispose l’orologiaio che si stava ormai abbandonando a delle confidenze molto personali, ma non certo per disperazione o per caso. Anche negli ultimi atti della sua vita, Gabus dimostrava di rimanerne l’indiscusso regista, senza però mai discutere l’evidenza di un copione ormai definito fino alle battute finali. “Io non ho la fortuna di poter tramandare la mia
immagine e il mio pensiero nel tempo attraverso dei figli, ma quantomeno voglio tenere fede fino in fondo all’immagine di mio padre che porto dentro”. Il giovane giornalista capì quanto la scissione del paese e la prospettiva di porvi rimedio fossero importanti per l’orologiaio. Eppure questa vicenda, che comunque lo aveva scombussolato e alla quale anch’egli desiderava mettere una pezza, non suscitava ancora in Samuel delle emozioni di pari entità. “Samuel, noi due abbiamo una missione” disse Gabus con l’intento di stimolarlo e di strappargli una promessa per il completamento di un disegno che si sarebbe probabilmente compiuto dopo la sua morte. “Perseguire tale missione mi permette di onorare il ricordo di mio padre, che ha tanto amato questo paese, e permette a te di onorare il tuo, che intraprese un viaggio lungo e tortuoso per raggiungerlo”. Samuel non voleva sottrarsi da una promessa alla quale implicitamente aveva già aderito da tempo. Tuttavia, non riusciva ancora a buttarsi a capofitto in un progetto che mirava a riconciliare due filoni di pensiero che avevano platealmente ripudiato e confinato il rispettivo opposto. “E se ci sbagliassimo? Se fossero loro ad avere ragione nel sostenere che delle visioni contrapposte della vita, alla lunga, non sono adatte a convivere sotto lo stesso tetto?” gli chiese Samuel. David Gabus non rispose subito. Si alzò lentamente dalla poltrona per fare capire al suo ospite che avrebbero terminato presto la loro conversazione. Il sole era tramontato ormai da un po’, e le poche luci accese nel salotto erano tutte riposte su dei mobili a non più di un metro da terra. La fioca luce proveniente dal basso illuminava la pelle del viso di David, creando delle zone d’ombra attorno alle profonde rughe e riflettendo l’immagine di un uomo di dieci anni più vecchio rispetto al giorno del loro primo incontro a Berna. Eppure da allora erano ati soli sei mesi. “Ammetto che il rischio sussiste. Tuttavia, il buon senso, che non rinnego essere una misura soggettiva, mi dice che non è così”. Poi aggiunse: “Scusami se mi ripeto, ma ormai non ricordo più distintamente quello che magari ti ho già detto in precedenza. La battaglia centrale dei conservatori è rivolta a confinare la migrazione dei popoli, che invece, purtroppo per loro, è un fenomeno inarrestabile e
irreversibile. È una battaglia persa in partenza, che a volte può suscitare anche delle simpatie, proprio perché tanto fiabesca quanto le cariche di Don Chisciotte lanciato all’assalto dei mulini a vento. Solo che, se privati di un adeguato contrappeso, quello che nasce come un innocuo attaccamento al ato, e che di per se non farebbe del male a nessuno oltre che a se stessi, può divenire un pensiero deviante e pericoloso”. David Gabus interruppe brevemente il suo discorso. Jacqueline era entrata nella stanza. I dieci minuti erano già largamente scaduti. “Dall’altra parte, i progressisti si affidano troppo spesso alla sfera di cristallo. Credono di avere il potere e il dovere di prevedere il futuro, senza preoccuparsi di consolidare valori ed esperienze che si sono affinate faticosamente con il are del tempo e dei secoli”. Riprese a dire Gabus. “Anche loro, se privati del giusto contrappeso, possono cascare in clamorosi e pericolosi abbagli. Come si fa a credere che il futuro risieda in una banca dati? Le stesse persone che condannano adesso l’ingenuità di coloro che sostenevano che i soldi fossero in grado di generarne altri, senza sforzo, sono ora convinti che le informazioni sono capaci da sole di generarne altre, senza fare uso della mente umana. È assurdo. Tanto assurdo da permettere che si valuti un social network, che in realtà è solo la forma moderna di un diario pubblico per persone insicure o sole, ben 100 miliardi di dollari! E questo quando interi paesi rischiano il fallimento perché incapaci di rendere delle somme simili ai loro creditori”. Gabus si avvicinò a un orologio a pendolo appeso al muro e fece girare il movimento di carica manuale, così come probabilmente faceva ogni sera da decenni. “Mi sono sempre piaciute le cose concrete, come gli orologi. Perché ci vuole tempo e dedizione per farli bene”. Poi pose un braccio attorno alle spalle della moglie e aggiunse. “Questo pendolo oscilla da destra a sinistra, e viceversa, da ben centocinquant’anni, riando sempre e puntuale dal centro”. Il discorso di Gabus, col tempo, avrebbe lasciato dei segni profondi nelle memorie del giovane giornalista. Tuttavia, in questo preciso momento, Samuel era ancora piuttosto scettico rispetto alle loro concrete chance di successo. In particolare, temeva fortemente che fosse ormai troppo tardi per intervenire e invertire la rotta. Sei mesi dal giorno della scissione avevano allontanato ulteriormente le due regioni, che si stavano volontariamente perdendo di vista. “Credimi ragazzo mio, talvolta bisogna avere fede e bisogna saper credere
fermamente in se stessi. La forza di volontà può fare miracoli. Siamo tutti ospiti di questo mondo con un obbiettivo ben preciso. La parte più difficile è saperlo riconoscere. Per il resto invece è molto semplice. Una volta individuata la strada giusta non bisogna abbandonarla mai, per nessun motivo”. “Farò del mio meglio, ma francamente non credo di poterle promettere di più” commentò Samuel sinceramente. “È tutto quello che speravo di sentirti dire. Non una parola di più, ne una di meno” rispose David Gabus con espressione compiaciuta, e aggiunse: “I miei informatori stanno lavorando intensamente alle informazioni che abbiamo ato loro. Se trovano qualche cosa di utile ci chiameranno questa notte usando il numero di telefono che è collegato al mio studio privato. Io ora devo andare a riposare. Posso chiederti di attendere le chiamate nel mio studio?” Jacqueline che sapeva quanto David fosse geloso del suo angolo di assoluta privacy e che nessuno, lei compresa, era autorizzato a varcare, ebbe un piccolo sussulto di stupore. “Ci vado subito. Signora Gabus, David, buona notte” rispose Samuel già diretto verso la torre nord del castello.
Capitolo 15
Raggiunta la torre nord del castello, Samuel iniziò l’ascesa lungo i tre piani della scalinata circolare che lo avrebbe portato nello studio privato di David Gabus. Sulle pareti, separati da pochi metri l’uno dall’altro, erano esposti degli orologi da polso. La fattura di tali oggetti rendeva evidente, persino a un profano del mondo dell’orologio, che la qualità e il valore dovevano essere assolutamente eccezionali. Si trattava indubbiamente della raccolta completa delle opere del padre di David, che l’orologiaio aveva recuperato pazientemente nel corso degli anni e che custodiva ora gelosamente come se fossero delle reliquie. Al centro della torre, al primo come anche al secondo piano, c’erano due stanze senza finestre, con al loro interno ulteriori pezzi della collezione. Samuel si disse che l’assenza di finestre doveva essere uno dei tanti tasselli di un sistema di sicurezza avanzato. In mezzo a queste due stanze s’innalzava una colonna di vetro illuminata dall’alto e che attraversava il soffitto tra il primo e il secondo piano, creando un misterioso gioco di luci. All’interno della colonna di vetro c’erano due orologi adagiati in bella vista su dei cuscini color vermiglio. Samuel intuì che la struttura in vetro della colonna doveva essere stata progettata non solo con l’intento di mettere in risalto due opere in particolare tra le tante esposte all’interno della torre, ma anche per aggiungere un livello protettivo superiore per quei due orologi. Probabilmente, sarebbe stato sufficiente appoggiare una mano sul vetro per fare scattare l’allarme. Logicamente, Samuel fu tentato di andare a sbirciare all’interno delle stanze, per cogliere il perché di un palcoscenico privilegiato proprio per quelle due opere, ma fu distratto dallo squillare del suo telefono portatile e continuò quindi ad avanzare lungo le scale. Anzi, dovette accelerare il o perché la voce del comandante Dubois raggiungeva solo a sprazzi il suo telefono e a tratti la mancanza di finestre riduceva talmente il segnale da impedirgli di sentire quello che questi gli stava dicendo. Arrivato al terzo piano, nello studio di Gabus, il segnale migliorò considerabilmente. Il tetto della torre era ricoperto su tutta la superficie da uno spesso strato di vetro, proprio come un orologio.
Il capo della polizia aveva cercato di mettersi in contatto con Jean-Luc Wicht e non essendoci riuscito a più riprese si era rivolto ora a Samuel. Il giornalista non poteva disturbare i due giovani in questo momento. Nella torre sud, Jean-Luc e Nadia erano alle prese con delle questioni di natura completamente diversa dai fatti di Ginevra. Gli ci vollero ben dieci minuti per liberarsi dall’insistenza del comandante, al quale Samuel cercò invano di fare capire, con dei velati doppi sensi, la ragione che aveva spinto il giovane progressista a spegnere il suo telefono. Purtroppo Dubois, non essendo per niente portato a rilevare i doppi sensi, non capì minimamente quello che Samuel stava cercando di dirgli, e cercò quindi conferma di una sua improbabile interpretazione. Nel momento in cui Dubois gli chiese se l’indisposizione era di tipo intestinale e se Jean-Luc avesse già perso molti liquidi, Samuel colse la palla al balzò e confermò che il giovane era da ore rinchiuso in bagno e che probabilmente ci sarebbe rimasto per buona parte della notte. In seguito, il comandante lo mise brevemente al corrente della situazione. Il termine posto dai Fratelli Combattenti scadeva alle diciassette del giorno seguente, e per il momento dell’ordigno non c’era nessuna traccia. Evacuare tutti i luoghi pubblici avrebbe scatenato il panico, dando il via a una pericolosa fuga, isterica e disordinata. Come se questo non bastasse, poche ore prima, all’interno dell’ufficio postale di Grand-Lancy si erano uditi degli ulteriori spari. Malauguratamente, non era più possibile escludere che ci fossero già delle vittime tra gli ostaggi. Impotente dinanzi a queste notizie, a Samuel non rimase altro che promettere a Dubois di richiamarlo la mattina seguente di buonora, per informarlo di eventuali progressi ottenuti durante la notte. Samuel appoggiò il telefono sul tavolo rotondo in ciliegio che fungeva anche da scrivania, e iniziò a guardarsi intorno. La prima cosa che percepì fu uno strano odore, né buono né cattivo. Un odore di vissuto, difficile da descrivere, e che forse era sprigionato dai mobili o dai libri. Assomigliava all’odore che ci si può immaginare di assegnare mentalmente alla storia, anche se forse la storia non ha un odore. La sedia a poltrona, in pelle sintetica nera, sulla quale si sedette era affrancata al
terreno attraverso un binario circolare in metallo che consentiva di percorre tutta la circonferenza del tavolo rimanendo seduti. Probabilmente questa scelta originale, e anche un po’ infantile, permetteva a Gabus di orientare la sua prospettiva di lavoro a dipendenza dell’angolo d’incidenza del sole, evitando cosi, durante tutto il giorno e in ogni stagione, di essere disturbato da noiosi riflessi sullo schermo del suo computer, o da ombre indesiderate sui documenti che stava consultando. Il resto del mobilio era molto semplice e tutto in legno massiccio. La libreria ricopriva l’intera superficie del muro. Persino la fenditura che Samuel aveva attraversato per entrare nella stanza era ricoperta dall’interno da una serie di scaffali e libri affrancati sulla parte interna della porta. Una volta richiusa la porta, lo studio appariva come un ermetico contenitore cilindrico, alto all’incirca cinque metri per otto di diametro e ricoperto da un lucernario circolare. Insomma, se qualcuno fosse stato introdotto per la prima volta in questa stanza in stato d’incoscienza, al suo risveglio avrebbe creduto di essere prigioniero di un pozzo e istintivamente, per liberarsi dalla prigionia, invece che immaginare l’esistenza di una porta avrebbe cercato di scalare la libreria, districandosi come un rocciatore tra i tanti libri che questa metteva in bella mostra. Samuel, che invece conosceva l’esistenza della porta avendola appena attraversata, si premurò di segnarne la posizione con un pezzetto di carta adesivo colorato. Lo attaccò al libro posto davanti al pulsante che permetteva di fare scattare il meccanismo di apertura. Per la cronaca, Samuel notò che si trattava di un’antica stampa illustrata della Divina Commedia di Dante, edita a Milano nel 1904. I libri nel loro insieme erano disposti in modo apparentemente casuale. Generi, autori, dimensioni e anno di edizione erano tutti sparpagliati tra di loro, rendendo evidente che nessuno di questi criteri era stato utilizzato per raggrupparli. Per esempio, sullo scaffale all’altezza del suo viso, il giornalista fece scorrere sotto le dita una stampa recente e quasi immacolata di un libro di José Saramago, Il Saggio sulla Lucidità, seguito da una vecchissima e sgualcita versione del Don Chisciotte di Cervantes. Eppure Samuel percepì che l’orologiaio non li aveva riposti in una disposizione casuale. In effetti, ma questo Samuel non poteva saperlo, David Gabus aveva collocato i libri in funzione del suo indice di gradimento. L’orologiaio teneva a portata di mano, a mezza altezza, quelli che riteneva essere i migliori, confinando gradualmente i meno buoni verso gli estremi della libreria. Seguendo questo schema i peggiori erano stati riposti
vicino al pavimento o molto in alto sugli ultimi scaffali. Per il resto, lo studio comprendeva unicamente due altri oggetti. Un telescopio di tipo newtoniano, in disuso, e un mappamondo in legno fabbricato negli anni ’30 e che riportava ancora i territori coloniali inglesi in India e quelli si in Africa. Samuel si sentì improvvisamente molto stanco. Malgrado la frenesia degli ultimi due giorni e lo stati d’animo inquieto che provocava la snervante attesa di una chiamata, senza nel frattempo poter muovere nemmeno un dito, si augurò di riuscire a dormire almeno un po’. Chiuse gli occhi ed entrò rapidamente in uno stato di dormiveglia, che tipicamente non permette di rilevare l’effettivo scorre del tempo. Secondo la percezione del tempo che ebbe il giornalista, il telefono analogico dello studio si mise a squillare dopo circa dieci minuti. Ma forse erano già ate alcune ore da quando si era appisolato sulla sedia poltrona. “Studio del signor Gabus” fu la prima cosa che gli venne in mente di dire, anche se risuonò nella sua mente come la voce di un centralinista. “Chi parla al telefono?” gli chiese una voce maschile dall’altro lato della cornetta. “Samuel. Sono stato incaricato dal signor Gabus di raccogliere eventuali chiamate e di disporre in suo nome se necessario” rispose, Samuel che lentamente stava riguadagnando la lucidità necessaria alla conversazione. “Un cognome non ce l’ha?” rincalzò l’uomo in tono militare. “Samuel e basta, e lei chi è?” rispose secco il giornalista. “Mi chiami Sanders. Ogni tanto sbrigo dei lavori d’intelligence per il signor Gubus”. “Sanders, niente nome di battesimo?” lo provocò Samuel. “E a che cosa serve che glielo dica? Nemmeno Sanders è il mio vero nome!” rise l’uomo prima di aggiungere: “Lasciamo perdere le presentazioni. Se si trova nello studio di David Gabus, non ho dubbi che vi è stato autorizzato. Ho qualche
notizia interessante da riportare. Abbiamo trovato una buona pista, ma purtroppo ora siamo arenati, e da più di un’ora non riusciamo a fare progressi”. “Beh, cominci pure dall’inizio. Poi vedremo” gli disse Samuel. “Come vuole. Nel 1983 il padre dell’attuale Primo Ministro britannico atterrò all’aeroporto di Zurigo a bordo di un jet privato e con appresso un carico molto voluminoso. Il contenuto fu classificato come materiale diplomatico e non venne sdoganato. L’uomo, che in precedenza era anche stato ambasciatore per il Regno Unito in Svizzera, ripartì quello stesso giorno da Zurigo senza il minimo bagaglio. I registri aeroportuali non riportano nessuna notizia supplementare”. Sanders fece una pausa. Probabilmente stava consultando degli appunti. “All’incirca dieci anni dopo, nel ’96, e in seguito alla morte del marito, la madre del Premier britannico arrivò a sua volta all’aeroporto di Zurigo con un jet privato. In questo caso la consultazione di un registro a me noto, mi ha permesso di ricostruirne gli spostamenti. La donna si recò direttamente alla sede centrale della Banca Universale in centro città. Vi ci restò per circa tre ore e ne ripartì con quattro cartoni sigillati di grandi dimensioni. Fu scortata all’aeroporto dall’ambasciatore britannico in carica in quegli anni e nuovamente il materiale non venne sdoganato, perché classificato come materiale diplomatico inaccessibile. L’ultimo ulteriore elemento a noi noto è la destinazione del volo, che portò la donna e il prezioso carico sull’isola di Jersey”. Samuel colse subito l’essenza della notizia e riconobbe come questa avrebbe potuto svilupparsi in un’informazione utile ai loro fini. Senza riflettere ulteriormente sulla valenza specifica di questa pista, si concentrò sull’evidente mancanza di elementi concreti. “Immagino che se non mi ha detto di che natura fosse il contenuto, è perché non lo sapete, o sbaglio?” “In effetti, non ne siamo a conoscenza. Gli elenchi bancari ai quali ci è stato concesso di accedere riportano solo le date di registrazione delle cassette di sicurezza e della scissione del contratto, ma nessuna informazione sul contenuto degli oggetti che hanno ospitato per tredici anni”. “Avete provato a intervistare i dipendenti della banca?” chiese Samuel. “Certo, anche se questo ha richiesto un’autorizzazione scritta del consiglio di amministratore e del ministro delle finanze di Helvetia. In questo momento ho
quattro uomini che se ne stanno occupando da più di un’ora, facendo squillare in piena notte i telefoni di mezza Zurigo. Il problema è che, oltre a essere ato parecchio tempo, buona parte dei dipendenti responsabili per le cassette di sicurezza o di quelli incaricati di gestire i clienti britannici, lavorano per la banca solo da pochi mesi. Quasi la totalità dei dipendenti stranieri hanno lasciato recentemente la banca e si sono trasferiti nella regione progressista o sono tornati in patria” rispose Sanders. “Capisco. Eppure una visita tanto importante, in presenza anche dell’ambasciatore britannico, non può essere ata inosservata” commentò Samuel perplesso, e aggiunse: “E l’amministratore delegato e il suo staff, non ne sanno niente?” “Niente da fare. Anche lui e i suoi scagnozzi sono con la banca da soli due anni” precisò Sanders. Si trattava dell’unica pista che avevano e Samuel era deciso a non lasciarla cadere senza quantomeno tentare tutto il possibile. “E l’amministratore delegato precedente? Avete provato a contattarlo?” “Si chiama Zuckermann. È stato alla guida della banca per dieci anni e nell’insieme ha lavorato per quell’istituto per venticinque anni. Ora è ato alla concorrenza. Comunque non credo che sia al corrente di quell’episodio. Probabilmente quel giorno non era nemmeno a Zurigo, ma in giro per il mondo a battezzare filiali in Asia o in Sud America” spiegò Sanders con tono distaccato. “Beh, non mi sembra un buon motivo per non fare nemmeno un tentativo. Chiamatelo e scoprite se effettivamente non ne sa niente” cercò di spronarlo Samuel. “Ah signor Samuel, non credo che sia una buona idea. Zuckermann è un tipo scontroso, acido e arrogante. Dopo aver munto la vacca grassa per anni e aver incassato una marea di soldi, ha abbandonato la nave lasciandosi alle spalle una serie di dossier irrisolti che minano potenzialmente l’esistenza stessa della banca. Credo che in questo momento, reagirebbe particolarmente stizzito nei confronti di qualsiasi inchiesta sul ato dell’istituto. Si considera già sufficientemente messo sotto processo da parte dell’opinione pubblica per le pratiche poco pulite che l’istituto ha praticato in ato. Mi creda, ne so qualcosa e credo che non caveremmo un ragno dal buco”.
Probabilmente Sanders era a conoscenza di più informazioni sul conto dell’ex dirigente di quelle che poteva condividere ora con Samuel. Immaginò che per conto di qualche altro mandante privato o entità governativa, o forse sotto incarico dello stesso Zuckermann, Sanders avesse già a che fare con il ato dell’ex amministratore delegato e non fosse autorizzato a mescolare due mandati potenzialmente antitetici. Il giornalista era oramai abituato a trattare con questo tipo di informatori e aveva imparato a cogliere certe sfumature. Fu così che capì immediatamente quale fosse il reale scopo di quella chiamata. Sanders, per togliersi dall’impiccio nel quale si era venuto a trovare e senza perdere la prospettiva di ricevere il compenso pattuito per la sua ricerca, si era deciso a richiedere a Gabus di intercedere personalmente con l’ex dirigente della banca. Solo che in questo momento non era possibile disturbare Gabus. Di conseguenza sarebbe toccato a Samuel occuparsene. “Sì, mi ricordo bene di questo tizio. La stampa ha commentato ampiamente le vergognose condizioni della sua buonuscita. Mi dia il numero di telefono. Lo chiamerò io” sentenziò il giornalista senza esitazioni. “Faccia come crede, e buona fortuna. Ne avrà bisogno” rispose Sanders, che oltre al numero privato di Zuckermann gli diede anche il suo, corredato dalla richiesta di argli ogni eventuale informazione degna di nota. La telefonata si svolse da copione. Zuckermann reagì indignato nei confronti della faccia tosta dimostrata da questo sconosciuto, che lo disturbava a casa alle due di notte. Rispose al telefono e si trattenne dal troncare immediatamente la conversazione esclusivamente perché la chiamata proveniva dallo studio privato di David Gabus. Samuel cercò di sorvolare sulle imprecazioni che fuoriuscivano a raffica dal ricevitore e si concentrò unicamente nell’esporre in poche parole il motivo di quella telefonata e il tipo di informazioni di cui avevano bisogno. Il manager, come previsto da Sanders, affermò irritato di non avere nessuna informazione utile e Samuel dovette attingere a tutte le sue capacità retoriche per impedirgli di riagganciare la cornetta. Non avendo niente da perdere il giovane giornalista cercò di metterlo sotto pressione, menzionando l’unico argomento che potesse interessare a Zuckermann: il denaro. Gli spiegò che verosimilmente la banca per la quale aveva lavorato per venticinque anni avrebbe chiuso i battenti entro sei mesi, perché isolata in modo definitivo dalla comunità bancaria
internazionale. Samuel sapeva benissimo che all’ex dirigente dei destini della banca non gliene importava un fico secco, ma della marea di opzioni sui titoli dell’istituto, che aveva ricevuto come buonuscita, gliene importava eccome. Gli disse che quei titoli tra pochi mesi sarebbero stati valutati pari alla carta da cesso militare, e questo ben prima del termine, stabilito dalla sua buonuscita, per una possibile conversione in titoli correnti o cessione sui mercati. Zuckermann per la prima volta da quando aveva risposto al telefono si guardò dal strappare la parola a Samuel a metà frase. Fece una piccola pausa per riflettere e non disse niente per circa trenta secondi. “Alla sede centrale di Zurigo ha detto?” gli chiese infine con tono ponderato, freddo e determinato. “Sì esatto, alla sede centrale. Aprile 1983 e poi maggio 1996” rispose Samuel esterrefatto da come l’ex dirigente fosse stato capace di ricomporsi e cambiare modus operandi tanto facilmente, sotto l’influsso della parola magica: il denaro. Un robot, non sarebbe stato in grado di reagire più rapidamente. “L’usciere della sede centrale era un cittadino italiano, originario della regione di Venezia credo. È immigrato a Zurigo negli anni sessanta ed ha lavorato per la banca più di quarant’anni. Tutti lo conoscevano molto bene non solo perché era facile incrociarlo all’entrata in veste della sua funzione, ma anche perché dopo tanti anni era ormai divenuto un po’ come un’istituzione all’interno della banca. Dubito che ci sia qualcuno con una memoria storica della banca migliore di quella di cui disponeva quell’uomo” spiegò Zuckermann. “Perché si esprime al ato? Non sarà mica deceduto spero?” gli chiese Samuel allarmato. “Che domanda idiota. Io non ho mica tempo da perdere con lei. Se le parlo di quell’uomo è perché voglio darvi la migliore pista possibile da seguire. L’usciere, di nome Zamparini, è andato in pensione all’incirca nello stesso periodo in cui ho lasciato io la banca. Me lo ricordo bene perché il giorno della mia ultima riunione con la direzione, mentre attendevamo l’arrivo della limousine, mi disse che mancavano pochi giorni anche a lui e che si sarebbe ritirato con la moglie in Ticino”. Zuckermann fece nuovamente una piccola pausa per riflettere e aggiunse: “Non penso di avere altre informazioni utili”. A questo punto fu Samuel a togliersi lo sfizio di appendere immediatamente la
cornetta senza aggiungere la minima parola. Il giornalista per la prima volta da due giorni vide un piccolo spiraglio affacciarsi all’orizzonte, o meglio, dato il luogo in cui si trovava in quel momento, credette al miraggio di un’inverosimile corda, calata dall’alto per riportarlo in superficie dal fondo del pozzo in cui era cascato. Fatto sta, che il Canton Ticino faceva parte della regione progressista e una sorta di scambio di favori avrebbe beneficiato a entrambi i paesi. Poi, scacciata la debolezza di una prematura euforia, Samuel si disse che prima di aggrapparsi incondizionatamente a questa possibile via d’uscita era necessario verificare la validità dell’informazione, e cosa ancora più importante, capire se questa pista avrebbe portato a qualcosa di veramente utile per i loro intenti. Samuel si premurò di are immediatamente la notizia a Sanders, il quale a sua volta gli promise di richiamarlo non appena avessero appreso da Zamparini il contenuto di quegli scatoloni. Nell’attesa il giovane giornalista cadde in un sonno profondo che lo portò a fare un sogno piuttosto strano.
Il paesaggio in cui lo catapultò la mente era verde e rigoglioso di una fitta vegetazione tropicale. Samuel si trovava alle pendici di una montagna d’origine vulcanica, inconfondibile per la perfetta forma a cono, le ripide pendici e la cima appiattita, come troncata di netto da un colpo di machete. Essendo un sogno, non perse tempo a chiedersi né dove si trovasse esattamente quel luogo, né il perché di questa escursione. Seguì unicamente quell’istintivo bisogno di incamminarsi a o deciso attraverso l’umidità della foresta e di scalare la montagna fino in cima. Guadagnando quota Samuel poté distinguere all’orizzonte una serie di colline, quasi irreali per la precisa cadenza con cui scandivano il territorio a perdita d’occhio. Avanzare tra gli arbusti, sotto le grandi piante, era tutt’altro che facile. Samuel non stava seguendo un sentiero battuto e ben demarcato, come quelli che si possono percorrere per chilometri sulle Alpi svizzere. Ebbe la netta impressione di aver scelto una via vergine, o quantomeno, una via che la foresta si era già prodigata di riempiere nuovamente di rami, foglie e incognite, cancellando i segni del aggio di chi lo aveva preceduto. Durante la scalata si concesse
delle piccole pause per ascoltare i rumori della natura. Samuel intuì che non avrebbe incontrato nessun altro uomo quel giorno e che il significato di quella scalata era da ricercare unicamente in se stesso. Era solo su quella montagna, fatta eccezione per la miriade d’insetti e animali di cui percepiva la presenza tutt’intorno, e che timidamente si riparavano sotto le foglie al suo aggio. Nonostante la solitudine e la natura selvaggia, Samuel non sentì paura alcuna per la sua incolumità, eccezion fatta per la sensazione di una minaccia ben più grande, che paradossalmente lo stava attirando come una forza irresistibile verso l’apice della montagna. A compensare il sentore di un pericolo terribile, Samuel ebbe l’impressione di indossare un corpo più alto e robusto di quello reale, che gli permise di dimenticare lo sforzo fisico e avanzare imperterrito, senza mai dover cambiare rotta per cercare delle zone meno impervie della foresta. Raggiunse la cima della montagna dopo un lasso di tempo indefinito, tipico del sogno. Istintivamente consultò il polso sinistro alla ricerca di un orologio, e per un istante fu vicino al risveglio. Si rese conto di non aver mai sognato un orologio. Forse era impossibile osservare il ticchettio di una lancetta nel sonno. Si voltò nel vano tentativo di dare almeno una dimensione spaziale alla sua condizione, ma il paesaggio a valle era scomparso sotto una fitta cappa di nebbia. Fece allora qualche altro o in avanti fino ad arrivare ai bordi di un precipizio talmente profondo da farne scomparire le pendici nell’oscurità, senza rilevarne il fondo. Non c’era alcun dubbio. Aveva raggiunto il cratere del vulcano. Il fumo che ne fuoriusciva aveva l’odore pungente dello zolfo e Samuel sentì la vista offuscarsi a sprazzi, sotto le folate del vento denso del velenoso gas. Dalle viscere del vulcano s’innalzò un urlo inizialmente lieve, poi sempre più forte, come se qualcuno o qualcosa stesse risalendo dal basso verso la superficie. Non si trattava di un suono umano, eppure chiaramente non era nemmeno l’effetto del vento o il verso di un animale esotico. Un verso stridulo e struggente, mai udito prima di allora, gli stava venendo incontro. Samuel vide emergere dal centro del cratere un drago alato enorme, grigio come la morte, con gli occhi iniettati di rosso sangue. Lo stupore di quella visione lo riportò nuovamente a un niente dal risveglio. Com’era possibile sognare un mostro, sotto forma di un drago a trent’anni suonati? Malgrado l’evidente lucidità di quel pensiero, Samuel non si svegliò. Anzi, iniziò a percepire del vivo terrore scorrergli nelle vene, in modo tanto razionale dal convincersi di essere realmente in pericolo. Samuel poté quasi
intuire il dolore fisico provocato dall’incombente minaccia, dal fuoco che il drago stava sputando nella sua direzione e che stava rendendo l’aria bollente sotto l’effetto del suo rapido avvicinarsi. L’istinto gli sbloccò le gambe e così si mise a correre verso valle. Solo allora si accorse di essere scalzo e completamente disarmato. Come se non bastasse, il giovane inciampò goffamente più volte negli arbusti che gli impedivano di avanzare rapidamente. Ogni volta Samuel si rialzò immediatamente, senza perdersi d’animo, ma l’urlo del drago si fece sempre più vicino e il calore alle sue spalle, sotto i colpi del fuoco dirompente, sempre più insopportabile. Samuel si lanciò lungo un ripido pendio stretto tra due valli, che non ricordava di avere attraversato salendo verso la cima. Perse l’equilibrio e scivolò rovinosamente sulla schiena, come incanalato all’interno di uno scivolo naturale costituito da muschio e foglie umide. Cadendo acquistò velocità a sufficienza da distanziare il drago. I colpi inflittogli dalla travolgente discesa gli lacerarono i vestiti e gli trasmisero nel sonno la sensazione di un angoscioso dolore. La precipitosa discesa fu arrestata dal sopraggiungere di una pianura. Un praticello delle dimensioni di un campo da calcio, posto all’incirca a metà montagna, e sgombro da arbusti e rocce. Samuel percepì di essere ferito e, nonostante la ferrea volontà di continuare nella corsa il più velocemente possibile, si rese conto di riuscire ad avanzare solo lentamente, come al rallentatore. Nel momento in cui il drago si posò alle sue spalle, il giovane era arrivato non più lontano del centro della radura. Estenuato dallo sforzo e afflitto dall’inutilità della fuga, si voltò verso la bestia, rassegnato a subire la vampata letale. Proprio in quell’istante il viso del drago mutò di espressione. Gli occhi rossi rubino del mostro si concentrarono su qualcosa alle sue spalle. Dalla foresta era comparso un gorilla gigantesco, grande almeno quanto il drago. Il gorilla stringeva saldamente tra le mani una lancia che conficcò con tutta la sua forza nel terreno davanti ai suoi piedi. L’impatto molto violento fece tremare la terra, come sotto l’influsso di un forte terremoto, e dalla punta della lancia si ramificò un profondo squarcio che percorse il suolo fino alla base della montagna. L’apertura nel terreno si trasformò progressivamente in una profonda cicatrice, che spaccò la radura in due pezzi di eguali dimensioni. Quando la terra smise di tremare, Samuel poté tirare un sospiro di sollievo nel costatare che il drago era stato confinato sull’altro lato della spaccatura, mentre lui era ora al sicuro, protetto alle sue spalle dalla figura imponente del gigantesco gorilla.
Non ci mise molto a capire che purtroppo non era ancora finita. Il drago, così come era emerso in volo dalle viscere della montagna, spiegò le poderose ali e dopo aver lanciato l’ennesimo straziante monito si lanciò verso di lui ando sopra al crepaccio. Samuel girò rapidamente lo sguardo verso il gorilla, nella speranza di vedere questi partire alla carica di un epico scontro tra colossi. Invece il gorilla non si mosse di un millimetro. Si sedette con le gambe incrociate e si limitò a porgli la lancia con cui aveva spaccato il mondo in due metà. Questa adattò magicamente le sue dimensioni a quelle del piccolo uomo, e così Samuel poté prenderla in mano. Il giovane la osservò cambiare d’aspetto in rapida sequenza, divenendo una fionda, una pietra, una penna per scrivere, ritornando infine a raffigurare una lancia. Samuel percepì che il gorilla non era comparso dalla foresta per sostituirlo nella battaglia, ma unicamente per incoraggiarlo a sfidare il drago. Il drago era sempre più vicino e Samuel capì di aver a disposizione un solo tentativo. Raccolse tutte le sue energie e scagliò la lancia verso il drago in volo, talmente forte da temere di aver slogato un braccio. Samuel trattenne il fiato, fissando intensamente con lo sguardo la traiettoria del suo lancio. Il suono di una sirena rimbombò nel cielo. Al terzo squillo, il drago, ancora a mezz’aria, e il gorilla alle sue spalle, si dileguarono come la nebbia nel vento. Solo la lancia continuò lungo l’arco del suo percorso andando a conficcarsi sull’altro lato del crepaccio. Samuel ci mise alcuni secondi a capire che quel suono proveniva dal mondo reale e che era venuto il momento di risalire dalle profondità della sua mente.
Il telefono sulla scrivania stava suonando con insistenza, probabilmente già da qualche tempo. Nell’allungare il braccio per afferrare la cornetta, Samuel sentì una forte fitta alla spalla e dovette rispondere usando la mano sinistra. Probabilmente si era addormentato in una posizione scomoda, facendo intorpidire il braccio. “Pronto?” rispose il giornalista. “Era ora. Sono due minuti buoni che faccio suonare il telefono” disse la voce dall’altro capo del telefono.
“Chi è?” chiese Samuel, ancora incerto del suo risveglio. “Come chi è? Sanders, e chi se no. Ho una buona notizia e una cattiva”. “Prima quella buona” disse Samuel, che per riattivare la circolazione si era alzato in piedi. Dal lucernario filtravano già le prime luci dell’alba. “Siamo riusciti a rintracciare l’attuale indirizzo di Zamparini. Vive con la moglie nel comune di Lamone, poco distante da Lugano” spiegò l’informatore. “Bene. E quella cattiva?” chiese Samuel. “Abbiamo scoperto che si tratta di un tipo bizzarro, all’antica. Anzi, se posso permettermi, credo che non abbia più tutti i grilli in testa. Da quello che abbiamo potuto costatare, non ha un telefono, né fisso né mobile, e lasciamo perdere internet. Risponde solo alla corrispondenza scritta, su carta. Insomma, credo che se proprio ci tenete a intervistarlo, beh, allora sarà necessario mandare qualcuno di persona”. Samuel valutò rapidamente la possibilità di disporre affinché fosse uno degli uomini di Sanders ad andare in Ticino a parlare con il pensionato, ma una voce al suo interno gli disse che non poteva delegare quel lavoro ad altri. “Bene. Grazie, per l’informazione. Me ne occuperò io. Voi cercate nel frattempo di battere delle vie alternative per raccogliere le informazioni che stiamo cercando”. “Faremo come crede. Arrivederci” si congedò Sanders e terminò la conversazione. Samuel fece scattare il meccanismo di apertura, così che la porta, camuffata tra gli scaffali della libreria, si aprì verso l’interno della stanza. Fermo sulla soglia d’entrata, il giornalista si girò a osservare lo studio di David Gabus. Provò un certo dispiacere all’idea che molto probabilmente non ci avrebbe mai più rimesso piede. Sembrava essere un buon posto per dare sfogo alla sua vena creativa, tanto per citare le parole dell’orologiaio. Per esempio, pensò, sarebbe stato un luogo ideale per lavorare indisturbati alla stesura di un libro. Spense la luce e s’incamminò a o lento lungo la scala a chiocciola. Le gambe e la schiena gli dolevano in più punti. Si disse che la sedia poltrona sulla quale aveva dormito per un paio d’ore e che aveva ricoperto il ruolo di letto
d’emergenza, si era rivelata essere molto meno comoda del previsto. Ora, scendendo le scale gradino per gradino, con tutti i muscoli ancora indolenziti, si concesse il tempo necessario a osservare attentamente gli orologi esposti lungo le scale e che la sera precedente, distratto dalla chiamata del comandante Dubois, aveva intravisto solo di sfuggita. Arrivato all’altezza del primo piano, non poté resistere alla tentazione di entrare nella stanza al centro della torre per andare a vedere l’orologio esposto in primo piano nel mezzo della sala. Quello che vide lo stupì non poco. L’orologio da polso aveva il cinturino in pelle nera, la cassatura in acciaio, del diametro di quaranta millimetri. La lunetta in oro giallo creava un piacevole contrasto con il quadrante nero, come il cinturino. Le ore erano indicate in numeri romani, eppure sul quadrante erano riportate unicamente le indicazioni delle ore XII e delle VI. A parte queste due indicazioni orarie lungo l’asse centrale, il quadrante era sgombro da ogni altro tipo d’indicazione numerica. Si trattava senza dubbio di un bel orologio, ma fino a qui niente di particolare. Samuel ci mise un attimo a coglierne il tratto distintivo. Le lancette dei secondi stavano scandendo il tempo al contrario, in senso antiorario. Si chiese se questo fosse volontario, o magari una sorta di difetto apparso negli anni. “Bello vero?” gli chiese David Gabus alle sue spalle. “Buongiorno. Sì, molto” rispose il giornalista, e poi aggiunse: “Non ho ben capito se…” “Se scandisce il tempo al contrario volontariamente?” lo interruppe l’orologiaio. Poi aggiunse: “Ebbene, sì. Ricordo ancora molto bene il periodo in cui mio padre lo fabbricò. Dovevo avere all’incirca dieci anni e vivevamo ancora in modo molto modesto. Anzi, per dirla tutta, in quegli anni c’era un po’ di crisi e le vendite non andavano bene. L’imprenditore che si occupava di piazzare le opere di mio padre non era per niente soddisfatto, in particolare del prezzo di vendita con cui aveva piazzato l’orologio precedente. Così un giorno venne a casa nostra e disse a mio padre di produrre nel minor lasso di tempo possibile un nuovo orologio, e aggiunse, di cercare di essere più creativo del solito per riuscire a emergere tra la concorrenza. Mio padre interpretò quel commento come una meschina provocazione, dato che ogni sua opera era in realtà il frutto di una sconfinata capacità creativa. Comunque, non si lasciò prendere dallo sconforto e ci lavorò giorno e notte. Durante quei mesi dormì pochissimo e interruppe il lavoro quasi esclusivamente per mangiare”.
Prima di continuare con il suo racconto David si sedette su di uno sgabello di legno vicino alla porta. “Ad opera terminata, l’imprenditore tornò al nostro appartamento per visionare l’orologio e andò su tutte le furie. Disse a mio padre che gli dava al massimo un mese per riadattarlo e far sì che le lancette girassero nel senso giusto, o per produrne da zero uno tradizionale. Mio padre, che era di animo piuttosto cocciuto, s’impuntò sulla validità della sua opera, rifiutandosi di muovere un dito finché questo non fosse stato venduto. L’uomo resosi conto di quanto la posizione di mio padre fosse irremovibile, e preoccupato di dover continuare a finanziare uno stile di vita estremamente dispendioso, si arrese all’idea di fare almeno un tentativo. Espose l’orologio a Ginevra in occasione di una fiera ideata appositamente per accogliere una schiera di facoltosi clienti asiatici. In molti si fermarono davanti alla sua postazione per osservare divertiti il bizzarro orologio che scandiva il tempo al contrario, ma senza mostrare sincero interesse. Verso la fine della fiera un giapponese di mezza età chiese all’imprenditore di mostragli l’oggetto da vicino. Dopo una breve consultazione lo acquistò senza discuterne minimamente il prezzo. Spiegò che lo acquistava per il figlio, adolescente e vittima di una rarissima disfunzione visiva. Il cervello del ragazzo invertiva le immagini da destra a sinistra, e viceversa, lungo l’asse visivo centrale. Resosi conto che l’imprenditore, che tra l’altro non era una cima, non aveva capito niente di quel che gli stava spiegando, il giapponese si fece prestare uno specchio e due orologi convenzionali da affiancare a quello che mio padre aveva prodotto. Davanti all’immagine riflessa allo specchio, anche l’imprenditore capì finalmente a che cosa si stava riferendo il cliente. Visti allo specchio, i due orologi convenzionali sembravano girare al contrario, mentre le lancette di quello prodotto da mio padre giravano in senso orario. L’uomo gli spiegò che sotto l’influsso di quella bizzarra disfunzione, il figlio probabilmente avrebbe sempre vissuto una vita difficile, emarginato dai suoi coetanei. Adesso, quantomeno, avrebbe avuto un elemento comune al quale aggrapparsi”. “Interessante. E come ha fatto a ritrovarlo?” gli chiese Samuel. “Oh, non è stato facile. Quest’orologio è l’ultima delle opere di mio padre che mi mancava per completare la collezione. Ci ho messo più di trent’anni per ritrovarlo. Francamente, la cifra che ho pagato per riportarlo a casa rappresenta uno dei capitoli morali più bui della mia vita. Per convincere il proprietario a cedermelo ho dovuto azzardarmi a firmare un assegno in bianco. Quel ragazzo adolescente è ora un anziano e affermato proprietario di un’azienda tecnologica
quotata alla borsa di Tokio. Ha guadagnato una fortuna commercializzando degli apparecchi progettati per compiere degli interventi di microchirurgia a distanza. Per quanto ho potuto capire, il sistema che hanno brevettato permette al chirurgo di muoversi in una sala operazioni virtuale, potenzialmente situata fisicamente dall’altra parte del globo rispetto al suo paziente. Insomma, di soldi a quell’uomo non ne mancavano certo, nemmeno prima del mio assegno!” concluse Gabus con il sorriso. “Ma lasciamo stare queste storie di famiglia e torniamo alle cose serie” sentenziò Gabus, che nel frattempo si era rimesso in piedi per dirigersi verso l’uscita della stanza. “Novità?” “Abbiamo una pista da seguire. Non sono ancora in condizione di giudicare quanto sia fondata, ma non abbiamo altro. Per farla breve, avrei bisogno del suo jet privato per andare a parlare con una persona in Ticino. Devo partire al più presto possibile” riassunse Samuel arrivando subito al sodo. “Non c’è problema, farò disporre per la preparazione dell’aereo, oltre a un elicottero che si occupi di prelevarti dal giardino del castello tra trenta minuti al massimo. Sarai in volo entro un’ora da adesso” rispose Gabus, prima di aggiungere con aria grave: “Ma a una condizione”. “E cioè?” chiese Samuel perplesso. “Nel frattempo verrai a fare colazione con noi” spiegò David sorridendo. “Jacqueline ci tiene molto a queste cose. Ha preparato un ben di Dio. E poi Nadia e Jean-Luc sono già in sala da pranzo ad attenderci. Dalla faccia assonnata con la quale si sono presentati questa mattina, ho avuto la netta sensazione che questa notte non abbiano dormito molto più di te”. Che magra consolazione, pensò Samuel.
Capitolo 16
L’ aereo decollò alle 7:30 con a bordo Samuel, Nadia e Jean-Luc, oltre a due piloti e un’assistente di volo. I due giovani avevano insistito con il giornalista per accompagnarlo a intervistare Zamparini in Ticino. Il jet di David Gabus era molto spazioso e si presentava ricco di ogni lusso e comodità. I posti per i eggeri erano limitati a una capienza massima di dieci persone, ma in compenso la parte posteriore della fusoliera era stata adibita a salotto volante, comprendente due divani, un piccolo bar, una scrivania e una sala da bagno molto ampia e con tanto di doccia. A ogni modo, il cortissimo itinerario di questo volo, tanto breve da poter essere riassunto in una manovra di ascesa per raggiungere l’altitudine necessaria a sorvolare le Alpi, seguita da una quasi immediata manovra di discesa e di avvicinamento all’aeroporto di Lugano, non permise loro di sfruttare a pieno i confort del velivolo. Anzi, per ragioni di sicurezza, il capitano subito dopo il decollo accese il microfono collegato alla cabina eggeri e richiese gentilmente ai tre giovani di restare seduti al loro posto, con le cinture allacciate, per tutta la durata del volo. Terminata la procedura iniziale di ascesa, la voce del capitano risuonò nuovamente in cabina e informò i eggeri che sarebbero atterrati a Lugano-Agno entro trequarti d’ora. Una vettura li stava già attendendo nel posteggio dell’aeroporto. Il pilota annunciò anche che le condizioni atmosferiche non erano delle migliori e che purtroppo prevedeva forti turbolenze durante il sorvolo della catena alpina. Come se questo non bastasse, al loro arrivo li aspettava un tempo pessimo. In Ticino si era scatenato un temporale estivo molto violento che sembrava voler compensare in poche ore cinque settimane di cielo limpido e temperature tropicali. Nadia e Jean-Luc si guardarono poco entusiasti per quell’evidente colpo di sfortuna, mentre Samuel, che si era addormentato poco dopo aver preso posto sul velivolo e sotto l’ipnotizzante effetto provocato dal rollio dei motori, non colse nemmeno una parola di tutto questo. Samuel si svegliò al suono di bottiglie che tintinnando gli stavano sfilando vicino all’orecchio. Apri gli occhi e vide l’esile assistente di volo spingere faticosamente in avanti un carrellino con le bibite. La forte inclinazione della fusoliera indicava che i piloti erano ancora impegnati nel compito di guadagnare
quota. Nel momento in cui la giovane e graziosa ragazza si chinò per cercare sul fondo del carrello il succo di pomodoro che Samuel le aveva appena domandato, a Jean-Luc cadde l’occhio sul fondoschiena della hostess. Il giovane progressista non poté evitare di pensare che lo spettacolo che gli si stava presentando davanti agli occhi rasentava la perfezione in materia. Siccome quello che inizialmente poteva essere classificato come un comunissimo e legittimo riflesso incondizionato, divenne invece una dettagliata radiografia, tutt’altro che istantanea e superficiale, Nadia se ne accorse e assestò al compagno una gomitata tra la quinta e la sesta costola. Jean-Luc, inizialmente sorpreso da quel gesto, reagì compiaciuto per quella testimonianza di sana gelosia e si girò verso la giovane conservatrice per baciarla. Nadia ritrasse il viso stizzita e in svizzero tedesco gli disse: “Oltretutto, non ti sei nemmeno accorto che fin da quando siamo saliti sull’aereo, quella ha occhi solo per Samuel!” L’assistente di volo che finora si era espressa con loro in se, non capì il senso delle parole di Nadia, o forse fece finta di non capire. Samuel, sentitosi chiamato in causa, si girò verso l’altro lato dell’aereo, dove erano seduti i due compagni di avventura, e vide Jean-Luc che con espressione divertita gli strizzava l’occhio, mentre Nadia stava fissando il ginevrino con aria grave, attenta a non concedergli il ben che minimo segno d’ilarità. Samuel colse l’occasione offertagli da quest’episodio per riflettere sullo stile di vita che aveva, più o meno volontariamente, tollerato durante gli scorsi sei mesi. Si era lasciato talmente coinvolgere da tutta questa vicenda da trascurare quasi completamente la parte sociale e spensierata della vita. Si ripromise di correggere al più presto questo malsano comportamento e di ricominciare a dedicare il tempo necessario alle amicizie e ai piacevoli incontri con il gentil sesso. Immerso in tali pensieri sorrise compiaciuto alla ragazza che gli stava porgendo del succo di pomodoro completato da una fetta di limone e un pizzico di sale. La ragazza lo ricambiò con un prolungato sorriso abbellito da una sorta di luccichio sprigionato dagli occhi, testimonianza di un palese interesse per il giornalista. Il sesto senso femminile di Nadia non si era sbagliato. Mentre sorseggiavano le loro bevande, Samuel raccontò ai due compagni quello
che era avvenuto durante la notte e tutti i dettagli che li avevano portati a seguire quella pista diretta in Ticino. Jean-Luc capì immediatamente che in nome della regione progressista era quello il momento di fare valere la loro posizione. Andava fatto ora, non solo perché il termine imposto dai Fratelli Combattenti scadeva nel pomeriggio, ma anche perché non sapevano ancora fino a che punto le informazioni che avrebbero racimolato al sud delle Alpi fossero realmente utili ai conservatori per trattare con la comunità internazionale sulla questione del segreto bancario. I tre ragazzi ne conclo unanimemente che l’autorizzazione a recarsi in un cantone della regione progressista per intervistare un concittadino andava controbilanciata da un gesto forte da parte dei conservatori. Nadia propose di telefonare al padre. Avrebbe cercato di ottenere l’autorizzazione necessaria a fare intervenire le forze speciali di Zurigo in soccorso agli ostaggi detenuti dai Fratelli Combattenti all’interno dell’ufficio postale di Grand-Lancy. Fortunatamente, avevano provveduto in precedenza a far sì che le squadre di pronto intervento fossero già sul posto e in stato di allerta. Nadia chiamò il padre usando il telefono satellitare istallato sulla scrivania del salottino posto sul retro della cabina eggeri. La ragazza non dovette perdere molto tempo per le spiegazioni, dato che Marcel Schmidt era già perfettamente al corrente della situazione. La notte precedente Emil, il ministro delle finanze di Helvetia, aveva autorizzato in via straordinaria un decreto che concedeva alla Banca Universale di violare temporaneamente il segreto bancario, appellandosi a una clausola costituzionale che permetteva di farlo in circostanze con rilevanza per la sicurezza nazionale. Marcel Schmidt era stato informato alle prime ore del mattino e da allora stava attendendo impazientemente la chiamata della figlia. Marcel si dimostrò molto combattivo e inizialmente reticente nel concedere ai progressisti l’intervento delle forze speciali, senza avere il tempo di accertare la validità delle informazioni in possesso di Zamparini. Il vocione autoritario del capo di governo di Helvetia risuonò attraverso la cornetta del telefono, propagandosi minaccioso lungo tutta la cabina eggeri. Il tono intransigente di Marcel Schmidt lasciò presagire il peggio. Samuel e Jean-Luc si scambiarono uno sguardo ricco di sconcerto e frustrazione. Nadia sapeva benissimo che non potevano aspettare fino allo scadere dell’ultimatum per intervenire, e che le probabilità di evitare una strage erano fortemente legate alla loro capacità di prendere i terroristi di sorpresa. La giovane conservatrice abbassò il tono della voce, divenendo quasi impercettibile per i due ragazzi ancora seduti ai loro posti in prima fila. Inoltre, dato che la
disturbava mettere a nudo le espressioni tese del viso che le suscitavano il prodigarsi nell’opera di convincimento del padre, si girò pudicamente verso il retro dell’aereo. La chiamata durò per altri cinque minuti, senza che Samuel e Jean-Luc potessero coglierne i dettagli. Dopodiché Nadia attaccò il ricevitore e riprese posto di fianco a Jean-Luc. “Ha accettato” comunicò ai due uomini, mentre accarezzava la mano del giovane progressista. “Ora tocca a te. Devi informare il capo della vostra polizia. L’intervento delle forze speciali è stato autorizzato ed è imminente”. Jean-Luc si stava già alzando per andare a utilizzare il telefono satellitare sulla scrivania, quando il copilota fece lampeggiare per tre volte la lucina che indicava l’obbligo di mantenere le cinture allacciate e annunciò con il microfono che stavano entrando in una zona di turbolenza. Anche l’assistente di volo si vide costretta a sedersi per allacciare le cinture, e invece che sedersi in seconda fila, come aveva fatto durante il decollo, si piazzò di fianco a Samuel. L’hostess spiegò a Jean-Luc che ogni sedile era dotato di un telefono all’interno dell’appoggiabraccio, e che quindi non sarebbe stato necessario prendere dei rischi inutili per fare quella chiamata. Aggiunse però che le condizioni atmosferiche avverse avrebbero potuto influire sulla qualità della trasmissione e che non era certa che la linea avrebbe retto. Dubois rispose dopo ben sette squilli e con voce affannata. Aveva probabilmente fatto una corsa per recuperare il suo telefonino. “Oui, hallo?” “Dubois?” chiese Jean-Luc per assicurarsi di essere al telefono con la persona giusta. “Come Dubois? Dubois sono io, e lei chi è?” chiese confuso il comandante della polizia di Nuova Frontiera. Prima di rispondere Jean-Luc incrociò gli occhi in segno di scoramento. “Comandante Dubois, sono Jean-Luc Wicht”. “Signor Wicht! Proprio a lei stavo pensando. Si è rimesso dalla sua indisposizione?” gli chiese il comandante. La linea era disturbata e Jean-Luc era incerto di aver capito bene.
“Indisposizione? Quale indisposizione?” “Beh, non volevo essere tanto esplicito, ma se preferisce posso anche essere più preciso. Le è ata la diarrea?” chiese Dubois imperterrito. “Diarrea?” ripeté Jean-Luc sempre più perplesso. Samuel scoppiò a ridere e sussurrò a Jean-Luc rapidamente il perché di quell’incomprensione. Nadia scacciò in un batter d’occhio i segni della difficile telefonata con il padre e rise a sua volta di gusto. “Ah, sì certo, la diarrea. Tutto a posto Dubois, grazie” rispose allora Jean-Luc. “Signor Wicht. Oggi deve premurarsi di assumere molti liquidi. Mi creda, io ne so qualcosa…” spiegò il comandante prima di essere interrotto. “Va bene Dubois, ma ora lasciamo perdere la mia indisposizione. Non l’ho chiamata certo per questo. Arrivo subito al dunque. Siamo riusciti a ottenere un impegno formale da parte di Helvetia. Le forze speciali sono pronte all’intervento. Si metta subito in contatto con il maggiore Keller, che è a capo del commando, e sia assicuri di dare loro tutto l’appoggio necessario. Mi ha sentito, Dubois?” “Forte e chiaro, signor Wicht. Dispongo immediatamente. Queste sì che sono buone notizie” rispose il comandante per confermare la ricezione delle istruzioni. Poi, dopo un attimo di esitazione, aggiunse: “Comunque, se mi permette, non è sufficiente bere dell’acqua. Oggi dovrebbe assicurarsi di ingerire anche del magnesio, perché…” Il velivolo fu sballottato sotto l’incombere di forti turbolenze e la linea venne interrotta, giusto in tempo per evitare al giovane progressista di perdere le staffe. Le forti scosse assestate alla fusoliera dagli improvvisi vuoti d’aria fecero sballottare l’aereo come una pallina lanciata all’interno di un flipper. In queste condizioni non era possibile intrattenere un dialogo e i eggeri si rassegnarono ad attendere in silenzio lo scorrere degli ultimi venti minuti di volo. Si misero a guardare fuori dal finestrino, anche se non c’era molto di più da vedere se non nuvole e gocce d’acqua. Forse a causa della vicinanza al cielo, o forse per via dell’incondizionato
abbandono al destino che devono subire, i eggeri di un volo tendono sovente a perdersi in pensieri più o meno profondi. Il pensiero che inondò la mente di Samuel in questo momento fu rivolto alla geografia e alla storia del luogo in cui si stavano recando. Il Ticino è un cantone prigioniero tra due anime, una sorta di terra di mezzo di Tolkien o per certi versi un purgatorio dantesco. Geograficamente può essere riassunto dall’immagine di un’unica e altissima montagna, che dal cuore delle Alpi si distende precipitosamente sull’arco di pochi chilometri fino ad arrivare quasi al livello del mare. Chi tra di voi l’ha già attraversata, sa di cosa stiamo parlando. Per anni, partendo dal nord e compiendo il viaggio su strada, commercianti, curiosi e turisti hanno solcato la strada del o del San Gottardo per discendere tornante dopo tornante, girone dopo girone, dai 2100 metri della montagna fino ai 200 del confine con l’Italia, alle porte del mare Mediterraneo. Dal 1980 una via più comoda e diretta per are tra i due mondi è stata aperta al grande pubblico. Per attraversare la lunghissima galleria autostradale, ando vicino al cuore della montagna, ci vogliono nervi saldi e una giusta dosa di determinazione. Il tragitto monotono, e per questo potenzialmente infernale, può indurre il viandante a perdere l’orientamento. Più ci si addentra nella montagna, meno percettibili diventano quei riferimenti che permettono normalmente di distinguere l’alto dal basso, l’est dall’ovest. Arrivando al centro della galleria, dove le temperature salgono sensibilmente, non sono pochi coloro che si lasciano prendere dal panico, temendo metaforicamente di essersi inconsapevolmente imbarcati in un viaggio verso il centro della terra.
Essere l’unica isola dell’emisfero sud della Svizzera, rende il Canton Ticino speciale e al tempo stesso strano, come le sue genti. Persino l’uso che viene fatto da queste parti della lingua italiana, suona come un compromesso, che per i più non può essere che un uso modesto, e di colui che scrive in primis. Gli abitanti di questa regione hanno forgiato il loro carattere negli anni, approfittando della confluenza geografica tra il nord e il sud della Svizzera e dell’Europa. Rivolti al sud per collocazione geografica e linguistica e al nord per appartenenza nazionale e costituzionale, ne hanno mediato i tratti più estremi, ricavandone un miscuglio unico e originale. Un compromesso, un baricentro, che in senso lato fa parte dell’essenza di questa storia, e quindi di per sé è una buona cosa. Una sorta di traguardo. Purtroppo però, sovente tale traguardo non è
vissuto dalle sue genti come una conquista, ma piuttosto come un difetto, un intralcio che impedisce di completare il viaggio fino in fondo. Per questo motivo sono non pochi, ahimè, coloro che per dar sfogo a un certo disagio si abbandonano a quei peccati capitali tanto ben descritti da Dante in sette Cornici. Invidia, accidia e prodigalità per citarne alcuni. Gli sventurati che non hanno ancora colto il valore della terra di mezzo, e invece che goderne le bellezze la subiscono, si perdono nella continua ricerca di qualcosa di più elevato, errando a volte per un’intera vita a caccia del paradiso terrestre. Fortunatamente, così come le anime del purgatorio non sono condannate a uno stato di angosciosa attesa per l’eternità, ma scontano una pena limitata nel tempo, la ragione col are degli anni spesso prevale. Dal momento in cui questo innalzamento individuale avviene, è allora possibile godersi la meritata pace dei giardini in fiore e delle tranquille onde dei laghi. Eppure, e forse anche questo vale in senso lato, non è per niente facile riuscire a emergere con un’identità forte, quando questa è stretta tra due estremi e nasce dal frutto del compromesso. Basti pensare che l’esistenza stessa di una tale identità sarebbe impossibile senza la presenza dei suoi estremi originali, così come non ci sarebbe purgatorio senza paradiso e inferno. A rendere ancora più complicata e combattuta la vita di chi si trova in mezzo, è l’arduo compito di determinare da che parte della bussola si trova il paradiso e dove l’inferno. È forse meglio una vita dominata da sicurezze e concreta abnegazione al dovere, o una vita spensierata e dominata dal sogno? Sono forse queste due anime conciliabili? Risulta difficile dare una risposta, e soprattutto, è improbabile che ne esista una collettiva. Su ogni individuo, com’è giusto che sia, pesa il fardello di darvi una risposta capace di orientare la propria bussola, permettendogli così di uscire dalla nebbia.
L’aereo uscì dalla folta coltre di nuvole a un’altitudine di circa quattrocento metri dal suolo. La visibilità, ancora pessima a causa del forte temporale, permetteva quantomeno di osservare il paesaggio attorno alla traiettoria di atterraggio. L’aereo fece una serrata virata a sinistra per immettersi al meglio lungo lo stretto corridoio d’atterraggio. Nadia ebbe un sussulto nel veder sotto di loro, a distanza
ravvicinata, la cima di una collina con una chiesetta arroccata al suo apice. La distanza apparente di poche decine di metri le permise addirittura di vedere una croce di ferro montata al vertice di un profondo strapiombo che domina la piana. Malgrado il maltempo e la pioggia martellante, il jet si posò docilmente sulla pista e quasi istantaneamente i piloti si concentrarono nel frenare poderosamente la corsa. Seguirono pochi minuti di rollio e infine spensero i motori all’asciutto all’interno di un hangar, dove una limousine con tanto di autista li stava aspettando. Dopo un breve tratto di strada videro sfilare sulla loro destra un cartello stradale che indicava l’inizio del territorio del comune di Lamone. Attraversando la località incontrarono un traffico sostenuto ma in compenso, a causa del tempo impervio, pochissime persone sui marciapiedi. L’autista scelse un posteggio laterale in una zona blu situata nei pressi delle scuole elementari e, conformemente alle istruzioni che aveva ricevuto in precedenza, spiegò loro che i Zamparini abitavano al numero dodici di quella stessa via. L’arrivo di una limousine di grossa cilindrata con i vetri fortemente oscurati attirò l’attenzione. Scendendo dalla vettura Samuel ebbe l’impressione di vedere con la coda dell’occhio molte delle tende sulle finestre tutt’intorno che si spostavano lievemente. A dire il vero, l’impressione di essere osservati la ebbero tutti e tre. Impressione che divenne ancor più palese sotto lo sguardo attento di un gruppo di ragazzi annoiati che si era piazzato sotto una pensilina vicino al posteggio, per ripararsi dalla pioggia. I ragazzi li osservarono in silenzio scendere dalla macchina e incamminarsi verso la casa dei Zamparini. Samuel sfilò per primo sotto i loro occhi attenti, seguito da Nadia e Jean-Luc a braccetto sotto lo stesso ombrello. Nell’istante in cui Nadia ò a fianco della pensilina, si udirono alcuni commenti poco garbati nei suoi confronti, corredati da qualche fischio e una risatina collettiva. Jean-Luc, che suo malgrado capiva e parlava molto bene l’italiano, colse probabilmente non più della metà dei commenti di quei ragazzacci. A Berna, in parlamento, non era certo abituato a sentire il forte accento meridionale del dialetto calabrese. A ogni modo, quel che riuscì a capire fu sufficiente a fargli ribollire il sangue nelle vene e arrestò il o, intenzionato a non lasciare quell’affronto senza un’adeguata reazione verbale. Samuel che dal canto suo sapeva quanto un gruppo di ragazzini, all’apparenza innocuo, può in realtà rivelarsi pericoloso, specialmente se questi sono annoiati a morte, e preoccupato del fatto che non avevano tempo da perdere in stupidaggini, strattonò in avanti il giovane progressista e gli tappò la bocca.
L’appartamento dei Zamparini si trovava al terzo piano di una modesta palazzina popolare. Trovarono il portone d’entrata spalancato e per salire all’appartamento i tre giovani usarono un angusto ascensore, che sulla carta riportava una capienza di quattro persone, ma in realtà bastava giusto giusto per due. Samuel suonò il camlo posto sotto la targhetta “Edoardo e Concetta Zamparini”. Attesero una trentina di secondi avvolti dal più profondo sconcerto. Non avevano neppure considerato la possibilità che non ci fosse nessuno. E se fossero in vacanza o in visita di parenti e conoscenti in Italia? Samuel fece squillare nuovamente il camlo. Questa volta si udì un lieve fruscio proprio dietro la porta e un vociferare sottovoce, che tradì la presenza dei due coniugi. “Chi è?” chiese una voce femminile. “Buongiorno signora Zamparini, siamo venuti in rappresentanza della Banca Universale, se ci lascia entrare le posso mostrare un documento che lo certifica. Abbiamo giusto qualche domanda da fare a suo marito”. La donna spalancò la porta e senza dire una parola li fece entrare. Prima di chiudere la porta rimase qualche secondo sull’uscio della porta, come se si volesse accertare che nessun vicino di casa fosse uscito a origliare. “Prego, prego, seguitemi in cucina. Mi dovete scusare, ma con i tempi che corrono non si sa mai chi vi suona alla porta, e dallo spioncino avevo visto inizialmente unicamente lei” disse rivolta a Samuel, il quale, abituato a certe situazioni, non si scompose. “Non si preoccupi signora, possiamo parlare con suo marito? È in casa?” le chiese il giornalista. “Mio marito si sta vestendo. Nel frattempo perché non vi sedete. Avete già fatto colazione? Un caffè, dei biscotti?” chiese rivolgendosi a tutti e tre con sorriso affabile. “Molto volentieri, grazie. Ma la prego, non si disturbi. Non abbiamo intenzione di fermarci a lungo” rispose Nadia, mentre Jean-Luc consultava l’orologio.
Erano le nove e un quarto. I tre giovani, non conoscendo usanze e modi dell’ospitalità calabrese, non si resero conto di come accettando quell’offerta di sostentamento si stavano avviando sulla via di una maratona culinaria. La donna, figlia di due emigranti calabresi della prima ora, conobbe Edoardo Zamparini a vent’anni, poco dopo che questi sbarcò a Zurigo. Seguendo le indicazioni dei genitori, che giudicarono quell’impiegato della Banca Universale come un ottimo partito per la figlia, lo sposò due anni dopo. La donna dispose inizialmente sulla tavola del caffè e dei biscotti, e vedendo che i tre ne mangiarono solo uno ciascuno, ne interpretò erroneamente le gesta come una palese richiesta di qualche cosa di più sostanzioso. Fu così che i tre giovani osservarono progressivamente sbigottiti i movimenti della donna e l’ammucchiarsi di piatti e bevande sulla tavola della cucina. Salame piccante, polpette al sugo, melanzane alla parmigiana, peperoni ripieni e pasticcini. Il refrigeratore della donna sembrava essere un magico contenitore senza fondo. “Su forza, soprattutto lei che mi sembra poco in carne, non faccia complimenti” disse rivolta a Jean-Luc. “Sono buone, assaggi!” La signora Zamparini infilzò in uno stuzzichino di legno una polpetta avvolta dal sugo e la portò alla bocca del giovane progressista. Soddisfatta, ripeté l’operazione due volte con del salame e un dolce alla ricotta. Jean-Luc incredulo, non seppe reagire in alcun modo. Si sentiva come un tacchino che viene volontariamente ingrassato prima di finire in padella. Il ritmo incalzante con il quale la gentile signora lo stava imboccando non gli permise di dire nemmeno una parola. Samuel e Nadia per dieci minuti buoni osservarono divertiti il ripetersi di quella scenetta. Nel momento in cui Edoardo Zamparini apparve sulla soglia della porta della cucina, Jean-Luc disperato aveva raggiunto il limite, e stava valutando se fosse peggio osare dire alla donna che non ce la faceva più, oppure vomitare sul tavolo. Il signor Zamparini si era vestito in modo molto elegante. Indossava un vestito blu scuro con delle velate righe marroni e bianche, un gilè della stessa stoffa, e una cravatta larga di colore bordeaux, che doveva avere i suoi anni. Anche i dettagli erano ben curati. Le scarpe nere erano state lucidate da poco e
richiamavano a tono la discreta cintura in pelle. Dei gemelli nello stesso colore della cravatta chiudevano i polsini della camicia bianca, lasciandone fuoriuscire dalle maniche del vestito non più di un centimetro. La moglie lo osservò fiera, così come aveva fatto per molti anni ogni mattina vedendolo indossare la sua tenuta ufficiale da usciere della banca. Nessuno si accorse dell’immane sforzo in cui si stava prodigando l’ex impiegato della Banca Universale per non fare scoppiare i bottoni dei pantaloni. Per riuscire a chiuderli gli erano occorsi dieci minuti. “Signor Zamparini, la ringraziamo di cuore per averci accolto in casa sua. Abbiamo alcune domande da porle su degli eventi che risalgono a qualche anno addietro. Ci manda la Banca Universale. La dirigenza della banca ci ha informato che nessuno meglio di lei può ricordare vita, morte e miracoli degli ultimi quarant’anni dell’istituto”. “Mi chiami pure Edo. La prego continui” rispose Edoardo Zamparini visibilmente lusingato dalle parole del giornalista. Samuel gli porse una fotografia del padre dell’attuale Premier britannico. “Quest’uomo nel 1983 si è presentato alla sede centrale di Zurigo con alcuni scatoloni voluminosi, che erano stati sigillati all’aeroporto di London City. Il loro contenuto è stato in seguito custodito per più di dieci anni nella sezione del tesoro della banca dedicata agli oggetti delicati, anche se non sappiamo bene dove. Questa storia le ricorda forse qualche cosa?” Zamparini annui, senza aggiungere parola. I tre giovani ebbero un sussulto di speranza. Samuel eccitato spinse la propria sedia di venti centimetri, avvicinandosi all’ex usciere della banca. “Edo, abbiamo bisogno di conoscere il contenuto di quegli scatoloni. Per caso ha avuto occasione di aprirli? Contenevano degli oggetti di valore? Chi li ha traspostati nelle stanze sotterranee?” Zamparini non disse niente. Guardò i tre ragazzi intensamente, uno dopo l’altro e poi la moglie. Infine fu lei a spezzare il silenzio, intervenendo energicamente e a sorpresa. La donna s’interpose fisicamente tra Samuel e il marito, e disse in tono solenne: “Mio marito non dirà niente. Ha giurato fedeltà. Per sempre”.
“Concetta, non ho giurato” la riprese il marito divertito. Poi, in tono più serio, aggiunse: “Comunque mia moglie ha ragione. Ho firmato una delibera specifica per il rispetto del segreto bancario e che ne regola l’applicazione ancora oggi. Mi dispiace, ma temo di non potervi dire niente che ne violi i principi”. Ora fu Samuel ad attendere qualche secondo senza fare parola. A dire il vero per questa eventualità si erano preparati, e da lì a poco avrebbe spiegato ai coniugi Zamparini come liberarsi da tali impegni. Eppure, rimase colpito dalla dedizione di questo pensionato per un’istituzione come il segreto bancario, ereditata nel suo caso con l’emigrazione, e per quella dignitosa dimostrazione di lealtà per il suo ex datore di lavoro. Non poté evitare di riflettere sul fatto che talvolta sarebbe meglio chiedere a un usciere di spiegare in parole povere ai nuovi arrivati il concetto culturale della discrezione, invece che affidarne il compito a dei dirigenti stressati, e che forse non si sono mai fermati a sufficienza per coglierne la vera essenza. “Capisco perfettamente e le assicuro che parlare con noi non la metterà in nessuna difficoltà giuridica”. Samuel gli diede una lettera del consiglio di amministrazione della banca, così come anche una del ministero delle finanze di Helvetia. Entrambe lo autorizzavano a violare il segreto bancario, escludendo ogni possibile ripercussione. Zamparini le consultò attentamente e a lungo, mentre Jean-Luc, che finalmente si stava riprendendo dagli effetti della forzata abbuffata, cambiò posizione sulla sedia dando sfogo a i primi segnali di impazienza. “Non conosco queste persone. Non mi fido” disse infine il pensionato. “Ma come? Che cosa significa che non si fida?” sbottò il giovane progressista. “Sono lettere ufficiali. Non lasciano alcun dubbio. Non ha niente di cui temere”. La signora Zamparini diede un’occhiata minacciosa a Jean-Luc, sbarrando gli occhi come se avesse appena visto una lupara carica spuntare da sotto il tavolo. Jean-Luc abbassò immediatamente la cresta, intimorito dall’idea di essere punito per la sua insolenza da una dose supplementare d’imboccamento forzato. Edoardo Zamparini bloccò la moglie con un gesto della mano, appena in tempo per evitare che essa si prodigasse in una stridula esibizione della millenaria arte di esprimersi facendo uso degli ultrasuoni.
Samuel, svolgendo la sua professione di giornalista, aveva acquisito una certa familiarità nel trattare con informatori di ogni sorta. Politici, impiegati della pubblica amministrazione, dipendenti di aziende, funzionari di giustizia o investigatori privati, e usava classificarli tutti in due categorie principali. Coloro che per controparte al fatto di are alla stampa una notizia cercano di ottenere un vantaggio personale, che può essere semplicemente finanziario così come anche un vantaggio indiretto, per esempio perché la notizia è nociva a un rivale, e coloro che invece sono mossi da una motivazione di tipo etico-ideologico. Anche se nel corso, della sua pur giovane carriera, di informatori del secondo tipo ne aveva incontrati ben pochi, sapeva quanto fosse importante saperli distinguere dalla massa. Proprio, in situazioni come queste, e cioè quando è necessario persuadere una fonte a condividere le informazioni, è essenziale saper riconoscere con chi si ha a che fare. Offrire del denaro a Zamparini, o qualsiasi altra sorta di vantaggio personale, avrebbe avuto degli effetti nefasti. Samuel sapeva di dover fare leva su altri tipi di valori, più nobili ed elevati, e di conseguenza più consoni a quest’uomo all’antica. “Edo, mi creda le portiamo grande stima per la sua esemplare capacità di rispettare la parola data. Purtroppo, è mio dovere cercare di convincerla e per questo le chiedo di starmi a sentire ancora due minuti. Se non dovessi riuscirci, beh, allora leveremo il disturbo immediatamente”. Zamparini annuì con il capo. “La prego di ripensare ai quarant’anni che ha ato con la Banca Universale. Pensi a tutte le persone che hanno lavorato per la banca e che lei ha osservato giornalmente entrare e uscire dalla sede centrale”. “E come si fa?” chiese la moglie scettica. “Se mio marito deve pensare a tutte queste persone, stiamo freschi. Per l’ora di cena saremo ancora qui a pensare!” Samuel sorrise alla donna e riprese il ragionamento, senza fare una piega. “Immagino che alcuni di loro l’avranno colpita più di altri, nel bene come nel male. Provi ora a concentrarsi su coloro che ricorda con più piacere e con nostalgia”. Zamparini con gli occhi vitrei, tipici di chi con il pensiero si trova altrove, sorrise compiaciuto dall’immagine che gli si stava presentando d’innanzi agli occhi.
Nadia pose lo sguardo su Samuel. Rimase colpita da come questi sembrava essere stato capace di scegliere le parole e il tono necessarie a consentirgli di guidare il pensiero del pensionato, quasi come se fosse un professionista della mente o dell’ipnosi. “Edo, la prego, ce ne parli. Ci piacerebbe molto che ci descrivesse quelle persone” gli chiese il giornalista mantenendo un tono lieve della voce, quasi sussurrato. “Andando indietro di molto tempo, ai primi dieci anni della mia carriera lavorativa, ricordo un membro in particolare della direzione generale. Un uomo estremamente cordiale, che entrando e uscendo dalla banca veniva sempre, senza eccezioni, a stringermi la mano. E io, manco a dirlo, non ero altro che un giovane dipendente, un usciere che per lo più non sapeva nemmeno parlare bene il tedesco. A ogni modo quel direttore generale si fermava a parlare qualche istante con tutti i dipendenti che lavoravano all’entrata, e a volte si intratteneva anche con dei clienti a lui noti e che incrociava per caso sulla soglia della banca. Certo, vi potete immaginare, che così facendo a volte perdeva quasi un’ora intera per dare sfogo a queste forme di cortesia. Cose di altri tempi. Eppure, per assurdo, sono convinto di avere imparato il mio mestiere proprio osservando quell’uomo, molto di più che non osservando i miei colleghi più esperti”. Zamparini fece una pausa e guardò la moglie, che come tutti gli altri lo stava ascoltando attentamente. “La prego, vada avanti” gli chiese il giornalista. “A cavallo tra gli anni ottanta e novanta ricordo la figura di un singolare direttore. Un tizio con cui sull’arco di vent’anni ho scambiato al massimo dieci parole. Aveva sempre una faccia seria, quasi imbronciata. Sfilava dall’entrata a o deciso, puntuale come un orologio alla mattina e alla sera, senza mai un’eccezione. Arrivava in bicicletta anche con il brutto tempo, con la sola eccezione di quando c’era la neve. Le voci di corridoio dicevano che non aveva mai ottenuto la nomina a direttore generale, perché troppo scettico nei confronti del crescente peso dato dalla banca agli investimenti con valori propri. Sembra che malgrado il fatto di essere riuscito a evitare alla banca di imbarcarsi in speculazioni che col tempo si erano rilevate deleterie per altre banche, quel suo modo di fare riflessivo e ponderato, specialmente in quegli anni di grande euforia della piazza finanziaria, gli abbia tagliato le ali della carriera. Morì
improvvisamente a causa di un ictus. Così, da un giorno all’altro. Credo che di direttori di questa pasta ne siano rimasti assai pochi”. Si trattava sicuramente di ottimi esempi, che andavano nella direzione giusta, eppure, per alimentare il filo conduttore del ragionamento che Samuel stava costruendo a fatica, aveva bisogno di distaccarsi dal millennio precedente, assicurandosi almeno un esempio recente. “E ripensando agli ultimi anni della sua lunga carriera, chi le viene in mente?” gli chiese allora Samuel. Il volto di Zamparini s’illuminò, e forse, quasi impercettibilmente addirittura arrossì. “Ricordo una giovane donna, molto graziosa. Credo che fosse una consulente per i clienti privati. Aveva sempre il sorriso stampato sul viso. Era sempre vestita in modo molto elegante. Impeccabile. Nella bella stagione portava delle gonne fino al ginocchio e delle camicette di seta. Diciamo che non ava inosservata quando ci sfilava davanti”. Concetta Zamparini si mise nervosamente a giocherellare con un mestolo da cucina in legno, facendo espressamente un po’ di rumore. “I colleghi dicevano che fosse separata e con due bambini piccoli a carico. In effetti, la vedevamo sempre arrivare la mattina di gran carriera, e allo stesso modo ripartire quasi al o di corsa la sera. Probabilmente andava a riprendere i piccoli all’asilo. Una mattina ero uscito per attendere l’arrivo di un cliente importante e la vidi esitante, ferma a una decina dimetri dal portone d’entrata. Stava piangendo. Mi vide e io non seppi fare altro che porgerle un fazzoletto. Lo prese e si riassestò rapidamente. Poi mi sorrise e senza dire una parola entrò in banca. Chissà perché piangeva? Me lo chiedo ancora oggi”. Zamparini fece una pausa, mentre la moglie sembrava essersi tranquillizzata. “Ascoltate” riprese a dire il pensionato, “non nascondo che il ricordo di queste persone e dei tanti anni di lavoro per la banca mi riempiono il cuore, ma non capisco il senso di tutto questo. Vi potrei raccontare di centinaia di persone. Quelle che vi ho descritto sono solo le prime tre che mi sono venute in mente”. “Certo, capisco. Non voglio disturbarla oltre. Solo ancora una domanda.
Considera le persone che ci ha descritto, delle persone oneste, vero?” gli chiese allora Samuel. “Senza ombra di dubbio” rispose Edoardo Zamparini senza esitazione e quasi un po’ indispettito da tale domanda. “Edo, purtroppo la banca si trova in gravi difficoltà, e non serve un indovino per capire che se la situazione non dovesse mutare, da qui a pochi mesi, almeno due terzi dei suoi dipendenti perderanno il lavoro. La comunità internazionale minaccia di isolarla, di troncarne ogni ponte con la finanza mondiale. Questo sarebbe molto grave, lo capisce vero?” chiese nuovamente Samuel, che voleva costruire il consenso di Zamparini un o alla volta. Zamparini ebbe un sussulto, testimonianza del fatto che il colpo era andato a segno. Dopo un po’ prese la parola. “Questo è un colpo basso” disse rivolto al giornalista. “Lei ha capito che anche un semplice usciere dopo quarant’anni è in grado di sentirsi fortemente legato a un logo, un emblema. E ne vuole approfittare”. “Ha ragione, non mi sono comportato in modo corretto, e di questo mi scuso. Ma la prego, Edo non lo faccia per me, bensì per i suoi ex colleghi di lavoro e per tutti quei personaggi che le hanno ispirato fiducia nel corso di quattro decenni” ripose Samuel persuaso di essere riuscito ad aprire una breccia. Edoardo Zamparini annuì con la testa, facendo capire che avrebbe raccontato loro quello che sapeva. La moglie gli lanciò un’occhiata talmente ricca di rimproveri da sembrare una condanna a morte. Visibilmente irritata si estraniò dal discorso, mettendosi a riassettare la cucina. Zamparini prese in mano la fotografia dell’ex diplomatico inglese, la scrutò per qualche secondo e poi la ripose sul tavolo. “Che anno avete detto? 1983, o sbaglio?” chiese il pensionato pensieroso. “Esatto” rispose Samuel. “Francamente, questa fotografia non mi suscita nessun ricordo in particolare. Può anche darsi che io non incontrai quest’uomo di persona al suo arrivo presso la banca. Talvolta fanno entrare discretamente le limousine nel garage e da lì i
clienti vengono accompagnati dai consulenti direttamente alle salette del quarto piano”. Edoardo Zamparini fece una pausa per massaggiarsi le tempie e poi aggiunse: “Invece, la storia di alcuni cartoni voluminosi in arrivo dall’aeroporto di London City mi dice sì qualcosa, e credo proprio che fosse il 1983. Per la precisione i cartoni erano quattro e contenevano tutti delle tele di un famoso pittore inglese. Lo ricordo bene perché mi fecero mille raccomandazioni sul fatto che erano molto delicate e di grande valore, e che dovevo fare molta attenzione nell’estrarle dell’involucro. La banca dispone di una stanza apposita per custodire le opera d’arte, munita di un sistema di areazione speciale. Pensate che alcune opere sono là sotto da più di cento anni”. “Dei quadri” pensarono un po’ tutti, senza fare commenti. Quantomeno ora erano riusciti a scoprire il contenuto di qui misteriosi scatoloni. “Per caso non si ricorda chi fosse l’autore delle tele?” gli chiese Jean-Luc. “Ci stavo proprio pensando, ma purtroppo il nome non mi viene in mente. Anche se sono sicuro di averlo saputo. Il mio collega si vantava di essere un grande conoscitore di arte e mentre sistemavamo i quadri mi raccontò rapidamente vita morte e miracoli di quel pittore, che oltretutto nel 1983 credo che fosse ancora vivo. Accidenti, ce l’ho sulla punta della lingua. Il nome aveva a che fare con il cibo” ripose Zamparini contratto in una smorfia di concentrazione. “Francis Bacon” intervenne allora Nadia che oltre ad aver studiato giurisprudenza si era anche concessa come svago dei corsi di storia dell’arte. “Esatto! Brava, proprio Bacon. Erano quattro tele sconosciute di Francis Bacon” confermò il pensionato. Nadia e Jean-Luc si misero a discutere sottovoce sul presunto valore complessivo dei quadri, mentre Samuel fece ancora qualche domanda a Zamparini. Concordano su una cifra probabile che variava tra i quattro e i venti milioni di Franchi svizzeri. Ne dedussero che in assenza di un’imposta patrimoniale, la ragione per il trasferimento a Zurigo delle opere era probabilmente da ricercare nell’onerosa imposta sulle successioni vigente nel Regno Unito. Questa tesi era ben ata dall’inconfutabile fatto che l’uomo era deceduto mentre le opere si trovavano lontano dagli occhi vigili delle autorità fiscali, e che qualche anno dopo la morte del marito, la moglie era venuta a
prenderle per portarle in un altro luogo sicuro. Ciononostante, i due giovani dubitarono entrambi sul fatto che un caso di presunta evasione fiscale perpetrato dai genitori vent’anni orsono, sarebbe stato sufficiente a fare vacillare la posizione dell’attuale Premier britannico. “Edo, queste informazioni sono molto importanti per noi. Mi creda, le siamo immensamente riconoscenti. Ora, come le ho promesso in precedenza, leviamo il disturbo” disse Samuel alzandosi in piedi. Nadia e Jean-Luc lo imitarono e dopo aver stretto la mano dei due pensionati, ringraziandoli per l’ospitalità, si diressero verso la porta della cucina. A JeanLuc venne un colpetto nel vedere che la signora Zamparini stava impacchettando del cibo con della carta alluminio, e così accelerò il o. Non poteva sapere che in realtà la donna stava preparando un pacchetto che delle leccornie che un nipote sarebbe ato a prendere nel pomeriggio. Vedendoli tutti sul piede di partenza Edoardo Zamparini rimase seduto, come un po’ interdetto dinnanzi a tanta fretta. Non aveva ancora detto tutto quello che c’era da dire. “Prima di partire è bene che sappiate che quelle tele non erano molto belle. Non mi piacevano per niente” disse infine quasi sottovoce. Nadia e Jean-Luc si scambiarono un sorriso ironico. Casa ne sapeva un ex usciere di banca di arte contemporanea? Francis Bacon non era certo Monet. Per capire i suoi quadri, frutto di un animo introverso, era necessario un minimo di conoscenza. Così, pensarono entrambi. Anche se, ci concediamo di ricordare che c’è chi sostiene, forse a ragione, che presumere la necessità di capire l’arte invece che limitarsi a percepirla, sia in realtà un banale errore. “Samuel, non voglio essere scortese, ma dobbiamo fare in fretta se vogliamo sfruttare queste informazioni” lo incitò dunque Jean-Luc a tagliare corto. Samuel era perfettamente d’accordo sul fatto che non avevano tempo da perdere, ma lo sguardo corrugato che gli aveva appena lanciato Zamparini lo fece esitare. Una voce al suo interno gli consigliò di restare ancora qualche minuto. “Andate pure. Dite all’autista di are con la macchina qui sotto. Io scendo tra pochi minuti” disse il giornalista rivolto ai due compagni di viaggio. I due giovani uscirono dall’appartamento richiudendo la porta d’entrata alle loro
spalle. Per fare capire a Zamparini che avrebbe ascoltato attentamente la fine del suo racconto, si sedette nuovamente attorno al tavolo della cucina. Nel frattempo, la signora Zamparini non aveva perso tempo e aveva già pulito la tela cerata a quadretti blu e rossi che ricopriva il tavolo. La donna indaffarata a sbrigare le sue faccende domestiche si ritrasse nella stanza da letto. “Il giorno in cui portammo le tele nella stanza valori, avevamo un sacco da fare e non feci molto caso alle immagini che vi erano dipinte” riprese il racconto Zamparini. “Poi, durante un giorno estivo in cui ci stavamo annoiando un po’, quel mio compaesano patito di storia dell’arte mi convinse ad andare con lui nella sala valori a dare un’ulteriore occhiata ai quadri. Ricordo persino il numero del conto cifrato al quale erano assegnate le tele, 133113. Inizialmente non capì bene quello cha stavo vedendo, ma dopo un po’ le forme presero vita e mi fu finalmente chiaro quello che esse ritraevano. Beh, francamente non era un gran bel vedere”. “Edo, cosa raffiguravano quei quadri esattamente?” chiese allora Samuel sempre più perplesso. Edoardo Zamparini glielo spiegò in modo molto diretto e coinciso, senza negare un certo sdegno per il ricordo di quelle immagini, forse troppo forti per un uomo all’antica della sua pasta. Samuel gli strinse la mano energicamente, in segno di riconoscimento, poi a o di corsa lasciò a sua volta l’appartamento per andare a raccontare quel ce aveva appena udito a Nadia e Jean-Luc, e in seguito a Marcel Schmidt.
Capitolo 17
A distanza di una sola ora dalla fine del racconto di Edoardo Zamparini ritroviamo Marcel Schmidt seduto sulla sua poltrona preferita e con il pensiero diretto in rapido volo, sempre più lontano verso la sua preda. Le parole di Nadia, che ha appena udito al telefono, gli ronzano ancora in testa e gli fanno da guida. Sorvola con la mente le verdi colline della regione, sfrutta le correnti che scendono veloci dalle alture per poi spingersi lungo l’interminabile piana, supera confini e popoli e arriva fino alla costa, dove mille gabbiani lo osservano are come se fosse un pazzo che ha perso l’orientamento. Con grande sforzo sfida e sconfigge i venti e le insidie del mare aperto, e infine esausto, ma determinato come il falco che non perde d’occhio la preda nemmeno per un istante, arriva fino alla grande città. Disegna per tre volte un cerchio perfetto alto nel cielo e poi si butta in picchiata veloce come un proiettile letale. Marcel decise di telefonare subito al Premier inglese. “Perché mai perdere tempo?” si chiese. Le informazioni che aveva ottenuto dalla figlia erano riservate e al contempo pungenti. Proprio il tipo d’informazioni che permettono a un politico esperto, quale il capo di governo di Helvetia, di istallarsi comodamente sulla cattedra delle trattative. Non molto sorprendentemente, Marcel inizialmente fu ignorato. La chiamata ò da un centralino, poi a due non ben precisati segretari per gli affari esteri e infine a un assistente personale del Premier, che in modo alquanto arrogante gli spiegò che l’agenda odierna del suo capo era talmente fitta da non potergli concedere nemmeno due striminziti minuti. Marcel non si lasciò perturbare da quel tentativo di palesare da subito le proporzioni del suo interlocutore, dettate in tal caso dalla grandeur di una storia coloniale imponente e impositrice. Lasciò un messaggio per il Premier, poche parole corredate dalla richiesta di essere contatto quand’ora questi l’avrebbe ritenuto lecito e necessario. Menzionò unicamente il nome della Banca Universale, Zurigo, l’anno 1983 e il numero del conto cifrato, il 133113, che aveva già imparato a memoria. D’altronde come si può dimenticare un numero del genere? Aggiunse che si trattava di una questione dal carattere privato e non di un affare di stato.
Non ebbe nemmeno il tempo di andare in cucina a prepararsi un caffè. Il telefono squillò dopo soli cinque minuti. “Marcel Schmidt, buongiorno” si presentò il vecchio conservatore. “Jonathan Brown. Signor Schmidt, lei mi ha fatto recapitare un messaggio assai bizzarro. Posso sapere di cosa si tratta senza perdere tempo in tanti fronzoli?” rispose il Premier inglese esprimendosi con un inglese sgusciante tanto quanto un’anguilla. Marcel che tra le molte sue doti non poteva certo annoverare quelle linguistiche, fece molta fatica ad afferrare le parole del capo di governo inglese, ma ne intuì quantomeno il significato. “La ringrazio per avermi richiamato. Stiamo valutando le vostre richieste e quelle della comunità internazionale per alleggerire le norme del segreto bancario. Durante le prime fasi del lavoro di collaborazione che stiamo svolgendo con le banche, sono emersi alcuni dati sensibili, e uno riguarda suo padre. Per questo motivo ho pensato bene di avvicinarla personalmente”. Marcel si espresse in un inglese alquanto tentennante e impreciso, che irritò doppiamente il Premier inglese. “Senta, le propongo di are al tedesco. Non ho intenzione di stare molto tempo al telefono per discutere di questa storia” affermò Jonathan Brown, in un tedesco preciso quanto un colpo di frusta. “Complimenti, signor Brown. Il suo tedesco è impeccabile” accettò Marcel, sollevato dall’idea di non doversi sforzare in una conversazione in inglese che lo avrebbe messo in difficoltà. “Ho fatto tutte le scuole dell’obbligo presso una scuola privata in Svizzera. La mia famiglia era abbastanza conosciuta in Inghilterra e i miei genitori cercarono un luogo in cui mi fosse garantita la necessaria dose di discrezione” precisò Brown. “Ah, ecco. Diamo il via al festival dell’ipocrisia, già che siamo in tema di discrezione” pensò Marcel, stupito da come lo stesso concetto alla base del segreto bancario fosse ritenuto valido o sorato solo in base al contesto in cui veniva posto.
“A ogni modo, la prego di essere più esplicito. Tra poco devo partecipare a una conferenza telefonica per la sicurezza in Medio Oriente e non posso trattenermi oltre” aggiunse Brown intenzionato a tagliare corto al più presto. “Come desidera. Abbiamo traccia di una cassetta di sicurezza voluminosa a nome di suo padre, presso la sede centrale della Banca Universale a Zurigo. Alcuni oggetti di valore vi sono stati deposti nel 1983 da suo padre in persona, e in seguito, nel 1996, vennero rimossi da sua madre” spiegò Marcel ora volontariamente lento nella sua esposizione. “Insomma dove vuole arrivare?” lo interruppe Brown. “Mi vuole forse far credere che i miei genitori hanno nascosto degli oggetti di valore in una banca Svizzera, e minacciarmi così di are la notizia ai media? Faccia pure. Io non ne so niente di questa fantomatica cassetta di sicurezza. Oltretutto, credo francamente che si tratti di una montatura per cercare disperatamente di intimorirmi dal perseguire negli obbiettivi di trasparenza fiscale che abbiamo fissato per Helvetia. Comunque, assumendo per assurdo che questa storia sia veritiera, non credo che la notizia sarebbe poi tanto scandalosa. Sono nato in una famiglia ricca, ma non straricca. Si tratterà al massimo di qualche milione di sterline. Pagheremo una penale e la vicenda si risolverà in poco tempo” concluse Brown, in procinto di interrompere la conversazione. Nonostante le parole poco rassicuranti di Brown, Marcel sentì odore di vittoria e si concesse così una piccola divagazione dai toni provocatori e anche un po’ propagandistici. “Egregio signor Brown, lei deve capire che il segreto bancario nasce dal concetto di discrezione, di tutela della privacy. Purtroppo nel tempo è stato abusato per pratiche scorrette di evasione fiscale o di riciclaggio di denaro, ma il concetto di discrezione va ben al di là di un semplice vantaggio economico. Le informazioni riguardanti i clienti, di cui una banca dispone, sono infinite e di natura molto personale. Tutte le transazioni, gli averi, le preferenze di acquisto, l’insieme della rete finanziaria privata e professionale di una persona, tanto per citarne alcune. Una banca è in grado di abbozzare un identikit molto preciso sulla personalità di un individuo. Pensi solamente a che vantaggi trarrebbero venditori ambulati o venditori di fumo di tutto il mondo se potessero mettere le mani su questi dati. Sicuramente riceveremmo ogni giorno decine di chiamate da sconosciuti prodighi nel cercare di piazzare prodotti o servizi che corrispondono ai bisogni dei nostri averi o alle nostre abitudini di acquisto. Insomma, tutti questi dati vanno tutelati con grande fermezza. Ora, per raggiungere il necessario livello culturale in grado di premettere alla discrezione
di divenire una peculiarità inderogabile, è necessario punire severamente chi tradisce la fiducia riposta da un cliente nel suo istituto finanziario. Il segreto bancario serve in prima istanza a garantire ripercussioni penali per coloro che violano il loro mandato di discrezione”. “Ora basta, non ho nessun interesse a stare qui ad ascoltare queste fesserie” sbottò Jonathan Brown notevolmente irritato. “Se ha qualcosa di concreto da aggiungere lo faccia adesso, oppure senza esitazione metterò fine a questa conversazione”. “Certo, capisco” rispose Marcel. “Suo padre portò a Zurigo quattro tele di Francis Bacon, che non sono mai state rivelate al grande pubblico. Le quattro tele riportavano tutte in modo inequivocabile delle effusioni tra uomini”. Marcel fece una breve pausa e attraverso il ricevitore udì Brown deglutire. “Non abbiamo a disposizione delle fotografie di quelle tele, ma i dipendenti della banca, che ebbero occasione di visionarle, sostengono persino che una di esse riportasse delle effusioni tra un gruppo di uomini e un giovine”. Marcel rimase in ascolto di una replica che non ottenne prima dello scadere di un minuto intero. Durante quei sessanta secondi la mente di Jonathan Brown si riempì di mille pensieri. Ricordò la relazione esasperatemene composta dei suoi genitori, che apparivano talvolta persino freddi e distaccati tra di loro. Ricordò la bizzarra asta di opere d’arte alla quale la madre prese parte a metà degli anni novanta sull’Isola di Jersey, e di come lei insistette per andarci da sola, senza scorta. Ne dedusse che probabilmente in quell’occasione sua madre vendette le tele in gran segreto a un collezionista privato. Infine ragionò sull’impatto che questa vicenda avrebbe potuto avere sulla sua incombente campagna di rielezione. Chiaramente nessuno si sarebbe permesso di mettere la vita sessuale del padre a suo carico. Eppure, come esponente di spicco del partito conservatore e assiduo frequentatore della messa domenicale, avrebbe quantomeno subito il noioso e martellante interesse di tutte quelle testate che cercano giornalmente il modo di riempire le pagine dei loro giornali con qualche indiscrezione. Ne concluse, che non valeva la pena rischiare il destino di un rielezione che al momento tutti davano per certa. “Questa sera riceverò a Londra i capi di governo dei paesi chiave della Comunità Europea. Durante la cena chiarirò un’inversione di rotta nella nostra presa di
posizione nei confronti di Helvetia. Penso di avere delle carte da giocare legate ad altri dossier aperti tra il Reno Unito e i Paesi Europei, e credo che questo dovrebbe essere sufficiente per convincere gli altri capi di governo a sostenere il nuovo corso. Lei deve solo preoccuparsi di mantenerne la massima confidenzialità per le informazioni di cui è in possesso, per sempre”. Brown esitò un momento prima di appendere il ricevitore. Forse avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma in conclusione non lo fece. Il suono che indicava la fine della conversazione sopraggiunse delicatamente. In realtà, il paese di Marcel Schmidt rinunciò in seguito al segreto bancario, seguendo un corso quasi spontaneo. Col are del tempo l’infrastruttura necessaria ad assicurare la tutela dei dati divenne sempre più onerosa, a tal punto che furono i clienti stessi a richiedere delle misure meno efficienti per la protezione dei dati, compensati da dei contributi meno gravosi per la gestione dei loro averi. I concittadini di Marcel digerirono la decisione senza grandi scombussolamenti, dato che in questo caso non si trattò di un’odiosa imposizione venuta dall’esterno, ma bensì fu il frutto della mera applicazione della legge di mercato. Marcel, sempre adagiato sulla sua poltrona, accese uno dei suoi sigari più pregiati, uno di quelli conservati per le grandi occasioni. Finalmente si era liberato della pressione internazionale e poteva guardare all’orizzonte di Helvetia con la serenità offertagli da un cielo sgombro e a tinta unita. Dei progressisti si era già liberato in precedenza, rilegandoli in una nazione ideologicamente ormai molto distante da Helvetia. Nessun ostacolo minava più il compimento di quell’opera politica senza precedenti. Ci era riuscito. Dalle rovine di una società volta al compromesso, aveva creato, a sua immagine, una nazione conservatrice a tutti gli effetti. Una nazione senza mezze misure. Ora, secondo gli accordi presi da Nadia con Samuel e David Gabus, non gli restava altro che partecipare a quel ridicolo incontro con i vertici di Nuova Frontiera. Decise di sottoporsi a tale strazio unicamente per evitare di irritare inutilmente la figlia. Comunque, si disse, non sarebbe pesato su di lui l’onere di ringraziare i Wicht per le informazioni ottenute da Edoardo Zamparini. Concedere l’intervento delle forze speciali di Helvetia per risolvere la minaccia terroristica a Ginevra andava ben oltre una banale intervista con un ex usciere di banca.
Col pensiero già rivolto alla stagione di caccia autunnale, Marcel liberò dalle labbra una boccata di fumo denso e concentrico che lentamente fuoriuscì dall’ampia vetrata del salotto, aperta su quella splendida giornata di mezza estate.
Capitolo 18
Philippe Wicht stappò una bottiglia di vino bianco che aveva riposto preventivamente per due ore nel frigorifero a raffreddare. Oltre a essere l’orario giusto per un aperitivo serale, i Wicht si accingevano a festeggiare la liberazione degli ostaggi e il disinnesco della minaccia terroristica che per due giorni aveva oscurato le prospettive di Nuova Frontiera. Philippe aveva appena terminato di parlare al telefono con il Comandante Dubois, ottenendo così una descrizione dettagliata di tutte le fasi salienti dell’operazione di polizia. I coniugi Wicht e il figlio Jean-Luc sedevano ora insieme davanti al televisore, nel salotto del loro appartamento di Ginevra. La televisione di stato, con la diffusione di un notiziario speciale, stava informando la popolazione sugli eventi straordinari delle ultime quarantottore. L’unita speciale antiterrorismo di Helvetia era intervenuta alle 13:45 facendo irruzione nell’ufficio postale di Grand-Lancy, con le armi spiegate e un uso in grande stile di gas lacrimogeni. Fortunatamente, l’improvviso intervento aveva colto i terroristi di sorpresa. La banda armata era stata disarmata nel giro di pochi secondi, e nessuno si era ferito seriamente. Due degli ostaggi erano stati ricoverati per curare una lieve forma d’intossicamento, ma sarebbero stati rimessi in serata. La polizia assicurò alla giustizia quattro individui che dopo l’arresto cessarono immediatamente di porre resistenza. Gli agenti dei servizi speciali di Helvetia, che si trovavano a Ginevra sotto richiesta dei due governi, misero subito i quattro criminali sotto torchio, evitando che questi potessero concordare una linea comune prima dell’inizio degli interrogatori. Uno di loro, davanti alla prospettiva di evitare la pena più severa, si dimostrò particolarmente collaborativo, e in tempi brevi diede alla polizia tutte le indicazioni necessarie a localizzare l’ordigno, che senza un intervento tempestivo sarebbe esploso alle 17:00. L’ordigno, che l’unità di artificieri disinnescò senza grandi difficoltà, si rivelò essere di fabbricazione artigianale, piuttosto amatoriale. Ciononostante, il connubio tra l’elevato quantitativo di esplosivo con il quale era stato imbottito il veicolo che lo nascondeva, e la scelta di un luogo molto affollato come il posteggio di transito dell’aeroporto, avrebbe certamente provocato una strage.
Le inchieste rivelarono in seguito come il gruppo dei Fratelli Combattenti nacque in realtà a carattere innocuo, volto addirittura a sostenere l’integrazione di coloro che ancora arrancavano nel trovare le formule adatte per combinare le tradizioni delle loro origini con quelle di Nuova Frontiera. Non per niente, l’associazione fu inizialmente registrata ufficialmente presso il comune di Ginevra sotto il nome di Fratelli Uniti. Purtroppo, l’associazione fu infiltrata rapidamente da un gruppo fondamentalista, ben radicato in quei paesi dove i conflitti a stampo religioso hanno già fatto scorrere un fiume di sangue, e lo fanno tutt’ora. L’infiltrazione avvenne in modo sottile, tutt’altro che irruenta. Uno per volta, si presentarono alla comunità locale come nuovi immigrati, camuffando inizialmente alla perfezione la loro propensione alla violenza e nascondendo la conoscenza di coloro che si erano già infiltrati. Così facendo, nessuno dei membri fondatori dell’associazione si rese conto del disegno ben preciso che stavano perseguendo i nuovi arrivati. Certo, le pratiche di accoglienza particolarmente generose che furono messe in pratica da Nuova Frontiera facilitarono l’arrivo indisturbato di questi personaggi. La quasi totale assenza di spirito critico e vigile, e quindi protettivo verso i propri concittadini, permisero ai fondamentalisti di abbozzare in poche settimane un progetto in grande stile, che prevedeva di concentrare proprio a Ginevra un gran numero di cellule d’azione pronte a operare in tutta Europa. Quando la fase d’infiltrazione fu terminata, i fondamentalisti si concentrarono nell’individuare gli elementi più deboli e meno integrati. Concretamente, andarono alla ricerca di coloro che si sentivano ancora radicalmente diversi dalle genti e i consumi che li circondavano. Per riconoscere i soggetti più vulnerabili bastò loro seguire le indicazioni apprese presso i campi d’istruzione in cui furono indottrinati. Bastò loro isolare ancor più quei giovani che non ridevano mai, coloro che magari si sforzano talora di sorridere, ma non si liberavano mai in una risata spontanea, venuta dal cuore. Dopo averli individuati, i fondamentalisti si prodigarono nel rassicurarli in quella loro percezione di essere diversi, inculcando loro anche il concetto di superiorità che scaturiva da quelle differenze. Infine, li aizzarono ad architettare un gesto clamoroso, volto ad affermare la loro supremazia sulla massa di stolti e selvaggi che non avevano ancora saputo ammettere la loro palese inferiorità. La faccia del Comandante Dubois apparve allo schermo. In diretta dalla sede
della centrale di comando della polizia un reporter lo congratulò per aver saputo risolvere la situazione e gli fece qualche domanda nella speranza di ottenere qualche elemento dell’ultima ora, eventualmente emerso dalle indagini. Il Comandante della polizia sembrava uno stoccafisso inchiodato alla parete, rigido e visibilmente a disagio davanti alle telecamere. Ciononostante, dopo un inizio titubante, recitò senza pecca la parte iniziale del discorso che si era prefisso di pronunciare. Per prima cosa valorizzò l’importanza dell’intervento delle forze speciali di Helvetia, al comando del maggiore Keller. Poi Dubois si lasciò prendere dallo slancio provocato dagli eventi e iniziò a divagare sull’eventualità di considerare un riavvicinamento con i conservatori, spiazzando il reporter che rimase a bocca aperta. La linea venne ripresa bruscamente dallo studio e il direttore del telegiornale speciale commentò divertito che per l’analisi delle ripercussioni che questa vicenda avrebbe potuto avere sulla politica interna ed estera di Nuova Frontiera si sarebbero rivolti a Philippe Wicht a tempo debito. A Philippe Wicht andò di traverso il sorso di vino che si stava accingendo a gustare. “Ma che diavolo gli salta in mente a Dubois? Chi gli ha messo in testa questo genere di idiozie?” chiese il capo di governo di Nuova Frontiera tra un colpo di tosse e l’altro. “Philippe, si è solo lasciato prendere un po’ dall’euforia. Non è poi cosi grave, no? Quel che conta è che tutto si sia risolto al meglio, e francamente anche Dubois ha fatto la sua parte in modo impeccabile. Non trovi?” rispose la moglie con l’intenzione di mantenere intatta quell’atmosfera di festa che aveva inondato la casa con l’annuncio della liberazione degli ostaggi. “Hai ragione. Festeggiamo”. Philippe riempì i tre bicchieri fino all’orlo e si assentò brevemente per andare in cantina a recuperare una seconda bottiglia. Jean-Luc abbassò il volume del televisore e ne approfittò per raccontare alla madre alcuni dettagli sugli eventi degli ultimi due giorni che lo riguardavano in modo personale. Madre e figlio non fecero caso alle ulteriori notizie che stava ando ora il notiziario. Il commentatore spiegò come la giornata si fosse rivelata molto positiva non solo per Nuova Frontiera ma anche per Helvetia. Il gabinetto del Premier Britannico aveva annunciato a grande sorpresa in conferenza stampa di
sostenere Helvetia nella sua sovranità e indipendenza, includendo il segreto bancario tra una serie di legittime peculiarità. La Gran Bretagna avrebbe intrapreso a breve delle trattative d’imposizione fiscale specifiche a entrambe le due nazioni sorte dalla scissione della Svizzera. Su scala internazionale quest’annuncio ò però in secondo piano nei confronti di una notizia, sempre divulgata da un portavoce di Downing Street, ben più clamorosa. Brown annunciò difatti l’intenzione di dare il via, quella sera stessa, a delle concrete trattative con i paese della Comunità Europea per l’abbandono della Sterlina e l’introduzione dell’Euro nel Regno Unito. Philippe Wicht riapparve in salotto con un secchiello per il vino in metallo, riempito fino all’orlo di cubetti di ghiaccio, e con la suo interno una bottiglia già stappata di vino bianco. Riempì nuovamente i bicchieri e propose l’ennesimo brindisi, questa volta accompagnato da un piccolo discorso. “Ce l’abbiamo fatta. Nuova Frontiera ha superato indenne la prima crisi della sua storia” disse il capo dei progressisti. Poi guardando il figlio aggiunse: “JeanLuc, quello che sei riuscito a fare negli ultimi due giorni mi ha profondamente colpito. Mi complimento per la maturità politica che hai dimostrato e per la determinazione con la quale hai difeso i cittadini di Nuova Frontiera. Ti ringrazio di cuore per quello che hai fatto”. Jean-Luc accolse con piacere i ringraziamenti del padre e bevve compiaciuto dal suo bicchiere. Ciononostante, il gusto che quel vino gli lasciò in bocca non era buono, bensì acido e irruente, un sorta di insulto ai sensi. Il giovane si chiese se fosse veramente il vino a essere tanto scarso o se fosse invece una reazione del suo palato in combutta con la mente, che si ribellavano per quell’evidente equivoco. Nessuna parola era stata spesa per riconoscere il ruolo decisivo che ebbero in realtà Helvetia, Nadia Schmidt, David Gabus e Samuel, per l’ottenimento del lieto fine che stavano festeggiando in questo momento. Philippe Wicht, invece, non stava nella pelle dalla gioia e si gustò il vino, bevendolo avidamente a grandi sorsate, così come un bambino alle prese con del miele liquido. Le voci di tutti quelli che in ato lo avevano messo in discussione, coloro insomma che lo consideravano incapace di imporsi ad alto livello e addirittura inadatto a guidare la neonata nazione, sarebbero stati fortemente ridimensionati dagli esiti di questa vicenda. Philippe ebbe la netta sensazione di poter sfruttare a suo favore la risoluzione degli eventi straordinari ai quali erano stati confrontati nelle ultime ore, dando un nuovo e vigoroso
slancio alla sua posizione politica e al ruolo di potere che ricopriva attualmente nel governo. Cavalcando quest’euforia, continuò a bere e fare grandi proclami sul futuro di Nuova Frontiera. I due uomini, mossi da motivazioni diverse, che solo la signora Wicht attenta a osservarli seppe riconoscere appieno, liberarono il gomito molte volte e stapparono pure una terza bottiglia. Dopodiché, visibilmente brilli si concessero una pausa, appartandosi per qualche minuto tra i meandri della loro mente. Jean-Luc, disinibito dagli effetti dell’alcool, cambiò improvvisamente discorso e chiese al padre: “Che cosa prevede il trattato della discordia nel caso di un matrimonio tra persone appartenenti a due regioni diverse?” “Vuoi dire per esempio l’unione tra un uomo e una donna, cittadini rispettivamente di Nuova Frontiera ed Helvetia, giusto?” chiese la madre con il semplice intento di meglio chiarire il senso della domanda di Jean-Luc. “Già, esatto” rispose il giovane. “In caso di matrimonio si ottiene automaticamente il diritto di residenza? In entrambe le regioni?” Philippe rinvenne dagli orizzonti di gloria in cui era andato a bagnarsi con il pensiero e cambiò espressione, incupendosi. “Che cosa c’entra questo adesso? Ce ne occuperemo il giorno in cui una tale assurdità si dovesse realizzare, no?” “Sì certo, ma in teoria, come funzionerebbe?” lo incalzò la signora Wicht, spinta dall’irresistibile prospettiva di veder il figlio seriamente impegnato con una donna. Philippe storse la bocca, facendo capire che avrebbe volentieri rinunciato a quel discorso. “Beh, per quanto ricordo, non mi sembra che quest’eventualità sia stata prevista dal testo del Trattato della Discordia. D’altronde perché mai una tale stravaganza dovrebbe mai realizzarsi? La popolazione ha potuto scegliere in modo netto e inconfutabile da che parte stare. Perché mai andare a cercare ora un compagno o una compagna all’altro capo del mondo ideologico? Una simile unione sarebbe destinata a fallimento sicuro, o sbaglio? Tutto questo non ha alcun senso” concluse il capo di governo di Nuova Frontiera, spinto da un improvviso languirono allo stomaco che gli stava suggerendo di troncare subito il discorso e portare la famiglia fuori per cena. Jean-Luc cambiò posizione, si ritrasse con la schiena dal comodo schienale e si
mise seduto in bilico sul bordo del divano, come se fosse pronto a lanciarsi in una corsa di velocità. Nel momento in cui questi stava per gettarsi a capofitto nel dibattito, fornendo finalmente al padre tutte le spiegazioni del caso, fu la madre a immobilizzarlo con lo sguardo. Non era ancora giunto il momento opportuno. “Philippe, quello che tu dici presuppone che la scelta di una compagna avvenga sempre in modo razionale” si affrettò a commentare la signora Wicht. “Eppure, forse dimentichi che quando ci siamo scelti noi per la prima volta, non abbiamo certo dato sfogo a un impulso venuto dalla mente. Ricordi? Non mi pare che tu abbia chiarito il mio indirizzo politico prima di avermi fatto certe proposte”. Philippe appoggiò il bicchiere sul tavolino in vetro posto davanti al divano e si rassegnò all’idea che probabilmente la festa era già finita. “Ah certo, non lo nego, ma questo è avvenuto in altri tempi. Erano anni in cui s’incoraggiava il potere dei sensi. Quell’era è sorata. Ora è diverso” rispose Philippe categorico, prima di aggiungere: “E poi, dimenticate forse le pratiche estremamente restrittive che ha varato il governo di Helvetia? Come farebbero a incontrarsi due individui appartenenti alle due regioni ormai scisse in due nazioni? Magari all’estero, ma in questo caso sarebbe più semplice farsi una vita lì, senza bisogno di complicare le cose, no?” Philippe che non aveva ancora capito minimamente dove stavano andando a parare la moglie e il figlio con quel discorso, cercò addirittura di ottenere del consenso per quello che stava dicendo da Jean-Luc. “Proprio tu, che ti sei incontrato in un paio di occasioni durante gli ultimi giorni con la figlia di Marcel Schmidt dovesti sapere quanto è difficile muoversi tra le due regioni. Malgrado aveste a disposizione un lasciaare straordinario firmato dai capi di governo in persona, siete stati costretti a incontravi sempre e solo sui territori di Nuova Frontiera. Correggimi se sbaglio. Insomma, tornando alla realtà e alle limitazioni imposte ai cittadini comuni, una relazione a distanza sarebbe semplicemente impossibile. Un cittadino di Helvetia per poter stare a tempo pieno con una compagna di Nuova Frontiera dovrebbe trasferirsi da noi e rinunciare alla cittadinanza di Helvetia, così come impone il Trattato della Discordia. In sostanza, dovrebbe troncare i rapporti con famigliari e amici. Ditemi voi adesso, chi prenderebbe una tale decisione alla leggera?” Jean-Luc ebbe un fremito. Francamente non ci aveva ancora pensato, e forse il padre non aveva tutti i torti. Per poter stare con lui, Nadia sarebbe stata disposta
a vedere i genitori solo di rado? Avrebbe abbandonato il padre ed Helvetia per un tizio che conosceva da pochi mesi? Nuovamente fu la madre a rispondere al marito, anche se con meno piglio ed energia che in precedenza. “Philippe, sei poco convincente. Anche se eventualmente quello che dici è valido per la maggioranza delle persone, non puoi mica escludere che in alcuni casi le cose andranno in modo diverso. Mi sembra evidente che dovrete trovare una soluzione per i matrimoni misti”. “Matrimoni misti? Ehi, questo è un colpo basso! Io non voglio discriminare nessuno. Che accidenti vi prende per insistere tanto su questa storia delle ipotetiche unioni transfrontaliere, o meglio forse chiamarle transideologiche?” Philippe si alzò dal divano e andò a piazzarsi davanti alla finestra, con lo sguardo rivolto verso il basso, verso la strada pedonale colma di persone in festa. Il capo di governo di Nuova Frontiera, rabbuiato da quell’inutile polemica, soppesò l’opzione di congedarsi con una scusa e andare a cena da solo. Jean-Luc avrebbe voluto spiegare al padre il perché di quel discorso, ma purtroppo la canna della sua gola si rivelò essere come inceppata e non gli permise di sparare nemmeno una sillaba. Fu allora la madre del giovane progressista a intervenire ancora in suo soccorso. “Philippe, ti dobbiamo dire qualcosa. Per favore, siediti”. Philippe la guardò intensamente per qualche secondo e poi, senza aprire bocca, si sedette nuovamente sul divano. Sapeva che la moglie centellinava l’uso di quell’espressione per le occasioni degne di nota. “Jean-Luc ha una relazione sentimentale con Nadia Wicht, e da come mi ha descritto il loro rapporto sono piuttosto sicura che si tratta di una cosa seria”. Jean-Luc scrutò intensamente il viso del padre, mentre questi ava con lo sguardo in rapida alternanza dai suoi occhi e quelli della madre, da destra a sinistra, per poi perdersi a metà strada, come disorientato. Il giovane progressista, mosso dalla speranza di cogliere tra le pieghe del viso del padre il ben che minimo segnale di approvazione, alternava anch’egli, come un pendolo visto di fronte, il suo campo visivo dal basso all’alto, prima fisso sul pavimento e poi timidamente lo rialzava alla ricerca della benedizione di Philippe Wicht. Jean-Luc, mosso da motivazioni che partivano dal cuore, non diede molto peso
alle probabilità che annunciavano il quasi certo dissenso da parte del padre. Si lasciò invece incantare da un pensiero che lo percorse come una premonizione, e che vedeva il padre mettere il suo bene sopra ogni altra cosa. Come in una visione, immaginò di vedere i tratti del viso di Philippe, ora tesi e angosciati, gradualmente distendersi, per poi are, superando così ogni giudizio e ostacolo, alla gioia suscitata da una notizia che non può essere che lieta. In realtà, avvenne il contrario. Il volto del padre, avvolto da chissà quali pensieri e prospettive, invece che innalzarsi libero e alto, lassù dove il sole e l’aria pura sono già sufficienti da soli a suggerire il sorriso, venne risucchiato da una forza oscura, che come una calamita lo riportò rovinosamente a terra. “Io parente di Marcel Schmidt? Sarebbe come andare a letto con il diavolo. Non posso nemmeno immaginarmi una situazione del genere senza avere un moto di disprezzo e ripugnanza” disse Philippe infine. Fece una breve pausa, come se volesse attenuare le sue esternazioni, e poi aggiunse: “Quell’uomo è il mio opposto. Unire la mia famiglia alla sua finirebbe con il distruggerle entrambe, così come materia e antimateria si dissolvono in un lampo se costrette a incrociare i loro destini”. “Il tuo perfetto opposto” ripeté la signora Wicht. “Non credi di esagerare. Non pensi che sarebbe naturale cogliere un filo di presunzione in quello che stai dicendo?” “No mia cara, non credo. È una questione di sensazioni, di percezione degli eventi. Sono il primo ad ammettere che non si tratta di motivazioni pienamente razionali, e capisco che per questo siano più difficili da spiegare” rispose Philippe, che probabilmente adesso stava attingendo a pensieri ed espressioni ben collaudate e ripetutamente utilizzate in ato. “Jean-Luc, cercherò di farmi capire raccontando un aneddoto. Anni fa, quando ancora collezionavo le mie prime esperienze a Berna, fui coinvolto nel lavoro di una commissione parlamentare straordinaria che mirava a elaborare delle nuove misure per ridurre l’influenza delle lobby sui lavori parlamentari. Durante le sedute della commissione, in cui tutte le forze politiche erano ben rappresentate, mi trovai frequentemente a condividere gli interventi di un collega appartenente a una ala ben radicata all’interno dello schieramento dei conservatori. Anche lui
aderì sovente alla mia visione delle cose, e in sostanza fu così che una certa sintonia di vedute emerse abbastanza chiaramente. Tant’è che decidemmo di consolidare la nostra proposta di legge in una bozza scritta a due mani. Per lavorarci indisturbati, dopo una delle ultime sedute della commissione, andammo in città a discutere in un locale poco frequentato. Oltre a tracciare i contenuti del documento ci ritrovammo a discutere anche del più e del meno, ando attraverso una serie di temi di ogni sorta. Devo ammettere che ci sentimmo a nostro agio. Insomma, ne nacque un’amicizia in buona parte indipendente dalla nostra professione politica. Andammo a giocare a tennis, a vedere delle partite della nazionale di hockey su ghiaccio, e qualche volta cenammo insieme alla fine delle sessioni parlamentari”. Philippe fece una pausa per bere dell’acqua. Lo stato di ebbrezza provocato dal vino bianco stava lentamente svanendo, lasciandolo con la gola secca e la lingua impastata. “Una sera, dopo che il parlamento aveva respinto la nostra bozza di legge, andammo a consolarci con qualche bicchiere, qualcuno anche di troppo. Il cameriere che ci serviva al tavolo era uno straniero, venuto da lontano, anche se non ricordo di preciso da dove. Ci apparse molto nervoso e insicuro nelle sua gesta, tanto che pensai che quello potesse essere il suo primo giorno di lavoro. Lo sventurato fece un grave errore. Uno dei bicchieri di birra che stava portando con il vassoio al tavolo vicino al nostro gli scivolò di lato e andò a riversarsi sui pantaloni del collega”. Philippe si mosse leggermente sulla superficie del divano in pelle, avvicinandosi al figlio. “Quello che vidi e udì in quell’occasione lo ricordo come se fosse avvenuto ieri, tanto mi rimase impresso nella memoria. Il volto del collega si trasformò talmente che credetti letteralmente di vedere emergere un’altra persona da sotto la sua pelle, come se un altro essere, una sorta di parassita o di un mostro alieno, si rivelasse all’improvviso ai miei occhi, liberato dall’ira e dalla necessità di difendere il corpo che lo ospitava dall’oltraggio subito. Credimi, una scena allucinante. Le parole orribili e offensive, dal tono chiaramente razzista, che usò rimbombano ancora nelle mie orecchie, come se il maligno in persona gliele avesse suggerite”. Philippe fece ancora una pausa. Scosse il capo, come se il ricordo di
quell’esperienza lo turbasse ancora profondamente. “Nessuno dei presenti disse niente. Neppure uno tra i colleghi di quel cameriere osò rispondere a quelle parole palesemente fuor misura, anche se tutto questo non deve suonare come una scusante. Difatti quel che è peggio, e di questo me ne vergogno ancora oggi, è che io non dissi ne feci nulla. Io che accompagnavo quell’essere immondo e sedevo al suo tavolo. Finì di bere la mia birra e dopo una quindicina di minuti ati a cercare di riscoprire chi era quella creatura che mi sedeva di fronte, me ne andai a casa senza batter ciglio e con la coda tra le gambe. Vi sembrerà forse strano, ma vi assicuro che dovetti addirittura fare una doccia per lavare lo schifo, per togliermi quel sentimento estremo di vigliaccheria che mi sentivo addosso”. Philippe si alzò in piedi. Quei pensieri lo avevano reso irrequieto e sentì la necessità di scaricare a terra il peso del racconto. “Quel giorno fui debole, vile e conciliante, spinto da un repellente moto di tolleranza che mi aveva portato a sopportare le parole di quell’individuo, oscurando così in pochi secondi, come in un’eclisse di luna, quei valori di umana tolleranza che mi sono ben più cari. Mi ripromisi di non ridurmi mai più a quel vile esserino. Detto questo, spero che capirete che con certa gente io non ho niente da condividere e, da un punto di vista privato e personale, non voglio averci niente a che fare”. È molto difficile lanciarsi in una replica dopo un tale racconto. Ciononostante, la signora Wicht, sempre mossa dalla volontà di sostenere il figlio, ci provò lo stesso. “Questo però presuppone che siano tutti uguali. Tu ti basi sull’esperienza di un solo episodio per giudicare tutti i cittadini di Helvetia. Come fai a sapere con certezza che Marcel Schmidt avrebbe reagito in quell’occasione proprio come quel tuo collega?” gli chiese la donna, anche se in realtà era rimasta alquanto colpita dal racconto partecipe del marito. Philippe non rispose, limitandosi a scuotere la testa. Allora, la moglie aggiunse: “Inoltre, lo hai detto tu stesso che eravate molto giovani e alle prime armi. Forse quello stesso uomo con il tempo è maturato e si comporterebbe oggi diversamente. Philippe, a volte la gente cambia”. Malgrado tutta la buona volontà, quelle ultime parole le uscirono dalla bocca tentennando,
come se fosse lei stessa la prima a dubitarne fortemente. “Forse, anche se ci credo poco. Comunque se uno cambia, non credo che questo possa avvenire a settant’anni. Marcel Schmidt lo conosco a sufficienza da sapere bene di che pasta è fatto, e come ho già detto non provo il ben che minimo piacere all’idea di vederlo entrare a far parte della nostra vita privata, anzi la sola idea mi rattrista enormemente”. Philippe Wicht disse alla moglie e al figlio che aveva bisogno di andare a fare due i. Raccolse le chiavi di casa, che come sempre lo attendevano sulla cassapanca posta vicino alla porta, e con aria fortemente corrucciata usci dall’appartamento. Rimasti soli, la madre si sforzò di lanciare a Jean-Luc uno sguardo positivo, pieno di speranza, ma date le circostanze quel che ottenne fu unicamente uno sguardo benevolo e protettivo. Non per questo il figlio non ne apprezzò il gesto, anzi al contrario, sentì un forte impulso di ringraziarla e si avvicinò per abbracciarla. Era proprio quello il tipo di sguardo che poco prima il figlio aveva sperato invano di vedere apparire sul volto del padre. Quel tipo di messaggio non detto che solo un famigliare sa trasmettere, e che mette incondizionatamente il bene dei suoi cari sopra ogni altra cosa, anche quando le probabilità giocano fortemente a sfavore. Quel tipo di messaggio che arriva in soccorso dei sognatori, di coloro che si sono bruciati le dita e perfino degli sconfitti. Cade come una manna dal cielo, esattamente nell’istante in cui tutto quello che uno chiede è un incoraggiamento, a rialzarsi e sfidare la sorte. Una semplice pacca sulla spalla che in realtà si rivela per forza ed energia come l’arrivo improvviso, elegante e imponente della cavalleria al galoppo, quando la battaglia sembrava ormai persa, ma in realtà ancora non lo era. Jean-Luc sentì su di sé il peso opprimente della situazione in cui si era cacciato. Stare con Nadia lo avrebbe inevitabilmente allontanato dal padre e da questo dilemma non sarebbe riuscito a uscirne senza soffrirne e infliggere sofferenza. Forse, fu proprio in questo momento di forte scoramento che capì appieno quanto fosse assurdo aggiungere nuove frontiere a un mondo che di barriere ne contiene già di per sé più che a sufficienza. La madre andò in cucina a preparare un pasto leggero, dato che quella sera loro
due non sarebbero usciti per andare a confondersi con la gente in festa. Jean-Luc si sdraiò sul divano e si perse per l’ennesima volta con lo sguardo tra le sfumature blu del grande quadro appeso alla parete. La tela, che per tante volte negli ultimi mesi gli aveva ricordato gli occhi di Nadia, in questo momento invece che farsi ammirare sembrava essere lei intenta a fissarlo, a interrogarlo su quel che avrebbe fatto in occasione del loro prossimo incontro. Si chiese difatti che eccentrica idea avesse potuto architettare l’orologiaio per quel fine settimana che pochi giorni dopo avrebbe costretto lui, Nadia, e i rispettivi padri, a are due giorni interi a stretto contatto. Per ora nessuno sapeva dove sarebbero andati e quello che avrebbero dovuto fare. Jean-Luc si disse che in realtà questi dettagli contavano assai poco. Le prospettive di quei due giorni erano terribili, qualunque fosse l’angolatura sotto la quale il giovane progressista cercava di immaginarle.
Capitolo 19
Quella mattina dell’ultimo giorno di luglio il sole si alzò lentamente in cielo, sornione e rilassato premonitore di una giornata calda e, da un punto di vista puramente meteorologico, semplicemente perfetta. Nemmeno un filo di vento avrebbe disturbato i cittadini di Helvetia e di Nuova Frontiera, né una nuvola si sarebbe permessa di macchiare il cielo azzurro, tanto limpido e frizzante da volerlo toccare con mano. Per giorni le correnti provenienti dal pacifico e dal mare del nord avevano soffiato forte in quota, preparando il terreno a tanto splendore e spingendo a oriente ogni cosa, per poi placarsi come d’incanto nel corso della notte, sfiancate da tanto lavoro. L’elicottero di David Gabus andò a prendere Samuel nello stesso luogo e alla stessa ora in cui sei mesi prima un elicottero militare lo aveva prelevato per portarlo sull’Alpe di Älggi. Il giornalista si era svegliato sereno, in sintonia con quella giornata di mezza estate che per costituzione non poteva che essere lunga, ricca di ore di luce, e calma, perché scandita da delle fasi prevedibili e ben ordinate, così come da un avanzare del tempo ragionevole. Senza dubbio la giornata odierna non avrebbe avuto niente a che vedere con quei giorni, sparsi sull’arco di tutto un anno, che si concludono nell’anonimato, lasciando in bocca il gusto amaro dell’inutilità. Insomma, quanto è vero che il buon giorno si vede dal mattino. Purtroppo, l’accogliente cornice offerta a questa giornata dal bel tempo e dallo stato d’animo sereno di Samuel non trovarono inizialmente nessun riscontro positivo tra i protagonisti degli eventi a venire. Conservatori e progressisti si fecero trovare sì pronti alla partenza, come concordato, alle otto di mattina presso la stazione ferroviaria di Visp, nel Canton Vallese, ma anche unanimemente avvolti da una cappa di pessimismo e di cattivo umore, radicati nella convinzione che le seguenti quarantottore sarebbero state una pura perdita di tempo. L’elicottero posò il giornalista non lontano dalla stazione, che raggiunse rapidamente a piedi. Entrando nel caffè della stazione, Samuel ebbe la lieta sorpresa di vedere che erano già tutti presenti e compostamente seduti allo stesso
tavolo. Avvicinandosi a loro rimarcò però che il silenzio tra gli Schmidt e i Wicht regnava solenne. Persino i due giovani, seduti nell’occasione uno di fronte all’altro, si guardavano a malapena. Jean-Luc, influenzato dalle parole che il padre gli aveva detto pochi giorni prima e che annunciavano solo sciagure e sofferenza per quell’unione che sembrava di non poter vantare i favori del fato, si comportò con Nadia in modo freddo e distante. Per quasi tutta la mattinata, non solo evitò di baciarla, rifiutandosi così in un atto costitutivo fondamentale della fase d’innamoramento, ma addirittura, sotto lo sguardo vigile del padre, non osò nemmeno sfiorarla. Lei, stupita da tale improvvisa svolta nel comportamento del giovane, si richiuse a riccio, timorosa di essersi affezionata a un lunatico. Per non parlare poi dei due capi di governo. Marcel Schmidt e Philippe Wicht si salutarono come lo farebbero due iceberg che per caso s’incontrano per mare. Si strinsero le mani in modo vigoroso, quasi doloroso, e si scambiarono uno sguardo freddo e imperterrito, simile al ghiaccio che avrebbero sfidato quel giorno. L’unica nota a carattere distensivo che si presentò agli occhi di Samuel si stava svolgendo in fondo al locale, dove Emil e Dubois stavano facendo conoscenza. I due uomini si erano appartati, occupando due sgabelli a fianco del bancone in legno del bar, e quindi in posizione privilegiata per ottenere le attenzioni dell’unica cameriera attualmente in servizio. La loro scelta di snobbare gli altri senza tanti convenevoli e di mettersi in disparte, avvenne in modo molto naturale. Il ministro delle finanze di Helvetia, così come il comandante della polizia di Nuova Frontiera, avevano accompagnato le due delegazioni solo per una questione di forma, che li voleva presenti nel momento dell’incontro, coscienti che la loro missione quel giorno non sarebbe andata oltre. Eppure, non appena messi uno di fronte all’altro, iniziarono a studiarsi attentamente, divertiti dall’immagine offerta loro dalla rispettiva controparte. Ebbero la simultanea impressione di guardarsi allo specchio. Uno specchio speciale però, giacché d’aspetto avevano ben poco in comune. Si trattava, infatti, del riflesso scintillante prodotto dal cristallino degli occhi, che permette all’osservatore attento di vedere attraverso l’anima di un individuo, e che rivelò a entrambi una specie di doppione della propria persona. Emil e Dubois, essendo entrambi d’animo semplice, non si spaventarono per niente dinnanzi a tale alienante rivelazione, bensì, si abbandonarono allegramente a un improvvisato discorso volto a elencare e confrontare le loro
preferenze, su ogni sorta di questione, scelte casualmente, così come queste affioravano alla mente. Così facendo, i due uomini iniziarono a commentare le loro similitudini con delle sonore risate, schiamazzando infine come due grandi amici che si rincontrano dopo tanti anni. Quando, pochi minuti dopo, gli Schmidt e i Wicht lasciarono il locale, i due nemmeno se ne accorsero. Comandarono la prima bottiglia di vino e andarono a occupare un tavolino all’esterno del caffè, ben illuminato dal sole. Addirittura, c’è chi sostiene che talvolta è possibile vederli ancora oggi lì, seduti all’esterno del caffè della stazione, a ridere di se stessi e dei anti. All’interno, invece, le facce tese dei Schmidt e dei Wicht non si erano lasciate per niente contagiare dal moto di allegria scatenato da Emil e Dubois. Sorseggiando lentamente i loro caffè, come se fossero dotati di un fondo infinito, rimasero in silenzio fino all’arrivo della guida alpina locale che li avrebbe accompagnati nell’escursione. L’uomo, sulla quarantina, vantava già un ventennio di esperienza e si era fatto un nome nel suo ambito. Appena arrivato, si presentò rapidamente, commentò la meteo come ideale per godersi il panorama, e propose infine ai suoi ospiti di non perdere ulteriore tempo e di salire sull’elicottero di Gabus che li avrebbe portati fino a Zermatt. Il forte rumore dei rotori non permetteva quasi di parlare e Samuel ne approfittò per distribuire ai quattro politici delle buste indirizzate loro da David Gabus. L’orologiaio, che nel frattempo era ato ad altra vita, li ringraziò in poche righe per aver tenuto fede alla parola data, e descrisse loro il programma previsto per quei due giorni. Le buste per Marcel Schmidt e Philippe Wicht, contenevano entrambe una lettera aggiuntiva, sulla quale era però riportata la richiesta di essere aperta solo il giorno seguente, e così fecero. Per la precisione, anche Samuel aveva ricevuto una lettera di Gabus con la richiesta di attendere fino al giorno seguente prima di leggerne il contenuto. Ma di questo, ne parleremo in seguito. Il programma prevedeva dapprima un sorvolo in elicottero delle cime più caratteristiche della zona e poi la discesa a Zermatt. Da lì, la guida li avrebbe condotti attraverso l’imponente ghiacciaio del Gorner per poi continuare la marcia verso il Monte Rosa, fino ad arrivare all’omonima capanna di montagna,
meta della loro escursione. La capanna del Monte Rosa, che in realtà è molto di più di una semplice capanna, era stata messa a loro completa ed esclusiva disposizione. Fatto straordinario, dato che in alta stagione la capanna è molto ben frequentata. Eppure, Gabus aveva insistito sulla necessità di lasciarli soli in cima alla montagna. Da una parte l’orologiaio voleva evitare che i quattro politici fossero disturbati da altri escursionisti, ma soprattutto intendeva renderli prigionieri delle loro azioni. In assenza di scappatoie sociali, l’unica ragionevole possibilità di dialogare veniva offerta dalla controparte politica, oltre all’evidente opzione concessa dal silenzio. Per una questione di sicurezza e di funzionalità dell’infrastruttura, solo un custode della capanna sarebbe rimasto a loro disposizione per tutta la durata del soggiorno in quota. Comunque, un po’ per sua natura personale e un po’ perché così gli chiesero di fare, nei fatti l’uomo rese la sua presenza pressoché impercettibile. Anche la guida alpina sarebbe ridiscesa a valle nel pomeriggio, mentre l’elicottero sarebbe andato a riprenderli il giorno seguente dopo pranzo. Tutto l’equipaggiamento necessario, già ben calibrato alle loro taglie e pesi, si trovava sull’elicottero, pronto per essere distribuito all’arrivo a Zermatt. Questo era tutto. L’orologiaio nella sua lettera non accennava a nessuna richiesta concreta o a specifiche aspettative. Samuel osservò attentamente i due capi di governo mentre leggevano il messaggio di David Gabus e li vide chiaramente sollevati nell’apprendere che l’orologiaio, in sostanza, non chiedeva loro altro che di tollerarsi per due giorni. Marcel e Philippe riposero entrambi la lettera nella busta che avevano ricevuto, e si rilassarono apprezzando il panorama. Samuel, che stava per completare il compito assegnatogli per quel giorno, così come in generale la sua parte attiva in questa vicenda della scissione del paese, li seguì con il pensiero, volgendo a sua volta lo sguardo fuori dal finestrino. D’estate le cime delle montagne più alte, ancora innevate, sembrano delle onde gigantesche di un oceano profondo e inquieto al quale il vento, soffiando forte in quota, fa schiumare le creste. Quest’illusione di movimento, che in verità è reale, ma avviene sull’arco di millenni, cozza contro l’altrettanto forte sensazione di immobilismo del paesaggio, che noi percepiamo come scolpito per l’eternità. Pensandoci bene, al centro di tale paradosso ci siamo noi. Siamo noi a classificare in centimetri gli innegabili ma all’occhio impercettibili spostamenti
di un panorama, costituitosi ben prima del nostro arrivo e che senza dubbio sarebbe esistito ancora molto a lungo. È nuovamente la misura del tempo a scandire il senso e la logica di quello che ci circonda, e che se volessimo confrontare a un mare in movimento vedrebbe noi ridotti a un piccolo organismo acquatico dalla vita assai breve, a un’effimera. Dopo aver regalato ai suoi eggeri un magnifico colpo d’occhio ravvicinato delle cime alpine più notevoli, così come dei ghiacciai che le circondano, il pilota pose delicatamente l’elicottero su di un prato ai margini di Zermatt. Scesero tutti dall’apparecchio e si spostarono rapidamente in direzione del bosco ando sull’erba tagliata di recente, mentre il pilota mantenne i rotori accesi, pronto a ripartire. Si fermarono a una distanza sufficiente da intendere senza troppo fatica le parole di Samuel. “Bene, io vi saluto qui, e vi auguro di are due buone giornate in compagnia” disse il giornalista in un tono che suonò alle orecchie dei due capi di governo come ironico, ma che in realtà era rivolto più ai suoi due giovani compagni di avventura che non tanto a loro. Difatti, Samuel si affrettò ad aggiungere: “Nadia, Jean-Luc, sono molto contento di aver fatto la vostra conoscenza e mi auguro di avere presto occasione di rivedervi. Possibilmente, in un contesto diverso, meno opprimente di quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi”. Samuel diede un caloroso abbraccio a entrambi, che lo ricambiarono con una stretta di pari energia. Strinse la mano a Marcel Schmidt e Philippe Wicht e senza aggiungere altro tornò a sedersi sull’elicottero. L’apparecchio prese quota rapidamente, provocando un fragoroso rumore che rimbombò in tutti i dintorni, e poco dopo scomparve, inghiottito dalla cornice di cime montane che circondano la zona.
Qualche giorno prima, quando Samuel ebbe occasione di leggere nei dettagli le intenzioni di David Gabus per quell’ultimo atto della storia, il giovane giornalista rimase inizialmente sorpreso nel vedere che la sua uscita di scena sarebbe avvenuta durante le fasi iniziali. Si chiese se, nel rispetto delle intenzioni di fondo dell’orologiaio, non fosse più saggio deviare da quel piano e accompagnare la comitiva nel loro cammino, pronto a mediare un improbabile rappacificamento. Ma poi, ripensandoci bene, proprio perché la saggezza non per niente viene generalmente associata a una lunga chioma bianca, segno
distintivo del tempo e della vecchiaia, capì e condivise il pensiero di Gabus. Arriva sempre il momento, in qualsiasi forma di battaglia, in cui anche coloro che vi ci si sono impegnati a cuore aperto devono saper fare un o indietro, e are ad altri il testimone. Nonostante questo possa apparire come un atto duro e meschino, come qualsiasi uscita di scena, e lo è particolarmente quando le sorti di una vicenda, di una battaglia o di un’idea, non sono ancora completamente determinate, ogni bravo attore per eccellere nella sua funzione deve saper cogliere anche questo momento con stile e discrezione. A nulla servirebbe forzare gli eventi, proprio perché qualsiasi possibile finale deve essere scritto spontaneamente, partendo dall’animo profondo di ognuno, dei protagonisti. Suggerirlo oltremisura sarebbe inutile e potenzialmente controproducente.
La guida alpina diede una rapida occhiata allo stato fisico dei suoi clienti, soffermandosi inevitabilmente qualche secondo di troppo nel verificare quello di Nadia, e controllò il loro equipaggiamento di base. Poi prese da una grossa borsa che aveva scaricato dall’elicottero l’attrezzatura necessaria all’attraversamento del ghiacciaio e ne distribuì il contenuto tra i quattro membri della comitiva, che lo sistemarono nei rispettivi zaini e si misero in marcia dietro di lui. L’ultimo a partire fu Marcel Schmidt che si attardò nel riporre nel suo zaino, controvoglia, la lunga corda che sarebbe servita in seguito per creare una cordata di sicurezza. Marcel era un esperto di escursioni alpine come quella che si accingevano a compiere oggi e che nel corso della sua vita, soprattutto da giovane, avevano rappresentato un fedele atempo. Addirittura, una quindicina di anni orsono, Marcel aveva già percorso questo stesso tragitto fino alla capanna, che però a quei tempi era costituita da una struttura ben diversa da quella attuale. In quindici anni, il suo fisico era fortemente mutato e oggi avrebbe sicuramente fatto molto più fatica di allora. Quantomeno, durante gli ultimi mesi aveva seguito i consigli della figlia, si era impegnato a perdere qualche chilo e fare un po’ più di movimento. Di conseguenza, Marcel non era certo in forma smagliante, ma sarebbe stato perlomeno in condizione di raggiungere la capanna con gli altri. Nonostante l’indiscutibile costatazione di essere il membro della comitiva meno prestante fisicamente, ma forte della sua esperienza alpina e di aver già percorso quell’itinerario in ato, la sua caratteristica spavalderia emerse fin dai primi i percorsi sul sentiero. In particolare, si concesse un primo pensiero scettico e stizzito per quella guida che avrebbe chiesto loro di formare una cordata in piena estate, quando la neve che ricopre i ghiacci si è ormai completamente sciolta, e i crepacci, essendo ben visibili, non
rappresentano più un’incognita degna di nota. Philippe Wicht invece godeva certamente di una salute e uno stato di forma migliori, fatto non particolarmente sorprendente considerati i suoi cinquantacinque anni vissuti senza grandi eccessi. In compenso non poteva vantare particolare esperienza in questo tipo di escursioni in alta montagna, così come anche il figlio, e di conseguenza come uno scolaretto modello seguì per primo le orme della guida, tallonandolo da vicino. Arrivati alle pendici del ghiacciaio la guida si arrestò per fare una piccola pausa e impartire le necessarie istruzioni. Philippe, Jean-Luc e Nadia appoggiarono gli zaini a terra e attesero il sopraggiungere di Marcel, che con o macchinoso ma costante li raggiunse dopo pochi minuti. La guida alpina chiese a Marcel di riconsegnarli la corda che gli aveva chiesto di custodire durante il tragitto da Zermatt, e spiegò ai suoi ospiti che per una questione di sicurezza avrebbero formato una cordata per tutta la durata dell’attraversamento del ghiacciaio. La reazione di Marcel a quelle parole fu secca e immediata: “Ma questo è ridicolo. Non siamo mica all’asilo. Alla fine di luglio, i crepacci sono perfettamente visibili e solo un idiota sarebbe capace di finirci dentro”. La guida, probabilmente abituata a dover trattare con clienti provenienti da tutto il mondo, e talvolta ben più arroganti di Marcel, non rispose subito. Chiuse la borraccia dalla quale si stava dissetando, respirò due volte profondamente e infine disse: “Signor Schmidt, i rischi sono effettivamente limitati, ma io sono stato ingaggiato per ridurli ulteriormente. Non mi sembra di chiederle molto. Le assicuro che la corda non le darà molto fastidio nella marcia. E poi mi sembra di avere capito che i signori Wicht sono alla loro prima esperienza con un ghiacciaio. Un po’ di cautela non sarà nociva a nessuno. Non crede?” “Ah ecco, che bel ragionamento. Per colpa di quei due imbranati, dovremmo fare tutti la figura dei principianti?” fu la perentoria replica del capo di governo di Helvetia. Philippe Wicht lo guardò con grande disprezzo, ma riuscì a trattenersi dall’intervenire, evitando così di gettare benzina sul fuoco. “No grazie” aggiunse Marcel, spostandosi a monte della comitiva, e mettendosi a fianco della figlia. “Ho un’idea migliore. Diamo un senso a questa tortura, e lasciamoci prendere da un po’ di sana competizione. Progressisti contro
conservatori. I primi che arrivano alla capanna hanno vinto. Ognuno di noi è libero di scegliersi il percorso che meglio crede. Lei farà da arbitro. Intesi?” Nadia, che oggi non si sentiva padrona della situazione, distratta dall’enigmatico comportamento di Jean-Luc, non osò opporsi al padre, speranzosa che il loro accompagnatore avrebbe saputo arginare l’insolenza di Marcel. Nell’udire le parole di Marcel Schmidt la guida dovette ricredersi. Forse non si trattava di una piccola insubordinazione di routine, ma di qualcosa di più serio. “Signor Schmidt, in montagna la fretta è molto pericolosa e un esperto escursionista come lei dovrebbe essere il primo a esserne cosciente. Io non posso garantire la vostra sicurezza se vi comportate da irresponsabili. Se non si comporta così come le chiedo, sarò costretto a rientrare a Zermatt, da solo. Forse lei non lo sa, ma io non sono obbligato ad accompagnare oltre i miei clienti se questi si rifiutano di seguire le mie indicazioni”. L’uomo, convinto che in seguito a questa piccola minaccia avrebbe visto cedere il capo di governo di Helvetia, non poteva sapere quanto la tattica di aumentare la posta in gioco fosse in realtà la peggiore strategia possibile da perseguire con un tipo come Marcel Schmidt. Difatti, il padre di Nadia si abbandonò a una sonora risata, commentò la replica della guida affermando che a suo avviso non c’era altro da chiarire e che era arrivato il momento di incamminarsi. Voltò le spalle alla comitiva e rivolgendosi alla figlia le spiegò che conosceva bene la via più rapida per raggiungere l’altro fronte del ghiacciaio e raggiungere così nel minor tempo possibile la capanna. Nadia diede un rapido sguardo a Jean-Luc, ma vedendo quest’ultimo ulteriormente incapace di darle dei segnali chiari e rassicuranti, si accodò al padre, seguendone le orme a testa bassa. I Wicht e la guida alpina osservarono esterrefatti i due conservatori allontanarsi con o deciso lungo la superficie di ghiaccio, finché le voci di questi divennero incomprensibili. Riguadagnata la quiete necessaria a riordinare le idee, la guida scosse teatralmente la testa e raccolse l’attrezzatura ancora sparsa sul terreno per poi rimetterla nello zaino. Porse ai due progressisti la corda che Marcel si era rifiutato di utilizzare, la mappa della regione, sulla quale era tracciata in rosso la via che aveva previsto di seguire fino alla capanna, e una ricetrasmittente satellitare, che permetteva di comunicare con la centrale di soccorso alpino anche dalle zone più impervie e non coperte dal segnale di rete
mobile. Jean-Luc fece un timido tentativo di convincerlo ad andare comunque fino alla capanna, suggerendogli di ignorare il comportamento irrispettoso di Marcel Schmidt, ma non riuscì a persuadere l’esperto alpinista. L’uomo gli spiegò che il mandato di lavoro per quell’escursione, come descritto nell’offerta di prestazioni che David Gabus aveva pagato qualche settimana prima, faceva chiaro riferimento a quattro persone da guidare attraverso il ghiacciaio del Gorner e accompagnare fino alla capanna di montagna del Monte Rosa. Qualora i due conservatori fossero incorsi in un incidente, niente e nessuno avrebbero potuto tutelarlo da critiche ed eventualmente anche da delle sanzioni. La guida aggiunse che non gli sarebbe bastato descrivere il comportamento di Marcel Schmidt, neppure se confortato dalla loro testimonianza. L’unica possibilità che aveva di liberarsi da ogni responsabilità era scindere immediatamente il suo impegno, in via ufficiale, andando a denunciare personalmente l’accaduto presso la stazione di soccorso più vicina. Si trattava della prima volta che gli accadeva un caso tanto estremo d’insubordinazione, ma ricordava come alcuni colleghi erano stati costretti a comportarsi nella stessa maniera in ato ed era convinto che le guide locali, di picchetto presso la centrale di soccorso, lo avrebbero sostenuto. Sdegnato per l’accaduto e deluso per lo spreco di una giornata dalla meteo perfetta, salutò rapidamente i Wicht, e con o deciso, rasente la corsa, si lanciò verso valle ripercorrendo a ritroso lo stesso sentiero che avevano percorso insieme da Zermatt. Rimasti soli, padre e figlio, inizialmente osservano in silenzio, volgendo lo sguardo a monte della loro posizione, gli Schmidt che erano divenuti ormai poco più che dei puntini colorati sulla superficie abbagliante del ghiacciaio, mentre a valle la guida stava uscendo rapidamente dal loro campo visivo. “Ho sempre pensato che Marcel Schmidt fosse un ignorante particolarmente cafone, ma che lo fosse fino a questo punto non me lo sarei mai immaginato. Capisci tu per caso, a che cosa dovrebbe servire mettersi adesso a giocare a chi arriva prima, come se fossimo tutti dei bambocci? A mio avviso, questo tipo di spirito competitivo a ogni costo e in ogni occasione è un segno di gravi disturbi mentali…” iniziò a dire Philippe, che per un paio di minuti si concesse in un monologo a perdifiato, necessario a stemperare l’irritazione che si era imposto di reprimere in presenza degli Schmidt, e che in mancanza di uno sfogo imminente gli avrebbe fatto salire la pressione sanguigna in modo preoccupante.
Jean-Luc ne ascoltò solo le prime parole, per poi abbandonarsi rapidamente ad altri pensieri. Perché non le aveva detto niente? Perché non aveva almeno cercato di spiegale da dove venivano quelle preoccupazioni che malauguratamente gli avevano spezzato le ali? Il giovane sentì improvvisamente il forte impulso di correrle dietro, di colmare la distanza che li separava in questo momento, e affrettarsi a ricucire subito questo piccolo strappo nella loro giovane relazione, che se non curato a dovere sul nascere si sarebbe certamente sviluppato in un crepaccio insormontabile. Tant’è vero che le parole non dette sono sovente più pericolose e dolorose di quelle dette, anche se scomode. È forse meglio spiegarsi una volta di troppo, invece che assumere, in modo anche un po’ presuntuoso, che il proprio pensiero sia talmente limpido e implicito da essere percepibile da tutti senza sforzo. Quanto è più sano peccare di eleganza, rinunciare alla telepatia, e fare uso della parola. Sull’onda di tale impulso, Jean-Luc fece qualche o in avanti sulla superficie del ghiaccio, e suo padre, ancora impegnato in un assolo volto a una minuziosa esposizione del perché certe puerili sfide sono potenzialmente nocive, interpretò quella mossa come se fosse un’implicita proposta a continuare da soli l’escursione fino alla capanna. “Ma certo. Hai ragione tu. Ci andiamo lo stesso” disse allora Philippe, facendo are un’estremità della corda nel moschetto attaccato alla cintura e porgendo l’altra estremità al figlio. “La giornata è magnifica, il panorama è fantastico, e concordo sul fatto che non dobbiamo lasciarci condizionare da quel buzzurro. D’altronde, noi due non abbiamo sovente occasione di are del tempo da soli, vero? E poi, il ghiacciaio non mi sembra così pericoloso. Se ci leghiamo a dovere e seguiamo il percorso che aveva previsto di battere la guida, di sicuro ce la caveremo senza intoppi. Alla faccia degli Schmidt e della loro presunzione!” Quel che Philippe Wicht non osò ammettere era che, oltre alla prospettiva di godere a fondo della cornice offerta dalle cime alpine tutt’intorno, così come della compagnia del figlio, non era disposto a darla vinta a Marcel Schmidt, ripiegando a valle come se in ritirata dopo una cocente sconfitta. Fu così che i due progressisti si rimisero in marcia verso la capanna mantenendo una distanza di circa cinque metri l’uno dall’altro.
Confronto, duello, competizione, agonismo, successo e insuccesso, per certi versi tutti risvolti di un concetto comune dal quale il capo dei progressisti stava cercando di distanziarsi a parole, ma non nei fatti. Quel che è facile condividere del pensiero di Philippe Wicht è la semplice costatazione di come sia possibile vivere benissimo anche arrivando secondi, in alcune circostanze forse anche meglio. Mentre bollare la competizione in senso lato come un fenomeno malsano, è sicuramente precipitoso e richiede qualche precisazione. La competizione, vista come parte del processo formativo, ha i suoi lati costruttivi. Ogni bimbo, adolescente o adulto, impegnato nel difficile compito di delineare i tratti fondamentali della propria persona, sente il bisogno di misurare i propri limiti in rapporto a quelli dei suoi coetanei. Chiaramente, questo comportamento è naturale ed è sufficiente osservare il gioco di qualsiasi cucciolo di animale per capire da quali istinti esso nasce, e come questi faccia parte di un processo educativo. Lo schema diventa potenzialmente dannoso, e in effetti per certi versi persino malsano, qualora un individuo vi si abbandona di continuo, perpetrando tale rito formativo infantile in rapida scadenza, senza mai fermarsi a trarne le conclusioni. Difatti, colui che ha raggiunto una certa maturità adatta nel tempo le virtù costruttive della sfida, dal raffronto con gli altri a un confronto con se stesso. Qualora egli percepisce nuovamente la necessità di saggiare le proprie capacità, lo fa in genere rivolgendo lo sguardo al proprio interno, sovente definendo il confronto con un io ato, se non addirittura con un io futuro. Così come fa un diligente meccanico per calibrare nuovamente gli strumenti di navigazione di un vascello, dopo che ripetute partenze e atterraggi ne hanno scosso la struttura. Questa ovviamente è solo la teoria. Poi, per dirla tutta, va ammesso che sovente il are del tempo, così come altri fattori della vita di cui non abbiamo il controllo, non ci permette sempre di limitare il confronto a una rappresentazione temporale, ma può richiede dai nuovi impulsi esterni. Cambiamo, invecchiamo, iamo attraverso nuove fasi, e così anche i più maturi e solidi possono improvvisamente trovarsi costretti a richiedere delle conferme. La pacca su una spalla da parte di un mezzo sconosciuto, lo sguardo malizioso di una donna incrociata per caso, qualsiasi cosa in grado di confermare la nostra presenza, anche e soprattutto al di là dei confini immaginari che delineano il nostro raggio di azione abituale. E siccome per tarare nuovamente gli strumenti di guida, così come per ogni taratura, è necessario farsi prestare i metri di misura, diviene
pressoché impossibile farlo senza un confronto con gli altri. Gestire tali momenti, in cui si sogna di abbandonare la compostezza dei retroscena e della sala di regia, per salire almeno per una volta ancora sul palco, è forse una delle sfide più ardue che la vita impone a ognuno di noi. E purtroppo risulta molto complesso, se non inutile, azzardarsi a scriverne un manuale d’uso.
Nel frattempo Nadia e Marcel Schmidt raggiunsero un avvallamento del ghiacciaio e si fermarono un momento per tirare il fiato e stabilire per quale via avrebbero proseguito. Il capo di governo di Helvetia non poteva vantare una salute di ferro, ma indubbiamente godeva di buona memoria. Malgrado fossero ati quindici anni dalla sua ultima escursione sul ghiacciaio fino alla capanna del Monte Rosa, riconobbe subito la via più diretta per salire a monte. Marcel decise di seguire fedelmente il percorso che aveva già compiuto in ato. La scelta di un tracciato molto diretto, e che presumeva di condurli alla capanna in tempi relativamente brevi, forse ancor più del fatto di essere partiti in anticipo rispetto ai progressisti, fece guadagnare loro molto terreno, distanziando notevolmente i loro antagonisti. Di questo o, Marcel avrebbe avuto la possibilità di arrivare in capanna con largo anticipo rispetto ai Wicht, per poi attenderli comodamente in terrazza già rinfrescato da una doccia e con il bicchiere della vittoria in mano. Il padre di Nadia dovette però smettere presto di pregustare la meritata birra, perché si rese conto che la morfologia del ghiacciaio era mutata fortemente in quindici anni. Quasi tutti i punti di riferimento sulla roccia, che egli ricordava con precisione, non combaciavano più con la struttura del ghiacciaio, il quale, si era mosso in modo impressionante in così pochi anni e aveva modificato la sua superficie in più punti, creando dei crepacci la dove nella memoria di Marcel non c’era altro che una via di aggio sicura e diretta. L’avvallamento che sbarrava loro la strada in questo momento faceva proprio parte di tali recenti mutazioni. Come un piccolo cratere, poco profondo ma con al centro un ribollire sotterraneo di fluidi in movimento, li attendeva come un monito lanciato al pellegrino disattento che riconosce di essere finito in una palude, solo quando ha già iniziato a sprofondarci dentro. Grazie al binocolo da caccia che si era portato appresso, Marcel valutò attentamente le alternative a loro disposizione. Decise infine di girare attorno
all’ostacolo, ando dalla parte che meno li avrebbe costretti a deviare dalla via che si era prefisso di seguire. A Nadia non sfuggì un qual certo accenno di indecisione nella valutazione del padre e decise di dare a sua volta un’occhiata con il binocolo alle condizioni di quella via tanto diretta. “Papà, il riflesso della luce sul ghiaccio è molto abbagliante e non ne sono sicura, ma da quella parte mi sembra di vedere abbastanza distintamente che ci sono delle spaccature profonde. Non ci conviene forse girare attorno all’avvallamento ando dall’altra parte?” gli chiese la figlia ancora intenta a regolare la messa a fuoco del binocolo alla sua vista. “Ah, non ti preoccupare. La via maestra è forse cambiata un po’ nel tempo, ma è comunque ancora la migliore. ando dall’altra parte dovremmo fare una deviazione che ci porterebbe praticamente fino al lato estremo del ghiacciaio, sul lato opposto rispetto alla nostra destinazione. Perderemmo un sacco di tempo per niente” rispose Marcel, che dopo aver tolto dallo zaino una carnosa mela rossa e averle assestato il primo morso, fece segno alla figlia di rimettersi in moto dietro di lui. “Su forza, siamo a circa un terzo del percorso e ne dobbiamo fare ancora tanta di strada fino alla capanna” riprese a dire Marcel Schmidt, prima di aggiungere: “Tu pensa solo a puntare bene i bastoni, e vedrai che o dopo o arriveremo alla meta in grande scioltezza. L’importante è non perdere l’equilibrio e scegliersi sempre dei solidi appoggi”. “Papà, lo so. Non c’è bisogno di ricordarmelo. Non è mica la prima volta che attraverso un ghiacciaio” rispose Nadia, che anche se poco convinta si rimise in marcia seguendo le orme del padre. “A proposito di solidi appoggi” cambiò discorso Marcel, la cui voce da baritono a distanza di pochi i arrivava distintamente alle orecchie di Nadia, nonostante questi facendo da battistrada le dava le spalle, “quello smidollato di Jean-Luc Wicht ha per caso perso la lingua di recente?” Il capo dei conservatori la provocò volontariamente. Non gli era sfuggito come Jean-Luc l’aveva snobbata per tutta la mattinata, talmente taciturno dal rendere palese che qualcosa non quadrava.
Nadia ebbe un gesto di stizza nei confronti del padre, che lui però, camminando davanti a lei, per fortuna non vide. Dopodiché la ragazza raccolse tutte le energie necessarie a dargli una risposta pacata. “Sai che abbiamo una relazione, quindi per favore non infierire. Probabilmente oggi si è svegliato con il piede sbagliato”. “Sì, certo che me lo ricordo. E come potrei altrimenti?” continuò imperterrito Marcel. “Se non fosse stato per i tuoi piagnucolii, mai avrei concesso loro l’uso delle nostre forze speciali. Ma è proprio per questo che mi preoccupo per te”. Marcel si fermò di colpo e rivolto ora verso Nadia aggiunse: “Guarda che non è mica un buon partito uno che cambia umore con le fasi della luna”. La ragazza sapeva che il padre si stava riferendo anche alla sua prima moglie. “Poi, che razza di uomo è? Ho tacciato lui e il padre di essere degli imbranati, e lui non ha detto una parola. Insomma, io sono solo un vecchietto e tu sei la sua ragazza, almeno in tua presenza poteva mostrare un minimo di palle, no?” “Papà! Ti ho chiesto di sorvolare. Possibile che non capisci!” sbraitò Nadia in un impeto di genuina collera che rimbombò nella valle ingigantito dall’eco e al quale il padre si arrese subito. “Va bene, va bene. Calmati. Sto zitto e ti lascio approfittare del panorama”. Marcel Schmidt, si voltò nuovamente verso monte, inforcò i bastoni e riprese la marcia. Nadia invece non si mise subito in moto. Rimase per un attimo come sgomenta dalla sua stessa reazione, dall’effetto della voce pungente che l’eco le aveva offerto come se fosse un registratore istantaneo. Perché tanta collera? Alle provocazioni del padre era abituata, e poi lei sapeva che erano mosse da sincera apprensione. Marcel Schmidt certo non aveva solo pregi, ma se c’era una cosa della quale gli andava dato atto era l’incondizionata e coerente capacità di mettere il bene della figlia sopra ogni altra cosa. Jean-Luc Wicht non gli andava certo a genio, per dir poco, ma se proprio necessario si sarebbe abituato alla presenza di quello smidollato, senza dover fare neppure troppi sforzi. No, la vera causa di quell’improvviso sfogo non era suo papà, ma proveniva diretta dal cuore e per questo quell’impulso le era scappato di mano senza
ritegno. Finalmente riprese a camminare, ma con le parole del padre che le risuonavano ancora in testa come un prepotente ritornello musicale. I moniti del padre le rimbalzavano da un lato all’altro della scatola cranica, emulando proprio l’eco prodotto dalle montagne. “Ma che razza di uomo è Jean-Luc?” si chiese. Nadia dovette ammettere a sé stessa di avere probabilmente dato troppo in fretta una risposta a questa domanda, confondendo forse realtà e immaginazione. Questa costatazione la preoccupò seriamente. Certo, quel che preoccupava lei e che la lasciava perplessa, aveva solo in parte a che fare con quei tratti del carattere di Jean-Luc che avevano attirato l’attenzione di suo padre. Dalla sua prospettiva, Nadia aveva colto una sfaccettatura ben precisa di quel che aveva potuto osservare quella mattina. Difatti, la ragazza sapeva benissimo che fare la voce grossa con Marcel Schmidt, improvvisando una sfida verbale all’ultimo sangue, non sarebbe servito a niente. Suo papà era troppo cocciuto e pieno di sé. No, non era questo ad averla colpita nel comportamento di Jean-Luc, bensì quel lampante ivismo con cui egli era inaspettatamente scomparso di scena, pur essendo fisicamente presente. Da lui si aspettava invece una certa prestanza e presenza. Quel tipo di presenza che si manifesta non solo e necessariamente a parole, ma anche attraverso altri fondamentali canali comunicativi. Lo sguardo, la postura, e soprattutto l’attenzione. Quello che Nadia si augurava di incontrare e attrarre a sé, era un compagno saldamente piantato sulle sue gambe, così come Jean-Luc le era apparso fino a oggi. Un uomo che ha saputo mettersi alle spalle quella fase infantile caratterizzata dal confronto e dalla competizione, forgiando un carattere deciso e convinto dei propri mezzi, senza esagerare naturalmente. Insomma, una colonna portante, solida fondamenta intorno alla quale costruire una famiglia.
Questo perché il criterio selettivo, che in natura determina le forme e i riti della conquista, delle danze inebrianti offerte agli occhi della femmina così come gli scontri all’ultimo sangue per conquistare lo scettro del capo branco, ha condizionato anche il comportamento dell’uomo fin dalle origini, e ci influenza ancora oggi. Tant’è che colei che è impegnata nella selezione di un partner, in
modo cosciente, oppure no, osserva questi riti con grande attenzione e ne registra ogni dettaglio. Ovviamente, gli elementi selettivi sono mutati nel tempo, deviando da considerazioni puramente fisiche, ma pur sempre mantenendo i loro caratteri fondamentali. Al loro centro collocano oggi, così come in ato, il senso di protezione e di sicurezza. Anche se, queste vanno intese più come manifestazioni di costanza e coerenza nel tempo, oltre alla capacità di saper fare delle scelte anche difficili, con lucidità, fermezza e decisione. Banale è l’errore di coloro che s’illudono che tutto questo abbia a che fare soprattutto con il danaro. Se così fosse, i matrimoni dei ricchi sarebbero statisticamente più solidi di quelli dei poveri. Mentre chissà, potrebbe addirittura essere vero il contrario. Appare invece palese riconoscere che quel che una donna cerca di trasmettere alla prossima generazione sempre meno ha a che fare con i geni portatori di prestanza fisica, o materiale in senso lato. Mentre tale selezione richiede sempre più impegno e attenzione, affinché si creino i presupposti necessari a evitare di trasmettere ai figli un fardello troppo grande di paure e incertezze. Questo perché, anche se è vero che contro paure e incertezze nessuno può vantare un vaccino, quando queste si accumulano una sopra l’altra, come mattoni legati al collo per generazioni, spesso queste diventano malattia e si rivelano tanto pesanti da portare a fondo chiunque. In conclusione, in questo mondo artificiale e contorto, quel che lei si augura in primis è semplicemente di poter regalare ai propri bimbi l’opportunità di dipingere la loro vita su di una tela ancora vergine. Quante sono purtroppo invece, le tele già intaccate dall’ombra e dalle impronte di mostri che come riflessi in uno specchio si proiettano dal ato di un genitore sul futuro dei propri figli. Quante volte purtroppo vi sarà già capitato di vedere ricomparire quegli stessi mostri all’improvviso, ma orribilmente puntuali. In questa dimensione selettiva ormai radicalmente mutata nel tempo, il valore dell’esempio e della parola prevale di gran lunga sulla genetica, e chi questo non lo sa riconoscere è libero di vivere in un mondo pieno di dinosauri e fate turchine.
Nadia e Marcel Schmidt fecero sempre più fatica ad avanzare lungo la vecchia via che in ato permetteva agli escursionisti di giungere a destinazione in modo molto diretto. Durante gli ultimi anni, numerosi nuovi crepacci si erano
impossessati di quella zona del ghiacciaio, rendendo il aggio molto dispendioso in termini di energia, concentrazione e tempo. Addirittura, i due conservatori furono costretti in più di un’occasione a ritornare sui loro i e improvvisare nuovi percorsi, nel tentativo di aggirare quelli ostacoli che senza un’adeguata attrezzatura si presentavano come insormontabili. Le incertezze suscitate da quella malaugurata via, che da sicura nel tempo si era trasformata in un itinerario pieno di insidie, e le continue interruzioni imposte da un avanzare tentennate, pressoché casuale, li rallentarono fortemente. Tant’è che la verifica della posizione delle due delegazioni vista dall’alto, così come si usa fare per due equipaggi di vela che per avvicinarsi alla boa stanno seguendo traiettorie diverse, li vedeva ora considerevolmente in ritardo rispetto ai progressisti. I Wicht invece seguirono la via battuta dalla maggioranza degli escursionisti, così come la guida alpina aveva suggerito loro di fare. Quella rotta prevedeva di compiere un largo arco tangente al lato estremo del ghiacciaio, con l’effetto di allungare notevolmente il cammino. In compenso, il percorso si presentò come molto semplice, praticamente sgombro da crepacci e ostacoli degni di nota, e permise loro di avanzare rapidamente. Jean-Luc, di tanto in tanto, si arrestava brevemente per consultare la mappa elettronica che aveva scaricato sul suo smartphone e appurare la correttezza della loro posizione. Ciononostante, il giovane, determinato a riguadagnare al più presto la vicinanza di Nadia, non concesse loro alcuna pausa particolarmente lunga. Philippe, che segretamente si era ripromesso di prevalere nella sfida lanciatagli da Marcel Schmidt, non si oppose a quel ritmo quasi militare. Il capo di governo di Nuova Frontiera mantenne la sua posizione di battistrada, con il figlio alle sue spalle che lo incalzava a procedere a o sostenuto. JeanLuc era ben contento che fosse il padre a saggiare per primo il terreno. Purtroppo, aveva fatto il grave errore di dimenticare gli occhiali da sole sul sedile dell’elicottero e ora il forte riflesso provocato dalla luce sulla superficie del ghiaccio lo stava accecando, costringendolo a strizzare gli occhi quasi completamente. Ogni tre o quattro i, il giovane cercava sollievo posando lo sguardo sulla catena di cime sgombre da neve che costeggiavano fedelmente la sagoma del ghiacciaio in tutta la sua lunghezza. I colori pacati della terra e della roccia gli attenuavano l’irritazione agli occhi, così come avrebbe fatto un panno imbevuto di tiepida camomilla. Quelle stesse montagne, che come le pareti avvolgenti di una pista olimpica per
gli slittini indirizzavano i ghiacci verso valle, rappresentavano la migliore testimonianza dell’imponente ato del ghiacciaio. Evidenti erano infatti i segni lasciati tutt’intorno dal ghiaccio per farsi largo e modellare la roccia a suo piacimento. Jean-Luc si voltò rapidamente verso valle per osservare dall’alto della loro posizione attuale il lungo tratto di cammino, che lui e suo padre avevano già percorso. Si chiese quale aspetto avrebbe assunto la vallata il giorno in cui lo sciogliersi di un’ultima lacrima avrebbe posto fine all’agonia di quel gigante di ghiaccio. Il buonsenso gli suggerì che la scomparsa del ghiacciaio avrebbe lasciato un vuoto alle sue spalle, sfregiando un panorama naturale che con pazienza aveva raggiunto il suo massimo splendore, in parte visibile ancora oggi, seguendo un processo lento e laborioso, nel corso dei millenni. Talvolta, come in questo momento, Jean-Luc sapeva dubitare del progresso, riconoscendone le peculiarità di una macchina che egli riteneva necessaria e preziosa, ma anche molto pericolosa. Ammesso che assai poche sono le cose che accadono per puro caso, fu proprio una piccola sfaccettatura del progresso a tradirlo improvvisamente. Una delle giunture necessarie a fissare i ramponi per il ghiaccio alle scarpe, si ruppe di netto. Senza che il giovane se ne potesse accorgere per tempo, il materiale superleggero con cui era stato fabbricato, paradossalmente al sole di qualche isola tropicale, aveva iniziato a incrinarsi fin dai primi i, per poi rompersi senza preavviso e in modo definitivo. Jean-Luc ripose il rampone ormai divenuto inutile nel sacco e fu costretto ad andare avanti con la cadenza di uno zoppo. Il piede sinistro, rimasto senza appigli, lo fece slittare di continuo sulla superficie scivolosa, e per evitare di ritrovarsi a ogni due i con il sedere a terra, il giovane rallentò fortemente il o. I due progressisti videro così dileguarsi in fretta tutto il vantaggio che avevano accumulato fino a quel momento. Summa summarum, dopo all’incirca tre ore di marcia, le due delegazioni, raggiunsero quasi simultaneamente un aggio obbligato nei pressi della zona centrale del ghiacciaio. Avendo scelto due traiettorie completamente diverse, essi si accorsero di tale vicinanza solo all’ultimo momento. Philippe vide emergere dal basso la testa di Marcel Schmidt, che seguendo la via più diretta aveva raggiunto quel piccolo promontorio scalando faticosamente un pendio piuttosto pronunciato. Ma la distanza ravvicinata non gli diede il tempo di improvvisare
nessuna sorta di diversivo, in grado di risparmiarli da tale indesiderata vicinanza. Poco dopo, raggiunta la cima del pendio, Marcel alzò il capo e si accorse a sua volta della presenza dei Wicht. I due capi delegazione si scrutarono da una distanza di una ventina di metri, così come usano fare i muschers quando raggiungono la fine di una lunga tappa intermedia nel bel mezzo dell’itinerario di una corsa a tempo, e devono decidere se concedersi una sosta per tirare un po’ il fiato, oppure continuare imperterriti nella speranza di distanziare gli avversari. Non essendoci nel loro caso dei cani da slitta sparsi sul terreno, con la lingua a penzoloni in bella vista per un’analisi attenta dell’avversario, che rapidamente ne sa giudicare lo stato di salute, i due antagonisti si limitarono a osservare i rispettivi compagni di viaggio. Marcel notò subito che a Jean-Luc mancava un rampone per il ghiaccio. Mentre a Philippe non sfuggì l’aria incupita di Nadia, che questi interpretò erroneamente come il broncio di una bambina svogliata e stanca di camminare. Ne dedussero entrambi che il fatto di accordarsi ora una bella pausa, per sgranchire le ossa, e mangiare e bere a sufficienza, non avrebbe certo compromesso le rispettive chance di vittoria. Jean-Luc si dissetò bevendo avidamente mezzo litro d’acqua e poi, invece che addentare uno dei panini al prosciutto e formaggio che aveva nello zaino, slegò la corda che lo legava al padre e si rimise subito in piedi. Troppo forte era il senso di colpa e irrequietezza provocato dal suo comportamento quella mattina, tanto forte da impedirgli di inghiottire anche solo un boccone finché non si fosse liberato dal peso che gli bloccava lo stomaco. La marcia gli aveva permesso di riflettere a sufficienza sulla sua condizione e di realizzare quanto fosse stato fortunato a incontrare Nadia. Non a tutti viene offerta un’occasione del genere, e sarebbe stato molto stupido farsela scappare. Il giovane progressista non poteva certo permettersi di restarsene lì, a soli venti i di distanza dalla ragazza, senza intraprendere il necessario per porre rimedio agli errori compiuti in quelle prime ore della giornata. Jean-Luc s’incamminò dunque in direzione di Nadia, con la mente pienamente concentrata a formulare delle brevi ma efficaci spiegazioni e scuse, che forse gli avrebbero permesso di riguadagnarne la fiducia. D’altronde, mettendo la loro sorte personale al centro di tutta la vicenda, pensiero alquanto egoistico ma anche profondamente umano, Jean-Luc si disse che sarebbe risultato totalmente assurdo vivere una conclusione in cui lui e Nadia si dimostravano incapaci di cogliere gli sforzi compiuti dal destino.
Distratto da tutti questi pensieri, il giovane dedicò assai poca attenzione alle insidie che lo stesso destino, al quale lui voleva rendere omaggio, gli stava riservando sotto forma di profonde spaccature nel ghiaccio. Arrivato a pochi i dai conservatori, Jean-Luc si trovò davanti a un crepaccio, stretto ma sufficiente profondo da inghiottire un uomo della sua stazza. Sull’altro lato, Marcel Schmidt era seduto su di un piccolo rigonfiamento del ghiaccio, proprio in prossimità di quel pericoloso valico, e mantenendo uno sguardo inespressivo lo osservava avvicinarsi. Sentendosi osservato, da vicino dal capo dei conservatori, e da pochi metri più in là anche da Nadia che nel frattempo si era anch’essa accorda del suo arrivo, il giovane decise di tagliare subito la testa al toro. Non appena raggiunta quella fessura nel ghiacciaio, e senza quasi riflettere su quel che stava facendo, JeanLuc azzardò così un balzo immediato, ma tale imprudenza gli costò cara. Malauguratamente, il giovane giunse ai margini del crepaccio con il piede privo di ramponi, un po’ come un atleta che raggiunge la piattaforma per il salto in lungo con il piede sbagliato, e invece che scaricare tutta la forza necessaria a fargli scavalcare la fenditura, scivolò sulla superficie e cadde di schiena nel buco. Cadendo, Jean-Luc picchiò rovinosamente il capo cozzando con la tempia destra su di uno dei bordi del crepaccio. La botta gli apportò forte dolore, ma quantomeno attutì la traiettoria di caduta e lo fece rimbalzare verso l’altro lato. Questo gli permise di aggrapparsi disperatamente con un braccio alla superficie del ghiacciaio, mentre tutto il resto del corpo era ormai scomparso nella fessura. La reazione di Marcel fu immediata e istintiva. Il capo di governo di Helvetia si distese a terra mettendosi su un fianco e con la testa rivolta verso il crepaccio. Piantò con la mano sinistra la piccozza nel ghiaccio e con la mano libera afferrò quella del ragazzo, appena in tempo prima che questi perdesse la presa. Poi, con sforzo sovrumano, considerando che il giovane era tutt’altro che un peso piuma, e senza arrischiarsi di perdere tempo e sfiancare i muscoli del braccio, Marcel issò il giovane progressista fuori dal crepaccio, permettendo al busto di ricomparire alla luce del sole. Dopodiché abbandonò la presa sulla piccozza e con la mano sinistra gli afferrò la cintura e lo trascinò di peso sulla superficie per almeno un metro, finché tutto il corpo del giovane fu messo in salvo, adagiato vicino al suo. L’immagine che si presentò a Nadia e a Philippe Wicht, accorsi in loro soccorso,
vedeva i due uomini distesi sul ghiaccio, uno di fianco all’altro, con il capo all’altezza dei piedi dell’altro, così come due bambini che si spartiscono l’unico letto disponibile in una casa di vacanza. Fortunatamente Jean-Luc non aveva perso i sensi, anche se presentava una bella escoriazione alla tempia. Dalla ferita fuoriusciva qualche goccia di sangue, che cadendo sul ghiaccio bianco e immacolato creava un forte contrasto. Marcel invece si teneva stretta la spalla che aveva funto da montacarichi, e stringeva i denti in una smorfia di dolore provocato dagli effetti del grande sforzo al quale la aveva sottoposta. Nadia s’inginocchio tra i due uomini. Suo padre aveva appena rischiato la vita, o quantomeno si era seriamente esposto al rischio di farsi molto male, per salvare quella di Jean-Luc. Disorientata da quei repentini eventi e dai visi tirati di entrambi i due protagonisti, che ancora erano impegnati a domare le fitte di dolore e che di conseguenza non avevano ancora aperto bocca, la ragazza si mise a piangere. Un pianto intenso, liberatorio, al quale con il are del tempo aggiunse sempre con maggiore frequenza anche un sorriso di gioia. La sorte, nelle vesti di suo papà, le era stata amica, e quella che si sarebbe potuta trasformare in una tragedia si era ridotta a qualche eggera ammaccatura. Non appena Marcel raddrizzò il busto, mettendosi seduto, Nadia lo abbracciò dolcemente e gli sussurrò all’orecchio il suo riconoscimento. Le parole si alternavano ai singhiozzi, ma il loro significato si dimostrò tutt’altro che tentennante, riassumendo schiettamente quanto gli volesse bene e quanto lo ammirasse per aver afferrato la mano di Jean-Luc appena in tempo, e senza esitare. Philippe osservò tutta la scena ritto e immobile come un palo, come pietrificato dagli eventi. Solo dopo un po’, riuscì ad avvicinarsi al figlio per sincerarsi delle sue condizioni. Jean-Luc gli disse che se l’era vista brutta, ma che tutto sommato ora stava bene e che la botta alla tempia era probabilmente meno seria di quello che potesse apparire a prima vista. Rincuorato da quelle parole, il padre del giovane progressista si volse verso gli altri due membri della comitiva. Marcel Schmidt aveva ancora il capo appoggiato sulla spalla della figlia, la quale non sembrava avere nessuna intenzione di porre fine a quel delicato abbraccio. Per la prima volta, Philippe vide l’uomo e non il politico, che in quel preciso momento era semplicemente un dolorante anziano. Quell’uomo aveva probabilmente salvato la vita di suo figlio. Il solo pensiero di
perdere Jean-Luc, gli fece improvvisamente tremare le gambe. Philippe non sapeva cosa dire, faceva persino fatica a pensare, come se fosse stato messo a confronto con qualcosa di superiore e ancora incomprensibile. Infine, ringraziò Marcel, guardandolo fisso negli occhi. Non riuscì a esprimere più che poche parole, anche abbastanza banali. Eppure, proprio quelle poche ma sincere parole, forse senza che nemmeno se ne rendesse conto, ebbero un potentissimo impatto su di lui, liberandone miracolosamente la mente da pregiudizi e fissazioni. Malgrado Jean-Luc fosse l’unico, tra i due sventurati, ad avere dei segni ben visibili dell’incidente, quello che ne uscì più malconcio fu Marcel. L’anziano conservatore aveva lussato una spalla, che fortunatamente si era rimessa da sola nella posizione corretta. In queste condizioni non gli sarebbe stato possibile camminare senza percepire un continuo e fastidioso dolore lungo tutta la fascia che andava dal collo fino alla mano. Nadia propose di chiamare il soccorso alpino, facendo arrivare un elicottero della Rega. Sorprendentemente, fu proprio Marcel a opporsi a tale prospettiva. Spiegò che il dolore era sopportabile, e che per alleviarne un po’ gli effetti avrebbe preso un antidolorifico. L’unica vera restrizione sarebbe stata l’impossibilità di portare lo zaino, ma per questo sarebbe stato sufficiente spartirsi il suo carico in tre. Marcel Schmidt non aveva nessuna voglia di andare in ospedale a fare degli inutili accertamenti. Oltretutto, quel suo gesto spontaneo di soccorso non aveva marcato solo gli altri. Anche lui stava ancora cercando di riordinare le idee, e sentì il bisogno di non interrompere l’escursione. Comunicò così agli altri la sua intenzione di procedere fino alla capanna, evitando di stravolgere il percorso che David Gabus aveva previsto per loro. Nadia fu tentata di insistere e convincerlo a tornare subito a valle in elicottero, ma desistette, riflettendo sul fatto che quella possibilità non sarebbe stata loro preclusa nemmeno in seguito. Avrebbe chiamato i soccorsi nel caso in cui le condizioni del padre fossero peggiorate. Come unica condizione, Nadia richiese che si legassero tutti diligentemente con la corda e che procedessero a o lento. La ragazza chiese ai Wicht se erano d’accordo, e questi non si opposero né all’idea di continuare, né a quella di formare un’unica cordata. Nell’ordine, Philippe, Jean-Luc, Nadia e Marcel, si rimisero nuovamente in
marcia verso la capanna di montagna del Monte Rosa, mantenendo tutti una distanza di sicurezza di qualche metro da chi li precedeva. I quattro avanzarono in silenzio lungo il ghiacciaio, concentrati nel valutare lo stato del terreno ed evitare ulteriori incidenti. Poi, con il are del tempo, il o lento e ponderato imposto da Philippe, e la presenza rassicurante della corda che li univa, concessero loro di rilassare la mente e gradatamente superare le forti emozioni. Liberati dai vincoli della competizione, e per la prima volta quel giorno, ebbero finalmente occasione di godere del panorama mozzafiato e del piacevole contrasto offerto dal cielo azzurro, che limpidamente delimitava la sagoma delle cime innevate tutt’intorno. Avvicinandosi, o dopo o, alle vette più alte, simili a piramidi, ebbero l’impressione di trovarsi sul palmo di una mano gigantesca che lentamente li stava trasportando verso l’alto, e le cui dita, sotto l’effetto prodotto dall’ombra crescente che si distende progressivamente sul ghiacciaio con l’avvicinarsi della sera, sembravano richiudersi su di loro formando un solido pugno. Per tutto l’ultimo tratto di marcia poterono anche ammirare la maestosa capanna di montagna, che dall’alto li aspettava come una fiera e inespugnabile fortezza. Esposta alla luce trasversale serale, così come alla mattina presto, la struttura ricoperta di alluminio diventa quasi mistica nel suo apparire simile a un gigantesco cristallo che emerge dalla roccia. Sullo sfondo, impossibile non notare il Monte Rosa che con la sua imponente presenza andava a completare magistralmente la scenografia di quel momento. Elemento ancor più notevole per chi sa che al di là di quelle cime la morfologia del terreno si adegua a nuove condizioni e precipita rapidamente verso il basso. Il massiccio del Monte Rosa funge così anche da enorme diga, necessaria a evitare che le Alpi straripino verso sud, per poi scomparire inghiottite dal mare. Alle spalle della comitiva, una cima forse ancor più impressionante, quella del Cervino, contribuiva a rendere quel luogo e quel cammino ancora più unico. Arrivarono alla capanna quasi stremati, sicuramente dagli effetti della lunga camminata, ma ancor più da tutte quelle emozioni che fin dall’alba li avevano messi tutti a dura prova. La capanna, che solo sulla carta rappresenta un luogo sperduto in cima alle montagne, a 2.883 metri di altitudine, al suo interno è invece accogliente e calorosa tanto quanto la propria casa, ed è perfetta per fare rifiatare le membra e l’anima. Un luogo di ristoro, di aggio e d’incontro, ideale cornice per determinare con precisione le coordinate della propria esistenza. Prescelto da David Gabus non a caso, giacché, così come ogni luogo
magico, sprona ogni ante a ripartire in una nuova direzione, verso vette ancora più alte e incontaminate. Dopo una breve doccia si recarono tutti nella sala da pranzo, dove trovarono la cena pronta ad attenderli. Al centro di un tavolo rotondo era stato disposto un fornellino per la fondue, sul quale poco dopo il custode appoggiò il caquelon con il formaggio fuso. L’odore inteso del formaggio, le patate novelle e i pezzettini di pane fatto in casa ben distribuiti sul tavolo, risvegliarono lo stomaco dei quattro compagni di viaggio. Improvvisamente assaliti da una fame genuina, frutto di un tangibile sforzo, si sedettero al tavolo e senza attendere oltre impugnarono una delle forchettine a due denti e iniziarono a mangiare di gusto. Cenarono in quasi completo silenzio. Un silenzio per niente dettato dall’imbarazzo, ma suggerito dalla compostezza della riflessione e cullato dalla luce della fiammella del fornello che veniva diffusa tutt’intorno dai mobili e dalle pareti in legno chiaro. Terminata la cena, i due giovani andarono a fare due i sulla terrazza posta di sbieco sul lato della capanna rivolto verso la montagna. La luce del sole era ormai quasi completamente scomparsa, lasciando il posto a una luna tanto piena da essere quasi irreale, e la cui luce riflessa sulla neve illuminava il panorama a perdita d’occhio. Sotto l’effetto di quei riflettori la capanna mostrava i suoi connotati più originali ed eccentrici, rivelandosi come un’astronave aliena che si è posata sulla terra in un luogo discosto, al riparo da occhi indiscreti. A quell’altitudine, non appena cala il sole e sorge la notte limpida e stellata, immediatamente il freddo si presenta puntuale ed è impossibile non percepirne il contrasto con il bruciante calore del sole estivo. Jean-Luc notò i brividi che scuotevano la sua compagna e non perse tempo, regalando con il corpo quei segnali di cui avevano bisogno entrambi. Aprì il giaccone che aveva indossato prima di uscire dalla capanna e invitò Nadia a scaldarsi tra le sue braccia. “Ti fa ancora male la tempia?” gli chiese la ragazza accarezzandone lievemente il capo. “Non molto” rispose Jean-Luc, che dal suo canto non pensava ad altro che liberarsi subito dai sensi di colpa. “Nadia, mi dispiace. Questa mattina mi sono comportato da stupido. Ho guardato troppo in là, senza pensare a sufficienza al nostro presente”.
“Lo so, ho capito. Ti sei chiesto che tipo di vita ci sarebbe stato concesso fare in queste bizzarre condizioni, ma di questo non devi preoccuparti ora” rispose Nadia in tono conciliante, per poi fissarlo negli occhi con determinazione. “Ma non farlo mai più. Intesi? Parlami, di qualsiasi problema e in qualsiasi momento. Non voglio vivere con un uomo freddo e distante”. Jean-Luc non rispose, ma in compenso la strinse ancora un po’ più forte. “Certo, immagino che per stare insieme dovrò forse accettare il fatto di vedere i miei genitori meno frequentemente. Ma quel che per me conta davvero è sapere che ho la loro benedizione. Quel che è accaduto oggi rappresenta per me la migliore delle conferme” aggiunse la ragazza. “Credi che tutta questa vicenda della scissione abbia a che fare proprio con noi due?” gli chiese Jean-Luc, ripensando a quei pensieri che lo avevano accompagnato per tutta la giornata. “Mi piace pensarlo” rispose la ragazza, volgendo poi lo sguardo verso l’orizzonte. “Oggi, ho rischiato di perderti ed ho improvvisamente capito quanto già significhi per me. Forse, lo avrei capito anche in seguito, ma non posso esserne certa. Talvolta, sono solo gli episodi forti ad avere la facoltà di mettere a fuoco i sentimenti”. Sull’onda di quelle parole si baciarono lungamente, entrambi consapevoli di essere solo una parte della storia, ma non per questo meno innamorati e compiaciuti di avere raggiunto il loro personale lieto fine. Concordarono che l’indomani, subito dopo colazione, sarebbero ridiscesi a valle da soli, e poi sarebbero partiti per qualche settimana insieme all’estero, per conoscersi meglio. Tornando all’interno della capanna trovarono i rispettivi padri ancora seduti al tavolo rotondo i legno, e con al centro una bottiglia di kirsch e una scacchiera. Marcel e Philippe stavano crollando dal sonno, eppure diedero loro l’impressione di avere argomenti a sufficienza di cui parlare. I due giovani non si azzardarono a interromperli e andarono a scegliere una stanza per la notte.
Capitolo 20
La mattina del giorno seguente, che il caso volle essere il primo di agosto, i due giovani si svegliarono quando l’alba stava già volgendo al termine. Dalla finestra della loro stanza potevano osservare la sagoma inconfondibile del Cervino, ben illuminato nella sua parte superiore dai colori rossicci di un sole trasversale e ancora lontano, in contrasto con le vette tutt’intorno che ancora non erano uscite dall’ombra. Quella piramide rosa, che spiccava sola e in risalto su di un orizzonte ancora addormentato, permetteva a chiunque di percepirne le dimensioni sommerse, così come la punta di un iceberg è testimone di una massa enorme nascosta sotto la superficie dell’acqua. Un monte dalle forme tanto speciali da suscitare il legittimo sospetto che esse non siano il frutto di un casuale cozzare tra placche continentali, bensì l’opera volontaria di due dita gigantesche calate dall’alto. Come se la roccia fosse stata stretta tra il pollice e l’indice di una mano sensibile e capace di forgiarne le spioventi pendici con la semplicità con cui si modella l’argilla, attraendo la materia verso l’alto e noncurante delle leggi della natura. Una montagna unica nel suo genere, ma per questo anche precaria, cosciente di come un giorno quelle stesse dita avrebbero potuto posarsi nuovamente lungo i suoi versanti per trasportarla altrove, così come si muove una pedina su di una scacchiera. Nadia e Jean-Luc non avevano avuto difficoltà nel trovare una stanza ben appartata dove are la notte. La capanna, che David Gabus aveva riservato interamente per loro quattro, abbondava di posti letto e di accoglienti angolini dove cercare ristoro e intimità. I due ragazzi scesero le scale rapidamente, invasi dal piacevole positivismo che suggerisce ogni mattino di bel tempo, amplificato nel loro caso ancor più dagli strascichi di una notte movimentata. Nella sala da pranzo trovarono Marcel Schmidt e Philippe Wicht che seduti a tavola stavano terminando la colazione. I due uomini li accolsero di buon umore, e non mancarono di punzecchiarli con qualche battuta di spirito. Proprio la pratica di quegli esercizi notturni che i due capi di governo scherzosamente menzionarono, aveva fatto sì che fossero proprio i morsi della fame ad averli
destati quella mattina. Sul tavolo c’erano delle fatte di una treccia al burro sfornata da poco, della margarina, due tipi di marmellata, yogurt e cereali, un assetto di legno con una selezione di formaggi sopra, delle uova sode, caffè, latte e succo di mele. I due giovani mangiarono abbondantemente, e tra un boccone e l’altro colsero l’occasione per mettere i rispettivi padri al corrente dei loro progetti a corto termine. Marcel e Philippe li ascoltarono attentamente spiegare di avere deciso di recarsi subito dopo colazione a valle, per poi andare a casa a preparare le valigie. L’indomani sarebbero partiti insieme per qualche settimana all’estero, anche se non avevano ancora stabilito di preciso una destinazione. La reazione dei due uomini fu positiva e talmente armoniosa da apparire quasi irreale. Philippe elencò alcuni paesi che a suo modo di vedere meglio si addicevano per un viaggio nel mese di agosto, mentre Marcel si propose come autista per portare la figlia all’aeroporto il giorno seguente. Nadia e Jean-Luc si chiesero entrambi se tanta accondiscendenza non fosse altro che un fenomeno artificiale o quantomeno eggero, forse lo strano effetto provocato dall’altitudine, ma non per questo si azzardarono a rovinare la serenità di quel momento con qualche inutile domanda. Terminata la colazione, i due giovani tornarono in camera a raccogliere il materiale necessario alla discesa e si prepararono per la marcia verso Zermatt. Pronti a partire, arono nuovamente dalla sala da pranzo per salutare Philippe e Marcel. I due capi di governo avrebbero ato ancora una buona parte della giornata nei pressi della capanna, prima di essere prelevati dall’elicottero che li avrebbe riportati a valle. Trovarono la sala da pranzo vuota, dato che i due uomini si erano spostati in terrazza a godere dei primi raggi di sole e sorseggiare insieme l’ennesimo caffè, che fin dalle cinque di mattina li aveva accompagnati attraverso un inteso scambio di opinioni. Uscendo dalla sala da pranzo per andare in terrazza, Nadia e Jean-Luc non mancarono di notare un documento scritto a due mani, abbandonato in bella vista su di un tavolo vicino alla finestra. Le inconfondibili calligrafie, e l’aspetto solenne che sprigionava da quelle poche pagine, permisero loro di speculare sull’eventualità che esse fossero la bozza di un accordo di riconciliazione. Ciononostante, i due decisero di non interferire in alcun modo in quel delicato
processo di riavvicinamento, e di non perdere altro tempo prezioso a occuparsi di questioni di stato. Una sola cosa li ritenne ancora per qualche istante in quella stanza. Vicino alla bozza di quello che forse un giorno sarebbe stato ricordato come il Trattato della concordia, c’era anche una busta aperta con sopra una lettera scritta su carta intestata, e che Nadia e Jean-Luc riconobbero appartenere a David Gabus. Seguendo le indicazioni e i tempi stabiliti dal defunto magnate dell’orologio, Marcel e Philippe avevano aperto la missiva quella stessa mattina, subito dopo il risveglio. Nella lettera l’orologiaio introduceva il suo messaggio con degli aneddoti lontani, per epoca e collocazione geografica, e che i due ragazzi lessero molto rapidamente. Noi invece, per evitare di riassumerli male, preferiamo riportare il suo scritto per intero:
“Egregi Capi di Governo, al riparo della bizzarra protezione di cui gode un defunto, mi permetto di ignorare le necessità di forma e di are subito a quella parte di racconto che più mi sta a cuore. Per farlo, ho bisogno di condurvi dapprima indietro nel tempo, in un luogo distante ma impregnato fino all’osso di quell’essenza che concede a ognuno di noi l’onore di vantare appartenenza a una razza animale quantomeno a sprazzi illuminata. Probabilmente già sapete, e in questo caso io semplicemente lo ricordo, che i padri fondatori delle Costituzione Americana ebbero carta bianca, o quasi, nel scegliere parole e concetti che segnarono in seguito la storia di tutti. Vengono i brividi a pensare di potersi sedere a un tavolo e discutere della bozza di una costituzione nuova di pacca. Proprio così, perché le testimonianze scritte di alcuni di loro permettono in modo trasparente di immedesimarsi ancora oggi in quell’atto costitutivo dal valore indiscusso, andando a scoprire come il loro ragionamento si avvalse di esperienze e conquiste della civiltà intera, spaziando dalla Grecia Antica con i suoi filosofi, all’Impero Romano, per poi correre attraverso la Rivoluzione se fino a esempi recenti, per quell’epoca, di federalismo. In questo contesto, può essere interessante ricordare che la
Svizzera e i suoi Cantoni fecero parte degli esempi moderni citati abbastanza frequentemente, in egual misura tra federalisti e anti federalisti, nel corso dei dibattiti costitutivi. Uno in particolare, conservato nel tempo dagli scritti di Alexander Hamilton e James Madison, ha attratto il mio interesse più di altri. Conferendomi l’irriverente lusso di una traduzione amatoriale, io leggo – che i Cantoni Svizzeri sono tenuti insieme unicamente dalle peculiarità della loro posizione topografica, dalla loro debolezza e irrilevanza individuale, e dalla paura suscitata dai loro potenti vicini. Nei limiti in cui il loro esempio ammette un confronto con quello degli Stati Uniti, questi permette di confermare il principio che si cerca di dimostrare. Indipendentemente dall’efficacia che l’unione (tra i Cantoni) assicura in condizioni ordinarie, questa (l’unione) si sgretola e fallisce con il nascere della prima diatriba (tra i Cantoni) in grado di metterla alla prova. Risulta così lecito affermare che le controversie religiose, che in tre occasioni sono sfociate in atti violenti e sanguinari, hanno di fatto spaccato l’unione. Questo riferimento non mi ha attratto per i suoi connotati di giudizio negativo, menzionando inoltre eventi realmente accaduti e a noi ben noti, ma unicamente per l’attualità di un tale ragionamento. Siccome riconosco che ognuno è giustamente libero di coglierne l’attualità che vuole, cercherò di essere più esplicito. Le controversie religiose citate dai padri fondatori, all’apparenza insormontabili, si riferivano alla divergenza di vedute tra Cantoni protestanti e cattolici. Differenze che oggi, senza offesa per nessuno, sembrano essere se non completamente superate, quantomeno fortemente marginalizzate. Anche se capisco che è più facile osservare tali differenze con occhio neutro da quassù. Altre hanno preso il loro posto, e dominano oggi le dinamiche del mondo intero. Le domande che mi sorgono allora spontaneamente sono legate al destino di queste attuali diatribe, viste da una simile prospettiva, ottenuta proiettandoci in avanti di qualche secolo. Diverranno a loro volta delle bazzecole, buone solo per dare fiato ai puristi e ai testi di storia? E se sì, a cosa serve oggi marcarle con il sangue? Quante volte ancora avremo bisogno di formare dei fronti, per poi dimenticarne le ragioni e crearne dei nuovi? Domande scomode ma necessarie, sulle quali varrebbe la pena riflettere individualmente e che io vi o senza ulteriore commento. D’altronde, mi dovrete scusare, ma la parte del racconto che più mi preme è un’altra, e malgrado il tempo illimitato che mi è concesso quassù, fremo comunque dalla voglia di discorrerne insieme a voi. Questo perché la nostra storia recente si snoda lungo le direttive di una divisione di tipo più ideologico, in cui la religione
appare come un elemento di secondo ordine. Spero dunque che il vostro stato d’animo si sia ora sufficientemente acclimatato a quell’epoca di grandi cambiamenti. Questo perché, ripensandoci bene, quel che vi è accaduto, e la conseguente condizione in cui vi trovate ora, hanno dei precedenti illustri, molto più violenti e coinvolgenti, ma pur sempre degni di nota e riflessione. La Guerra di Secessione Americana ebbe una forte connotazione ideologica. La storia ci insegna che il Sud si schierò apertamente in favore di un mantenimento della schiavitù, mentre gli Stati del Nord, preoccupati principalmente di preservare l’Unione, indirettamente espressero un certo disagio nei confronti di una pratica barbara e stonata, poco consona a dei tempi di grandi rivoluzioni. Queste differenze furono tanto marcate da provocare in quattro anni un vero e proprio massacro. Centinaia di migliaia di morti. Morti atroci, e ancora più atroce fu il destino di feriti e superstiti, spesso amputati in più parti. Dopo una tale carneficina, quando ormai la via della pace sembrava spianata con il Sud costretto a capitolare, le preoccupazioni più grandi di Abraham Lincoln, così come ci ha ricordato il grande schermo recentemente, non erano volte a mettere su carta le imposizioni di una vittoria schiacciante, bensì alla necessità di dare un significato a tutto quel sangue. Difatti, niente avrebbe impedito all’Unione di ottenere dal Sud una resa incondizionata in grado di riportarli esattamente nella situazione di partenza, quella che era stata violata con un’insurrezione quattro anni prima. Va da se che così facendo, il valore attribuito a ogni anima sacrificata sull’altare ideologico sarebbe stata cosa di poco conto. Venne invece individuato un atto dovuto, chiaramente in ritardo, ma pur sempre rivoluzionario per quei tempi e coraggioso nel suo contesto, in grado di segnare gli eventi in modo da renderli comprensibili, e almeno in parte giustificati. La forza del tredicesimo emendamento alla Costituzione, che sanciva l’abolizione della schiavitù, diede, per modo di dire, una ragione di vita ai morti. Fu un atto tanto rivoluzionario da gettare le basi per quello che nel tempo poi imparammo a riconoscere sotto il nome di sogno americano. Tant’e che furono in molti a partire in seguito per sfidare la sorte e cavalcare il sogno di una vita migliore, senza nessun tipo di certezze, oltre a quella della libertà. Credo che questo ne fece il paese più prospero del mondo, senza nulla togliere al fatto che il tredicesimo emendamento fu solo l’atto fondatore di un processo a
fuoco lento, molto lento. arono cento anni prima della venuta di Martin Luther King e John Fitzgerald Kennedy, e centocinquanta fino all’elezione di un Presidente di origini africane. E forse, ce ne vorranno duecento per liberarsi da altre forme di schiavitù ancora vigenti e tollerate. Da questa storia, io amo trarre due insegnamenti. Il primo presuppone, e su di questo non ho alcun dubbio, che tornerete sulla via della ragione. Presto o tardi vi riconcilierete con l’intento di rimettere insieme il paese, così come lo era sei mesi orsono. Di conseguenza, sarete anche voi esposti alla necessità e alla responsabilità di dare un significato a questa vicenda. Oggi come allora, la ricerca di una ragione valida e accettabile vi spingerà ad andare più in là di quel che è già stato. Troppo riduttivo sarebbe infatti il semplice riavvolgere della lancette dell’orologio come se nulla fosse accaduto. Quel che in sostanza vi si chiede è di rimettere insieme quel che è stato diviso, ma permettendo all’Unione di divenire ancora più forte. Quale ulteriore diritto o dovere, da aggiungere alla Costituzione, sarebbe tanto rivoluzionario da determinare la storia dei secoli a venire? Quale pensiero sarebbe in grado di marcare in modo tangibile la nascita del nuovo millennio, ben al di là di un semplice atto anagrafico? A ognuno di voi è concessa la libertà di determinarlo e proporlo. E questo chiaramente non perché sono io a concederlo, ma perché di fatto quest’opportunità vi è sempre concessa. Quel che io mi limito a suggerire, e questo mi porta al secondo insegnamento che traggo dagli avvenimenti sopracitati, è di saper riconoscere i momenti propizi a pensare in grande. Non siate piccoli, perché la storia è inclemente con i minimalisti. Se volete veramente dare un significato agli eventi, se volete seriamente evitare di ripercorrere la via tracciata da quelle contrapposizioni tanto radicate che avete appena vissuto, allora siate coraggiosi, ed evitate che dopo tanto penare la montagna partorisca infine un topolino. Per farlo, dovrete usare una scala del tempo che va ben oltre la vostra vita. Siate grandi, eroici, rivoluzionari, e non abbiate paura dei grandi cambiamenti. Fate della Costituzione poesia. Poche parole sono sufficienti.
Capitolo 21 (Epilogo)
Facciamo qualche o indietro per andare a raccontare i momenti che seguirono la partenza di Samuel da Zermatt. L’elicottero lo riportò su quel campo di calcio, in periferia di Berna e poco distante dal suo appartamento, che aveva già funto in più occasioni da eliporto. A casa ci rimase ben poco. In meno di un’ora preparò una grossa valigia da viaggio e un piccolo bagaglio a mano. Dopodiché, si recò subito in stazione e prese il primo treno in direzione di Ginevra e dell’aeroporto di Cointrin. Siccome oggi su quel treno sono in pochi a viaggiare, lo ritroviamo facilmente, seduto da solo in prima classe, in uno scompartimento previsto per quattro persone. Samuel sta osservando il paesaggio dal finestrino, con la mente che in parallelo sta facendo scorrere in rapida sequenza gli avvenimenti e le emozioni degli ultimi mesi, già proiettata in parte, così come il treno, verso altre destinazioni. Si sta chiedendo che ne sarà delle due regioni autonome, così come della sua professione di giornalista. In queste condizioni, sarà forse costretto ad accettare un lavoro all’estero. Pensare al futuro, e intuirne i possibili scenari, non gli risulta facile. Le incertezze sono molte. Eppure, questo non lo angoscia per niente. Samuel percepisce che quei pochi ma intensi mesi lo hanno trasformato profondamente. È ato attraverso le sue insicurezze iniziali, la delusione e lo sconcerto dei momenti più duri, fino alla serenità di cui gode ora, tutto in un lasso di tempo talmente corto da apparire improbabile, come se fosse il frutto di pura invenzione. No, fortunatamente il giovane sa distinguere la vita reale dal sogno, ed è proprio la concretezza e la veridicità della sua storia a renderlo forte e ora più che mai felice. Qualsiasi cosa gli dovesse accadere in futuro, e considerata la sua giovane età, di cose gliene accadranno ancora molte, nessuno potrà togliergli l’incredibile esperienza che ha avuto la fortuna di vivere, così come il ricordo degli incontri straordinari che questa gli ha offerto. Samuel è assolutamente cosciente di avere fatto grandi cose, e di questo ne è fiero, come è giusto che sia.
Non sono le incognite poste da un futuro indeterminato a dargli da pensare, bensì la lettera personale che David Gabus gli ha fatto recapitare, e che è ora pacificamente adagiata sul tavolino. Sopra la lettera ha appoggiato un orologio, anch’esso contenuto in quel pacchetto che ha trovato ad attenderlo davanti alla porta di casa sua, e che al suo interno racchiudeva anche un buono rilasciato dalla compagnia aerea di bandiera. Una cifra imbarazzante, sufficiente per compiere il giro del mondo un paio di volte. L’orologio è quello che si era fermato a osservare al centro della torre nord del castello. Quello con le lancette che girano al contrario. Un gesto non di poco conto, considerato il racconto con cui Gabus quel giorno ne rivelò i retroscena. Samuel ha già letto la lettera due volte. Una prima volta in modo impulsivo e sbrigativo, sul pianerottolo di casa. Poi l’ha riletta attentamente, parola per parola, non appena il treno è partito da Berna. E ora, con il treno che sta per arrivare all’aeroporto di Ginevra, decide di leggerla per un’ultima volta, per oggi.
Carissimo Samuel, ti sono immensamente grato di avere tenuto fede alla parola data e di avere portato a termine quell’opera che non mi è stato concesso di terminare personalmente. Abbiamo fatto la nostra parte, con coraggio e dedizione. Il compimento della nostra modesta impresa mi permette di congedarmi a testa alta, così come ho sempre sognato di poter fare. Grazie, grazie di cuore. Mi permetto di porgerti in dono alcuni oggetti, ai quali so con certezza che saprai attribuire il giusto valore, essendo quello materiale, in questo momento di transizione per me ancor meno che insignificante, e per tua genuina natura di poco interesse. Spero che l’orologio di mio padre ti possa accompagnare nel tuo viaggio, testimone secondo per secondo di una vita unica e irripetibile, così come, nel suo scorrere a ritroso, testimone di origini e radici sublimi. Un giorno, quando sentirai il bisogno di prenderti una pausa dall’avvincente esplorazione del mondo, quell’orologio ti indicherà il momento di tornare a casa, senza però dirti
dove questa si trova, dato che questo lo puoi determinare unicamente tu. Per quel giorno, mi auguro che tu possa trovare un paese diverso, unito, magari ancor più di quanto non lo sia mai stato. Siccome, e presumo che mi sia concesso, voglio partire serenamente, me lo immagino con animo ottimista e prediligo quindi per gli ultimi atti di questa vicenda un finale positivo. Devo andare, eppure quanto mi sarebbe piaciuto cogliere l’essenza della riappacificazione, e vedere con i miei occhi in che modo innalzeranno la costituzione di un ulteriore e fondamentale gradino. Credo di avere fatto bene a lasciare loro carta bianca, senza cercare di influenzare il corso della loro scelta. Eppure, quel filo sempre più esile di mortalità che ancora mi scorre nelle vede mi strizza l’occhio furbescamente, e tollera lo smacco di un’opinione. A te solo lo dico. Che male c’è? Fosse questa lettera non personale, ma rivolta a tutti, beh, allora concederei a questo punto a tutti il diritto di piegarla in due e riporla nella busta. Se fosse toccato a me, se a me avessero assegnato l’onore di cercare poche parole, ma sufficientemente forti da scuotere le montagne, un’idea l’avrei avuta. L’avrei dedicata alla protezione di una delle invenzioni più nobili dell’uomo, forse la più nobile: la democrazia. Proteggere questo bene da coloro che costantemente ne minano le fondamenta è un dovere, a cui dovremmo dedicare sufficiente attenzione. Come? Uno dei mali più profondi di questo mondo, a mio modesto parere, è l’insorgere prepotente di una schiera di pecoroni. Mi spiego: penso a coloro che nei risvolti più diversi della vita, dalla vita sociale, alla politica o quant’altro, seguono la massa senza sapere il perché. Per fare un esempio concreto, sono coloro che peccano di ignoranza ben oltre colui che fa una battuta razzista, perché ne ridono per convenienza. Saper andare contro corrente richiede forza d’animo e audacia, e intendiamoci, non è cosa facile. Ma quanto ci si sente vivi nel farlo! Non solo. Quanto appaga sapersi affidare al buon senso, usare la propria testa e non avere paura di apparire diversi. Ricordati che diversi, addirittura pazzi, apparirono alla massa coloro che sostennero teorie astruse come il rotare della terra intorno al sole, la relatività dello spazio e del tempo, intuizione che per un orologiaio rasenta lo spirituale, o il cogliere per tempo il potere della protesta
non violenta. Già, mi permetto di insinuare, che forse è venuto il momento di ricordare che la democrazia non fatta di soli diritti, ma anche di doveri. Doveri nei confronti della democrazia stessa, e non parlo di restrizioni. Doveri civici ed etici, ai quali siamo chiamati per rendere giustizia alla fatica che hanno fatto i nostri antenati per ottenerne la controparte, e cioè i diritti fondamentali dell’uomo. Forse, dopo trecento anni spesi a lottare per tali diritti, è venuto il momento di riportare il pendolo al centro. Ai pecoroni, dedicherei una lieve modifica della costituzione in quel aggio che ricorda come Ognuno ha il diritto di formarsi liberamente la propria opinione. Forse, sarebbe una saggia intuizione quella di riconoscere il bisogno di bilanciarne il significato inserendo altre tre parole: Ognuno ha il diritto e il dovere di formarsi liberamente la propria opinione. Ma questa è solo la mia modesta opinione, che io dico a te, Samuel, in confidenza, e che forse appare agli occhi di un giornalista capace quale sei anche un po’ scontata. Lasciamo quindi perdere la democrazia e la politica, dato che sento che manca poco. Permettimi di parlarti come un nonno farebbe con un nipote, giacché questo momento mi risulta più semplice se immagino di averti all’ascolto. Fortunatamente non incontro grandi difficoltà dinnanzi all’evidenza della fine, e questo perché ho vissuto la vita pienamente. Ed è così che quello che ti auguro in primis è di vivere la tua intensamente e in ogni sua sfaccettatura. Paradossalmente, anche se presumo che data la mia condizione attuale questo sia almeno in parte comprensibile, per parlarti della vita ti parlerò della morte, che ahimè ne rappresenta anche l’unico elemento indiscutibile, fin dal principio. Ricordati, che quando quel giorno verrà la sola cosa a contare veramente è il ricordo che uno lascia di sé. Per lavorare al ricordo della tua persona, che ti lascerai alle spalle, non hai altro che la vita, la quale come unico fondamentale diritto ti offre la possibilità di viverla profondamente. Sfrutta questo tuo diritto, e non rimandare mai la vita a tempi più consoni e propizi. Sembra assurdo, ma credimi, sono in molti a farlo. Non mi fraintendere. Banalmente, si dice di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, ma io che all’ultimo ci sono arrivato, non te lo auguro. La presenza di
un domani è per più motivi fondamentale, non da ultimo quello di poter correggere gli errori, e ne farai. Inoltre, non è certo a una vita frivola e sconsiderata che ti voglio incitare, bensì a una priva di eccessivi vincoli. Impara nuovamente, se per caso lo avessi scordato, ad ammirarla così come fa un bambino. Io, per esempio, ricordo una percezione del tempo diversa, quando da piccino osservavo la pioggia dalla finestra o una carovana di formiche in movimento, semplicemente perché guardavo quello che stavo vedendo, libero dall’interferenza di altri pensieri. Osserva il mondo e la gente per quello che sono, e per farlo lascia che siamo loro a dirtelo, non importi il bisogno di intuirlo in anticipo. Parti quindi alla conquista del mondo. Parti oggi, non rimandare a domani, e torna quando avrai capito chi sei e perché. Per quel lieto giorno, di ritorno dal tuo viaggio, ti chiedo un ulteriore e ultimo favore. Qualcosa di personale. Ti prego di andare a trovare mia moglie, di tanto in tanto. Ti ha visto in una sola occasione, ma da allora mi ha chiesto spesso tue notizie, in un modo che mi è piaciuto. Grazie di cuore e buona fortuna, David Gabus
Samuel sapeva di avere bisogno di ulteriore tempo per poter digerire completamente le parole di David Gabus, ma fortunatamente di tempo ne avrebbe avuto molto a disposizione. In questo momento, il suo pensiero si soffermò su di un dettaglio, e cioè sul fatto che l’orologiaio dedicò le ultime righe della sua lettera alla moglie, che forse nel contempo erano state le ultime in assoluto. Questo gli ricordò un libro scritto da un medico italiano, specializzato in medicina palliativa, che spiegava come sono in molti sul letto di morte a stupire per il loro grande altruismo. Una cosa tutt’altro che scontata, considerato il timore e l’egocentrismo che la transizione potrebbe suscitare. Probabilmente la gente smette di focalizzarsi sulla propria condizione perché inizia ad avere un sentore di quello che ne segue, sminuendone progressivamente il senso d’incertezza. Il medico raccontava inoltre come nei casi più singolari, l’altruismo di queste
donne e uomini s’innalza a tal punto da farli persino temere di disturbare i loro cari. Si scusano quasi per la loro scomoda condizione di moribondi, rasserenati nel vedere che quello che lasciano da questa parte del tunnel è valso una vita.
Il controllore annunciò con il microfono l’imminente arrivo del treno al capolinea della sua corsa, all’aeroporto. Samuel si ripromise di salire sul primo volo intercontinentale disponibile, indipendentemente dalla sua destinazione. Arrivato all’aeroporto il giovane utilizzò una parte del buono viaggio per acquistare un biglietto. Poi, prima di presentarsi allo sportello per registrare il bagaglio, si recò al bagno. Fece scorrere l’acqua nel lavandino finché quella più fresca raggiunse la superficie. Prese del sapone e si lavò minuziosamente le mani e la faccia. Una bella rinfrescata cascava a pennello. Si asciugò sommariamente con dei pezzetti di carta, che poi gettò nell’apposito cestino. A questo punto, Samuel alzò lo sguardo e riconobbe il viso fiero e sereno di uomo originario dell’Africa centrale. Restò per un momento a osservare la sua immagine riflessa allo specchio, accarezzandosi la chioma con la mano sinistra. Di fianco alla sua fronte luccicante vide l’orologio da polso scandire il tempo in senso orario. Poco dopo, alle 11:25, l’aereo spiccò il volo.