La Scala A Chiocciola 2v5r58

Ethel Lina White. La scala a chiocciola

Ethel Lina White La scala a chiocciola 1. L'albero 2. Le prime incrinature 3. Un racconto davanti al focolare 4. Vecchi ricordi 5. La camera azzurra 6. Illusione 7. La nuova infermiera 8. Gelosia 9. I ricordi della vecchia signora 10. Il telefono 11. Un articolo di fede 12. La prima breccia 13. Il delitto 14. Prudenza, prima di tutto! 15. Notizie segrete 16. La seconda falla 17. Quando le signore si accapigliano…

18. La difesa si indebolisce 19. Più che bevuta 20. Una Lady si fa bella 21. Aprendo la strada 22. Incidente 23. Ubriachezza 24. Uno spuntino 25. La sentinella 26. Un'intuizione 27. La sicurezza è la peggiore nemica 28. Leone… o tigre? 29. Da sola 30. Il crollo 31. Buona caccia Crediti Tra i Fogli volanti

Ethel Lina White La scala a chiocciola

1. L'albero

Helen si rese conto di aver camminato troppo solo quando cominciò a fare buio. Si fermò e si guardò intorno, restando impressionata da quella campagna così desolata: la sua era stata una eggiata lunga, ma non aveva incrociato anima viva e non aveva visto nemmeno una casa. I costoni alti dei sentieri le limitavano l'orizzonte e sembravano piste fangose; la collina era solo un mucchio di tumuli di terra arida, di colore nero seppia, ricoperti appena da un velo di pioggia residua. Sulla natura pesava un senso di attesa greve, come se sulla valle stesse per abbattersi un uragano. Lontano, troppo lontano per far pensare all'avvicinarsi di un temporale, si sentiva il debole e modulato rombare del tuono. Per fortuna Helen era realista, era abituata a fronteggiare decisa i problemi, non era capace di commiserarsi. Fantasiosa ma dotata di buon senso, piccola e pallida come una fetta di luna, si salvava dall'anonimato grazie alla sua chioma rossa, luminosa e soffice. Anche se dal suo aspetto non traspariva, amava la vita apionatamente: per lei il domani significava una speranza continua, per cui ogni giorno era il benvenuto, ogni ora e ogni momento un motivo di interesse. Da bambina annoiava i anti chiedendo l'ora, non per la banale curiosità di correr dietro al are del tempo, ma per poter vedere i loro orologi. Non era cambiata neanche quando si era dovuta guadagnare da vivere, lavorando sotto il tetto di chi, fortunato, possedeva una casa. L'aveva terrorizzata solo una cosa, l'essersi rimasta senza lavoro. Immaginava quante fossero state le risposte all'inserzione che richiedeva una ragazza alla pari per la casa di campagna del professor Warren ma, appena arrivata a Summit, aveva capito quanto l'isolamento di quella casa avesse contribuito a farla uscire dalla lista dei disoccupati. Summit si trovava nel punto di incontro di tre contee, proprio al confine tra l'Inghilterra e il Galles, un un angolo remoto. La città più vicina era a trentatré chilometri, il paese meno lontano diciotto. Nessuna domestica riusciva a resistere in un buco abbandonato come quello, un grosso buco dal quale andava

e veniva un ricambio cronico di personale di servizio. La signora Oates che, insieme al marito, tappava come poteva quella falla, le aveva spiegato la situazione durante il loro primo incontro, su appuntamento, nella sala d'aspetto dell'agenzia di Hereford¹. — Ho detto alla signorina Warren che doveva a tutti i costi trovare una ragazza alla pari, altrimenti non ce l'avremmo fatta. Una ragazza alla pari, questo ci serve. Helen sapeva bene che sul mercato, le ragazze alla pari non erano molto considerate, ma aveva già provato i piaceri di alcuni mesi di riposo forzato e ringraziava il cielo per la tranquillità che le offriva il fatto di andare a vivere in una famiglia, dopo settimane di «povertà», e usava questo termine soltanto perché «fame» non si trova nel vocabolario di una signora. A parte il totale isolamento della località, era un lavoro eccellente: non solo le avevano dato una bella camera e poteva mangiare benissimo, ma sedeva anche a tavola con la famiglia. Questo particolare valeva per lei più di un gesto di considerazione, perché le dava la possibilità di studiare il carattere e il modo di fare dei suoi nuovi datori di lavoro. Era una fortuna che fosse riuscita a inserirsi nella loro vita, perché le capitava raramente, per motivi economici, di poter andare al cinema, e non le restava quindi che trovare da distrarsi con il materiale puro e semplice che la vita le offriva. Da un certo punto di vista, la famiglia Warren riassumeva tutti gli elementi tipici del dramma da palcoscenico. Il professore, vedovo, e sua sorella, la signorina Warren, alla quale era affidata la cura della casa, avevano superato la mezz'età. Helen aveva già classificato personaggi: colti, educatissimi, formali, ma privi di qualsiasi calore umano. L'anziana Lady Warren, la loro matrigna, era inferma nella camera azzurra, era fatta di pasta ben diversa: una mistura di sangue e fango, agitata tre volte al giorno da una buona dose di pessimo carattere. Era il terrore di quella casa: il giorno prima aveva tirato in testa all'infermiera una tazza di zuppa, come signorile reazione nel vedersi privare della prediletta bistecca al sangue che non riusciva a masticare. Dotata di una mira eccellente, aveva raggiunto il suo scopo: quella mattina stessa

Oates aveva accompagnato in città l'infermiera e era atteso per la sera con un nuovo bersaglio. Helen, che non aveva ancora incontrato la vecchia signora, provava grande ammirazione per il suo carattere. In casa non aspettavano altro che morisse, ma lei teneva ancora benissimo. Ogni mattina la Morte bussava educata alla porta della camera azzurra e Lady Warren la riceveva salutandola come d'abitudine, con il pollice al naso. Oltre alla delizia di questa commedia, Helen sospettava il solito triangolo tra il figlio del professore, la nuora e uno studente, ospitato in casa, che il professore preparava per l'Indian Civil Service. Il figlio, brutto ma intelligente, amava di una ione violenta la moglie Simone, donna di una bellezza straordinaria, ricca e molto libera nei costumi. Si serviva degli uomini per fare esperimenti. In quel momento stava chiaramente provando a intrecciare una relazione con lo studente, Stephen Rice, un bel ragazzo simpatico che era stato espulso da Oxford. A Helen, Stephen era subito piaciuto, e si augurava che continuasse a resistere alle avances della giovane signora. Anche se la curiosità per Summit e i suoi abitanti la coinvolgeva, quello che le interessava di più era compiere bene il suo dovere e per questo, accorgendosi che era tardi, fece una smorfia di disappunto. Cominciavano a scendere le prime ombre, preludio al breve intermezzo fra la luce di due giorni diversi. Presto sarebbe stato buio. Un bel pezzo di strada la divideva ancora da Summit. Poteva vederla da lontano, solida e accogliente, sullo sfondo delle colline già avvolte dalle ombre. Tra lei e Summit c'era ancora un avvallamento: l'argine scendeva per più di un chilometro verso un grande prato circondato di alberi e poi risaliva fino alla tenuta di Summit. Non mancava certo di forza d'animo, ma si sentì persa al pensiero di dover ripercorrere quell'avvallamento. Da quando era arrivata a Summit non finiva di stupirsi davanti a quella vegetazione rigogliosa. I cespugli di sempreverde del prato, deformati dalla foschia della sera, al tramonto del sole, sembravano muoversi e avanzare verso le mura della casa come ladri all'assalto che strisciassero lenti e furtivi.

Sentendosi sicura come in una fortezza, si godeva dalla finestra il contrasto tra il giardino stregato e la casa allegra di luci e di voci. Lei era all'interno, sicura. Ora era all'aperto, e a più di tre chilometri di distanza. «Che idiota» si disse. «Non è tardi. È solo buio. Sbrigati!» Fissava la sua meta che, a ogni o, giù per quel pendio, sembrava sprofondare piano nel terreno. Proprio nel momento in cui stava per scomparire dalla vista di Helen, la luce nella camera azzurra si accese. Le sembrò il segnale che la richiamasse a un suo preciso dovere. Ogni sera, al tramonto, doveva fare il giro della casa e chiudere le porte e le persiane. Fino a quel momento aveva preso quell'incombenza sorridendo di compatimento, tanto eccessiva le sembrava quella precauzione, ma ora, nella solitudine, al buio, aveva un significato inquietante. C'era un rapporto tra quel rito serale e un'atmosfera di tensione che si rendeva visibile con l'agitazione in cucina e il bisbigliare in salotto: su tutti gravava la consapevolezza di un delitto. Delitto. Helen, d'istinto, fuggì da quella parola. Era troppo razionale per non considerare il crimine come un banale espediente da romanzo, buono solo per fare notizia sui giornali. Impossibile credere che tragedie così accadessero veramente. Si sforzò di trovare qualcosa di più rasserenante. «Supponiamo che io vinca alla lotteria.» ² Ma quando il sentiero si spinse in fondo nella valletta, con gli alti argini che oscuravano anche l'ultima luce, scoprì di avere pensieri che nessuna fantasia poteva distrarre. In quel momento pensava solo ai piaceri più semplici della sua vita: la sicurezza della cucina di Summit in compagnia della signora Oates e del gatto rosso, e lo sfrigolio del pane mentre si tostava per il tè. Riprovò. «Supponiamo che io vinca alla lotteria. Qualcuno deve pur vincere. Tra tanti milioni di persone che ci sono al mondo, ben poche sono destinate a vincere una fortuna. Incredibile.»

Purtroppo a quella riflessione ne seguì un'altra. «Sì. E tra tanti milioni di persone che muoiono nel loro letto ce ne sono alcune destinate a essere uccise.» Bloccò la valvola delle riflessioni quando fu acquattata davanti all'entrata nera della valletta. Quando l'aveva attraversata nei primo pomeriggio si era preoccupata soltanto di trovare del terreno asciutto su cui camminare oltre il nero del pacciame, e l'unico pensiero che le era ato per la mente era stato che, durante la primavera, in quel posto dovevano esserci un sacco di primule. Adesso pensare alla primavera le sembrava una beffa. Avanzava su un terreno desolato e paludoso che offriva soltanto frutti abbattuti dal vento. Sentiva dei fruscii provenire dai cespugli e gli stessi alberi, nello scuro, in lontananza, assumevano un aspetto umano. E così, all'improvviso, il delitto non fu più una sciocca fantasia da rotocalco. Diventò qualcosa di reale, una terribile minaccia. Helen non riuscì più a non pensare a quello che la signora Oates le aveva raccontato sugli omicidi: quattro, di sicuro opera di un serial killer che sceglieva come vittime delle ragazze. I primi due erano stati commessi in città, troppo lontano per impensierire gli abitanti di Summit. Il terzo in un paese, anche quello abbastanza distante da lasciare tranquilli. L'ultima ragazza, invece, era stata strangolata in una casa di campagna isolata, a poco più di sette chilometri dalla casa del professore. Sgradevole constatare la crescente sicurezza dimostrata dall'assassino. Orgoglioso dei propri successi era andato sempre più interferendo nella privacy delle sue vittime. «La prima volta ha agito per strada» pensò Helen. «Poi in un giardino. Dopo in una casa. E infine, addirittura, in una camera da letto, un posto in cui non si dovrebbe avere paura di nulla.» Decisa a non lasciarsi prendere dal panico, Helen smise di controllare i propri

i scansando i solchi pieni d'acqua, e immerse senza più preoccuparsi i piedi nel fango che sembrava risucchiare le suole delle sue scarpe. Era nella parte più fitta del boschetto, dove gli alberi, intricati, crescevano bassi. Helen pensò di nuovo a quei delitti. «Si avvicina. Continua ad avvicinarsi, ad avvicinarsi a noi.» All'improvviso ebbe la sensazione che qualcuno la seguisse. Fermandosi in ascolto le sembrò che la valletta fosse tutta un mormorio di flebili suoni: il fruscio delle foglie secche, lo scricchiolio dei ramoscelli, l'acqua che gorgogliava. Tutto era immaginabile. Anche se sapeva bene che, correndo, la sua fantasia avrebbe corso con lei, si lanciò all'impazzata su quella terra fradicia, sporcandosi le scarpe di fango. Il cuore protestava con i suoi battiti violenti quando le si parò davanti il sentiero in salita, alto come il muro di una casa. Ma dopo la prima curva la difficoltà si attenuava, il sentiero si piegava a gomito rendendo il salire meno arduo. Le tornò il solito coraggio: un'occhiata all'orologio fu sufficiente a informarla che aveva vinto la sua gara contro il tempo e che quindi il suo nuovo, prezioso lavoro era al sicuro. Finalmente arrivò arrancando alla tenuta, con i suoi filari di giovani aceri e di larici e il terreno coperto da un tappeto di foglie aghiformi. All'improvviso vide Summit. Non era più un profilo lontano, anzi, era così vicina che lei poteva distinguere l'azzurro delle tende della camera di Lady Warren. Dall'orto, appena sotto il muro, vide un filo di fumo alzarsi e sentì un fischio allegro, i segni inequivocabili che il giardiniere era dietro alla casa a bruciare le sterpaglie. Vicina al traguardo, Helen rallentò il o. Adesso che era salva le sembrava di aver vissuto un'avventura, e sentiva una certa riluttanza a ritornare al solito tran tran. Tra poco avrebbe fatto il giro della casa, porte e finestre da sprangare per il coprifuoco. Nell'oscurità della valletta si era resa conto dell'importanza di una finestra sprangata, eppure, sentendosi il viso bagnato dalla pioggia e il vento che le scompigliava i capelli, si ribellava all'idea di chiudersi tra quattro mura. «Sarà una serataccia», si disse mentre strascicava i piedi verso il cancello d'ingresso.

La tenuta terminava in un unico filare di alberi, da cui si vedevano i pilastri del cancello di Summit e i lauri del viale. Le luci del salotto erano già accese. Fu la voglia di bere del tè a spingerla in casa. Stava per mettersi a correre quando il cuore le sobbalzò nel petto. Era certissima che l'albero più lontano si fosse mosso. Si fermò a guardarlo con attenzione, alla fine concluse che la fantasia le stava giocando dei brutti scherzi. Era fermo, immobile come tutti gli altri. Eppure aveva qualcosa di strano, il fusto sembrava un po' storto… Helen non si sentiva tranquilla. Era sicura di una cosa, anche se non aveva alcuna prova certa, per nessuna ragione sarebbe ata davanti a quell'albero. Rimase ferma, esitante, finché l'esperienza del suo primo lavoro non l'aiutò. Quando aveva quattordici anni, aveva cominciati a lavorare occupandosi di mantenere in ottima forma fisica i cani dei ricchi. Dato che i cani ricchi mangiavano benissimo ed erano più forti di lei, spesso capitava che provassero a sopraffarla e quindi Helen era, per forza di cose, abituata a prendere rapide decisioni. L'istinto le indicò una scorciatoia per arrivare la casa: tagliò in diagonale per il terreno melmoso, scavalcò una siepe e si lasciò alle spalle il muro del giardino. Mise in pratica il suo piano nel minor tempo possibile e con il minimo danno materiale, anche se con totale mancanza di classe. Atterrata rovinosamente tra i cavoli, si alzò e corse alla porta d'ingresso. Con la chiave infilata nella toppa si girò per guardare oltre il cancello. Fece appena in tempo a vedere quell'albero spaccarsi in due: un uomo sgusciava da dietro il suo tronco e si dileguava nell'ombra.

2. Le prime incrinature

Per Helen, la curiosità era più forte di qualsiasi altra spinta emotiva. Per questo si precipitò correndo per il viale, decisa a chiarire quel mistero. Arrivata al cancello, non vide che le file di alberi che si intersecavano in trame confuse. Restò lì a guardare l'oscurità della campagna mentre la prima stella appariva tremula tra i cumuli di nuvole, dimenticandosi del suo lavoro. «Era un uomo, di sicuro» si disse trionfante. «Avevo ragione. Un uomo che si nascondeva.» Sapeva che ci poteva essere una spiegazione più banale: era, magari, semplicemente un giovane che aspettava la sua ragazza. Ma lei rifiutava di crederci, sia perché era a caccia di emozioni sia perché non le sembrava che l'ipotesi reggesse. Un innamorato, pensava, inganna l'attesa camminando avanti e indietro, oppure fuma una sigaretta. Invece l'immobilità di quell'uomo, quel suo aspettare, l'essersi finto un albero, erano prove di un ben determinato piano. Le ricordavano la pazienza cocciuta del coccodrillo che sta acquattato sulla riva del fiume per saltare all'improvviso sulla sua preda. «Be', qualunque cosa fe, sono contenta di non essergli ata davanti» concluse voltandosi per tornare in casa. Summit era un edificio alto di pietra grigia in stile tardo-vittoriano, inspiegabilmente stonato in quella natura selvaggia. Era la classica casa che si trova nei quartieri residenziali delle città ricche, con una rampa di undici scalini che saliva all'ingresso e grandi finestre con le persiane verdi. La sua collocazione giusta sarebbe stata in un bel parco di mezzo ettaro in una via privata, con due lampioni al cancello e la cassetta delle lettere. La sua struttura massiccia era un vero e proprio conforto in quella solitudine. Risultava evidente, perfetta com'era, che non si era badato a spese per tenerla in efficienza: le intemperie sembravano non avere intaccato né l'intonaco, né le

grondaie, né il tetto. Guardando la casa veniva da pensare che, in caso di necessità, la si sarebbe potuta barricare e attrezzare come un carro armato. Splendeva di luci: il primo dei compiti di Oates era quello di controllare il generatore. Anche il solo cavo elettrico sarebbe stato, d'altra parte, una confortante garanzia di legame con il mondo civilizzato. Helen, a quel punto, non se la sentiva più di rimanere fuori. Era sera, e la nebbia cominciava ad alzarsi e i cespugli del prato sembravano animarsi e prendere vita. In quella confusa prospettiva, neri e sinistri, apparivano come persone afflitte al seguito di un funerale. «Se non faccio in fretta, si metteranno fra me e la casa e mi impediranno di entrare» si disse Helen, continuando nel suo atempo preferito di fingere vero ciò che immaginava. In ogni caso quel suo modo infantile di comportarsi era giustificato: aveva ato tre ore zampettando per sentieri fangosi non certo comodamente seduta in un cinema. Salì agitatissima i gradini e, visto in che condizioni si trovavano le sue scarpe, si mise insistente a strofinarle sullo spesso zerbino di ferro. La sua chiave era ancora là, nella toppa, dove l'aveva lasciata prima di lanciarsi correndo per il viale. Nel sentire lo scatto della serratura che chiudeva la porta alle sue spalle sottraendola ai pericoli del mondo esterno, si sentì come salva. La casa sembrava un grande alveare di celle dorate, da ognuna delle quali emanavano luce e tepore. Ronzava di voci e offriva compagnia, protezione. Al contrario dell'impressione che poteva dare dall'esterno, l'interno della casa avrebbe fatto inorridire un arredatore dai gusti aggiornati. Sul pavimento dell'atrio, di piastrelle nere e rossicce, c'era un tappeto nero di pelliccia. Tutto l'arredamento consisteva in una sedia con i braccioli di legno scolpito, un tubo di terracotta per mettere gli ombrelli e una piccola palma su un piedistallo di porcellana color blu pavone. Dall'atrio Helen ò nell'anticamera, resa ancora più tetra dalle piastrelle blu pavone e i pannelli in mogano massiccio. I fili elettrici entravano a fatica nelle pieghe della pesante tenda che copriva la porta del salotto, e nell'aria umida ristagnava il profumo delle primule nei vasi mescolato alle fragranze del tè.

Anche se Helen era entrata senza fare rumore, qualcuno dall'udito fine aveva sentito il leggero vibrare dei battenti. La tenda di velluto si aprì e una voce, eccitata per l'ansia, disse: — Stephen, tu… oh, siete voi. Helen colse al volo la delusione nella voce della giovane signora Warren. «E così eri con le orecchie tese ad aspettarlo, carina» concluse. «E anche vestita come un'indossatrice.» Una rapida occhiata d'ammirazione ò sull'abito di satin bianco e nero: Simone pareva importata direttamente da un ristorante londinese, o un tè danzante, insieme alla musica. Seguiva alla lettera i dettami dell'ultima moda: le ciglia finte, i capelli neri lucidi raccolti sulla nuca in morbidi ricci, e le unghie laccate di rosso cremisi. Ma anche se al posto delle sopracciglia aveva due lunghe linee tracciate a matita e la sua bocca era resa più piccola da un contorno perfetto, non era poi molto diversa dalla donna della caverne. Gli occhi brillavano esaltati e dal viso traspariva una natura contrastata e apionata. Un bel tipo di animale selvaggio o, per dirla in termini più moderni, la pretesa incarnata nell'affermazione personale. Il risultato comunque non cambiava: quella donna faceva precisamente e sempre quello che pensava. Simone, moto alta, per guardare la piccola figura diritta di Helen doveva abbassare gli occhi: immobili una davanti all'altra, la diversità del loro aspetto saltava agli occhi. Helen non aveva il cappello e indossava un vecchio e consunto cappotto di tweed coperto da un velo di umidità, e portava con sé il segno degli elementi esterni: fango sulle scarpe, guance arrossate dal vento, gocce di pioggia che le scendevano dai capelli rossi. — Sapete dov'è il signor Rice? — chiese Simone. — È uscito dal cancello poco prima di me — rispose Helen, nata per non perdere mai un'occasione. — Mi pare che abbia detto che doveva «salutare una persona». Il viso di Simone si fece scuro al pensiero che il ragazzo doveva partire il giorno dopo. Si girò di scatto sentendo la testa del marito sbirciare da sopra una spalla come un uccello curioso. Alto e rozzo, aveva una cresta di capelli rossi spettinati

e portava occhiali con la montatura di corno. — Il tè sta diventando troppo scuro — disse ad alta voce. — Non possiamo aspettare Rice. — Io sì — gli disse Simone. — Ma i dolci diventano freddi… — Adoro i dolci freddi. — Bene… non lo vuoi servire a me, almeno? — Mi spiace, caro. È una delle cose che mia madre non mi ha mai insegnato a fare. — Capisco. Newton fece spallucce mentre se ne andava. — Spero che il nobile Rice dia il giusto valore al tuo sacrificio. Simone finse di non sentire mentre lui diceva a Helen, a sua volta decisa a far finta di essere sorda: — Quando vedrete il signor Rice, ditegli che lo stiamo aspettando per il tè. Helen capì che il divertimento era giunto al termine o, piuttosto, che la scena era stata bruscamente interrotta, proprio quando si attendeva le rimostranze di Simone. Riluttante salì per le scale fino al pianerottolo del primo piano, e lì si fermò, ascoltando, davanti dalla stanza azzurra. Quella stanza era un continuo motivo di curiosità per lei: lì dentro giaceva ammalata quell'eccezionale vecchia signora che, nonostante fosse invisibile, Helen già considerava come un personaggio da leggenda. Sentendo il mormorio della signorina Warren, la figliastra che prendeva il posto dell'infermiera, decise di entrare nella sua stanza con il pretesto rimetterla in ordine per la notte. Summit era costruita su tre piani, con due scale e un seminterrato, un bagno per ogni piano e senza acqua nei periodi di siccità. La famiglia, l'anziana signora

Warren, il professore e la signorina Warren, dormiva al primo piano; le altre camere da letto erano al secondo. Nei locali del sottotetto alloggiava la servitù, quando c'era, e in quel momento ospitavano solo signori Oates. Newton era considerato un ospite, per cui stava con la moglie nella grande stanza rossa al secondo piano, mentre la sua camera da scapolo, che comunicava con quella di Lady Warren e del professore, era diventata il salottino dell'infermiera. Aprendo la porta della camera della signorina Warren, si verificò un banalissimo incidente che, alla luce dei fatti successivi si rivelò molto importante. La maniglia della porta non girava come avrebbe dovuto fare, così Helen dovette forzarla per riuscire ad aprire. «Una vite si sta allentando» pensò Helen. «Appena ho un momento prendo un cacciavite e la sistemo.» Chiunque avesse conosciuto il temperamento di Helen, avrebbe capito che tutte le volte che le si presentava il bisogno di fare un lavoro che non aveva mai fatto, trovava sempre il modo di ritardarlo, anche se si trattava di un preciso dovere. Dipendeva solo dalla novità del lavoro se aveva voglia di fare ogni cosa. La stanza della signorina Warren era scura e disadorna: la tappezzeria marrone, le tende pesanti, cretonne. Una sola nota di colore, un vecchio cuscino di colore oro. Era, di fatto, il sacrario di uno studioso, con gli scaffali strapieni di libri e con la scrivania disseminata di fogli. Helen vide, non senza sorpresa, che le imposte erano già chiuse e che sulla scrivania era accesa la piccola lampada schermata di verde, che ricordava l'occhio di un gatto. Mentre ritornava sul pianerottolo, la signorina Warren uscì dalla stanza azzurra. Era alta e imponente come suo fratello, ma questo era l'unico tratto simile fra di loro. Era una donna molto colta e molto intelligente, ben oltre la media, con un viso strano e mobilissimo e gli occhi color della pioggia. Anche lei, come il professore, sembrava considerare il fatto di essere guardata da un estraneo come una violazione della sua privacy. Per questo, mentre lei con un'occhiata gelida spediva Helen a miglia e miglia di distanza, uno sguardo del

professore la faceva a pezzi esattamente lì dove si trovava. — Siete in ritardo, signorina Capel — sottolineò lei con la sua voce monotona. — Mi scusi. — Helen si spaventò al pensiero che il suo prezioso lavoro fosse in pericolo. — Avevo capito, parlando con la signora Oates, che avrei potuto ritornare per le cinque. È il mio primo pomeriggio libero da quando sono arrivata qui. — Non volevo assolutamente rimproverarvi, signorina. Intendevo solo a farvi notare che una eggiata non può durare fino a quest'ora. — Oh, la ringrazio, signorina Warren. In effetti mi sono spinta più lontano di quanto volessi fare. Ma è diventato buio solo quando ero a poco più di un chilometro. La signorina Warren guardò Helen, che si sentì spedire all'altro capo del mondo. Un chilometro è già una considerevole distanza — disse lei. — Non è prudente andare troppo lontano, neanche di giorno. I lavori di casa dovrebbero essere sufficienti come esercizio fisico, non pensate? Se volete prendere un po' d'aria, perché non fate quattro i in giardino? — Ma signorina Warren — protestò Helen — non è la stessa cosa. Fare una bella eggiata non vi pare che ritempri il corpo? — Capisco. — La signorina Warren abbozzò un sorriso. — Ma desidero che anche voi, da parte vostra, capiate ciò che voglio dirvi: siete giovane, siete una ragazza, e io sono responsabile della vostra incolumità fisica. Anche se quell'avvertimento appariva assurdo sulle labbra della signorina Warren, Helen rabbrividì: quel pericolo latente pareva dominare tutto, fluttuava nell'aria, in casa e fuori, nella buia valle popolata di alberi. — Blanche. Una voce profonda risuonò flebile e cupa dalla stanza azzurra. Improvvisamente la ieratica signorina Warren, da quel tipo capace di paralizzare chiunque che era, diventò una scolaretta che si affretta a obbedire alla maestra che la chiama. — Sì, mamma — rispose. — Arrivo.

Attraversò camminando in maniera sgraziata il pianerottolo e si richiuse alle spalle la porta della camera azzurra, lasciando Helen profondamente delusa. «Certo che ho a che fare con gente proprio strana» pensò Helen mentre saliva piano al piano di sopra. «Caldissima la signora Warren, gelida la signorina Warren. Docce bollenti e fredde, in alternanza. Chissà che cosa verrebbe fuori a mischiarle?» Le piaceva coniare neologismi, così come le piaceva l'idea di essere tutti i giorni a contatto con due scapoli e un vedovo, riportando così d'attualità un'arte ormai dimenticata. Quei poveri Vittoriani, tanto presi in giro, che in ogni persona vedevano un potenziale marito, di sicuro avrebbero trovato parecchi spunti interessanti per i loro romanzi. Eppure, anche se aveva un autentico rispetto per l'intelligenza del professore e aspettava con impazienza le visite del giovane medico gallese, era decisa a proseguire i suoi versamenti volontari per la pensione. Perché in Dio credeva, in Jane Eyre un po' meno. Mentre stava per entrare in camera sua vide che, dal vetro sopra la porta del giovane Rice, filtrava la luce. Fu attratta come da una calamita. — Siete voi, signor Rice? — chiese attraverso la porta. — Entrate e guardate con i vostri occhi — la invitò lo studente. — Volevo solo essere sicura che ci fosse qualcuno… per non sprecare la corrente… — Sì, ci sono io. Entrate. Helen ubbidì. Era abituata a due modi di comportamento da parte degli uomini: o la ignoravano nel modo più assoluto, o la mettevano al centro di pesanti attenzioni. Delle due cose, preferiva la seconda: riusciva sempre a difendersi e contemporaneamente aumentava il suo bagaglio di conoscenze personali. Stephen Rice le piaceva perché la trattava nello stesso modo in cui trattava le altre ragazze, con una franchezza spontanea. Fumava e infilava vestiti in una

valigia e si guardò bene dallo scusarsi per il suo abbigliamento abbastanza improbabile: una maglietta e pantaloni, per lui, andavano più che bene. Anche se Helen non lo trovava particolarmente attraente, perché per piacerle un uomo, doveva rivelare dal viso qualche traccia di intelligenza e di vivacità di spirito, tutti lo consideravano di una bellezza fuori dal comune, grazie ai lineamenti marcati e perfetti e alla massa di capelli ondulati che gli cadevano troppo lunghi davanti alla fronte. — Vi piacciono i cani, per caso? — le domandò Stephen, scuotendo un mazzo di cravatte. — Datemi — disse Helen, prendendo le cravatte dalla sua mano con garbata decisione. — Certo che mi piacciono. Una volta li addestravo… — È un punto a vostro sfavore. Detesto le donne che comandano sui cani e danno spettacolo nei parchi. Mi viene sempre voglia di morderle, dato che i cani sono troppo galantuomini per farlo. — Certo, lo so — fece Helen con un cenno d'assenso, perché in linea di massima era d'accordo. — Però si dà il caso che i miei cani avessero l'abitudine di comandare loro. Tra loro c'era un accordo segreto: all'improvviso tiravano tutti in direzioni diverse. C'è da sorprendersi che non mi abbiano ridotta come una stella marina. Stephen scoppiò a ridere. — Bravissimi… Avete voglia di vedere un cane speciale? L'ho preso oggi da un contadino. Helen si guardò attorno. — È dov'è? — chiese. — Sotto il letto? — Perché, dormite lì, no? — È nel letto, stupidina. — Oh. E se avesse le pulci? — E se non le avesse?… Otto, fatti vedere.

Stephen sollevò un angolo del copriletto e comparve la testa di un alsaziano. — È un po' timido — spiegò Stephen. — Mi chiedo che dirà, vedendolo, la vecchia signorina Warren. Non lascerà certo che un cane resti in casa. — Perché? — chiese Helen. — Paura. — Ma no, non è possibile. Sarà il contrario. Fa lei paura al prossimo… — È una maschera, invece. È una fifona di prim'ordine. Davanti a qualsiasi difficoltà va nel pallone. E adesso ha una paura terribile del maniaco. A proposito, avete paura anche voi? — Neanche un po'. — Helen rise. — Forse se fossi sola, ma come si fa a preoccuparsi se si è in una casa piena zeppa di gente? — Non sono d'accordo. Dipende che gente è. Ci sarà sempre la persona debole. La signorina Warren lo è: e quella vi pianterebbe di sicuro in asso. — Ma la presenza di più persone è già di per sé una garanzia di sicurezza — insistette Helen. — Quell'uomo non verrebbe di sicuro qui… Avete qualcosa da ricucire? — No, grazie. La cara signora Oates ha provveduto sempre ai miei rammendi… in diversi maniere. Certo, se piace, è unica. Ci si può fidare ciecamente di lei, se non si trova una bottiglia in giro. — Perché… beve? Stephen, per tutta risposta, si mise a ridere. — Sentite, fareste meglio a sparire — le consigliò — prima che la signorina Warren faccia un putiferio. Questa è la camera da letto di uno scapolo. — Ma io non sono una signora. Faccio parte del personale — spiegò Helen indignata. — E vi stanno aspettando per il tè. — Volete dire che Simone mi sta aspettando. Il vecchio Newton starà di sicuro rimpinzandosi di dolci.

Stephen prese la giacca. — Porto giù il cucciolo. — Non lo chiamerete cucciolo, così grande com'è — gridò Helen mentre l'alsaziano seguiva in bagno il suo padrone. — È giovanissimo, veramente. — La voce di Stephen era tenera. — Amo i cani… e odio le donne. Il motivo? Ricordatemi di raccontarvi la storia della mia vita. Helen si sentì quasi abbandonata quando il suo fischiettare si perse in lontananza. Sapeva che le sarebbe mancato. Ma dopo avere ato ancora in rassegna il disordine di quella camera pensò che, senza di lui, il lavoro sarebbe stato meno e lasciò a Simone tutto i suoi rimpianti. Il suo tè la aspettava in cucina. Appena finito di raccogliere le cose sparse ovunque, si precipitò nella sua stanza per togliersi il cappotto e le scarpe. Dato che l'ordine di chiudere le imposte si riferiva solo a quelle del seminterrato, del piano terra e del primo piano, la sua finestra sbatteva al vento. Nonostante la fretta, non riuscì a non concedersi il piacere di guardare la valle, per assaporare fino in fondo la delizia del suo rifugio. Vide un buio spugnoso che stava assorbendo tutta la luce. Si sentiva già il crepitare e lo stormire delle raffiche di vento. Nessuna finestra dei pochi villini era illuminata. «Chissà dove mi trovavo, quando cercavo di vedere Summit tra gli alberi» pensò Helen. «Sembrava così lontana, allora. E adesso eccomi qui, sana e salva.» Non ebbe il minimo presentimento che, da quando era tornata a casa, si erano succeduti parecchi banali incidenti che significavano le prime incrinature nelle mura della sua fortezza. Una volta incominciato, nulla avrebbe potuto fermare quel processo di disintegrazione, e tutti gli accadimenti futuri non sarebbero stati null'altro che cunei per forzare le crepe già aperte, dalle quali la notte sarebbe entrata.

3. Un racconto davanti al focolare

Helen andò in cucina scendendo dalla scala di servizio, una spirale di gradini ripidi, interrotta a ogni piano da un piccolissimo pianerottolo, sul quale si apriva la porta che dava sulla scala principale. La scala a chiocciola, ricoperta dal linoleum originale, con toni di marrone e beige, era ancora in ottimo stato. Per Helen quella scaletta di servizio era l'essenza delle sue fantasie, un sottile legame con il fascino del ato e il ricordo di giorni lunghi e senza pensieri. Era cresciuta in un piccolo appartamento dove non c'era abbastanza spazio né per una cameriera, né per una cappelliera, né per un gatto. La carrozzina era nel bagno e la dispensa era nell'unico buco disponibile, neanche a farlo apposta proprio vicino alla stufa. E così Helen ascoltava sua madre raccontare della casa della sua giovinezza con invidiosa malinconia. Tutti avevano, a quei tempi, famiglie numerose e quindi abitavano in grandi case a due scale, con gli stipiti così alti che era impossibile spolverarli e credenze ricolme di confetture fatte in casa. Giunta sul pianerottolo del seminterrato aveva udito il piacevole tintinnare delle tazze di porcellana e aveva visto, attraverso il vetro smerigliato della porta, il lampeggiare delle fiamme nel camino. La signora Oates era lì: stava bevendo un tè da un piattino e friggeva nel frattempo un'altra fetta di pane. Era una signora alta e robusta, con le spalle larghe e muscolose, un viso brutto con la mascella sporgente, un'espressione onesta e i grandi occhi castani all'infuori che a Helen ricordavano quelli di un fedele bulldog. Non aveva l'uniforme: portava un grembiule di flanella rossonera sopra la gonna. — Vi ho sentito correre giù da quegli orrendi scalini — disse. — Potete usare liberamente la scala principale. — Sì, certo, lo so — rispose Helen. — Ma le scale di servizio mi ricordano l'abitazione di mia nonna. Pensate, signora Oates, che al personale di servizio e ai bambini non era consentito salire per la scala principale per non rovinare la atoia…

— Ma davvero? Raccontatemi — chiese la signora Oates, con un tono educato. — Sì, era così, e anche con la marmellata era la stessa cosa. Ce n'erano vasi e vasi, ma quella di fragole e quella di lamponi erano solo per i grandi. I bambini potevano mangiare solo quella al rabarbaro o allo zenzero… com'erano cattivi gli adulti! — Non gli adulti, direi, quegli adulti… — Quegli adulti — ripeté Helen tranquillamente, accettando la puntualizzazione. — Ho pensato di invitarmi per il tè, dato che vostro marito non è ancora arrivato. — E siete benvenuta. La signora Oates si alzò per prendere dalla credenza una tazza pulita. — Ho già capito che conoscete bene tutti i trucchi del mestiere: quindi vi darò una teiera di ceramica fine per non perdere l'aroma del tè e anche un po' del dolce dei signori… — Un dolce comperato? Nemmeno per sogno. Voglio un dolce, certo, ma fatto in questa cucina… Non avete idea di come sia felice qui dentro, signora. Ci pensavo proprio un'ora fa, in circostanze molto diverse. Si guardava intorno con occhi beati e intanto sorseggiava il tè. La cucina era uno stanza enorme con il pavimento malmesso e gli angoli che facevano da ricovero per le ombre. Non c'erano oggetti bianchi smaltati, né il frigorifero né la luce elettrica, ma un tappeto steso davanti al focolare e le sedie di paglia sfilacciata, assieme alla tovaglia rossa un po' sbiadita davano a quel locale un aspetto intimo e confortevole, anche grazie alla sola luce dal focolare che li illuminavano. — Che antro sconfinato — disse Helen. — Deve darvi un bel po' da fare, a voi e a vostro marito. — Oh, per Oates non è un problema, di sicuro. — C'era dell'amarezza nella voce della signora Oates. — Lui, più spazio ha da sporcare che io poi devo pulire, ecco… più lui è contento. — Però è bella. Ma alla signorina Warren verrebbe un colpo se vedesse che non avete chiuso le imposte.

Parlando, Helen lanciò uno sguardo alle finestre, alte sulla parete. Erano a livello del giardino e i cespugli, battuti dal vento, si agitavano nell'oscurità, oltre i vetri macchiati dal fango. — È appena diventato buio — disse la signora Oates. — Possono benissimo aspettare che finisca il mio tè. — Ma non vi sentite agitata. nervosa, qui sotto da sola? — Intendete dire per via di «quello»? No, signorina. Ho conosciuto troppi uomini incapaci in vita mia per avere paura di un paio di pantaloni. Se provasse a farmi uno dei suoi scherzetti, state certa che un bel pugno in faccia non glielo toglierebbe nessuno. Pronunciò questa minaccia spingendo in fuori il labbro inferiore, accentuando in questo modo la sua rassomiglianza con un cane bulldog. — Ma qui nei dintorni un assassino c'è di sicuro… — le ricordò Helen. — E allora? È ben difficile che venga rompere le scatole a noi. È come una lotteria: c'è chi vince, ma a me o a voi non capita. E non vinceremo, mai. Tranquillizzata da quelle parole, Helen si gustò il suo pane e allungò i piedi verso il camino. Il grosso gatto rosso faceva le fusa sull'angolo meno sdrucito del tappeto. Di colpo sentì il bisogno di qualcosa di emozionante, fosse anche di seconda mano. — Mi dite qualche cosa sui delitti? — disse. La signora Oates la fissò come sorpresa. — E perché? Sui giornali c'erano tutti i particolari. Non sapete leggere? Helen tentò un sorriso riando a mente le settimane di povertà durante le quali aveva raccattato notizie di cronaca dai giornali murali oppure sentendo la radio nell'ostello per ragazze in cui aveva vissuto. — Cerco di tenermi aggiornata sui fatti importanti — spiegò. — La politica, il

governo, le recensioni letterarie. La cronaca nera non mi è mai interessata più di tanto. Ma dato che i delitti sono avvenuti in questa zona, mi sembra proprio un errore averli trascurati. — È vero — disse la signora Oates, mettendosi più comoda per cominciare con le sue chiacchiere. — Bene, disse, la prima ragazza è stata uccisa in città. Era una che ballava mezza nuda ma che in quel periodo era senza lavoro. Così faceva la cameriera in un pub, dalla una alle otto. L'hanno vista uscire dal bar poco prima del solito. E poi l'hanno trovata nel canale di scarico del marciapiede, a due metri dal pub, morta. E, che mi crediate o no, aveva la faccia nera come quel tozzo di carbone. Helen rabbrividì, anche se pensava che molto fosse frutto della fantasia della signora Oates. — Anche il secondo omicidio è stato commesso in città, giusto? — chiese Helen. — Sì. Una povera cameriera, una bravissima ragazza che non avrebbe mai parlato a nessuno che non conoscesse bene, nemmeno con il Principe di Galles… Era la sua sera libera e, quando il suo datore di lavoro è uscito in giardino per far girare il cane, l'ha trovata sul vialetto, come l'altra, strangolata. Nessuna impronta sulla ghiaia, nessuno aveva sentito niente, eppure era molto vicina alle finestre del salotto. Quindi deve essere stata presa alle spalle. — Certo — fece Helen annuendo. — Il prato era pieno di cespugli che sembravano persone e, senza preavviso, un cespuglio le è saltato addosso. La signora Oates si fermò a fissarla, poi proseguì a contare sulle dita. — Dov'ero rimasta? Allora. Una, due, tre. Sì, il terzo è accaduto in un bar di campagna e ha sconvolto tutti. Fino a quando tutto accadeva in città nessuno ci faceva molto caso. La ragazza del bar era appena andata in cucina per sciacquare dei bicchieri, e l'hanno trovata lì, due minuti dopo, strangolata, con il suo tovagliolo da lavoro. Nel bar c'era tanta gente eppure nessuno ha sentito niente. Deve essere entrato in cucina dalla porta sul retro, e deve averla assalita alle spalle. Helen ascoltava come se non ci volesse credere. Si ripeteva che fatti del genere non erano mai accaduti. Erano solo spezzoni di realtà romanzata assemblati dalla

fantasia della signora Oates tra le notizie dei giornali. Ma a un tratto ne ebbe abbastanza. — Non ditemi altro — la implorò. Ma la signora Oates, una volta cominciato, doveva finire. — L'ultimo assassinio — disse — è stato commesso, in linea d'aria, a sette chilometri da qua. Una ragazza immacolata come un giglio, più o meno della vostra età. Faceva la bambinaia in una famiglia importante, ma era tornata a casa in vacanza e stava preparandosi per andare a ballare. Si stava infilando il vestito da sera, era nella sua stanza: ci ha pensato lui a portare a termine l'opera. Le ha girato attorno al collo il bel vestito di seta, così forte che le è entrato in gola, e poi gliel'ha avvolto attorno al viso, chiudendole gli occhi per sempre. Si stava guardando allo specchio: l'ultima cosa che ha visto è stata la sua immagine, e questa è la prova che a farsi vedere non ci si guadagna granché. Helen, per controllare i suoi nervi, non trovò di meglio che soffermarsi sui dettagli. — Se si stava guardando allo specchio avrà visto bene anche lui. Perché non ha provato a scappare? E se invece si era già infilato il vestito dalla testa come poteva guardarsi allo specchio? E poi, con le braccia alzate si sarebbe protetta la gola. Comunque, non ce la fece a non immaginarsi la scena. Forse perché era molto povera, aveva un senso del possesso molto forte: per lei la sua camera da letto era solo sua anche se si trovava in casa d'altri. Si immaginava la stanza della bambinaia ammazzata simile alla sua lì a Summit, bene illuminata, bene arredata e piena di tesori femminili che contrassegnavano le tappe della sua vita: i ricordi d'infanzia e i souvenir dei ristoranti, i bastoni da hockey, le bambole smilze e le foto di gruppo degli anni di scuola, accanto al ragazzo di turno. Cipria, creme per il viso e… sul pavimento la forma irregolare del vestito di seta. — Ma come avrà fatto a entrare? — chiese, disperata e ansiosa di dimostrare l'impossibilità di una cosa tanto terribile. — Facilissimo — disse la signora Oates. — È salito su per il portico d'ingresso, si è arrampicato: la camera di lei era proprio lì. — Ma come faceva a sapere che la ragazza era da sola?

— Ah, ma quello conosce tutto. Le ragazze le punta. Che voi mi crediate o no, se c'è una ragazza nei dintorni, lui la sente con il suo fiuto. Helen lanciò uno sguardo preoccupato alla finestra. Intravedeva i rami che si muovevano al buio, parevano tentacoli di polipo che si contorcevano nel buoi delle profondità marine. — Vi siete ricordata di chiudere la porta di servizio? — chiese innervosita. — Ore fa. Quando Oates non c'è faccio così. — Ma non è troppo in ritardo? — Non è il caso di preoccuparsi. — La signora Oates guardò l'orologio sul muro, inaffidabile come sempre. — Con la pioggia le strade diventano impraticabili per il fango, l'automobile è malandata. Vecchia, e Oates dice sempre che deve scendere e prenderla in braccio per farla arrivare in cima alla collina. — Magari prenderà in braccio anche la nuova infermiera insieme all'auto… La signora Oates non gradì molto quel tentativo di ironizzare sulla situazione. — Di quella non mi preoccupo di sicuro — rispose altera. — Mi fiderei di Oates anche se fosse da solo con la donna più bella del mondo. — E fareste più che bene. Helen lanciò un'altra occhiata al grigiore oltre la finestra. — E se chiudessimo le imposte? Sono certa che l'ambiente ne guadagnerebbe in allegria. — A che servono? — borbottò la signora Oates, mentre si alzava svogliata, — Tanto, se quello ha voglia di entrare, troverà comunque la maniera… ma anche questa è una cosa da fare. La vita è tutta dovere. Ma per Helen sbarrare quelle finestre fu un vero godimento. Le sembrò di avere vinto la sua battaglia contro il sopraggiungere invadente della notte. Una volta tirate le tendine rosse, la cucina diventò un luogo delizioso. — C'è un'altra finestra nel retro — fece la signora Oates aprendo una porta in fondo al locale.

Quello che vide fu un buio simile a quello di una miniera, ma appena la signora Oates trovò l'interruttore della luce, davanti a Helen si aprì una stanza azzurra pulitissima con un'asciugatrice, un calderone di rame per i panni e una rastrelliera per i piatti. — Grazie al cielo in questo seminterrato c'è la luce — disse Helen. — In realtà non ce l'ha proprio, è un posto buio come un sentiero per innamorati — le disse la signora Oates. — C'è solo una lampadina nel corridoio e nella dispensa. Oates continua a dire che ha fatto un bel lavoro, ma non è andato oltre. Di mogli che sgobbano dietro a lui ne ha solo una, poverino. — Che dedalo! — esclamò Helen quando vide il corridoio poco illuminato da un'unica lampadina appesa più o meno a metà della sua lunghezza. Era pavimentato di lastre di pietra e aveva le pareti giallastre e sudicie, e finiva in un antro buio. Su entrambi i lati c'erano delle porte chiuse e la vernice marrone era così vecchia da sembrare nera. A Helen sembrarono sepolcri funebri sigillati. — Siete d'accordo che una porta chiusa è sempre misteriosa? — chiese. — Ci domandiamo che cosa c'è al di là e quali segreti nasconde. — Ora provo a indovinare — fece la signora Oates. — Un ritaglio di bacon e una sfilza di cipolle spagnole: se aprite la porta della dispensa vi accorgerete che non mi sbaglio di molto. Avanti, andiamo, non c'è altro da dire. Helen scosse il capo. — No — disse. — Dopo i vostri rassicuranti discorsi non potrò addormentarmi se non apro tutte le porte per convincermi che, lì dietro, non c'è nascosto nessuno. — E che cosa potrebbe fare uno scricciolo come voi se si trovasse faccia a faccia con l'assassino? — Saltargli addosso immediatamente, senza pensare. Con la rabbia in corpo non si ha mai timore. Senza fare caso alle risate della signora Oates, Helen volle a tutti i costi una

candela per esplorare quel seminterrato. La signora Oates la seguì a fatica nell'estenuante sopralluogo nella dispensa, nel deposito degli attrezzi, nel magazzino, nel ripostiglio per stivali e nelle altre stanze di servizio. Giunta in fondo al corridoio, svoltò in un aggio più stretto e più scuro, dove si trovavano i locali usati come deposito per la legna e il carbone. Senza la minima paura dei topi o dei ragni, fece luce in ogni angolo, guardando dietro i sacchi polverosi e infilandosi negli angoli inghirlandati dalle ragnatele. — Ma che cosa pensate di trovare? — chiese la signora Oates. — Un bel ragazzo? Smise comunque di ridacchiare quando Helen si fermò davanti a una porta chiusa a chiave. — C'è un posto in cui né voi, né nessun altro potrà mai entrare — disse incupita. — Se il maniaco riesce a entrare lì meglio per lui. — E perché? — domandò Helen. — Che cos'è c'è? — La cantina… la chiave la tiene il professore. Avvicinate il naso alla toppa e sentite il profumo: è il massimo che potete ottenere. Helen era astemia e non ci aveva fatto caso ma adesso, riflettendo, considerò che a Summit non aveva mai visto servire vino a tavola. — In questa casa? — chiese — sono tutti astemi? — Nulla vieta al professore di bersi un bicchiere se ha voglia — disse la signora Oates — la chiave la tiene lui. Ma gli altri uomini, per un bicchierino, devono andare al Bull. E il signor Rice è l'unico che mi abbia domandato se ho un gusto anch'io. — Che tristezza non permettervi della birra, col lavoro pesante che dovete fare — disse Helen comprensiva. — Denaro per la birra ne ho — ammise la signora Oates. — Questo non è un brutto posto, e non è giusto sputare nel piatto in cui si mangia. La signorina Warren è fissata: non vuole alcolici in casa. Ma lei è come il professore, basta lasciarla sui suoi libri e non dà fastidio a nessuno. Questi cervelloni, in questo

mondo, servono a poco o niente, ma almeno se ne stanno tranquilli. Non è avara, solo non vuole che si faccia niente che non sia indispensabile. Proprio quello Helen pensava della signorina Warren: una grigia nullità tutta studio. La signora Oates diede sfogo al suo animoso risentimento sferrando un calcio alla porta della cantina, poi le due donne ritornarono sui loro i. — Ho giurato a me stessa una cosa — disse la signora Oates con un'aria solenne. — È questa: se riuscirò mai a mettere le mani sulle chiavi della cantina, lì dentro mancherà una bottiglia… — E se la saranno bevuta i fantasmi, vero? — fece Helen. — Torniamo vicino al fuoco. Ho qualcosa di emozionante da raccontarvi. Comunque, appena di nuovo in cucina, la signora Oates ricominciò a ridacchiare. — E così avete qualcosa da raccontarmi, giusto? Bene, io ho qualcosa da farvi vedere. Aprì un'anta della credenza e indicò una fila di bottiglie vuote. — Eccole qui. Il signor Rice le chiama «i morti». Molte sono bottiglie di gin o di birra scura che lui ha comprato al Bull. — Che gentile — disse Helen. — È proprio uno diverso. Peccato che sia quel fuori di testa che è. — Non è poi così male come dicono — disse la signora Oates. — L'hanno mandato via da Oxford perché se la filava con una ragazza. Ma lui mi ha detto, una sera, che ha meno colpe di quante gliene abbiano gettate addosso. Non è uno che corre dietro alle donne. — Ma con la signora Warren c'è qualcosa… — Ma per scherzo. Se lei dice «A», lui risponde «B», solo per principio. Nient'altro. Helen sorrise guardando la fiamma del camino. — Ho promesso di raccontarvi qualcosa — disse. — Quindi, “che mi crediate o no”, oggi pomeriggio, mentre attraversavo la tenuta… ho incontrato il maniaco. Si capiva benissimo che non credeva neanche lei a quello che raccontava, anche se ingigantiva i dettagli per fare impressione sulla signora Oates. La storia era

così esile… un uomo che nascosto dietro un albero e nessuna prova reale che avesse un fine oscuro. Non era l'unica a essere poco convinta del pericolo. In una casetta sulla collina, una ragazza con gli occhi neri si stava rimirando in uno specchio maculato dall'umidità. Aveva le guance rosse per l'aria di montagna, e un fare impaziente e selvatico. Una di quelle persone che accettavano la vita spalancando le braccia e dicendo “grazie”. Si sistemò, calandolo da una parte, il cappello di lana rossa fatto a mano sui capelli corti e neri, si incipriò le guance e, anche se non ne aveva bisogno, si ò canticchiando il rossetto sulle labbra. Più guardava la cameretta con il soffitto gonfio di umidità, le crepe nelle pareti, le tende di mussola floscia alla finestra e il letto che occupava quasi tutto quel piccolissimo spazio, più smaniava dalla voglia di uscire. Era stanca della reclusione e del puzzo di formaggio di quella casa. Aveva resistito, sera dopo sera, fino a non farcela più, fino a sentirsi pronta a correre il rischio di incontrare qualsiasi ipotetico criminale. Non sognava altro che Bull, dove potere incontrare uno, magari due giovani, e stare lì, con un bicchiere in mano, ad ascoltare la fantastica musica proveniente dalla radio. Si allacciò i bottoni del cappotto di pelle rossa, infilò gli stivali di gomma e cominciò a scendere con la massima cautela i gradini scricchiolanti della scala. Una volta fuori casa il cuore cominciò a batterle forte, ma solo di emozione. Conosceva il sentiero buio e stretto che scendeva ripido nella valle come un londinese conosce Piccadilly. Se stare sola le aveva tolto la paura di rimanere in solitudine, l'isolamento le aveva insegnato il coraggio. Senza timori né presentimenti scese a buona andatura il pendio di sassi della collina. Quando fu a Summit, capì che aveva quasi raggiunto la sua meta. Un chilometro la separava dal Bull, il centro luminoso del suo universo. Per lei la casa di Summit rappresentava la civiltà: adesso era lì, così vicina che sentiva la musica di Jack Hylton trasmessa per radio. Come quasi tutte le ragazze gallesi era intonata e aveva una bella voce. Pur non conoscendo le parole della canzone, cominciò a cantare con apionata partecipazione. Dal tetto di larici, la pioggia le colava sul viso in fili trasparenti, e la terra

diventava sempre più soffice e agevole. Tra i rami la percuotevano raffiche di vento sempre più forti. Felice, sana e ignara, correva incontro al suo futuro, con il viso umido e gli occhi lucidi d'attesa e speranza. Incurante del brutto tempo cantava attraversando il bosco, giovane come non era mai stata. Vide subito il filare di alberi che contrassegnavano il confine della tenuta. Ma la sua immaginazione era meno fervida di quella di Helen e quindi non fece caso a quell'albero che, come se non avesse radici, si spostava nascondendosi dietro i tronchi dei suoi vicini. E anche se ci avesse fatto caso, avrebbe negato l'evidenza; il buon senso le diceva che gli alberi non si muovono da dove stanno, almeno finché non a il boscaiolo. E così continuò a correre e a cantare ancora più forte. «Prego solo che la vita ti porti una dolce storia d'amore». Quando arrivò all'altezza dell'ultimo albero, questo si trasformò in un uomo. E i suoi rami due braccia protese… Ma neanche in quel momento, nemmeno allora si arrese all'evidenza. Perché, per lei, certe cose non potevano succedere.

4. Vecchi ricordi

— L'albero si è mosso — disse Helen, finendo il suo racconto nel rassicurante calore della cucina — e, inorridita, ho capito che era un uomo. Mi aspettava laggiù, nascosto, come una tigre pronta a saltare sulla preda. — Proseguite… — Il tono della signora Oates era divertito. — L'ho visto anch'io, quell'albero. Spesso. Mentre aspettavo Ceridwen, quando lavorava qui. E mai che fosse due volte lo stesso. — Ceridwen? — ripeté Helen. — Sì, abita in una casetta a metà collina. È una ragazza graziosa, ma faceva sempre confusione con gli strofinacci… in cucina. Non sono mai riuscita a farle capire che i bicchieri non si asciugano con lo stesso strofinaccio delle pentole. La vecchia Lady Warren non la poteva soffrire. Diceva che i piedi le puzzavano e, quando andava a pulire sotto il suo letto, sua signoria aspettava per picchiarla sulla testa con un bastone. Helen scoppiò in una risata. Anche se la vita non le aveva riservato molto, non finiva mai di apprezzare l'eterna commedia umana. — La vecchietta va di bene in meglio — dichiarò Helen. — Mi piacerebbe che mi spedissero a far pulizia sotto il suo letto. Si accorgerebbe che ho i riflessi troppo pronti per lei. — Anche Ceridwen era così. La provocava di continuo per poi scappare via quando meno se l'aspettava… Ma, alla fine, l'ha prendeva. Alla fine le ha dato un colpo così forte che il padre di Ceridwen è venuto a portarsela via, e ha minacciato di fare causa al professore per lesioni personali. — Lei sicuro… Che cos'è? Helen si fermò, tendendo le orecchie. Di nuovo quel rumore, un continuo, sinistro battere al vetro di una finestra. Anche se non riusciva a capire da dove arrivasse, non era certo lontano.

— C'è qualcuno che sta bussando? — chiese. La signora Oates ascoltò. — Deve essere la finestra del corridoio — disse. — Il gancio si è allentato. Oates ha detto che deve ripararlo. — Poco confortante — obiettò Helen. — Non preoccupatevi signorina. Le imposte ci sono. Nessuno può entrare da lì. Ma più il vento cresceva di intensità, più quel monotono rumore si ripeteva a intervalli regolari, come se quell'invisibile intruso fosse sul punto di perdere la pazienza e stesse per scardinare le imposte. Helen si innervosiva e non riusciva a bere in pace il suo tè. — È proprio una brutta serata — disse. — Altro che notte da innamorati! Se quell'albero aspettava Ceridwen, non la invidio di sicuro. — A quest'ora l'avrà già beccata — sghignazzò la signora Oates. — E a lei del brutto tempo non frega più niente…! — Va bene, ho capito. E continua, con quei colpi… L'avete un cacciavite? Insomma, signora Oates, questo rumore finirà per farvi arrabbiare — le spiegò — e preparerete una cena pessima, ci farete stare male, e noi ci arrabbieremo… Vedo se mi riesce di sistemarlo. — Ma voi se non fate qualcosa non siete tranquilla! — bofonchiò la signora Oates mentre seguiva Helen nella dispensa. La finestrella si trovava in fondo al corridoio, vicino alla porta della dispensa. Mentre Helen toglieva il paletto alle imposte, un colpo di vento, potente come un pugno, si abbatté sull'interno, striando di pioggia i vetri smerigliati. Le due donne guardarono insieme fuori nel giardino, che era all'altezza delle spalle di Helen. — Non vi fa venire la pelle d'oca? — chiese Helen. — Quei tassi mi sembrano un cimitero abbandonato… Chissà come posso fare con questo gancio. Li avete

dei chiodini? — Vado a vedere se li trovo. Oates, i chiodi, pare che se li mangi. La signora Oates attraversò la dispensa, lasciando Helen sola a fissare il giardino. In quel punto non c'erano cespugli che sembrava si avvicinassero strisciando verso la casa, e la sera sembrava aver preso una forma ben definita: grossi blocchi dai lineamenti netti di nera, scura, minacciosa oscurità. A Helen tutto ciò ispirò un atteggiamento di sfida. — Vieni avanti… se hai coraggio — gridò con forza. La risposta arrivò immediatamente: un urlo lacerante dalla cucina. Il cuore di Helen sobbalzò. La sua mente era concentrata su un unico pensiero, e quindi arrivò a un'unica conclusione. Il maniaco era nascosto, e lei aveva spedito la povera signora Oates in trappola. «L'ha presa» pensò, mentre prendeva il paletto delle imposte e si precipitava in cucina. La signora Oates la accolse con un altro grido: era davvero sull'orlo di una crisi di nervi, ma Helen non riusciva a capire il motivo di tanto terrore. — Un topo — urlò la signora Oates. — È là. Helen la fissò incredula, senza parole. — Ma bene! Pensavo che foste morta strangolata. Non è possibile che abbiate così paura di un topolino. Per favore, signora Oates, non è neanche più alla moda! La porta si aprì e Stephen Rice, con la valigia in mano, entrò in cucina. Si fermò basito a fissare la contegnosa signorina Capel, in ginocchio a caccia del topo, con le guance in fiamme e i capelli che le scendevano arruffati in fronte. — Di cosa si tratta? — chiese. — Una danza Pellirossa o è un nuovo ballo? Voglio impararlo anch'io. — Sto cercando un topo per tranquillizzare la signora Oates — gli spiegò Helen. — Magnifico sport. Vi dò una mano. — No, non voglio prenderlo. — Helen si alzò e appoggiò sul tavolo il paletto delle imposte. — Credo sia tornato nel suo buco, signora Oates. Stephen sedette e si guardò intorno.

— Qui dentro mi sento sempre bene, — disse. — È l'unico posto che mi piaccia in questa casa orrenda. È qui che la signora Oates e io diciamo le nostre preghiere. — Il vostro cane dov'è? — chiese Helen. — È in camera mia. La signorina Warren non è scesa per il tè, sfortunatamente. La predica è rimandata. — Ma perché poi volete farglielo vedere, dico io! — commentò Helen, da sempre tipo molto diplomatico. — Domani ve ne andate. Sono sicura che la signorina Warren sarebbe ben contenta di non sapere della sua esistenza. — No. — Stephen spinse all'infuori il mento già prominente. — Voglio agire allo scoperto, lo preferisco. È un atto di estrema nobiltà, il mio, sicuro come sono che l'eroico Newton penserà a fare luce nel buio pesto della signorina Warren. — Glielo andrà a dire? — chiese Helen, incredula. — E perché no? A voler essere sinceri, Otto non ha proprio avuto un successo strepitoso. Il poveraccio non è abituato ai tè serviti in salotto, è come il suo padrone, preferisce la cucina. — Ma alla signora Warren sarà di sicuro piaciuto da impazzire — insistette Helen, sulla scia del famoso detto «Chi mi ama, ama anche il mio cane». — Be', se è andata così posso garantirvi che ha saputo dominare benissimo il suo trasporto. Era allegra come in un fine settimana di diluvio. — Stephen aprì la valigia e chiese alla signora Oates: — Dove sono i vuoti? Ho pensato di riportarli stasera al Bull per non fare correre rischi al vostro dolcissimo maritino. — E anche perché intanto andate a salutare la ragazza del vostro cuore, giusto? La signora Oates strizzò l'occhio a Helen che, ricollegandosi a certi gossip della signora, capì subito che parlava della figlia del proprietario del Bull. Sembrava proprio che quella ragazza non fosse la santa protettrice del bar, ma un magnete che attirava tutta la fauna maschile del circondario. La signora Oates, forte della sua posizione di vantaggio, se ne uscì con un'altra

domanda ancora più intima. — E che cosa dirà “l'altra” signora se ate fuori l'ultima sera? — Quale “altra…” signora? — domandò Stephen. — La signora Warren. — La signora Warren è rispettabilmente sposata, non siete altro che maligna. Per questo trascorrerà la serata in compagnia del suo legittimo consorte, risolvendo enigmi matematici… Era buono il vostro tè? Helen non sentì la domanda, immersa com'era nel pensiero che forse poteva sfruttare l'occasione per rendere la serata un po' più movimentata. — La signorina Warren ha preso il tè su in camera? — chiese. — Penso di sì — rispose Stephen. — Ma è lì da secoli. Potrei offrirmi di darle il cambio. — Se lo fate — la consigliò Stephen — state attenta che la vecchia ha un arsenale di cuscini. Preparatevi a schivarli. — Ma è possibile che quella donna i il suo tempo a tirare roba addosso alla gente? — domandò Helen stupitissima. — È l'unico maniera che conosce per manifestare il suo temperamento. — Be', non mi importa. Muoio dalla voglia di vederla. A me sembra così piena di vita che l'ammiro molto. — Resterete delusa — profetizzò Stephen. — Non è una che ha voglia di scherzare, è una vecchia cattiva con dei modi incivili. Quando mi hanno presentato a Sua Maestà, stava rosicchiando un'arancia, e si è messa subito a sputare i semi per farmi impressione. Ricordando l'episodio, si mise a ridere. — Comunque — continuò — mi sarebbe proprio piaciuto vederla quando ha tirato la tazza in testa a quell'infermiera che sembrava una gazza.

— Ma sarà stato di sicuro un incidente. Non credo che volesse colpirla. La signora Oates alzò gli occhi che le lacrimavano per le cipolle che stava pelando. — Oh, no, signorina — disse. — Lady Warren non sbaglia mai il bersaglio. Da giovane ava il suo tempo in campagna, con un paio di stivali da uomo ai piedi, a sparare ai conigli e agli uccelli. Dicono che andasse addirittura a dormire con il fucile vicino. — Allora sono tanti anni che è qui? — chiese Helen. Sapeva che le domande erano un invito a nozze per la signora Oates. Stephen si preparava una sigaretta arrotolando la carta attorno al tabacco, il gatto faceva le fusa sul tappeto, il topo si puliva il muso, tranquillo nel suo buco. In quella casa ci si sentiva in pace. Una folata di vento colpì l'edificio, spalancando le imposte senza paletto della finestra del corridoio. Lentamente, come fosse spinta da dita invisibili, la finestra si spalancò sul giardino. La casa era aperta sulla notte. E la notte sbirciò dentro, dentro quel corridoio buio: un alveare di celle in cui un uomo avrebbe trovato splendidi nascondigli. In cucina la signora Oates cominciò con un argomento elettrizzante. — Dicono — fece drammatica — che Lady Warren abbia sparato a suo marito. — No! — esclamarono contemporaneamente Helen e Stephen con voce strozzata. E invece sì — riprese la signora Oates. — Oramai è una storia da vecchie comari, ma a me l'ha detto mia madre. Il vecchio Sir Roger era un po' come il professore: tranquillo e quieto, sempre rintanato in mezzo ai suoi libri. Aveva fatto un sacco di soldi con non so quale invenzione ma, in casa, non era utile a niente e a nessuno. Aveva fatto costruire Summit per non avere vicini. Lady Warren non ha mai potuto soffrire Summit, ne diceva di tutti i colori finché, una volta, hanno litigato come due bestie nello studio di lui. Qualcuno l'ha sentita dire che l'avrebbe ucciso perché non ne poteva più. Pochi minuti dopo l'hanno trovato morto, ammazzato da un colpo del fucile da caccia di lei.

— Che brutta storia — mormorò Stephen. — Sì — convenne la signora Oates. — Durante l'inchiesta sono venute fuori molte cose spiacevoli. Lei ha detto che era stato un incidente e il suo avvocato, che non mancava di acume, l'ha tolta dai guai… Ma il caso ha sollevato un tale scalpore che lei se ne è andata all'estero, cosa che avrebbe fatto in ogni cosa, tanto odiava questo posto. — E la casa, l'hanno chiusa? — chiese Helen. — No, il professore ha lasciato Oxford ed è venuto qui: è proprio come suo padre, sempre chiuso qua dentro, mai che metta un piede fuori. La vecchia Lady Warren è tornata solo quando ha detto di essere ammalata. — Cos'ha di preciso? — chiese Helen. La signora Oates increspò le labbra e scosse il capo. — Ha un pessimo carattere — disse decisa la signora. — Ma deve per forza essere malata se ha un'infermiera e se il medico la costringe nel Ietto. — È solo perché crede che, in un letto, dia meno fastidio. E lei ci sta solo perché sa invece di crearne di più. Si diverte a mandare via un'infermiera dopo l'altra, così ne ha sempre una nuova su cui infierire. — Ma la signorina Warren mi ha detto che il professore è in pena per il suo cuore — insisté Helen. — Ah, ma un uomo non dimentica la madre che l'ha messo al mondo — dichiarò la signora Oates. — Ma è solo la matrigna! — obiettò Stephen. — Lei di figli non ne ha avuti. Non aspettano altro che tiri le cuoia, questi avvoltoi. Simone mi ha detto che la vecchia ha fatto testamento, e che lascia tutto a opere di bene. Ha pessimi gusti, quella, perché pare che Newton le piaccia. Comunque gli lascia un vitalizio che cesserà con la sua morte. Ecco perché lui è qui. — L'ha mandato a chiamare suo padre — spiegò la signora Oates.

Helen pensò agli occhi freddissimi del professore e ai modi distanti della signorina Warren. Impossibile che i soldi avessero interesse per loro. — Ehi — fece a un tratto Stephen, mentre si dondolava sul tavolo. — E questo cos'è? Prese da sotto lo stomaco un pezzo di legno, che Helen afferrò con un'aria colpevole. — Scusatemi — disse. — È il paletto della finestra del corridoio. Grazie al cielo mi avete ricordato che devo sistemarla. Dopo quello che aveva saputo, non vedeva l'ora di salire sopra nella stanza azzurra. Ripiegò su una sistemazione momentanea usando un pezzo di corda e un cavetto, e tornò svelta in cucina. Sorpresa, vide Stephen che aiutava la signora Oates a pelare le cipolle. — Mi mette sempre al lavoro — si lamentò lui. — È il suo modo di giustificare la presenza di un uomo in cucina quando ritorna Oates… Piuttosto, non vi pare che ci metta troppo? Scommetto cinque sterline che se n'è andato con la nuova infermiera. La signora Oates rispose sbuffando: — Se è come l'ultima, dovrà tenerle alzato il naso per baciarla… Siete proprio decisa a vegliare Lady Warren, signorina? — Chiederò se me lo permettono. — Allora ascoltate il mio consiglio: state attenta. Sono convinta che non sia così messa male come pensano, e credo anche che sia in grado di camminare quanto me. Quella ha certamente un piano occulto in mente. L'ho capito dalla cattiveria che aveva negli occhi questa mattina quando sono salita a pulire la stanza. Non prendete alla leggera le mie parole, signorina. E poi, avete mai sentito che voce ha, quando «si dimentica»? Helen ricordò immediatamente quel grido cupo uscito dalla stanza dell'inferma. Là sopra si svolgeva un dramma misterioso. Desiderosa di entrare fra i protagonisti, quasi si precipitò alla porta. — Ho legato il paletto della finestra — disse. — Ora siamo al sicuro per tutta la

notte.

5. La camera azzurra

Mentre saliva per le scale, diretta alla camera azzurra, Helen sentì uno strano fremito d'agitazione. Tornò col pensiero ai giorni dell'infanzia, giorni in cui metteva da parte i giocattoli per dedicarsi esclusivamente a un invisibile amico: il signor Poke. Anche se ava ore da sola in un angolo del soggiorno, i suoi genitori sapevano che non era impegnata in giochi solitari ma stava sempre in compagnia di qualcuno e, all'imbrunire, quando le fiamme del camino proiettavano alte ombre guizzanti sulle pareti, faceva interminabili conversazioni con il suo eroe. All'inizio sua mamma non aveva gradito l'intrusione del misterioso individuo nella loro esistenza, ma poi, quando si era resa conto che Helen si limitava a sfruttare il migliore e meno costoso atempo dei bambini, la fantasia, aveva accettato l'immaginario signor Poke e aveva cominciato a chiedere lumi sul suo coraggio che non aveva limiti. A metà circa della tromba delle scale ava una trave e da essa pendeva dondolando un unico lampadario tondo. Il primo piano era piuttosto tetro, trovandosi a metà tra questa luce e quella dell'anticamera. In cima alla rampa di scalini troneggiava un gigantesco specchio, alto tre metri e mezzo, sorretto da una consolle in marmo, e incassato in una cornice di legno scolpito che andava sbiadendo lo splendore della sua doratura. Helen vide la sua immagine emergere nello specchio da quelle scure profondità, come un cadavere che ritornasse piano piano a galla dalle acque profonde di un lago. Il brivido che sentì nelle vene le sembrò un segno premonitore. Finalmente, dopo tanti anni, il signor Poke la stava aspettando di nuovo dietro l'angolo. Bussò alla porta della camera e la signorina Warren venne ad aprire. Aveva il viso stanchissimo e spento dopo tutte quelle ore di clausura accanto alla matrigna. — È arrivata la nuova infermiera? — domandò.

— No. — Helen era felice di trovarsi lì. — E probabilmente ci vorrà molto prima che arrivi. La signora Oates dice che, quando piove, l'automobile fa fatica a salire sulla collina. — È vero — ammise la signorina Warren tristemente. — Per cortesia, ditemi subito quando arriva: mi deve dare il cambio appena ha mangiato qualcosa. Era l'occasione che attendeva, e Helen la prese al volo. — Non potrei stare io accanto a Lady Warren? — chiese. La signorina Warren esitò a rispondere. Sapeva di andare contro le idee del fratello affidando Lady Warren a un'estranea non qualificata, ma la ragazza sembrava coscienziosa e degna di fiducia e lei… lei era sfinita e non vedeva l'ora di tornare alla solitudine illuminata di verde dei suoi volumi. Fissò Helen che, come d'abitudine, si sentì spedire sulla luna. — Grazie, signorina Capel. È molto gentile da parte vostra. Lady Warren sta riposando, quindi non dovete fare altro che stare seduta immobile a guardarla. Attraversò il pianerottolo dirigendosi verso la sua camera, e si girò per un ultimo avvertimento. — Se si sveglia e chiede qualcosa che non trovate… o se vi doveste trovare in difficoltà, chiamatemi subito. Helen le promise che l'avrebbe fatto senz'altro pur sapendo, non senza un certo senso di colpa, che si sarebbe rivolta alla signorina Warren solo se non avesse avuto scelta. Intendeva affrontare da sola qualsiasi complicazione, anzi, si augurava con tutto il cuore che ne sorgessero. Finalmente entrò nella camera azzurra, presa dalla curiosità. Era una bellissima stanza, grande, arredata con mobili di mogano. Era tutto buio perché ovunque, dalla tappezzeria alla moquette alle tende, regnava un color azzurro cupo. Alle pareti erano appese incisioni su acciaio di Landseer che raffiguravano cavalli e cani, cosa che non ci si sarebbe mai aspettati in una famiglia alla quale era inviso ogni animale. Il profumo di acqua di colonia non riusciva a coprire l'odore di chiuso: ne risultava un leggero olezzo di mele marce. Nel camino bruciava la brace. Lady Warren era nel grande letto. Aveva addosso una corta giacca da camera di seta trapuntata rosso porpora, e, dietro la schiena, molti cuscini le tenevano alzata la testa. Aveva gli occhi chiusi e il respiro pesante.

A Helen bastò un colpo d'occhio per capire che Stephen aveva ragione. Quella non era una donna di carattere eccezionale. Le rughe che le solcavano il viso, come tante linee tracciate su una cartina, erano i segni di un temperamento cattivo ed egoista. Non aveva neanche quella dignità d'aspetto tipica dei vecchi, con quei capelli grigi corti e arruffati e il naso curiosamente rosso. Pian piano, Helen andò a sedersi sulla sedia vicino al camino. Vide che ogni pezzo di carbone era avvolto in una carta velina bianca: il paniere sembrava pieno di palle di neve. Era un accorgimento per attutire anche il minimo rumore, e così Helen si uniformò all'ambiente: era lì immobile come un complemento d'arredamento. Lady Warren aveva il respiro così pesante e regolare che sembrava una locomotiva. Forse anche troppo. Helen cominciò a sospettare che fosse tutta una commedia studiata apposta per lei. Assunse un atteggiamento difensivo. «Non dorme» pensò. «Sta solo facendo finta.» Il respiro continuava monotono senza che succedesse nulla. I battiti del cuore di Helen erano invece sempre più veloci, segno premonitore dell'arrivo imminente del signor Poke. Qualcuno la stava controllando. Doveva girare la testa per guardare il letto. Ma, tutte le volte, trovava Lady Warren con le palpebre chiuse. Con l'entusiasmo di chi gioca a un nuovo gioco, Helen aspettò il momento di prenderla in castagna. E, in effetti, dopo parecchi tentativi a vuoto, diede prova di avere dei riflessi troppo pronti per Lady Warren. Vide che la spiava. Teneva gli occhi appena socchiusi: due mezzelune nere la scrutavano, incredibilmente piene di vita. La malata abbassò subito le palpebre, ma poi le riaprì comprendendo che era inutile continuare a far finta. — Vieni qui — disse con una voce debole e tremante. Helen, che ricordava le raccomandazioni della signora Oates, avanzò attenta nel suo grembiulino azzurro che sbiadiva sullo sfondo della parete, pallida ragazzina

insignificante con la sola sua chioma rossa a salvarla dallo squallore. — Vieni più vicino — ordinò Lady Warren. Helen ubbidì, guardando gli oggetti sul comodino. Si domandava su quale proiettile sarebbe caduta la scelta della malata e, presa dal panico, senza accorgersi allungò una mano e prese la bottiglia di medicinale più voluminosa. — Appoggiala — ringhiò debolmente sua signoria. — È mia. — Oh, mi scusi. — Helen faticava a parlare. — Anch'io sono fatta così: non riesco a sopportare che tocchino le mie cose. Resa più forte da quel lato del carattere che le avvicinava, rimase coraggiosa in piedi vicino al letto, sorridendo all'inferma. — Sei molto piccola — notò Lady Warren, rompendo alla fine il silenzio. — Senza un briciolo di classe. Un tipo banalissimo. Credevo che mio nipote avrebbe dimostrato maggiore buon gusto nel trovarsi una moglie. Helen comprese che Simone aveva sempre rifiutato di entrare nella stanza azzurra, nonostante Newton insistesse. — Ha dimostrato un gusto ottimo, invece — disse. — Sua moglie è bellissima. Non sono la signora Warren. — Allora… chi sei? — chiese Lady Warren. — Sono la ragazza alla pari, Helen Capel. Un lampo di violenta emozione ò sul viso della vecchia signora: le mezzelune che erano i suoi occhi restarono fisse su Helen e spalancò la bocca. «Sembra spaventata» pensò Helen. «Ma perché? Devo… devo essere io a impaurirla.» Ma ciò che disse Lady Warren le tolse subito l'illusione. La voce diventò più bassa e decisa. — Vattene — urlò. Come stordita, Helen scappò quasi dal letto, aspettandosi da un momento all'altro una bottigliata in testa. Proprio mentre stava per aprire la porta, venne

bloccata da un altro ordine. — Stupidella, dico a te, torna indietro! Fremente e agitata Helen tornò accanto al letto. La vecchia cominciò a parlare con una voce così flebile e lamentosa che quasi non si sentiva. — Vai via da questa casa. Troppi alberi. — Alberi? — ripeté Helen, ripensando all'albero in fondo alla tenuta. — Alberi — insistette Lady Warren. — Io li conosco. Allungano i rami e bussano alla finestra. Provano a entrare… Quando è scuro si muovono. Li ho visti. Avanzano furtivi verso la casa… Vattene. Helen si sentì di nuovo legata a quella donna da una certa affinità. Strano che anche lei avesse notato il sinistro procedere dei cespugli avvolti nella nebbia del tramonto. Si trattava di sicuro solo di uno scherzo della fantasia, ma era anche la prova che «il signor Poke» si era rivelato a tutte e due. Decise comunque di usare gli alberi per stabilire un rapporto con Lady Warren. Quella era un'altra sua debolezza: le piaceva fare da sola, ma le piaceva ancora di più condizionare alla sua volontà quella altrui. — Che strano — disse — ho avuto anch'io la stessa impressione. Disgraziatamente Lady Warren prese le sue parole come un atto impertinente. — Non mi interessano le tue impressioni — gemette. — Non pensare che solo perché sono conciata così… Come hai detto che ti chiami? — Helen Capel — fu la risposta avvilita. — Quanti anni hai? — Ventitré. — Sei bugiarda. Diciannove. Helen rimase colpita da tanto acume: tutti i suoi datori di lavoro avevano sempre preso per buona l'età che dichiarava. — Non è proprio una bugia — spiegò. — Mi sento nel giusto a farmi credere più

vecchia perché potrei davvero esserlo in quanto a esperienza. Ho cominciato a guadagnarmi da vivere a quattordici anni. Lady Warren non mostrò alcun segno di commozione. — Perché? — chiese. — Sei figlia illegittima? — No, assolutamente — rispose Helen indignata. — I miei genitori erano sposati… in chiesa. Ma non sono stati in grado di mantenermi. Sono stati sfortunati. — Sono morti? — Sì. — Allora sono stati fortunati. Nonostante dovesse salvaguardare il suo posto di lavoro, non le mancava mai la forza di reagire quando sentiva in bilico un principio fondamentale del suo credo. — No — protestò. — La vita è meravigliosa. Io mi sveglio sempre felice di essere al mondo. Lady Warren borbottò tra sé, poi continuò nel suo interrogatorio. — Fumi? — chiese. — No. — Alcol? — No. — Uomini? — Nemmeno un'occasione… purtroppo. Lady Warren non rise assieme a lei. Fissava Helen con gli occhi così immobili che sembravano di ghiaccio. Tesseva una trama tra le ragnatele della sua mente. L'orologio scandiva il tempo con il suo ticchettare; nel camino le braci si

aprirono con un improvviso sommovimento. — Devo mettere altro carbone? — chiese Helen, ansiosa di rompere quell'incantesimo. — No. Dammi i miei denti. La richiesta risultò così insolita che Helen fece letteralmente uno scatto all'indietro. Ma le bastò un momento per capire che la signora voleva la dentiera che era in una tazza smaltata appoggiata sul comodino. Helen evitò educatamente di osservare la nobile malata che prendeva la dentiera dal disinfettante e se la metteva sulle gengive. — Helen — tubò con una voce diversa, con un tono da colomba — desidero che tu resti qui con me questa notte. Helen la guardò inorridita: era diventata orribile, grottesca con la dentiera in bocca. Sembrava una statua di cera con le labbra appena aperte in un ghigno forzato. — Senza denti ti facevo paura, vero? Ma ora li ho messi, tranquillizzati. Sei una bambina. Mi prenderò io cura di te, stanotte. Helen si inumidì nervosa le labbra, timorosa di dire qualcosa di sbagliato. — Ma… ma… — balbettò — Lady Warren… — Chiamami Milady. — Ma, Milady — ripeté Helen — dormirà la nuova infermiera con voi… Un lampo cattivo balenò negli occhi a fessura. — Mi ero dimenticata. Altra puttana. Bene, sono pronta a riceverla… Ma sarai tu a are la notte con me. Vedi, mia cara, non sei al sicuro. Sorrise, e a Helen ricordò la bocca di un coccodrillo. «Non posso are una notte sola con lei» pensò, anche se non aveva reali motivi per giustificare la sua paura. Era assurdo temere una vecchia cardiopatica.

— Non posso decidere senza chiedere il permesso alla signorina Warren — disse. — La mia figliastra è una cretina. Non sa quello che accade in questa casa. Alberi che tentano di entrare… Helen, vieni qui. Helen fece un o avanti e si sentì la mano come stretta in una morsa. — Voglio che mi prendi una cosa — sussurrò Lady Warren. — È nell'armadietto sopra il guardaroba. Prendi una sedia. Helen l'accontentò volentieri e alla fine si trovò alle prese con qualcosa di singolare. «Speriamo solo che non sia pericoloso» pensò malinconica mentre saliva su una delle pesanti sedie e si alzava in punta di piedi per aprire l'antina dell'armadietto. Ebbe qualche dubbio mentre annaspava nel buio di quel nascondiglio: era chiaro che Lady Warren la stava utilizzando per recuperare qualcosa di proibito. Ripensando al suo naso rubizzo,dubitò che si trattasse di una bottiglia. — Che cos'è? — chiese. — È un oggetto piccolo e duro, è avvolto in una sciarpa di seta — fu la risposta disarmante. Le dita di Helen presero qualcosa che rispondeva a quella descrizione. — Questo? — chiese mentre tornava sul pavimento. — Sì. — Il tono di Lady Warren tradiva impazienza. — Portamelo. Nel percorrere il breve tratto che la separava dal letto, Helen sentì il cuore saltare un battito, spaventata a morte da ciò che teneva in mano. Anche attraverso la seta, quella forma era inconfondibile. Una pistola. Ripensò ai conigli uccisi da Lady Warren… e anche al marito morto per un colpo di fucile, in un incidente. «Chissà se è carica» pensò impaurita. «Non so nemmeno che ne vuol fare… Non gliela devo dare. La signora Oates me lo aveva detto.»

— Portamela — ordinò Lady Warren. Non poteva nascondere l'agitazione: le dita le tremavano mentre allungava la mano e così fece finta di non aver sentito. Appoggiò la pistola la sul comodino con la massima attenzione, a distanza di sicurezza dalla malata, e poi andò più vicino al letto. — Andiamo, non agitatevi — disse con voce suadente. — Per il vostro cuore non va bene. Per fortuna le sue parole distrassero Lady Warren. — Che cosa dice il medico? — chiese. — Dice che avete una forza eccezionale. — Allora è un cretino. Sono morta da un bel po'… Ma non ho intenzione di andarmene finché non sarò pronta. Abbassò le palpebre e gli occhi diventarono ancora una stretta fessura nera. L'eclissi era quasi totale: il viso rugoso sembrava un panno sgualcito e le parole le uscivano deboli come se non avesse più energia. — Ho ancora qualcosa da fare. Continuo a rimandare. È debolezza, la mia. Ma è una cosa che non piace fare a nessuno piace fare, no? Helen pensò subito che parlasse del suo testamento. — Infatti — disse. — Tutti rimandano. E poi, siccome non riusciva a non interessarsi degli affari altrui, volle dare un consiglio. — Ma dobbiamo farlo tutti prima o dopo. Bisogna. Lady Warren non l'ascoltava neppure. L'eclissi era al termine. I suoi occhi, ora svegli e spalancati, si posarono sul piccolo oggetto che Helen aveva posato sul comodino. — Portamelo — disse. — No — rispose Helen. — Meglio di no. — Stupida. Di cosa hai paura? È l'astuccio per gli occhiali. — Sì, lo so. Mi spiace tanto, Milady… io qui sono come un robot. Devo dire sì

agli ordini della signorina Warren. E lei mi ha detto di starmene seduta a guardarvi, niente altro. Lady Warren non era un tipo da lasciarsi contrariare. Gli occhi fiammeggiarono e le dita si strinsero alla gola, come fossero artigli. — Corri — disse con una voce strozzata. — Fai venire… la signorina… Warren. Helen corse fuori dalla stanza, quasi riconoscente per quell'attacco che ritardava il problema della pistola. Arrivata alla porta si girò e vide che Lady Warren si era accasciata sui cuscini. Un attimo dopo la malata rialzò la testa, gli occhi si spalancarono mostrando finalmente due lune piene. Sotto le lenzuola qualcosa si muoveva e i piedi con le babbucce calzate uscirono dal piumino: Lady Warren stava scendendo dal letto.

6. Illusione

Con il cuore che le batteva all'impazzata per la paura e la felicità Helen si precipitò dalla signorina Warren. Per la prima volta non sapeva che cosa le riservasse il futuro prossimo. A differenza delle case in cui aveva lavorato prima, Summit si prestava ai mutamenti di scenario. A distoglierla dai suoi pensieri fu un elemento pratico: di nuovo, provando ad aprire la porta della signorina Warren, il pomello girò a vuoto. «Devo proprio metterlo a posto appena ho un attimo» si ripromise Helen. La signorina Warren era seduta alla scrivania, sotto la luce verde. Si ava le dita nei capelli e sulle tempie, e teneva gli occhi sul suo libro. — Sì? — chiese con una voce stanca appena vide entrare Helen. — Scusate se vi disturbo — cominciò Helen — ma Lady War… Senza lasciarle il tempo di finire la frase la signorina Warren saltò in piedi e uscì dalla stanza con il o sgraziato di una giraffa. Helen, soddisfattissima, la seguì nella camera azzurra. Lady Warren era come l'aveva lasciata, incosciente, gli occhi chiusi e il respiro difficoltoso. La pistola, ancora avvolta nella sciarpa, era ancora sul comodino. Ma era cambiato qualcosa. Helen, da ottima osservatrice qual era, se ne accorse subito e le bastò un'altro sguardo per individuare di che cosa si trattasse. Quando era uscita per andare a chiamare la signorina Warren, aveva lasciato Lady Warren tra le lenzuola stropicciate dal continuo movimento delle sue mani inquiete: ora invece erano perfettamente a posto sopra il copriletto, come se le avesse sistemate un'infermiera modello. — Signorina Capel — disse la signorina Warren, china sul corpo accasciato della sua matrigna — portatemi la bombola dell'ossigeno. Helen trascinò la bombola fino al letto, sempre pronta a confrontarsi con oggetti che non conosceva. Svitò la valvola con molta cura, anche se nessuno lo aveva

chiesto, e riuscì a far uscire un refolo d'aria, leggero come un venticello di montagna. Poi ò l'ossigeno alla signorina Warren. Grazie alle cure delle due donne, Lady Warren cominciò a immediatamente a riprendersi. Per Helen, che già se lo aspettava, fu una recita da professionista incallita, a base di sospiri ben calcolati, gemiti e sbattere di palpebre. Non appena aprì gli occhi, fissò Helen. — Mandala via — le disse con un filo di voce. La signorina Warren incrociò lo sguardo di Helen e, con un cenno del capo, le indicò la porta. — Andate, signorina Capel, vi prego. Dimenticando il suo atteggiamento da gran signora, Lady Warren si rivolse alla figliastra con i modi di una pescivendola. — Idiota. Mandala a fare la valigia. Se ne vada da questa casa. Stasera stessa. Poi tornò a chiudere gli occhi mormorando: — Il dottore. Voglio il medico. — Sarà qui tra poco — la rassicurò la signorina Warren. — Perché arriva sempre tanto tardi? — chiese in un lamento la malata. — Perché vuole vedere come stai, come cosa alla fine — fu la sgrammaticata spiegazione della signorina Warren. — È perché è uno sfaticato — borbottò Lady Warren. — Devo cambiare medico… Blanche. Quella ragazza non era la moglie di Newton. Perché non viene a trovarmi lei? — Sei troppo debole per ricevere delle visite. — Non è per questo. Lo so benissimo. Ha paura di me, questo è il motivo. L'idea sembrò piacere a Lady Warren, al punto che il viso le si contrasse in un sorriso. Helen che, alla giusta distanza la stava guardando, pensò che aveva

un'espressione senza dubbio cattiva. In quel momento era scontato, per lei, che avesse ucciso suo marito. Buttò l'occhio sul letto a una piazza destinato all'infermiera. «Non vorrei essere al posto suo per tutto l'oro del mondo» pensò rabbrividendo. All'improvviso la signorina Warren si accorse che lei era ancora nella stanza e le si avvicinò velocemente. — Signorina Capel posso fare da sola. Il suo tono era così gelido che Helen provò a giustificarsi. — Non penserete certo che io abbia fatto qualcosa per agitarla. È cambiata all'improvviso. Le ero simpatica, ve lo garantisco. E ha continuato a dirmi di dormire con lei questa notte. Era chiaro che la signorina Warren non le credeva, anche se continuava a parlarle molto educatamente. — Sono sicura che siete stata gentile e cortese. L'occhiata alla porta fu un segno di definitivo distacco e Helen si girò per andarsene, con il cervello che le martellava di pensieri confusi che non riusciva a trasferire in parole. Benché l'esperienza le dicesse che intromettersi portava inevitabilmente all'ostilità, si sentì in dovere di informare la signorina Warren di ciò che era accaduto. — Penso dobbiate sapere… — disse piano. — Lady Warren mi ha chiesto di prenderle un oggetto dall'armadietto sopra il guardaroba. — Perché tanta sorpresa? — Perché era una pistola. Helen ottenne l'effetto che voleva. La signorina Warren la fissò stupefatta. — E dove si trova adesso? — È sul comodino. La signorina Warren piombò sul minuscolo fagotto con l'avidità di un rapace. Le lunghe dita bianche slegarono un lembo della sciarpa. Ne tolse il contenuto, in

modo che Helen lo potesse vedere. Era un grosso astuccio per occhiali. Helen, guardandolo, fu presa dal panico. — Non ha la stessa forma — disse. — L'ho sentito bene, aveva le punte dure. — Ma è incredibile! — commentò perdendo la pazienza la signorina Warren. — Dove volete arrivare? — Mentre ero in camera vostra, Lady Warren ha nascosto la pistola e l'ha sostituita. — Signorina, sapete bene che mia madre soffre di una grave malattia di cuore e che, da mesi, non si può muovere? Uno sforzo così per lei vorrebbe dire il suicidio. La speranza di convincere la signorina Warren era definitivamente tramontata. Sembrava che i suoi lineamenti eterei si fossero improvvisamente irrigidititi rivelando la latente somiglianza con il professore suo fratello. — Se ho sbagliato, vi chiedo scusa. — disse Helen con una voce incerta. — Volevo solo informarvi. — Apprezzo la vostra buona fede — le disse la signorina Warren. — Ma quando si vuol far troppo si finisce per lavorare troppo con la fantasia. — E poi, con un sorriso arcigno, continuò: — Immagino che andiate al cinema, come tutte le ragazze… Date il caso, più che un rimprovero sembrò una battuta di ironica commiserazione. Pareva che a dividerla da Helen non ci fosse solo lo spazio, ma anche il tempo. «È ancora nella preistoria» pensò Helen, e uscì dalla camera azzurra facendosi ancora più minuscola di quello che era. Oltre all'umiliazione per non essere stata creduta, non la convinceva la superficialità con cui la signorina Warren aveva sottovalutato la storia della pistola. «Il cliente ha sempre ragione» si disse Helen mentre scendeva le scale. «Devo

imparare a stare zitta. Ma c'è una cosa che mi tira su di morale: ora che Lady Warren ce l'ha con me, non vorrà più che io dorma con lei.» Per fortuna, nonostante la demoralizzazione, il suo senso del dovere era rimasto intoccato. Penso di apparecchiare la tavola al suo posto visto che Oates ritardava. Attraversò di corsa l'anticamera, contenta di rendersi una volta ancora utile in qualcosa, lei che non sentiva mai la fatica. Al rumore dei suoi i la porta del salotto si aprì e Simone guardò fuori, le labbra rosse socchiuse e gli occhi colmi di desiderio. Subito la testa del marito si pose sopra la sua spalla, come fosse un serpente. Simone non si diede per vinta, nonostante la delusione. — Che fedeltà! — mormorò richiudendo la porta. Helen entrò nella sala da pranzo. Per la prima volta sentiva simpatia per Simone. «Mi salterebbero i nervi se qualcuno mi stesse addosso così» pensò. La gelosia di Newton era al massimo: una volta partito Stephen probabilmente sarebbe ritornato normale. Intanto, però, aveva deciso di non lasciare a sua moglie la possibilità di un ultimo incontro con il ragazzo. Il comportamento di Newton era per Helen ossessionante e non trovava giustificazione vista l'assoluta indifferenza con cui Stephen rispondeva alle avances di Simone: non scappava, lui si limitava a togliersi di torno quella donna. Perfino in quel momento era in cucina ad aiutare la signora Oates: gli avevano offerto amore, e lui aveva preferito le cipolle. La sala da pranzo era il locale più bello di Summit, con il suo soffitto in legno intarsiato e il grande camino sormontato da un ripiano che ne ripeteva i motivi. Le pesanti tende delle finestre erano cremisi, e la tappezzeria di un rosso cupo. Helen prese una lunga tovaglia di damasco da un cassetto dell'enorme credenza in noce, lì dove si tenevano i bicchieri e l'argenteria. La signorina Warren, conservatrice nella gestione del focolare domestico, considerava le tovagliette singole un segno della trasandatezza dei tempi moderni. Helen, pratica com'era, avrebbe potuto apparecchiare una tavola bendata. Con gesti meccanici prendeva forchette e coltelli mentre la sua mente pensava. Anche se non poteva discuterne oltre, era sicura che durante la sua assenza nella camera

azzurra qualcosa fosse cambiato. «La signora Oates ha davvero ragione» pensò. «Lady Warren non è inchiodata a quel letto. Si è alzata, e poi ha provato a coprire le tracce sistemandosi le lenzuola. Be', ha esagerato… Mi piacerebbe sentire cosa ne pensa il dottor Parry.» Il dottor Parry era intelligente, giovane e alla mano. Appena l'aveva conosciuta si era interessato della sua salute e lei aveva preso questo come una gentilezza professionale. Lui le aveva fatto domande di carattere personale, e a lei era sembrato preoccupato per come aveva vissuto la sua adolescenza. Quello che aveva più interessato Helen erano stati i suoi commenti sull'ammalata. — Ha il cuore in condizioni pessime — le aveva detto. — Ma il cuore è imprevedibile, è capace di tutto. Potrebbe scalare lo Snowdon e stare benissimo e poi morire sul colpo per uno starnuto… Ma c'è qualcosa che non mi convince. Non vuole farsi fare una visita scrupolosa. A volte mi domando se stia davvero così male. Per me quella donna è una vecchia scatola cinese. Helen pensava alle sue parole mentre correva dal tavolo alla credenza. Ma ogni volta che le tornava in mente l'ironia della signorina Warren si sentiva le orecchie infiammarsi. Anche se era troppo ben educata per mostrare nitidamente il suo disprezzo, una cosa era sicura: quella donna considerava ben poco il livello intellettivo delle persone di servizio. «Be', io gliel'ho detto» pensò. «Faccia come vuole. Vorrei solo sapere dov'è la pistola. Comunque non mi chiuderanno di nuovo in quella stanza, mai più, costi quel che costi.» Era con le orecchie tese nella speranza di sentire l'arrivo dell'auto guidata da Oates, ma il temporale imperversava con tale forza contro le finestre da celare ogni rumore. E così comprese che era arrivata la nuova infermiera solo quando sentì la signora Oates salutare il marito. Attraversò di corsa la stanza e aprì la porta, troppo tardi per incontrarla. Era già dietro gli Oates verso la scala della cucina. Comunque, vista di spalle, era altissima.

Helen si sentì molto sollevata. «Questa non è certo una debole» decise. «Sarà un osso duro per i denti del mostro.» Si ricordò della maniglia della signorina Warren. Sapeva dove Oates lasciava la cassetta dei ferri: proprio nel punto in cui li aveva messi l'ultima volta, e quindi non le fu difficile trovarla incastrata in un angolo dell'armadio, nell'atrio, nel quale si tenevano gli stivali. Non essendo lavoro di sua competenza, salì circospetta le scale e si inginocchiò davanti alla porta. Aveva appena dato uno sguardo alle viti quando un rumore improvviso le fece sollevare la testa. E ciò che vide non poteva essere vero. Vide la porta che dava sul pianerottolo, quella che portava alla scala di servizio, aprirsi e subito chiudersi, facendo intravedere il volto di uno sconosciuto. Poi tutto evaporò come svanisce il ricordo di un sogno, lasciandola in preda al terrore perché convinta di aver visto il male in persona. Era ancora immobile e sbalordita, quando si accorse che una porta si era aperta davvero e che il professore le veniva incontro. Lo fissò sbattendo le palpebre, disorientata. «Deve essersi stato il professore» pensò. «Deve. Credo proprio che gli somigliasse. Deve essere stato un gioco di luce a modificargli i lineamenti. È così buio qui!» Ma la sua mente rifiutava quella stupida quanto plausibile spiegazione. Nei suoi pensieri rimaneva l'immagine della scala a chiocciola. Le due scale di Summit davano molte opportunità per chi avesse voluto cercare un nascondiglio. Ricordò a se stessa che nessuno poteva entrare durante il giorno e che in casa c'erano tante persone e quindi uno sconosciuto non sarebbe ato inosservato. A meno che non conoscesse le abitudini e gli orari di ognuno degli ospiti della casa. Di colpo si ricordò dei commenti della signora Oates a proposito dell'abilità

quasi soprannaturale del maniaco. Lui poteva conoscerli. Mentre si domandava, incerta, se fosse il caso di raccontare al professore ciò che le era successo, un brivido le corse lungo la schiena. Sarebbe stato corretto farlo, ma mentre stava per aprir bocca ricordò il recente diverbio con la signorina Warren e ebbe timore di apparire invadente. Gli occhi del professore, come d'abitudine, la fecero a pezzi, ma lo smoking che portava ebbe su di lei l'effetto di un tonico. Lo sparato della camicia splendeva bianchissimo, la cravatta nera e i capelli grigi ben pettinati lasciavano vedere la fronte alta. Se sua sorella aveva lineamenti indefinibili, quelli del professore erano anche troppo marcati, e se lei sembrava rimasta al tempo della preistoria lui sembrava provenire da un mondo alieno: per Helen, entrambi non erano esseri umani. Alla fine capì che il professore avrebbe potuto sospettarla di guardare dal buco della serratura, e non trovò niente di meglio che lanciarsi freneticamente in una disquisizione sul cattivo funzionamento della maniglia. — Dite a Oates di provvedere, per favore — concluse lui con un cenno del capo. Agitatissima, Helen decise di mettere a prova i suoi nervi scendendo dalla scala a chiocciola. Aprì la porta che dava sul pianerottolo e guardò verso il basso: le sembrò una trappola che scendeva a spirale sempre più in basso, nella profondità del buio. Ma il coraggio non le mancò fino all'ultima rampa: quasi saltò oltre a piè pari, rivedendo davanti agli occhi quel volto alterata e cattivo.

7. La nuova infermiera

Quando entrò in cucina, Helen venne accolta dagli schizzi del grasso sfrigolante. Il tavolo era coperto di cibi più o meno pronti per la cena, le verdure bollivano sul fornello e la signora Oates friggeva il pesce, si destreggiava con le pentole e asciugava gli abiti bagnati del marito. Nonostante la confusione, sembrava tranquilla, se la cavava bene fra tutte quelle incombenze. Nel suo cardigan grigio, Oates stava gustandosi l'abbondante pasto preparato dalla moglie. Era un gigante bonaccione, con le spalle da pugile professionista e un viso incorniciato di riccioli che ricordava una bellezza edoardiana. Guardando i suoi occhietti onesti, vivaci sotto la massa di capelli umidi, Helen provò una grande felicità all'idea che fosse ritornato. Proprio come sua moglie sembrava dotato di una volontà e una forza incrollabili. — Sono davvero contenta di rivedervi — gli disse. — Contate come tre uomini, in questa casa. Oates sorrise timidamente, cercando qualcosa che ricambiasse quel complimento. — Grazie per aver apparecchiato la tavola al mio posto, signorina Helen — disse dopo una faticosa riflessione. — Diluvia ancora? — continuò Helen. — Non come prima — si intromise la signora Oates un po' amara. — Oates si è portato in casa quasi tutta la pioggia. Oates cosparse il suo pesce di salsa Worcester e cambiò discorso. — Vedrete che cosa mi sono portato dietro — disse ridacchiando. — Vi riferite… alla nuova infermiera? — chiese Helen. — Sì, quel bocconcino che ho ritirato al Pensionato. A vederla sembra un uomo.

— È simpatica? — Insopportabile, come pochi. Parla come se avesse la bocca piena e mi ha tenuto a distanza… Be', se lei è una signora… io sono Greta Garbo. — Dov'è? — domandò curiosa Helen. — Le ho portato la cena nel salottino — rispose la signora Oates. — Nel mio salottino? La signora Oates scambiò con suo marito un sorrisetto compiaciuto, perché quel senso di possesso di Helen era sempre stato un motivo di divertimento. — Solo questa sera — provò a rabbonirla. — Dopo quel viaggio sotto l'acquazzone, ho pensato che non fosse il caso di farle attendere l'ora di cena. — Vado a conoscerla — decise Helen, ben sapendo che «analizzarla» sarebbe stata la parola più corretta. Il suo salottino, un locale nel seminterrato davanti alla cucina, era nato come soggiorno per la servitù, ai tempi in cui la servitù non mancava. Le pareti e il soffitto erano color panna per renderlo più luminoso, ed era ammobiliato alla meglio con i resti dei mobili di casa. Helen era molto gelosa, era stato assegnato a lei. La ragazza sedeva a tavola con i suoi datori di lavoro, un favore concessole visto che suo padre non le aveva potuto consentire di vivere di rendita ma, dato che doveva lavorare per vivere, era l'altra faccia della medaglia, non le era concesso di sedere nel salotto dei padroni. Appena entrò nel suo rifugio, l'infermiera sollevò gli occhi dal piatto che aveva davanti. Era un donnone alto dalle spalle larghe e indossava ancora la divisa blu scuro da uscita. Aveva un viso grande e arrossato e sopracciglia folte e molto ravvicinate. — L'infermiera Barker? — chiese Helen. — Piacere — disse l'infermiera con una voce gentilmente affettata, mentre appoggiava la sigaretta. — Siete una delle signorine Warren? — No, sono la ragazza alla pari, Helen Capel. Avete bisogno di qualcosa?

— No, grazie. L'infermiera Barker riprese a fumare. — Ma vorrei chiedervi una cosa. Perché mi hanno spedito in cucina? — Non è la cucina, è il mio salottino privato. — Pranzate anche voi qui? — No, con i signori Warren. Il lampo che ò negli occhi infossati dell'infermiera mostrò a Helen una evidente gelosia. Nonostante il piacere di sentirsi per una volta oggetto d'invidia, l'istinto le suggerì di mettere subito a suo agio l'infermiera. — L'infermiera ha il suo salottino privato, al primo piano — disse. — Lì vi serviranno i pasti. Questa sera abbiamo pensato che avreste preferito non aspettare l'ora di cena, stanca e infreddolita come di sicuro siete. — Molto di più — dichiarò l'infermiera Barker con un'enfasi tragica. — Sono distrutta. È un posto fuori dal mondo, non mi sarei mai aspettata che fosse così fuori mano. — Che cosa pensavate? Lo sapevate che era in campagna. — Mi immaginavo la solita casa padronale. Mi hanno detto che la mia paziente sarebbe stata Lady Warren, e ho pensato che fosse un'ottima garanzia. Helen pensò di anticiparle quel che l'attendeva. — La troverete piuttosto prepotente. All'infermiera che è stata qui prima di voi faceva paura. L'infermiera Barker aspirò una boccata di fumo con un fare molto professionale. — A me paura non ne farà di sicuro — disse. — Capirà ben presto che con me c'è poco da scherzare. So come tenere a bada i pazienti, ho un mio modo. Con gentilezza, è naturale. Pugno di ferro in un guanto di velluto. — Il pugno di ferro non fa di sicuro pensare ai modi gentili — notò Helen, a cui

non era piaciuto quel lampo improvviso negli occhi dell'infermiera. Arrivò la signora Oates, con grande sollievo di Helen. Si era liberata del grembiule sporco e desiderava ardentemente di soddisfare il suo bisogno di socialità. — La cena rispetterà l'ora di mettere in tavola — annunciò. — Sono qui per sapere se desiderate del budino. È un budino con uva a. Oppure, se preferite, c'è della torta di uva spina. — L'uva spina è sotto spirito? — chiese l'infermiera. — No, no, è fresca. L'abbiamo raccolta in dicembre, qui intorno. — Allora niente, grazie — disse l'infermiera Barker. — Bene… volete forse una buona tazza di tè? — No, grazie. — E poi, con un fare più raffinato, fece una domanda. — Non c'è qualcosa di… stimolante? Gli occhi della signora Oates scintillarono, mentre riava la lingua sulle labbra. — Ce n'è in grande quantità in cantina — disse. — Ma la chiave è nelle mani del padrone. Se volete gliene parlo… — No, grazie, preferisco chiedere personalmente alla signorina Warren quello che desidero… È stranissimo che non sia scesa per conoscermi. Dove si trova? — È in camera di sua signoria. Non avrei tanta fretta di salire se fossi in voi, perché una volta lì dentro non si esce più. L'infermiera Barker rifletté sul consiglio della signora Oates. — Avevo capito che me la sarei dovuta cavare da sola — disse. — Ma avevo appena finito il turno in ospedale quando sono partita per venire qui direttamente solo per far contenta la Caposala, quindi ho assolutamente bisogno di una notte di sonno.

Si rivolse a Helen. — Dormite molto? — chiese. — Dalle dieci alle sette. — Allora una nottata persa non può farvi. Dovrete vegliare voi Lady Warren. Helen fu subito presa dal terrore. — Oh, no — gridò. — Non posso. — E perché? — Io… lo so che è una cosa assurda, ma ho paura… di lei. L'infermiera sembrò compiaciuta da quella confessione. — Cretinate — commentò sprezzante. — Paura di una vecchia inferma? Mai sentito niente di così stupido. Parlerò io con la signorina Warren. Helen, al pensiero del sorriso finto di Lady Warren, sentì una sorta di repulsione fisica: la vecchia signora adesso aveva un motivo vero per sorridere. Era la sola a sapere dove fosse la pistola. Se l'infermiera avesse insistito con la sua richiesta di dormire in pace quella notte non avrebbe potuto rifiutarsi di sostituirla senza rischiare di perdere il posto. Con lo sguardo che vagava inquieto, Helen pensò al giovane medico. Doveva chiedere il suo aiuto: lui non l'avrebbe delusa. — Be', sentiremo il parere del medico — disse. — È giovane? — chiese l'infermiera Barker. — Piuttosto — rispose Helen. — È sposato? — No.

La signora Oates strizzò l'occhio a Helen, vedendo l'infermiera Barker che apriva la borsa, estraeva uno specchio e si ava sulle labbra uno strato di rossetto cremoso che a Helen parve dello stesso colore del sangue fresco. — Sapete — spiegò l'infermiera — devo fare io le domande al medico. È la prassi professionale. Non siete autorizzata a parlare voi con lui della paziente. — Ma io non ne parlo — precisò Helen. — E allora di che parlate? — chiese l'infermiera, di nuovo invidiosa. — Di che cosa «non» parlano, intendete dire — si inserì improvvisamente la signora Oates. — La signorina Capel ha un molto successo con gli uomini. Helen sapeva molto bene che lo scopo della signora Oates era quello di stuzzicare l'infermiera, però provò una sensazione di emozionato trionfo sentendosi definire, per la prima volta nella sua vita, in quel modo. — La signora Oates scherza — disse all'infermiera, come spinta dal presentimento di non rendersela ostile. — Comunque il medico è davvero una brava persona, siamo amici, solamente questo. L'infermiera la fissò seria, poi prese il portasigarette e lo offrì a Helen e alla signora Oates. Helen preferì non accettare la sigaretta, e fece bene perché, alla prima boccata, la signora Oates incominciò a tossire. — Accidenti, come pizzicano — disse boccheggiando. — Amate il tabacco piuttosto forte, giusto? — Sì, ormai mi sono abituata — disse l'infermiera. — Sono costretta a fumare sigarette pesanti per distendermi. Con quello che vedo… Ma che casa strana questa. Mi aspettavo una pletora di servitù: come mai non c'è personale? Helen attese impaziente che la signora Oates tirasse un'altra boccata prima di iniziare il suo cicaleccio. — Certo, trovare delle cameriere che rimangano è sempre stato un problema. Il posto è troppo isolato, tanto per cominciare, e poi ha una cattiva reputazione.

— Cattiva reputazione? — incalzò l'infermiera mentre Helen rizzava le orecchie in attesa della risposta. — Sì. È una storia vecchia, oramai, ma ai tempi di Sir Robert hanno trovato una cameriera annegata nel pozzo. Il suo fidanzato l'aveva abbandonata, così hanno pensato tutti che ci si fosse buttata. E quello era il pozzo da cui prendevano l'acqua da bere, tra l'altro. — Disgustoso — mormorò l'infermiera. — Infatti. E poi c'è stato l'omicidio… Una sguattera, poveraccia, trovata morta in casa con la gola tagliata da un orecchio all'altro. Era una che trattava male i barboni, e li mandava via: uno l'aveva minacciata di ammazzarla. Non l'hanno mai preso, ma certo la cosa ha bollato la casa. Helen strinse nervosamente le mani. — Signora Oates — chiese — dove l'hanno trovata, precisamente? — Nel corridoio delle cantine — fu la risposta. — Forse sarebbe meglio che non ve lo dicessi, adesso, ma Oates e io lo chiamiamo «il sentiero della morte». Sentendo quelle parole, Helen capì che il farneticare apparente di Lady Warren sugli alberi che entravano in casa non era senza fondamento. Da giovane Lady Warren era vissuta segregata in quella solitudine, e quindi chissà quante volte, d'inverno, aveva guardato dalle finestre al tramonto la nebbia alzarsi in forme umane e gli alberi prendere vita. Uno degli alberi era davvero riuscito a entrare in casa. Niente da stupirsi quindi che ora, da vecchia, rivivesse nella sua mente offuscata quell'antico ricordo. — Quando è accaduto? — chiese. — Poco prima che Sir Roger morisse. Lady Warren voleva vendere la casa, dato che non trovavano personale e litigavano di continuo. Poi c'è stato l'incidente. — Anche il professore ha avuto problemi con la servitù? — chiese l'infermiera. — Finora, no — rispose la signora Oates. — Ha sempre cercato domestiche di mezza età o perfino anziane, perché voleva tranquillità in casa. Abbiamo tirato avanti bene finché i recenti delitti non hanno ricominciato a terrorizzare la gente.

L'infermiera Barker si ò la lingua sulle labbra con un gusto macabro. — Uno è stato commesso qui vicino a Summit, giusto? — chiese. — A pochi chilometri. Ridendo l'infermiera si accese un'altra sigaretta. — Bene, io non mi preoccupo di sicuro — disse. — Finché c'è qui lei sono a posto. — Parlate… della signorina Capel? — chiese la signora Oates. — Sì. Helen non gradì quel favore nei suoi confronti. Si rammaricava di essere salita alla ribalta con la presunta nomina di ammaliatrice. — Perché proprio io? — protestò. — Perché siete giovane e graziosa. Helen rise, improvvisamente tranquilla. — Se è per questo — disse — sono anch'io al sicuro. Nessun uomo mi degnerebbe di uno sguardo, fino a quando circola nei dintorni la nuora del professore. È giovane pure lei, è elegantissima e ha fascino da vendere. L'infermiera scosse il capo con un sorriso gravido di oscuri significati. — No — insistette. — Lei rischi non ne corre. — Perché? — domandò Helen. Alla domanda l'infermiera rispose con un'altra domanda. — Non riuscite ad arrivarci da sola? Quelle allusioni erano così velate e misteriose che Helen sentì crescere la pelle d'oca. Aveva deciso di non lasciarsi intimorire da quella donna, ma i nervi le cedevano pian piano.

— Vorrei che vi spiegaste una volta per tutte — gridò. — Va bene, allora lo farò — disse l'infermiera. — Ma non avete notato che l'assassino sceglie come sue vittime solo ragazze che si guadagnano da vivere? Sembrerebbe provare astio nei loro confronti, probabilmente perché le incolpa di avere sottratto lavoro agli uomini. Magari è un trauma psichico dovuto ai bombardamenti: l'uomo, ritornato dalla guerra, ha trovato una donna al posto suo. Il paese allora era pieno di donne che, come larve, divoravano tutti i posti di lavoro a disposizione. E gli uomini sono rimasti a bocca asciutta. — Ma io non faccio un lavoro da uomo — protestò Helen. — E invece sì. Anche gli uomini sono a servizio nelle case, ora. Non c'è forse il marito della signora? — Con un cenno del capo l'infermiera indicò la signora Oates. — Invece di stare a casa vostra, voi lavorate in questa casa e il vostro mensile spetterebbe a un uomo. — Bene… e voi, allora? — Fare l'infermiera per tradizione è una cosa consacrata alle donne. La signora Oates, tentò di allentare la tensione alzandosi. — Bene, è meglio che vada a sistemare la confusione che riesce a fare un uomo quando mangia. Parola mia, a sentirvi parlare vi si prenderebbe per un maschio. — Sì, riesco a vedere le cose con un punto di vista maschile. Helen notò comunque che la signora Oates aveva messo il dito nella piaga, perché l'infermiera si morse le labbra, come se si fosse offesa per quell'osservazione. Teneva però ancora gli occhi fissi su di lei, che si sentiva diventare sempre più piccola. Il suo sguardo sembrava un fascio di luce che oltreava i muri di Summit per trovare lei. La risata fragorosa della signora Oates la ricondusse alla ragione. — In ogni caso, prima che mettano le mani sulla nostra signorina Capel, dovranno are sul mio cadavere e su quello di Oates. Helen guardò quel volto leale e quelle spalle muscolose. Pensò a Oates e alla sua forza incredibile. Avrebbe avuto due ottimi guardaspalle, in caso di bisogno.

— Non ho paura — disse. Neanche possedesse un istinto soprannaturale l'infermiera Barker sapeva toccare i tasti che evocavano gli spettri della paura. — Comunque — sottolineò — ci sarà Lady Warren a farvi compagnia. Perché dormirete con lei questa notte. Helen comprese che fin dall'inizio il suo destino era segnato. Lady Warren sapeva che sarebbe tornata da lei. Il suo sorrisetto era quello di un coccodrillo che aspetta la preda e non la sbaglia mai. La vecchia signora la stava aspettando.

8. Gelosia

Mentre Helen cercava i termini più adatti per far capire al dottore quanto la terrorizzasse la notte di veglia accanto a Lady Warren e che solo lui, con la sua autorità professionale, avrebbe potuto evitare che accadesse, il triangolo Stephen Simone Newton si stava chiarendo definitivamente. Anche se Helen fosse stata al corrente, gliene sarebbe importato ben poco. Per la prima volta nella vita non era solo una spettatrice degli eventi ma una protagonista. Più pensava all'eventualità di dormire nella camera azzurra, meno le piaceva. O faceva atto di sottomettersi o si ribellava apertamente, correndo il rischio non solo di farsi licenziare ma di perdere anche la parte dello stipendio che già le spettava. Era certa che la signorina Warren avrebbe preso le parti dell'infermiera, perché il breve periodo in cui l'aveva dovuta sostituire l'aveva messa a dura prova. L'infermiera Barker, qualificata ed esperta, contava ben più di una ragazza alla pari. Davanti a un suo ultimatum Helen si sarebbe trovata subito battuta. E nonostante l'interesse che il medico aveva dimostrato nei suoi confronti, Helen aveva paura che, per motivi di etichetta, si vedesse costretto a dare ragione all'infermiera. «Se lui non mi aiuta dovrò tenere duro e andare fino in fondo», pensò. «Ma prima proverò a far leva sulla sua sensibilità.» Anche se a prima vista non c'era nessun legame tra la sua paura e la tempesta che si stava scatenando in salotto, le conseguenze di una storia vecchia come il mondo si sarebbero rivelate di capitale importanza per la sua futura incolumità. Eppure cucina e salotto sembravano due mondi del tutto diversi. Mentre Helen grattava della noce moscata, Simone gettò la sigaretta nel camino e si alzò sbadigliando. Subito la testa del marito fece capolino da dietro la copertina del libro che stava leggendo. — Dove vai? — chiese.

— A cambiarmi. Perché? — È una domanda come un'altra, giusto per parlare. Il tuo silenzio è incivile. Gli occhi di Simone lo incenerirono. — Non sai fare altro che domande — disse. — Non sono abituata agli interrogatori, e non li reggo. E un'altra cosa: non mi va di averti sempre attaccato alla sottana. Newton spinse in fuori il labbro inferiore e buttò la sua sigaretta. — Ma si dà il caso che la tua strada sia anche la mia, tesoro mio — le disse. — Anch'io salgo per vestirmi. Simone si girò per affrontarlo con maggiore energia. — Sentimi bene — disse. — Non ho voglia di fare scene qui, in casa di tuo padre. Ma te lo dico una volta per tutte: ne ho abbastanza. — Ti avviso pure io che ne ho abbastanza di te e di Rice. — Oh, smettila di fare lo scemo con queste storie medioevali. Non hai alcun diritto su di me. Non ti devo niente. Sono libera di fare quello che mi pare. Ti posso piantare da un momento all'altro, e lo farò se non la smetti di essere così insopportabile. Posso benissimo vivere dei miei soldi, ne ho. — Forse è per questo, tesoro, che smanio dalla voglia di restare con te — disse Newton. — Non te lo dimenticare: questa famiglia ha cervello da vendere, e lo sa usare bene. L'ira sparì dal viso di Simone che guardò il marito con un minimo di vero interesse. Dominata com'era dall'istinto e dalle ioni, aveva volutamente atrofizzato le sue facoltà intellettuali. Disprezzava l'intelligenza in una donna perché era convinta che l'istinto fosse sufficiente per governare il suo territorio di conquista, il maschio. E proprio perché apparteneva a una sfera che non conosceva, provava rispetto per il cervello maschile. Aveva sposato Newton solo perché la sua fronte prominente nascondeva qualcosa di sconosciuto, e lei, abituata ad averla vinta in

tutto, aveva finito per desiderare solo ciò che è irraggiungibile. I numerosi flirt con gli studentelli pieni di ione non l'avevano soddisfatta, era troppo facile conquistarli. Newton l'avrebbe potuta frenare, se avesse continuato a mostrarsi indifferente. Purtroppo era geloso del giovane Rice e questo l'aveva fatto crollare dal piedistallo e l'aveva lasciato allo scoperto. I due erano antipatici reciprocamente per una vicenda di vecchia data che aveva provocato l'espulsione di Rice da Oxford. Rice stava sempre al gioco di Simone quando il marito era presente, perché era il suo modo per farlo arrabbiare. Simone si girò sulla porta del salotto e disse al marito: — Salgo, da sola. Newton la fissò e tornò a sedersi accigliato. Dopo un istante mise da parte il libro e, a i felpati, salì fino al pianerottolo del primo piano. Lì si fermò ad ascoltare. Simone era già al secondo piano, ma invece di entrare nella camera rossa si era fermata a picchiettare con le unghie sulla porta di Stephen. — Steve — chiamò. Stephen era steso sul letto a fumare, con l'alsaziano sdraiato vicino, la testa sul petto del padrone. Sentendo bussare Simone, Stephen con una smorfia lo invitò a stare zitto. Il cane buttò indietro le orecchie e roteò gli occhi: quel piumino era una bella novità dopo quel canile gelido e sapeva benissimo che le donne sono le peggiori nemiche dei cani quando si parla di letti. Simone bussò più forte e provò ad aprire la porta. — Non entrare — gridò Stephen — mi sto vestendo. — Allora sbrigati. Voglio vederti. Simone si avviò controvoglia verso la camera rossa, che trovò già occupata dal marito.

— Ti è andata male? — chiese lui mentre si sfilava la giacca. Simone gli lanciò uno sguardo di fuoco. — Ti avevo detto di non venirmi dietro. — Infatti non ti ho seguito. Mi sono solamente mosso da dove mi trovavo, secondo le leggi di madre natura. Si spostano addirittura i ghiacciai, anche se noi non ce ne rendiamo conto. — Se tu ti spostassi alla loro velocità, non avrei nulla a ridire. — Simone aprì il guardaroba e prese l'abito di velluto nero che indossava tutte le sere dal suo arrivo a Summit, anticipando il lutto per la morte della nonna di suo marito. Ma quella sera scelse un abito rosa pallido che le lasciava la schiena completamente scoperta. — Una scelta di ottimo gusto per una cena in questa campagna desolata — ghignò Newton. Simone lo guardò con un'aria di sfida. — Non lo metto di sicuro per la tua famiglia — disse. Gli occhi di lui non l'abbandonarono un attimo mentre si truccava. — Un tocco di profumo dietro gli orecchi — le consigliò. — Non c'è uomo capace di resistere a una simile tentazione. Simone terminò di prepararsi con gli occhi che fiammeggiavano per l'irritazione e le labbra chiuse. Lasciò apposta la porta spalancata mentre usciva dalla camera, in modo che il marito potesse sentirla mentre andava verso la camera di Rice. — Steve — chiamò con un tono deciso. — Ti voglio parlare. — Oh… certo. — Il ragazzo comparve tutto spettinato e con gli abiti in condizioni pietose. Guarda che capelli — disse Simone allungando le mani per sistemarglieli. — Lascia stare. — Scrollò la testa con un gesto impaziente. — Le smancerie non

le sopporto. — Ma a me fa piace. — Allora fai pure, tesoro. Stephen non continuò nella sua protesta perché aveva sentito dei i alle sue spalle. Guardò Newton con un sorrisetto malizioso. — Sarai tu, Warren, a raccogliere i frutti della pratica che tua moglie fa con me. Le vene pulsavano sulle tempie di Newton che guardava le mani della moglie strette confidenzialmente intorno al collo di Rice. Lei con un brusco movimento gli scompigliò i capelli ridendo. — Ecco… sistemato! — disse. Newton emise un grido di ilarità, notando il disappunto di Stephen. — Mi sembri un porcospino. Mi auguro che mia moglie si serva ancora di te come modello, e sollevi me da questo trattamento. Simone lanciò un'occhiata di disprezzo alla chioma dritta e ispida del marito. — Perché, ti pare di vedere qualche somiglianza? Stephen, non mi hai detto niente del mio vestito nuovo. Il giovane non si era nemmeno accorto, ma cominciò con i complimenti solo per far dispetto a Newton. — Perfetto. Sono veramente senza parole. Bello, e molto… esplicito. D'ora in poi non ti scambierò più per una suora. La bocca di Newton si chiuse. Le lenti spesse lenti accentuavano la cattiveria nei suoi occhi. Mentre Simone si voltava piano piano per mostrargli la schiena perfetta, Stephen provava un terribile imbarazzo. Quello che sembrava solo un comprensibile e progressivo innervosirsi di tre persone, si sarebbe rivelata invece una componente determinante in quella tempesta che, più tardi, avrebbe spazzato via Helen come una piuma. Newton si girò stringendosi nelle spalle.

— Gli abiti di mia moglie per me non hanno più nulla di nuovo — disse. — A proposito, Rice, che fine ha fatto il tuo cane? — È nella mia camera — rispose secco Stephen. Newton alzò le sopracciglia. — Tieni in camera un cane appena sottratto dalla schifo di un canile? Mi sembra che esageri. È una vera mancanza di tatto nei confronti della padrona di casa. Ti da un consiglio, portalo nel garage questa notte. — I tuoi consigli mi lasciano indifferente — sbottò Stephen. — No? E mia moglie? Non ti interessa nemmeno mia moglie? Te ne sono molto grato. Fischiettando con aria indifferente, Newton scese per le scale senza girarsi. Stephen fremeva, era pronto all'attacco, pur ammettendo che il fare di Newton era giustificato. — Se metterò quel cucciolo in quella tana umida possono anche impiccarmi — disse fuori di sé. — Resta qui, altrimenti me ne vado con lui. — Per l'amor del cielo, smettila di pensare a quel miserabile cane! — esclamò Simone. — Dimmi invece se il mio vestito ti piace davvero. — Meglio dire quel poco di vestito che hai indosso — fu la risposta di Stephen, tornato ai suoi soliti modi. — Mi piace vedere la schiena nuda di un pugile quando è knockdown, ma fuori dal ring non è uno spettacolo che mi fa impazzire. Il suo aperto rifiuto aumentò il desiderio di Simone. — Sei un bruto — gridò. — L'ho messo per te. Voglio che ti ricordi della nostra ultima sera… di me. — Spiacente, tesoro, io dopocena vado al Bull. Simone lo incenerì con lo sguardo. — Vai a trovare quella barista con i capelli biondicci? — gridò. — Whitey? Sì, ma anche per trovare qualcos'altro. Birra. Mitica birra.

— Resta qui con me, invece… Sei l'unico uomo a cui l'abbia chiesto in vita mia. Stephen prese un'aria da bambino viziato, imbronciata. Voleva are una serata tra uomini, voleva bere liberamente, in compagnia, nella piccola locanda di campagna con il pavimento ricoperto di segatura, le sputacchiere e i cerchi bagnati dei bicchieri lasciati sul bancone. La figlia del proprietario era solo un piacere in più perché gli riempiva il bicchiere. E poi voleva liberarsi di Simone. Se avesse capito che la maniera migliore per raggiungere lo scopo era di mostrarsi arrendevole e di soffocarla di attenzioni come la pletora di studentelli ingenui che aveva insidiato prima di lui l'avrebbe fatto. E invece scrollò la testa e si allontanò da lei, rompendo così un altro anello di quella catena che teneva Helen più legata alla salvezza. Quasi correndo si chiuse in camera e si buttò sul letto. — Le donne sono diavoli — disse Stephen all'alsaziano. — Non sposare mai, amico mio. Simone, come una furia, scese a rotta di collo per le scale. Trovò la signora Oates che indicava all'infermiera la camera della sua paziente mentre era sul pianerottolo del primo piano. Fu sufficiente un'occhiata a quella specie di carabiniere per ritornare un po' calma. Era così gelosa che non avrebbe mai sopportato la presenza di un'infermiera attraente. — La giovane signora Warren — bisbigliò la signora Oates mentre bussava alla porta della camera azzurra. L'infermiera borbottò qualcosa: probabilmente aveva già classificato la donna che le era davanti. — Ninfomane — fu il suo commento. — Oh, no, è normalissima — disse la signora Oates. — È solo un po' superficiale. La signorina Warren salutò l'infermiera con un filo di voce.

— Lieta di vedervi — disse. — È stata una giornata dura. — Sì, immaginavo che aspettaste il cambio — osservò l'infermiera. — Posso conoscere la malata? Seguì la signorina Warren e si fermò accanto al letto di Lady Warren, raggomitolata su se stessa con gli occhi chiusi. — Mi auguro che le siate simpatica — disse nervosamente la signorina Warren. — Diventeremo alla svelta amiche — disse con sicurezza l'infermiera. — Ci so fare con le persone anziane. Bisogna essere garbati e decisi. Sono come bambini. Lady Warren spalancò di colpo un occhio che non aveva davvero nulla di infantile, a meno che non fosse quello di un neonato partorito da genìa avvezza da secoli al peccato. — È la nuova infermiera? — chiese con un filo di voce. — Sì, mamma — rispose la signorina Warren. — Mandala via. La signorina Warren guardò disperata l'infermiera. — Mio Dio! — mormorò. — Siamo alle solite. Ancora antipatia. — Non dovete preoccuparvi — intervenne l'infermiera. — Fa un po' i capricci. Sistemerò io le cose in fretta. — Mandala via — ripeté Layd Warren. — Voglio che ritorni la ragazza. L'infermiera colse al volo l'occasione per riabilitarsi. — Starà qui stanotte — promise. Poi prese da parte la signorina Warren. — C'è del brandy in camera? — domandò. — Il medico mi ha prescritto uno stimolante. La signorina Warren non parve d'accordo. — Credevo lo sapeste che qui siamo astemi — spiegò. — Se il vostro stipendio è alto, un motivo c'è.

— Ma non è cosa prudente non tenere del brandy nella camera di una malata — insistette l'infermiera Barker. — Mia madre utilizza l'ossigeno — spiegò la signorina Warren. — È la sua vita… Comunque… Forse… Ne parlerò con il professore. Guidata dalla mole imponente dell'infermiera attraversò il pianerottolo, ondeggiando come una foglia secca al vento. Il professore apparve sulla soglia sentendo sua sorella bussare. Salutò gelido l'infermiera e ascoltò la sua richiesta. — Naturalmente, vi daremo del brandy, se è necessario — disse. — Scendo immediatamente in cantina e mando una bottiglia in camera vostra. Helen dalla cucina lanciò un'occhiata dubbiosa alla signora Oates quando udì il professore domandare una candela. — La porterete voi, signora Oates — disse. — Devo andare in cantina. Nonostante questo fosse, nei suoi confronti, un vero e proprio gesto di crudeltà mentale, la signora Oates non esitò a ubbidire. Il corridoio era illuminato solo nel primo pezzo, dietro la curva era buio pesto. Precedette il professore fino alla porta della cantina, e lì si fermò, tenendo sollevata la candela come un pellegrino che fosse finalmente arrivato alla Mecca. La chiave girò nella toppa e la signora Oates, con il professore, entrarono in quel luogo sacro. Gli occhi della donna brillavano d'ingordigia mentre lui sceglieva una bottiglia da uno scaffale. Il professore guardò di sfuggita il termometro attaccato alla parete. — La temperatura non è di sicuro quella giusta — disse, mettendole la bottiglia tra le mani. — Tenetela un momento, vado a leggerla dove c'è più chiaro. Dopo qualche minuto ritornò e chiuse a chiave la porta della cantina. Questa volta fu lui a precedere la signora Oates verso la cucina. Mentre avano davanti alla dispensa lei si chinò un momento dietro il lavabo. Il professore appoggiò la bottiglia di liquore sul tavolo e guardò Helen. — Fatemi un piacere, non appena la signora Oates l'avrà stappata, portatela nella

camera azzurra. Non appena furono sole, Helen comunicò tutta la sua solidarietà alla signora Oates. — È vergognoso. Perché non ne bevete almeno un cucchiaio, alla salute di Lady Warren? — Mi manca il coraggio. Quell'infermiera se ne accorgerebbe e farebbe la spiona. E poi sarebbe un peccato annacquare una delizia così. Sarebbe leggero come latte materno. Helen ammirò la decisione di carattere con cui la signora Oates le mise in mano la bottiglia. — Andate, svelta — disse. — Ma state bene attenta a non farla cadere. Appena fu sola, scoprì il segreto di tanta decisione. Corse nella dispensa e prese da sotto il lavabo quello che aveva nascosto. L'occasione aveva bussato alla sua porta e lei non aveva avuto dubbi nel coglierla al volo. Aveva rispettato il suo giuramento. Ritornò in cucina sorridente e trionfante con il suo trofeo, che imboscò fra i vuoti nella credenza. E con quella le bottiglie di brandy diventavano due.

9. I ricordi della vecchia signora

Quando Helen bussò alla porta della camera azzurra con la bottiglia di brandy in mano, ad aprirle venne l'infermiera. Sembrava una gigantesca scultura futurista con quel camice bianco e il viso rosso incastonato nella cuffia. — Grazie — disse con il solito fare affettato. — Mi darà una mano a prendere sonno. Devo dormire una notte per poter seguire da sola questa paziente. — E con una luce sinistra negli occhi proseguì: — Ho sistemato tutto: questa notte sarete voi a sostituirmi. Ne ho parlato, la signorina Warren è d'accordo e la vecchia… Lady Warren — si corresse veloce — non ha obiettato. Helen pensò fosse meglio aspettare e mettere in mani più esperte il compito di opporsi. — Certo, — disse. — Ora devo correre a cambiarmi. — Oh, anche voi per cena vi cambiate? Il tono della donna era ironicamente pungente, il suo sguardo così penetrante che Helen fu ben contenta di andarsene. «È invidiosa» pensò. «E la signorina Warren è una vigliacca. Due donne deboli. Chissà qual è il mio difetto principale.» Come la maggior parte delle persone non era in grado di valutare i suoi punti deboli, e non avrebbe preso per il verso giusto l'appunto che le si poteva fare di essere fin troppo curiosa. Entrando nella sua camera sobbalzò all'indietro: le sembrò che una forma scura stesse entrando dalla finestra. Accendere la luce le fu sufficiente per capire che erano solo i rami di un cedro battuti dal vento. L'albero sembrava vicino ma in realtà era distante, così lontano che nessuno, per bravo e atletico che fosse, avrebbe potuto entrare con un salto dalla finestra. Ma ogni raffica avvicinava i suoi rami alla finestra spalancata con un effetto terrificante. «Sembra che voglia entrare per forza» pensò Helen. «Odio l'aria viziata, ma

bisogna che chiuda la finestra.» Una volta tirate anche le tende poté godersi in pace lo splendore della stanza. Era arredata completamente con la camera da letto della prima Lady Warren che l'aveva usata poco perché era finita ben presto nella cappella di famiglia. I mobili, ancora nuovi, non avevano perso né il loro valore né la loro bellezza. Il posto d'onore sopra la mensola del caminetto era riservato a una foto dell'antica padrona. Scattata probabilmente nell'ultimo ventennio dell'Ottocento, ritraeva una signora dall'aspetto amabile con la frangia arricciata, la fronte troppo bassa e troppi doppi menti. Pensando alla prova che l'attendeva, Helen si rammaricò che Sir Robert non fosse rimasto fedele al suo ricordo. «Se fosse vissuta di più sarebbe stata una cara vecchia signora, che avrebbe mangiato budini di latte invece che bistecche al sangue… Poi me la sono voluta a tutti i costi. Non ero contenta se non mettevo piede in quella stanza.» Aveva così bisogno della solidarietà del medico che decise di assumere la strategia di Simone. Per cena indossava di solito un vestitino leggero, bianco, senza maniche: quella sera, per la prima volta, decise di indossare l'unico abito da sera che aveva, un indumento verdino comprato a poco prezzo a Oxford Street a una svendita. Comunque, guardandosi nello specchio, sorrise: rossa di capelli, aveva la pelle bianchissima, e quel comune contrasto di colori faceva risaltare la sua persona. «Bisogna che lo fermi e che gli parli da sola» pensò scendendo giù per le scale, spaventata dall'idea che fosse arrivato mentre lei non c'era. Potevano chiamarla in ogni momento per qualunque problema, ma lei sapeva bene come sottrarsi e come fingersi temporaneamente sorda a qualsiasi chiamata. «L'atrio» decise. «Scenderò lì con un vestito bagnato e andrò a pulirlo lì fuori.» Giunta al pianerottolo del primo piano, vide che la porta della camera azzurra era semichiusa: dallo spiraglio intravide il bianco del grembiule e un occhio lucido dell'infermiera, che chiuse subito la porta.

C'era qualcosa di così subdolo nel suo modo di fare che Helen sentì un profondo disagio. «Stava aspettando proprio me» pensò. «È proprio strana, quella donna. Non vorrei trovarmi da sola con lei. Quella è una che ti pugnala alle spalle.» Ma non riuscì a far finta di niente, faceva sempre così, e si girò verso la stanza azzurra. L'infermiera, sentendosi come scoperta, spalancò la porta. — Che cosa volete? — chiese con sgarbata. — Mettervi in guardia — rispose Helen, e si fermò vedendo gli occhi avidi con cui l'infermiera le guardava il collo. — Che pelle bianca… — disse. — Ho i capelli rossi — replicò Helen secca. Di solito si lamentava di non attirare l'attenzione altrui, ma quel complimento la fece rabbrividire. — Avete detto che volevate mettermi in guardia? — chiese l'infermiera. — Sì — sussurrò Helen. — Non sottovalutate Lady Warren. — Che cosa volete dire? — Che nasconde qualcosa. — Che cosa? — Se siete acuta quanto lei, lo scoprirete — rispose Helen girandosi per andarsene. — Tornate indietro — disse decisa l'infermiera. — Avete detto troppo e troppo poco. Helen sorrise scrollando la testa. — Chiedete alla signorina Warren — le consigliò. — Con lei ho già parlato, e mi ha trattata con disprezzo. Una volta sola è abbastanza, grazie mille. Ma mi è sembrato mio dovere avvisarvi.

Fece per andarsene appena sentì la voce bassa che proveniva dall'interno della camera. — È quella ragazza? — Sì, Milady — rispose subito l'infermiera. — Volete rivederla? — Sì. — Mi spiace — disse Helen — ma non mi posso fermare. Devo scendere per dare una mano per la cena. Gli occhi dell'infermiera Barker erano trionfanti. — Perché avete così paura di lei? — Avreste paura anche voi, se sapeste quello che so io. L'infermiera la prese per il polso, le narici frementi. — La cena può aspettare — disse. — La signorina Warren ha dato ordini precisi: Lady Warren va assecondata. Entrate. Helen entrò nella camera azzurra sentendosi svenire. Lady Warren era a letto, con i cuscini di seta dietro la schiena. Aveva una mantellina da letto di lana bianca ornata di nastri rosa, e aveva i capelli divisi al centro da una scriminatura e fissati con altri nastri dello stesso colore. Il primo compito dell'infermiera era stato quello di addobbare la sua paziente, come un agnello pronto per il sacrificio. Helen era certa che se la vecchia si era sottomessa a quella stupidaggine, l'aveva fatto per pura perversione: concedeva all'infermiera quell'illusorio senso di sicurezza soltanto perché la sua futura disillusione fosse più amara. — Vieni qui — disse con un rauco bisbigliare. — Devo dirti una cosa. Helen si sentì prendere e tirare verso il basso, fino a sentire l'alito caldo sul suo collo nudo. — In questa casa è stata ammazzata una ragazza — disse Lady Warren. — Certo, lo so. — Helen le parlava calma, per tranquillizzarla. — Ma perché

continuate a pensarci? È successo molto tempo fa. — E tu come fai a saperlo? — Me l'ha detto la signora Oates. — Te l'ha detto che la ragazza è stata buttata nel pozzo? Helen ripensò alla signora Oates: del pozzo le aveva parlato, ma parlando di un suicidio. — Forse è stato un incidente — disse a voce alta. Lady Warren perse la calma, davanti a quei tentativi di minimizzare le cose. — No — urlò — è l'hanno ammazzata. Io ho visto. Da una finestra del primo piano. Era quasi scuro, e mi sembrava uno degli alberi del giardino. Era così immobile, e aspettava. Poi… vide la ragazza e si mosse, e la buttò dentro… Non feci in tempo a soccorrerla, non riuscivo a trovare una corda… Ascoltami. — Avvicinò a sé la testa di Helen fino ad appoggiarla quasi sul suo cuscino. — Sei tu quella ragazza — bisbigliò. A Helen parve una terribile quanto nefasta profezia, ma colse al volo lo sguardo di rimprovero dell'infermiera: con un'espressione professionale le ricordava di non contraddire la paziente. — Io? — disse tranquilla. — Allora dovrò stare attenta. — Piccola sciocca — ansimò la malata. — Non lo capisci che ti sto aiutando? In questa casa le ragazze vengono uccise. Ma tu dormirai qui con me, ci penserò io a proteggerti. Forse era l'occasione giusta per farle dire dove aveva nascosto la rivoltella. — E come? — chiese Helen. — Gli sparerò. — Bene. Ma dov'è la pistola? Lady Warren non era certo il tipo da cadere in trappola così facilmente. Guardò Helen con furbizia.

— Di armi non ne possiedo — gemette. — Una volta avevo una pistola ma me l'hanno presa. Sono solo una povera vecchia. Infermiera, la ragazza dice che ho una pistola. È vero? — No di sicuro — disse l'infermiera. — Signorina Capel non avete il diritto di innervosire la signora. — Allora me ne vado — disse Helen e poi aggiunse, sottovoce: — Mi avete fatto una domanda, poco fa. Vi ho dato la risposta. Sapete che cosa cercare, ora. Sulla porta venne fermata da Lady Warren. — Torna, stasera. — Va bene, ritornerò — promise. Scendendo le scale comprese di essere molto agitata. «Che mi prende?» pensò. «Finirò per diventare pazza se il medico non mi attenua quest'ansia.» Guardò l'orologio sul muro. Il dottor Parry abitava a molti chilometri di distanza, e quindi finiva la giornata di lavoro con la visita alla paziente di Summit, per poi rincasare subito dopo. Non era mai arrivato così tardi come quella sera. Helen, sentendo che il temporale continuava a imperversare, ebbe un attimo di paura e, vedendosi are vicino come in un sogno la signorina Warren, cercò aiuto da lei. — Il medico ritarda, signorina. La signorina Warren guardò l'orologio. Era già vestita per la cena, con il solito vestito color muschio. — Forse non verrà — disse con un fare indifferente. A Helen sfuggì un gemito di disperazione. La signorina Warren non riusciva a immaginare, chiusa com'era nella sua torre d'avorio, che una cameriera potesse avere una sua vita, e la credette preoccupata per loro. — Mia madre è stazionaria — spiegò — anche se c'è da attendersi l'inevitabile. Il dottor Parry ci ha dato istruzioni precise nel caso di un crollo improvviso.

— Ma perché questa sera non dovrebbe venire? — insistette Helen. — Viene sempre. — Perché c'è il temporale — mormorò la signorina Warren. Una raffica di vento sbatté contro la casa, confermando con assoluto tempismo l'ipotesi della signorina. Il cuore di Helen saltò un battito. «Non arriverà» pensò. «E io dovrò are la notte nella camera azzurra.»

10. Il telefono

Helen avrebbe dormito quella notte con Lady Warren. A Summit, tutti accettavano la cosa come un dato di fatto. Helen era ormai convinta dell'inutilità di ricorrere a trucchetti per incontrarsi da sola con il dottor Parry, era sicura che non sarebbe andato da loro quella sera e si avviò demoralizzata verso la scala a chiocciola. Newton, che usciva svogliato dal soggiorno con una sigaretta penzoloni tra le dita, la bloccò. — Ho saputo che avete conquistato mia nonna — disse. — Mi congratulo con voi. Come avete fatto? La mente di una persona giovane è mobile e rapida come il re negli scacchi: può sempre spostarsi in avanti subito dopo aver fatto un salto indietro. L'interesse che leggeva negli occhi di Newton diede a Helen nuovo forza e la fece sentire con la situazione in mano. — Ho fatto solo una cosa, parlare di voi. — Certo, capisco, volete dire che sono il suo preferito. Può anche darsi, ma la cosa non mi giova molto quando in ballo ci sono dei soldi. Non si campa solo di belle parole. Fino ad allora Helen aveva avuto soggezione di Newton che, pur accettandola in casa, l'aveva sempre ignorata come presenza sociale. Helen era lì per lavoro e supponeva che, come tutte le ragazze che erano state lì prima di lei, se ne sarebbe andata alla fine del mese, sempre che fosse riuscita a tenere duro per così tanto tempo. Il fatto nuovo di vedersi oggetto di attenzione, che attribuiva all'eleganza del suo abito da sera verdino, le servì da stimolo per sciogliersi la lingua. — State parlando del testamento? — domandò sicura di sé. Lui fece un segno d'assenso.

— Lo farà… sì o no? — Ne abbiamo parlato — disse Helen, orgogliosa della sua superiorità. — Le ho consigliato di non rimandare. Newton lanciò un grido di contentezza. — Zia Blanche! Vieni qui. La signorina Warren, sospinta da chissà quale vento arrivò dal soggiorno. Per qualche inspiegabile motivazione quel giovane dinoccolato e miope sembrava avere un grosso ascendente sulle donne che gli giravano intorno, anche se non riusciva a fare lo stesso con la moglie. — Che c'è? — chiese la signorina Warren. — Notizie storiche — le annunciò Newton. — In cinque minuti la signorina Capel ha fatto più di quello che siamo riusciti a fare noi in cinque anni. Ha fatto parlare la nonna del testamento. — Non proprio — precisò Helen. — Lei mi ha detto che ancora non poteva morire perché aveva una cosa in sospeso, un dovere penoso che tutti tendono a ritardare. — Va benissimo così — fece Newton annuendo. — Non può voler dire altro. Bene, signorina Capel, spero solo che proseguirete nella vostra opera nel corso della notte, se mia nonna rimarrà sveglia. Addirittura la signorina Warren sembrava impressionata dalla notizia, perché guardava, più o meno negli occhi, Helen. — È straordinario — mormorò. — Sembra che abbiate su di lei un ascendente maggiore di chiunque altro. Helen si allontanò, pentita di aver ceduto alla voglia di recitare il ruolo della primadonna. Adesso che la famiglia era tanto interessata ai suoi rapporti con Lady Warren, poteva solo aspettarsi una decisa presa di posizione se avesse provato a rifiutare di starle accanto. Ma insistette a tenere la testa alta, come se stesse salendo sul patibolo sostenuta dai favori del popolo. Sarebbe stata sola prima dell'esecuzione.

Appena arrivò in cucina si accorse che la signora Oates non aveva voglia di chiacchierare e che Oates, cosa molto significativa, si teneva lontano da sua moglie. Senza notare l'eleganza di Helen, la signora Oates le indicò la tazza fumante sul tavolo. — Pelatele per la tipsy cake³ — disse. — Sono in ritardo con la cena per colpa di tutto questo via vai. E Oates non fa che essere tra i piedi. Non so più nemmeno dove ho la testa, se per aria o sottoterra. Helen, con la massima calma, si sedette e cominciò a pelare le mandorle. Si era così convinta che il medico non sarebbe arrivato che non fece caso al camlo che squillava giù nell'anticamera. Fu la signora Oates a dare un'occhiata al quadro indicatore. — È l'entrata — disse bruscamente. — Sarà il dottore. Helen balzò in piedi e corse via. — Vado io ad aprirgli — gridò. — Grazie, signorina — disse Oates, riconoscente. — Non ho ancora messo i calzoni. — Che vergogna! — rise Helen, sapendo che si riferiva al fatto che per andare a tavola metteva i suoi pantaloni più belli con una giacca di lino. Mentre correva su per le scale ad aprire la porta la speranza si faceva strada di nuovo nel suo animo. Una raffica di vento e la pioggia entrarono in casa con il dottor Parry. Era un uomo robusto, tarchiato, con un viso dai lineamenti marcati e il mento sporgente che aveva bisogno di una seconda rasatura già verso sera. Era comunque intelligente e gentile e, abituata come sempre a vederlo al termine della sua giornata. Tentò un inchino che lui ricambiò con uno sguardo ammirato. — È una serata di gala? — le chiese. Nei suoi occhi non c'era ombra dell'avidità dell'infermiera e Helen fu felice nel suo abito da sera. Ma al dottor Parry interessavano le ossa mostrate dalla scollatura più che il biancore della sua pelle. — Strano che non siate più robusta, con tutto il lavoro che fate.

— Negli ultimi tempi ho fatto un po' poco — spiegò Helen. — Capisco — borbottò il dottor Parry, chiedendosi come mai, quando vedeva casi di anoressia, non gli capitasse di preoccuparsi così tanto come in quel momento. — Il latte vi piace? — chiese. — Penso di no, naturalmente. — A me? Sarei un problema in una latteria. — Dovreste berne tanto. Lo dirò alla signora Oates. Il medico si sfilò il cappotto in pelle e lo buttò su una sedia. — C'è bruttissimo tempo — disse. — Ci ho messo un sacco di tempo ad arrivare. Le strade sono tutte fango. Come sta Lady Warren? — Come al solito. Vuole che io dorma con lei — disse Helen prendendo coraggio. — Se non mi sono fatto un'opinione sbagliata sul vostro conto — disse ridendo il medico — dovreste esserne contenta. È una cosa nuova. — Invece ho molta paura — sussurrò Helen. — Intendevo proprio chiedervi di dire che non sono… non sono all'altezza di questo compito. — Paura? Che c'è, vi agita questo posto? Vi sentite troppo sola… è una casa troppo isolata? — Oh, no, non è solo un fatto nervoso. Ho un buon motivo per avere paura. Al contrario della signorina Warren, il dottore ascoltò con grande attenzione la storia della pistola. — È una cosa ben strana. — disse. — Ma non mi sorprendo di niente, quella vecchia è capace di qualsiasi cosa. Vedrò se riesco a scoprire dove la tiene. — E direte anche che non posso trascorrere la notte con lei? — insistette Helen. La cosa non era delle più semplici, perché il dottor Parry prese a sfregarsi il mento con un'aria dubbiosa.

— Non ve lo prometto. Devo prima vedere l'infermiera. Magari ha davvero bisogno di una notte di riposo se è arrivata direttamente dall'ospedale… È meglio che vada su. Mentre andavano verso le scale, le sussurrò: — Niente paura, coraggio. Non mi sparerà. Dopo tanti anni avrà perso la sua buona mira. — Ha preso in pieno l'infermiera di prima — gli ricordò Helen. — Ha avuto fortuna. Ricordatevi che è vecchia, non disturbatevi ad accompagnarmi di sopra. — No, è meglio che vi presenti l'infermiera — insistette Helen, che non aveva paura di infrangere le regole dell'etichetta. Ma le fu sufficiente un'occhiata dell'infermiera, che era venuta ad aprire la porta, per capire che aveva sbagliato ancora. — Ecco il dottor Parry — disse Helen. L'infermiera abbassò la testa in un inchino forzato. — È tanto che siete arrivato, dottore? — chiese. — Più o meno cinque minuti — rispose lui. — Volete, per piacere, salire immediatamente da me, in futuro? — chiese l'infermiera con il fare più affettato che conosceva. — Lady Warren era preoccupata per il vostro ritardo. — Certo, senz'altro. Helen se ne andò disperata. Quella donna sembrava dominarlo con la sua volontà e, al tempo stesso, per un gioco ottico, pareva sovrastarlo con l'imponenza bianca del suo camice. Simone, splendida del suo meraviglioso abito da sera, la incrociò in anticamera. Nonostante lo stato confusionale in cui si trovava, Helen si rese conto che Simone era agitata e fuori di sé. Aveva gli occhi lucidi di lacrime, le mani chiuse a pugno e si morsicava le labbra.

Divorata dalla sua ione, impazziva all'idea di non essere riamata. Ce l'aveva con Newton, perché era un ostacolo; ce l'aveva con Stephen, perché se ne fregava di lei; ce l'aveva con se stessa, perché non era riuscita nel suo scopo; ce l'aveva con la società, perché la obbligava di continuo; ce l'aveva con la chiesa, perché aveva creato l'istituzione matrimoniale; ce l'aveva con la natura, perché era nata. E scaricava le sue frustrazioni prendendosela con la donna che credeva la sua rivale, ossessionata dall'idea che Stephen le preferisse la barista dai capelli biondicci del Bull. Simone ò vicino a Helen senza vederla, come se fosse stata trasparente. Anche la signora Oates la accolse in cucina con silenziosa malinconia. Sembrava che lo stato mentale degli inquilini di Summit si fosse fatto più acido. — Non ci sarà da attendere molto per la cena — le disse Helen. — Il medico se ne andrà tra non molto. — Non è per questo che sono giù — disse la signora Oates. — E allora perché? — Oates. — Che ha fatto? — Nulla. Ma è sempre qui tra i piedi notte e giorno, e io non posso restare un attimo da sola. Non sposatevi signorina, mai. Helen la fissò, sorpresa da quell'improvviso sviluppo della situazione. Aveva sempre ammirato la pazienza e la comprensione con le quali la signora Oates accettava la pigrizia del marito e come poneva rimedio alle sue mancanze. Lui non lavorava di certo come avrebbe dovuto, ma lei aveva sempre preso la cosa con filosofia e, per l'affetto che li univa, un po' naif ma genuino, si sarebbe detto che fossero molto uniti. — Ci si sposa nel bene e nel male — disse Helen educata — e capisco che il signor Oates si appoggi a voi, perché siete il suo amore. Non riesco a

immaginarmi chi potrebbe sposare quell'infermiera… Barker… Secondo me alza il gomito… — Come? — chiese la signora Oates un po' svanita. — Be' — disse Helen stringendosi nelle spalle — forse era nel giusto quando insisteva per avere il brandy in camera, anche se la signorina Warren le ha spiegato che la vita di Lady Warren è dipendente dall'ossigeno. La signora Oates si limitò a fissare Helen, la fronte corrugata come se fosse stata alle prese con un calcolo complicatissimo. Evidentemente, però, i conti le tornarono ben presto, perché scoppiò nella sua abituale, sonora risata. — Be', non succede spesso di vedermi in difficoltà, vero? — chiese. — E, sul discorso mariti, il migliore è già un cattivo affare, e io ho il migliore… Ora mia cara fate la guardia al dottor Parry. Appena se ne va, vado su a portare un po' di budino all'infermiera. A Helen quell'attenzione sembrò quasi un tradimento verso di lei. — Portatele della zuppa inglese, che va più d'accordo con il brandy. — Be', le tremeranno le gambe — rise la signora Oates — ma non può stare alzata tutta la notte con il niente che ha mangiato. Sembra imbalsamata, ma quello dell'infermiera è un lavoro pesante. Helen, sulle scale della cucina, in ascolto, ebbe vergogna del suo risentimento. Non riusciva a spiegarsi i mutamenti d'umore della signora Oates, che non era certo una lunatica. Ma girava da una parte all'altra come una banderuola: ma da dove arrivava quel vento che mutava il suo orientamento? «C'è qualcosa che non va, in questa casa, questa sera» sentenziò Helen. Sentendo da lontano la voce del dottor Parry, avvisò la signora Oates e andò di sopra in anticamera. Il dottor Parry le andò incontro. Era rosso in volto e frenava con difficoltà la rabbia che lo sconvolgeva. — Signorina Capel — disse con un tono formale, quasi fosse un estraneo — se

dovesse ripresentarsi il problema di questa notte, ricordatevi che io non voglio che restiate nella stanza di Lady Warren. Non ne rispondo. Helen capì subito che la signorina Barker aveva superato se stessa come arroganza. — Va bene, dottore — disse con dolcezza. — Ma se l'infermiera si rivolge alla signorina Warren, lei l'accontenterà. — In questo caso — disse — vado subito a parlarne con il professore. Non ho nessuna voglia di farmi mettere sotto i piedi da una donna. Se le mie disposizioni non vanno bene, possono pure cercare un altro medico. Io continuo a occuparmi di questa malata solo perché avevo una madre, una santa, con una lingua che spezzava il ferro. Solo per rispetto alla sua memoria cono comprensivo con quella vecchia p… poveretta. Helen si fermò prima di arrivare alla porta del professore. — Entrate con me — disse il medico. Benché avesse soggezione del professore, Helen ubbidì. La curiosità, che l'avrebbe spinta a infilarsi nella tana di un animale, la rendeva ansiosa di esplorare quella in cui stava chiuso il suo padrone. La stanza ricordava in maniera sorprendente quella della signorina Warren. Anche lì i mobili sembravano accessori dei libri e dei fogli di carta e il professore aveva anche schedari e enciclopedie. Di oggetti tipicamente maschili neppure l'ombra: né una vecchia poltrona dei tempi dell'università, né un paio di pantofole consumate, neanche una tabacchiera. Il professore stava seduto alla scrivania americana con le punte delle dita premute sulle tempie. Era pallido e stanco. — Emicrania? — chiese il medico. — Un po' — fu la risposta. Helen dovette mordersi la lingua per non proporgli subito di prendere un'aspirina, rendendosi conto che un consiglio professionale sarebbe stato più gradito.

— Preso niente? — chiese il dottor Parry. — Sì. — Bene… La nuova infermiera vuole che la signorina Capel la sostituisca questa notte. Io l'ho proibito. Il cuore di Lady Warren non è messo bene e le sue condizioni sono troppo critiche per affidarla a mani non esperte. Posso contare su di voi perché questa disposizione venga eseguita? Mentre ascoltava, il professore si premeva le dita sugli occhi, come se la loro presenza gli desse fastidio. — Ma certamente — confermò. Appena usciti dalla stanza, Helen si rivolse al medico con gli occhi colmi di gratitudine. — Non potete sapere quanto vi sia riconoscente. Voi… Si fermò sentendo suonare il telefono. Corse a rispondere lei stessa, perché era in anticamera. — Un attimo, prego — disse, facendo segno al dottor Parry. — È per voi — spiegò. — È una persona che chiama dal Bull. Ha chiesto se eravate qui. Basandosi sulle risposte e le domande del dottor Parry, Helen provò a ricostruire la conversazione con l'interlocutore. — Sei tu, Williams? — chiese lui. — Che cosa è successo? Mano mano che sentiva quello che gli dicevano, il medico ava dallo stupore alla sorpresa, all'incredulità, e poi all'orrore. — Che cosa?… Impossibile… Ma è tremendo. Vengo subito. Agganciò con un'espressione che dimostrava senza alcun dubbio quanto la telefonata l'avesse sconvolto. Helen si aspettava che dicesse qualcosa. Arrivò la signorina Warren. — Era il telefono? — chiese eterea.

— Sì — rispose il dottor Parry. — Vi ricordate di una ragazza, una certa Ceridwen Owen, che è stata qui da voi a lavorare? Bene, è morta. Il suo cadavere è stato appena trovato in un giardino.

11. Un articolo di fede

A Helen fu sufficiente sentire quel nome per ricordarsi delle chiacchiere fatte in cucina. Ceridwen era la graziosa cameriera che confondeva gli strofinacci dei piatti, che andava a pulire sotto il letto di Lady Warren e che aveva gli spasimanti che l'aspettavano fuori, con la paziente, vegetale fermezza degli alberi. — Brutta storia — disse il dottor Parry. — Williams mi ha raccontato che il capitano Bean, ritornando dal mercato, ha un fiammifero per vedere la serratura e così l'ha notata… era raggomitolata in un angolo del suo giardino. È corso al Bull, e ha detto a Williams di telefonarmi a casa. La mia governante gli ha consigliato di provare qui a Summit. — Incredibile — annotò la signorina Warren. — Pensò sarà stato un colpo apoplettico. Quella ragazza aveva sempre un colorito così strano, , direi. — Presto lo sapremo — disse il dottor Parry. — Non riesco invece a spiegarmi come mai il capitano, che abita al confine di questa proprietà, non sia venuto qui subito invece di farsi un chilometro e mezzo a piedi e di corsa fino al Bull. — Ha avuto da dire con mio fratello. Il professore aveva scoperto un errore in un suo articolo scientifico, e credo ci sia stata anche della ruggine con la signora Oates riguardo a certe uova. Il dottor Parry fece un segno d'assenso: capiva benissimo il problema. Il capitano Bean era un misantropo scontroso e scostante, capace di negare la teoria di Einstein e l'accusa di avere fornito uova marce con la stessa decisione. Aveva un piccolo pollaio, si occupava della sua casetta e scriveva articoli sulle usanze e le religioni degli indigeni delle regioni più nascoste del mondo. Il dottor Parry sapeva che proprio l'isolamento lo poteva portare a ingigantire una banale discussione fino a farla diventare una faida, e quindi capiva perché avesse preferito lanciarsi all'impazzata sotto la pioggia torrenziale invece di rivolgersi ai vicini. Disse: — Taglierò per la tenuta, è la strada più veloce. Poi tornerò a prendere la moto.

Il suono che annunciava la cena in tavola affrettò la sua uscita, in un clima di tragedia. I discorsi su Ceridwen arrivarono con la minestra. Newton e sua moglie non mostrarono il minimo interesse per la morte di una domestica che non avevano mai conosciuto, ma Stephen se la ricordava. — Non era quella ragazza con gli occhietti civettuoli e la bocca tumida e rossa? — chiese. — Quella che Lady Warren ha preso a bastonate? Newton alzò le sopracciglia per fargli notare la totale assenza di tatto. — Una bestiolina — commentò la signorina Warren che si affrettò ad aggiungere, con la massima superficialità: — Poverina. — Perché «poverina»? — chiese aggressivo Newton. — Tutti dovremmo invidiarla. Ha raggiunto il nulla, finalmente. — «Suturata la ferita della vita, riposerà in pace» — sussurrò sua zia, riadattando allo scopo la citazione⁴. — No! — si oppose Newton. — Ma quale riposo… parole senza senso: significherebbe un possibile, futuro risveglio. Io invece dico: «Grazie che nessuna forma di vita sia eterna, che i morti non conoscano la resurrezione, che…» — Smettila! — lo interruppe Stephen. — E perché? Non sono ubriaco. Purtroppo, in questa casa, non può accadere. — C'è sempre il Bull — gli ricordò Stephen. — Con la sua spettacolosa barista — aggiunse Simone, con la voce carica di sottintesi. — Be', anche Newton conosce benissimo Whitey. — Stephen sogghignò. — Ma io l'ho messo in secondo piano. Mi riesce semplice con te, vero, Newton? Helen, per sgradevole che fosse, accoglieva con gratitudine ogni variazione sul

tema. Per lei, che palpitava di vita e che nella vita credeva, quelle teorie materialistiche erano ributtanti, soprattutto perché negavano l'esistenza dell'anima. L'innato, anche se sopito, senso dell'ospitalità della signorina Warren, la risvegliò dal suo eterno fantasticare. Pur non avendo notato né gli sguardi di traverso di Simone, né il sorrisetto provocatorio di Stephen, né l'aria cupa di Newton, sentiva che il rancore stava per avere la meglio. Guardò il professore, che aveva le mani sugli occhi fino a coprirli, e si affrettò a cambiare discorso. — Hai ancora mal di testa, Sebastian? — domandò. Lui annuì, spingendo da una parte il piatto di pesce ancora intoccato. — Stanotte non ho quasi dormito — disse. — Che cosa prendi per dormire? — chiese Newton. — Il Quadronex. — Ahi… ahi… È roba pericolosa, meglio andarci piano. Un sorriso sarcastico si dipinse sulle labbra secche del professore. — Mio caro Newton — disse — da piccolino strillavi così forte, e così di continuo, che, per riuscire a lavorare, ero costretto a sedarti. Il fatto che tu sia sopravvissuto è la prova che non ho bisogno di consigli da mio figlio. Newton diventò violaceo in viso mentre Stephen scoppiava in una risata. — Grazie tante, Capitano — borbottò. — Spero che tu sappia prenderti cura di te meglio di come hai fatto con me. Helen si morsicò le labbra. Erano tutti superiori a lei: colti, ricchi e intelligentissimi, i Warren, mentre Simone aveva viaggiato ovunque per il mondo. Helen, durante i pasti, stava sempre seduta in silenzio perché le mancava il coraggio di prendere parte alla conversazione. La signorina Warren, comunque, faceva quasi sempre qualche tentativo per coinvolgerla.

— Avete visto qualche buon film di recente? — chiese, scegliendo un tema di sicuro interesse per una ragazza che non leggeva il «Times». — Film senza importanza — rispose Helen, che non aveva più messo piede in una sala cinematografica dagli spettacoli gratuiti dell'Australia House. — Ho visto Il segno della croce⁵ poco prima di partire da Oxford — intervenne Simone. Il professore si mostrò interessato. — Il segno della croce? — ripeté. — Hanno rispolverato quell'anticaglia? E il popolino continua a entusiasmarsi per quel simbolo di superstizione? — Eccome! — rispose Simone. — Applausi scroscianti. — Divertente — ridacchiò il professore. — Ricordo di avere visto una versione teatrale con un compagno di università, che amava solo le corse ed era ateo. Seguì quella croce con una specie di interesse sportivo e partecipò alla vicenda come se la volesse vedere vincere. Nella scena finale urlava e applaudiva quel trionfo con il viso bagnato di lacrime. La risata generale fu più di quello che Helen riuscisse a sostenere. All'improvviso udì la sua voce. — Trovo che… che sia mostruoso — disse tremante. Tutti la fissarono con aria interrogativa. Aveva il viso arrossato e contratto, come se fosse sul puntò di scoppiare a piangere. — Non penso che una ragazza di oggi attribuisca un valore soprannaturale a un simbolo, o sbaglio? — fece il professore. Helen si sentì scomparire sotto il suo sguardo, ma non arretrò. — Io sì — disse. — Quando ho lasciato il convento in Belgio, le suore mi hanno consegnato una croce. È sempre appesa sopra il mio letto, e non me ne separerei per nessun motivo al mondo. — E perché? — chiese Newton.

— Perché per me significa… significa moltissimo — balbettò Helen. — E che cosa, precisamente? — chiese Newton. Helen si sentì la lingua bloccata, con quella sequenza di occhi sbeffeggianti addosso. — Tutto — rispose. — E mi protegge. — Medievale — sussurrò il professore, mentre suo figlio continuava nel suo interrogatorio. — E da che cosa vi proteggerebbe? — chiese. — Dal male. — Allora, finché starà sopra il vostro letto, potreste tranquillamente aprire la porta al nostro assassino — rise Stephen. — No, sicuro — ribatté Helen decisa, non aveva alcuna soggezione di quel giovane. — La croce rappresenta una forza che mi ha dato vita, ma al tempo stesso mi lascia la libertà di gestirmi da sola la mia vita. — Bene… la nostra Helen crede anche nella provvidenza — disse Simone. — Tra non molto ci convincerà dell'esistenza di Babbo Natale. Helen, così assalita, si guardò intorno. Le sembrò di essere al centro di un tribunale di occhi e di denti che si divertivano grazie a di lei. Poi il suo sguardo cadde su Oates, dignitoso nella sua giacca di lino, che reggeva i piatti con la goffaggine di una scimmia ammaestrata. Sul suo viso brutto vide comprensione e partecipazione, e questo le diede coraggio. — So una cosa sola — dichiarò con la voce tremante — che se fossi come voi preferirei non essere mai nata. L'aiuto le arrivò da chi non si aspettava: Stephen batté le mani in segno di plauso. — Brava — disse. — La signorina Capel ha più coraggio di tutti noi messi insieme. Ci ha tenuto testa, da sola contro cinque, ed è solo un peso mosca. — Dovremmo vergognarci. — Non è coraggio — puntualizzò il professore

rivolgendosi a Helen con tono accademico — ma solo di errori di valutazione e di confusione di valori. E le conseguenze possono essere terribili. Signorina Capel, date per scontato che l'uomo abbia un'origine divina. In realtà è una creatura dominata solo dagli istinti e dall'ingordigia, e su questo presupposto chiunque potrebbe manovrarne il destino con la stessa facilità con cui si tirano i fili a un burattino. La provvidenza non esiste, lo capite? Newton spinse in avanti la testa, con gli occhi che gli brillavano dietro le lenti. — Molto interessante, Capitano — disse. — Mi piacerebbe usare l'idea per un film. Basterebbe spingere un personaggio a fare cose che mettano in moto le reazioni naturali degli altri, senza fare uso di effetti speciali. — Hai quasi capito — approvò suo padre. — L'uomo non è altro che argilla animata dalla lussuria. A quel punto Helen dimenticò il suo ruolo di dipendente, scordò che aveva un nuovo lavoro da conservare, dimenticò tutto tranne l'affronto fatto a quello che aveva di più caro. Saltò in piedi e spinse indietro la sedia. — Scusatemi, signorina Warren — disse — ma non posso più rimanere qui… ad ascoltare… — Oh, signorina Capel — protestò Newton — stavamo solo scambiando delle idee, non c'è niente di personale… non ha senso offendersi. Prima che finisse di parlare, Helen era già fuori dalla sala da pranzo e correva giù per le scale della cucina. Trovò la signora Oates nella dispensa che ammucchiava i piatti sporchi. — Oddio, signora Oates — gemette — ho fatto la figura della cretina. — Nessuna paura, ragazza mia, l'importante è che non siano gli altri a farvela fare — fu la risposta. — Vorrei che Oates mi desse una mano a lavare i piatti. Non portereste voi il caffè al posto suo? Tornata la curiosità, a Helen tornò anche il coraggio. Voleva vedere com'era sistemato ora il suo uditorio.

— Tanto vale andare fino in fondo — gemette. Quando fu in salotto con il vassoio si rese conto che l'episodio era già stato dimenticato. I giovani presero le rispettive tazzine con un gesto meccanico mentre discutevano sulle presunte bellezze di un'attrice famosa. La signorina Warren ritagliava articoli da una nuova rivista scientifica e il professore era già nel suo studio. La signora Oates ricomparve all'improvviso sulla porta. — L'infermiera è qui e vorrebbe dire qualcosa al padrone — disse. — Non si può disturbare — le disse la signorina Warren. — Ma è importante. È importante per la sopravvivenza stessa di sua signoria. Tutti sollevarono gli occhi a quel drammatico annuncio. Avevano aspettato così tanto che quella vecchia terribile morisse che ormai si erano come rassegnati alla sua immortalità. Il primo pensiero di Helen fu per il testamento: non poteva ancora arrendersi e morire. — Sta per morire? — chiese Newton, la voce rotta dall'ansia. — No, signore — rispose la signora Oates. — Ma l'infermiera dice che è finito ossigeno.

12. La prima breccia

Newton interruppe quel silenzio seguito allo sbandamento generale. — Di chi è la colpa di una simile negligenza? — chiese. La signorina Warren e Helen si scambiarono sguardi colpevoli e accusatori. Entrambe erano certe di non avere la coscienza pulita, ma entrambe volevano scaricare la responsabilità sull'altra. Da dipendente, Helen subì il primo attacco. — Avete dimenticato di avvitare la bombola dopo l'uso? — No, perché voi mi avete mandato fuori dalla camera — rispose Helen. — Avreste dovuto farlo prima di andarvene. — Non avrei potuto farlo, la bombola l'avevate voi. Helen parlava con decisione perché non aveva le idee per niente chiare. Per fortuna la signorina Warren le aveva confuse quanto lei. — L'avevo io? — sussurrò. — Sì, forse stavo proprio dando l'ossigeno a Lady Warren. Ma mi sembra di ricordare di avere avvitato la valvola. — A che cosa serve discutere? — interruppe Newton. — Ormai dobbiamo procurarcene una nuova prima possibile. La signorina Warren non batté ciglio. — Sì, questo il problema — disse. — Vado a parlarne con il professore. Helen la seguì nello studio, dove trovarono l'infermiera. Parlava con il professore con un tono molto meno affetto del solito. Lui sembrava altrove. — Capita raramente di trovarsi di fronte a tanta trascuratezza quando si ha in casa una malata così grave — disse. — Vorrei proprio capire di chi è la colpa.

Mentre parlava fissava Helen. — È mia — rispose la signorina Warren molto tranquilla. Sembrò non notare l'occhiata di riconoscenza di Helen e si girò verso il fratello. — A mio avviso dovremmo ordinare subito un'altra bombola. — Non è così urgente — intervenne l'infermiera. — erà benissimo la notte con il brandy. È… — Solo una parola, infermiera, scusatemi… — Il professore alzò una mano in segno di protesta. — Proprio questa sera, il medico mi ha informato che le condizioni di Lady Warren sono critiche. — È un dottorino di campagna — ridacchiò l'infermiera. — Non sta così male. Io capisco quando un malato sta per morire, e non sbaglio. — L'opinione del medico per me è attendibile — disse freddo il professore. — Telefono subito per farci spedire una nuova bombola. — Il magazzino sarà chiuso — obiettò la signorina Warren. — E non spediranno mai una bombola in questo posto desolato con le strade impraticabili — aggiunse l'infermiera. — Allora andremo a prenderla. — Il professore parlava con estrema decisione. — Non metteremo a rischio la vita di Lady Warren solo per evitare una piccola scocciatura a qualcuno. Helen ascoltava sentendosi in colpa, perché forse il medico aveva esagerato la gravità della malata per dare una mano a lei. — Lady Warren sa che il medico ha detto che non devo vegliarla io questa notte? — domandò in ansia, sperando che l'argomento fosse definitivamente chiuso grazie all'autorità del professore. — Ha detto pure questo? — chiese l'infermiera, con un lampo di sfida negli occhi. Il professore si premette la fronte con un gesto impaziente.

— Il medico pensa a una crisi… o un collasso improvviso — spiegò lui — e quindi è chiaro che occorre un'infermiera specializzata accanto al suo letto. — Come mai non c'è un'altra infermiera? — Non abbiamo un posto per ospitarla — rispose la signorina Warren. — Sì che ce l'avete. Lei — e l'infermiera fece un cenno con la testa indicando Helen — potrebbe benissimo dormire in mansarda. E domani si libera anche la camera dello studente. Helen rimase a bocca aperta davanti a una prontezza ancora maggiore della sua. In pochissimo tempo l'infermiera, dando l'impressione di non essersi allontanata un momento dal capezzale della sua paziente, aveva disegnato la planimetria della casa. — Non abbiamo bisogno di due infermiere — disse la signorina Warren con un filo di voce. — Le colleghe che sono state qui prima di voi mi hanno assicurato che Lady Warren dorme quasi tutta la notte, e quindi il loro riposo è stato disturbato pochissimo… La capo infermiera non vi ha detto che il salario è stato deciso in base alle prestazioni? L'infermiera divenne tranquilla come un agnello. — Sì, grazie — disse. — Sono più che contenta di ciò che ricevo. Il professore si rivolse alla sorella. — Chiamerò io stesso — disse, e si avviò verso l'anticamera seguito dalla signorina Warren. Rimasta sola con l'infermiera, fu Helen a infrangere quel pesante silenzio. — Mi dispiace, sapete bene che non sono esperta. — Io invece sì. — Il tono era acido. — Avere “esperienza” vuol dire essere fatte di ferro, e mangiare quel che resta, dormire quasi mai e lavorare venticinque ore al giorno. — È una vergogna. Ma non è colpa mia. — Sì invece. — L'infermiera aveva intenzione di infierire. — Avete gironzolato

bene attorno al dottore: prima, con le spalle scoperte, spingendolo a dire quello che vi andava… Oh, non sperate di farla franca con me… Mi sfugge poco, e quel poco… lo indovino a naso… La storia non è ancora finita: se riesco a parare questo brutto tiro, e vi dico subito che ho un piano chiaro in mente, non è da escludere che iate comunque la notte nella camera azzurra. Helen si sentì come travolta da quell'invettiva. La spaventava la furbizia dell'infermiera ma soprattutto la sua cattiveria. Insisteva per metterla vicino a lady Warren, alla persona di cui aveva più paura, come un aguzzino che infierisce, durante la tortura, nel punto che ritiene più doloroso. Per sfuggirle corse in anticamera. Il professore era al telefono. Lui sollevò una mano facendole segno di fermarsi. Quando agganciò le disse: — Fino a domani non possono consegnare, ma mi hanno promesso di consegnare una bombola al mio autista: lo aspetteranno fino alle undici. Signorina Capel, per piacere, andate a dire a Oates di fare presto a prepararsi. Helen non trovò per niente piacevole quell'incarico vedendo Oates con le gambe tese sul camino della cucina, che stava gustandosi la sua pipa. Una volta di più fu colpita dal suo self-control e l'ubbidienza appresa in Marina. Lui si alzò subito e cominciò a mettersi gli stivali. — Proprio mentre pensavo alla comodità del mio letto — disse. — Ma non fa niente, la vita è così. — Volete che domandi al signor Rice di andare al posto vostro? — propose Helen. — No, signorina. Un ordine è un ordine, e chi comanda ha detto Oates. Non mi fiderei comunque a dargli l'auto. Solo io ce la faccio a convincere quel gioiello a salire sulle colline. Poi si rivolse alla moglie. — Ricordati di chiudere a chiave il garage quando me ne sarò andato. E ricordati che senza di me dovrai stare attenta il doppio. Helen provò uno sensazione di sconforto all'idea che Oates stesse per andare: la

sua corporatura da gigante e il suo viso gentile la facevano sentire tranquilla. A peggiorare tutto il fatto di essere in parte causa del suo male. «Se avessi tenuta chiusa la bocca con il dottor Parry, adesso non lo manderebbero fuori» pensò. «Il professore ha detto che tutto dipende dagli uomini, che l'uno ha potere sulla vita dell'altro… Ma chi, che cosa, mi ha spinto ad agire come ho fatto?» Le venne in mente l'infermiera che giocava sulla sua paura, e le vennero i brividi. — Come vorrei che non andaste! — disse a Oates. — Dentro o fuori è uguale — rispose lui. — Ma andrà tutto bene, con due giovani e forti che vi proteggono, per non parlare poi dell'infermiera. — A che ora tornerai? — gli chiese la signora Oates. — Quando torno, torno, quindi non chiamare la polizia. Farò più presto possibile. — Si rivolse a Helen: — Volete dire al padrone che, suonerò il clacson uscendo e aspetterò un momento sul viale, nel caso abbia qualcosa da dirmi? Helen riferì la cosa al professore, che era ritornato nel suo studio. L'interruzione gli diede fastidio, anche se riuscì a nascondere la sua irritazione. — La ringrazio signorina Capel — disse — ma Oates sa già quello che cosa deve prendere e dove. Helen uscì nell'atrio, esposto alla furia del temporale. Il vento batteva contro la porta con raffiche così violente da sembrare una scarica di pugni di ferro, e la pioggia gorgogliava giù per le grondaie: Helen si sentì doppiamente colpevole nei confronti di Oates. Il clacson risuonò sul viale. Le venne la tentazione di aprire la porta per salutarlo, ma si ricordò come avesse oscillato il lampadario dell'anticamera quando era entrato il dottor Parry. Il motore del vecchio rottame scoppiettò fino a spegnersi in un flebile rombo, e poi svanì piano in lontananza. Con un senso profondo di solitudine, Helen

rientrò in anticamera. «Se n'è andato una dei miei guardaspalle» pensò. Arrivò proprio in tempo per vedere la vivace schermaglia tra la signorina Warren e Stephen Rice. — È vero — chiese la signorina — che avete un cane in camera con voi? — È verissimo — rispose strafottente Stephen. — È un cane… non è una signora. — Portatelo immediatamente in garage. — Mi spiace, la risposta è no. La signorina Warren perse la sua normale calma. Il suo viso sembrò fluttuare come un fuscello nell'acqua di un fiume. — Signor Rice — disse — vi prego di ascoltarmi bene. Io animali in questa casa non ne voglio. — Va bene — la rassicurò Stephen. — Stasera uscirò e lo porterò con me. — Dove vai? — chiese Newton che girovagava con le mani in tasca e si godeva la scenetta. — Al Bull. Lì mi vogliono bene, e saranno ben contenti di tenere il mio cane. Sanno riconoscere un vero signore a prima vista. Simone lanciò un grido di disapprovazione. — Non fare il bambino, Stephen. Non puoi uscire sotto questo diluvio. Finireste tutti e due bagnati fradici. Può fare male al tuo cane. Stephen ebbe un momento di incertezza guardando, attraverso la porta aperta, il camino . — Restò qui se può restarci anche il mio cane — disse. — Fuori lui, fuori anch'io. — Vado a parlarne con il professore — disse a voce alta Simone. Suo marito la prese per un braccio. — Non angosciare il Capitano — disse. — Ha già molti

problemi. Simone si svincolò dalla stretta e corse nello studio. A differenza degli altri, non aveva alcuna soggezione del professore. Per lei era solo un signore anziano al quale doveva rispetto come nuora. Dopo qualche minuto ritornò con il viso raggiante, qualche o avanti il professore. — Ho saputo — disse quest'ultimo a Stephen — che c'è qualche divergenza riguardo a un cane. In quanto responsabile, le decisioni della signorina Warren sono legge. Ma, dal momento che si tratta di una notte sola forse potrebbe fare un'eccezione. Guardò la sorella. — Mi hai sentito, Blanche? — Sì, Sebastian — fu la risposta sommessa. La signorina Warren salì al piano di sopra e il professore ritornò nel suo studio. Helen, ad un tratto, ricordò di non aver bevuto il caffè. Non lo beveva mai in salotto perché le tazzine, per i suoi gusti, erano troppo piccole. Riscaldava quel che restava nella caffettiera, ci aggiungeva latte abbastanza da far diventare l'insieme un litro e più, e se lo gustava nel suo salottino. Terminata la giornata di lavoro, era buona abitudine non disturbare i signori Oates, che se ne stavano tranquilli a godersi la pace della cucina, e quindi aveva un suo pentolino e un fornello utilizzati allo scopo. Le faceva male la testa, probabilmente perché aveva camminato troppo. Una volta seduta in poltrona si rilassò al punto da non aver più voglia di muoversi. Sentì dei i furtivi scendere la scala a chiocciola e dei tonfi sordi. Nonostante la curiosità fosse tanta, in quel momento la pigrizia ebbe la meglio. Nel camino facevano capolino delle facce rossastre che la scrutavano tra un pezzo e l'altro di carbone, e lei a sua volta le guardava. Aveva le ginocchia piacevolmente calde, e si sentiva in pace con il mondo. Sentì di nuovo dei i sulla scala, che questa volta salivano, e la sua vera

natura tornò a farsi valere. Si alzò in piedi ed ebbe appena il tempo di vedere lo strascico dell'abito da sera della signorina Warren sparire sfiorando una spirale di gradini. La signora Oates le aprì la porta della cucina con un'aria non proprio contenta. — Voi? — disse. — Mi aspettavo di vedere Marlene Dietrich. Com'è vi è venuto in mente di farmi alzare proprio quando mi ero appena seduta? — Volevo solo sapere che cosa faceva qui sotto la signorina Warren — le disse Helen. — E voi mi avete fatta alzare… per questo motivo? Come se la padrona non fosse libera di andare e venire dalla cucina senza chiedere il permesso a chicchessia! — Ma è la prima volta che la vedo nel seminterrato — continuò Helen. — Scusate, ma da quand'è che siete qui? Dal medioevo? — chiese la signora Oates sbattendole la porta in faccia. Helen, con lo stato d'animo di chi è stato punito, tornò nel suo salottino e si accese il fornello per scaldare il caffè. Dopo pochi istanti l'aroma riempiva il locale, e lei guardava le bollicine che si formavano in superficie. Sentì suonare il camlo della porta d'ingresso. Spense il fornello e corse su per la scala, nella speranza di incontrare per prima il dottore. Dovette faticare per aprirgli perché il vento mulinava in tutte le direzioni. Bastò uno spiraglio e il dottore si infilò in casa, chiudendosi la porta con violenza alle spalle. Senza una parola tirò tutti i chiavistelli e agganciò anche la catena di sicurezza. C'era un fare così frenetico nel suo agire e nel suo silenzio che Helen si spaventò. — Dunque — gli chiese senza fiato. — Perché non aprite bocca? — Che brutta serata — disse lui, togliendosi il cappotto inzuppato e guardandola preoccupato. — No, no — insistette lei. — Volevo sapere… avete capito di cosa è morta

quella povera ragazza? — Sì — fu la risposta ferma del dottore. — È stata ammazzata.

13. Il delitto

Per Helen quella notizia fu un colpo così tremendo che la fece barcollare e le sembrò che la casa, con lei, oscillasse al vento, e solo quando tornò a sentirsi sicura sulle proprie gambe vide tutta la famiglia radunata nell'anticamera, ferma che ascoltava attenta e tesa le parole del dottore. — L'hanno strangolata — disse lui. — Quando? — chiese il professore. — È impossibile stabilirlo con certezza. Più o meno tra le cinque e le sei del pomeriggio. — Strangolata — ripeté la signorina Warren, con un filo di voce. — Come… le altre, giusto? — Esattamente — confermò il dottor Parry. — Solo che stavolta… Ceridwen era una ragazza forte, e ha lottato per difendersi, scatenando la violenza del suo assassino. — Ma quindi — e i lineamenti della signorina Warren che si contraevano erano una pena — se è morta nel giardino del capitano Bean, significa che il maniaco era vicinissimo a noi. — Ancora più vicino — disse il medico. — Il delitto è stato commesso all'interno della vostra proprietà. Un sussulto d'orrore sfuggì dalle labbra della signorina Warren, mentre Simone si aggrappava al braccio di Stephen. Benché fosse visibilmente sconvolta, Helen vide che Simone non perdeva mai occasione per sperimentare la sua capacità di seduzione, mentre gli occhi indagatori del marito non l'abbandonavano un momento. Fu travolta da un'ondata di ricordi recenti. Si rivide sola e indifesa che fissava Summit da un punto lontano della campagna desolata, con il Delitto vicino a lei.

Aveva continuato a seguirla, insinuandosi sempre più vicino, non visto e non sentito. Forse lei gli era ata accanto, forse si nascondeva tra i cespugli, era lì. Ma il Delitto l'aveva stanata… e l'aveva condannata. Sapeva che sarebbe ritornata in casa, e, immondo, si era appostato mimetizzandosi dietro un albero. «Ho avuto fortuna», pensò. Il pensiero della povera Ceridwen che se ne andava felice incontro al suo terribile destino la fece quasi svenire. Appena si fu ripresa, si accorse che dal viso del professore non traspariva alcun segno di emozione e sentì la sua voce così calma che le sparì dalla mente il buio paesaggio tremulo perforato dai bagliori infernali e si ritrovò nel confortevole ambiente di una casa inglese. — Cosa vi fa pensare che il delitto è stato commesso nella nostra tenuta? — stava chiedendo il professor Warren. — Gli aghi di pino trovati nelle mani chiuse a pugno della ragazza, e sugli abiti, strappati di sicuro da una siepe… Comunque è inutile cercare una logica nel comportamento di una mente deviata, però è strano che abbia preso una precauzione così superflua. Il cadavere avrebbe potuto restare nella tenuta per molte ore senza che nessuno lo trovasse. — Non è così — intervenne il professore. — È fuor di dubbio che, dietro l'apparente assurdità, si nasconde un proposito ben preciso. Suo figlio, al quale il vicino non era certo simpatico, ridacchiò. — Che botta per il capitano Bean! — esclamò. — Un cadavere sulla porta di casa ad aspettarlo. — Era scosso — disse freddo il dottor Parry. — Per un uomo della sua età non è un colpo da niente. Le morti violente non sono esperienze divertenti, soprattutto per le vittime. Gli occhi scuri fiammeggiarono adirati sui due giovanotti e sulle labbra rosse di Simone, avidamente dischiuse, come se gustassero le sensazioni di quel momento.

— Non vi voglio allarmare — disse il medico. — Anzi no, non è vero, lo voglio senz'altro. Dovete mettervi bene in testa, tutti, che qui nei dintorni si aggira un pazzo criminale che ha già assaggiato il sapore del sangue e che, con ogni probabilità, desidera ardentemente spargerne dell'altro… Ed è qui vicino… vicinissimo a voi. — Tenterà… proverà a introdursi in casa? — balbettò la signorina Warren. — Non dovete dargli la possibilità di farlo. Sono certo che il professore insisterà perché tutti rimangano a casa. Non credo sia necessario sbarrare porte e finestre, tutte. Non abbiate paura di eccedere con le precauzioni… per quanto possano sembrare assurde. — Ho fatto già tutto, come… come responsabile della casa — lo informò la signorina Warren. — Bene. Ci vuole una donna intelligente che si renda conto della gravità del pericolo e che si assuma la responsabilità delle persone più giovani di lei. Siete perfetta in questo ruolo. Oates potrebbe ucciderlo con una mano sola, se entrasse in casa. Presa dallo sconforto, Helen sentì il professore che spiegava il motivo per cui Oates non c'era. Il pensiero che anche il medico stesse per andarsene la deprimeva moltissimo. La decisione e il senso pratico del dottor Parry sembravano trovare la giusta spiegazione persino a un omicidio. Era una tragedia innaturale dalla quale ci si doveva difendere con mezzi naturali, mezzi che avrebbero avuto la meglio perché il piano difensivo era pensato molto meglio di quello d'attacco. Lui spiccava tra quegli uomini in smoking: con il mento ormai scuro di barba, ma a lei bastò incontrare i suoi occhi e vederlo sorridere per provare affetto e comprensione. Qualcosa che la riempiva di felicità e di speranza la fece sentire sul punto di una scoperta. Ma prima che avesse il tempo di pensare, il medico si avviò verso la porta. — Vi devo lasciare — disse con una voce incoraggiante. — Professore, sono certo che vi rendete conto dell'importanza che tutti gli uomini rimangano in casa questa notte per garantire la giusta protezione alle due ragazze.

Il suo sguardo raggiunse anche Simone, che gli rispose con un sorriso ammaliante. — Sebastian — disse lei appoggiando il mento sulla spalla del professore — non permetterete che il dottor Parry se ne vada senza offrirgli qualcosa da bere, vero? Helen approfittò dell'occasione. — C'è del caffè, di sotto — intervenne rapida. — Lo porto su? — Grazie, è proprio quello che mi ci vuole — disse il dottor Parry. — Non potrei invece scendere ad asciugarmi un po' vicino al fuoco? Helen non riuscì a nascondere la sensazione di trionfo che sentiva nei confronti di Simone. L'uomo di Simone mordeva il freno, il suo invece la seguiva come un cagnolino, fedele e felice. Il suo salottino apparve ancora più allegro e riposante quando furono seduti l'uno davanti all'altra. Il dottor Parry beveva lunghe sorsate da una grossa tazza e lei, meno rumorosa, beveva il suo caffè da un'altra uguale. — Come mai siete così allegra? — le chiese brusco. — Non dovrei esserlo, lo so — disse lei con un tono di scusa. — È una situazione terribile. Ma… fa parte della vita. E io ne ho vissuta così poca. — Che cosa avete fatto, nella vostra vita? — I lavori domestici. A volte seguiti dai bambini da accudire. — E riuscite ancora a essere allegra? — Ma certo. Non si sa mai che cosa ci aspetta dietro l'angolo. Il dottor Parry corrugò la fronte. — Mai sentito il detto «la curiosità ha ucciso il gatto»? — chiese. — Penso che se vi trovaste davanti a una bomba fumante andreste a vedere se la miccia è accesa, o mi sbaglio? — No che non lo farei, se sapessi che si tratta di una bomba — gli spiegò Helen.

— Ma non potrei saperlo finché non l'avessi visto con i miei occhi. — E lo dovete proprio scoprire? — Sì, e voi fareste altrettanto, se foste al mio posto. — Ci rinuncio — sospirò il dottor Parry. — Non avete abbastanza buon senso per capire che una tigre umana, disperatamente forte e furba, aspetta solo di ridurvi come ha ridotto Ceridwen? Se aveste visto quello che ho visto io… — Oh, vi prego, non ditemi altro — lo interruppe Helen con il viso contratto. — Ma il mio scopo è quello di farvi paura. Non sapete con chi avete a che fare: i pazzi di questo tipo sembrano del tutto normali tra un attacco e l'altro di follia. Potrebbe anche essere una persona che vive in questa casa e della quale vi fidate come vi fidate del giovane Rice o del professore. Helen si strinse nelle spalle. — Potrebbe anche essere una donna? — chiese. — No, a meno che non abbia una forza fuori del comune. — Be', ora sono preparata, saprò difendermi. — No invece — insistette il medico. — Provate a immaginarvi l'orrore di un viso amico, il mio, per esempio, che di colpo diventa una maschera sconosciuta e vi fissa con la morte negli occhi. Helen non reagì come aveva sperato il dottor Parry. — State dicendomi che è stato uno degli abitanti di questa casa a commettere quei delitti? — chiese. — Bene, sarei pronta ad affrontare chiunque di loro, chiunque tranne Oates. Lui, se andasse fuori di testa, addio… Sarebbe una specie di King Kong. Il dottor Parry perse la pazienza. — Vi piace scherzare, eh? Bene, allora che cosa mi dite della povera piccola che poco fa tremava per la paura di una vecchia malata?

Helen sentì i brividi lungo la schiena. — Vi volevo ringraziare per quello che avete fatto. Vi siete dimostrato un vero amico… Con Lady Warren è diverso. Ha qualcosa di innaturale. Ma tutti si dicono pronti a fare quello che non dovrebbero… poi però non lo fanno. Il dottor Parry rise, alzandosi dalla poltrona. — Ci voleva un medico per sbrogliare la matassa — commentò. — Intendete dire che le parole sono una specie di vaccinazione morale, giusto? — Sì — annuì Helen. — Proprio come l'antivaiolosa. — E a voi andrebbe l'idea di farvi immunizzare? Che sostanza battericida vi piacerebbe? — chiese. — L'alcool, l'eroina o un fine settimana a Brighton? — Oh, ma io non stavo parlando di me. Io sono sempre fuori discussione. Il dottor Parry la guardò in modo significativo. — Credo proprio che ben presto entrerete a far parte della foto di gruppo. Forse i gallesi sono più impetuosi degli inglesi. Sono pronto a scommettere che nel giro di sei mesi sarete la signora Jones, o Hughes… o Parry. Helen invertì di proposito l'ordine dei nomi, e gli sorrise. — Accetto la scommessa — disse. — E se non sarò la signora Parry o Jones pretenderò il mio credito. — Va bene — disse il medico. — Tanto perderete. Ma ora che ho preso il vostro ottimo caffè bisogna che me ne vada. — No, aspettate — lo fermò Helen. — Devo prima dirvi una cosa. Gli raccontò a sommi capi la vicenda dell'albero. Questa volta non fu necessario entrare in dettagli né colorire i fatti: il dottor Parry l'ascoltava con lo sguardo feroce e le labbra serrate, un atteggiamento che avrebbe dovuto celare la sua preoccupazione. — Ripensando alla bomba di cui vi parlavo prima, mi compiaccio nel vedere che

vi è rimasto un pizzico di prezioso senso del pericolo. — Allora non credete che sia stata una stupida a fuggire? — Penso che abbiate fatto la cosa più intelligente di tutta la vostra vita. Helen si chiuse nelle sue riflessioni. — Peccato però che non l'abbia visto bene — concluse. — Secondo voi abita da queste parti? Il dottor Parry scosse il capo. — No. Non c'è dubbio che questo sia il quinto di una serie di delitti tra loro collegati. I primi due sono stati commessi in città e probabilmente è lì che abita. In questo momento potrebbe starsene tranquillo in famiglia… La polizia dovrebbe riuscire a controllare gli spostamenti di qualche innocuo e rispettabile cittadino, e scoprire se manca un pezzo della frangia a una delle sue sciarpe di seta bianca. — Un indizio? — chiese Helen. — Sì. Ho trovato dei fili di seta nella bocca di Ceridwen. Deve averli strappati con un morso durante la lotta. Non deve essere stata una vittima facile per lui… So di non avere cuore dicendovi tutto questo, ma voglio che vi mettiate bene in testa che il pericolo è notevole. Accompagnatemi, così metterete il chiavistello alla porta. Helen ubbidì, soffrendo le pene dell'inferno nel vederlo uscire al buio e sotto la pioggia. I lauri del viale e i cespugli del prato sembravano sul punto di venire sradicati dal vento. Gli alberi erano vivi… provavano a muoversi… cercavano di entrare in casa. Chiuse la porta con violenza. L'anticamera era un'isola di pace. Helen tornò di corsa nel suo salottino, per ritrovare l'immagine del dottor Parry. Appena si mise seduta la signora Oates infilò la testa dalla porta. — Vi avviso — disse in con un rauco bisbiglio. — State attenta. La nuova

infermiera… ha qualcosa di strano…

14. Prudenza, prima di tutto!

Helen fissava perplessa la signora Oates: c'era qualcosa in lei che non la convinceva, qualcosa di strano nel suo aspetto. Il viso, ancora accaldato dalle fiamme del camino, aveva la solita aria scontrosa, eppure sembrava differente. — L'infermiera — ripeté. — È cattiva… ma perché la trovate strana? — Così. — La signora Oates fece qualche cenno con il capo, sempre più misteriosa. — Non ci avevo fatto tanto caso. Poi mi sono tornate in mente alcune cose e ho cominciato ad avere dubbi. — Quali cose? — insistette Helen, tentando di spingere la signora Oates a rivelare contenuti precisi. — Niente, niente — fu la vaga risposta vaga. — Vorrei tanto dire due cose a Oates. Lui potrebbe chiarire tutto, o quasi. Finalmente Helen aveva compreso il motivo del suo cambiamento. Qualcosa era sparito dal volto della signora Oates: le mascelle si erano rilassate e lei teneva la bocca aperta, non c'era più la vecchia grinta del mastino. Helen sentì una sensazione di disagio. Uno dei suoi guardaspalle era uscito e l'altro era cambiato: ormai non si sentiva più al sicuro con la signora Oates. A un tratto tra le parole slegate della signora Oates si fece strada un nesso logico, Helen ci si aggrappò. — Voglio chiedere a Oates dove ha precisamente caricato in auto quella donna — disse. — A lui si può tagliare la testa che nemmeno se ne rende conto, come a voi del resto. — Ma sono certa di averlo sentito dire che è ato a prenderla al Pensionato — le ricordò Helen. — Ah sì, e come? Lui arriva fin dove deve arrivare e, se non ci sono io che scendo giù dalla macchina a suonare il camlo, se ne sta tranquillo e seduto,

suona il clacson e aspetta. La prima persona con un mantello e una cuffia che gli è salita in macchina per lui andava bene. — Mah — mugolò Helen. — Anche ammettendo che sia una commediante, non può certo avere commesso lei quel delitto, visto che a quell'ora era in auto con Oates. — Quale delitto? — chiese la signora Oates. Helen, da persona debole, annunciò orgogliosa quell'evento tragico che non la riguardava direttamente. Come la signora Oates reagì alla notizia della morte di Ceridwen la lasciò delusa. Prese la cosa come se fosse normale e non fece commenti. Ma dalla sua bocca uscì una sinistra profezia. — Bene… — mormorò indifferente. — Tenete bene a mente le mie parole. Prima di domani ci sarà un altro omicidio, sempre che a domani ci arriviamo. — Non vi pare di esagerare? — sbottò Helen. — Io di quella non mi fido. Raccontano che il maniaco vada in giro con una donna che usa per parlare con le ragazze perché lui possa dopo assalirle di sorpresa. — Avrebbe… una complice? — chiese Helen. — State tranquilla: se l'infermiera mi invita a fare un giro non ci vado. — Ma non è qui per questo — disse la signora Oates. — È qui per aprirgli la porta. Era decisamente un'ipotesi poco piacevole, soprattutto dopo le parole del dottor Parry. A Helen parve mancasse l'aria, dentro quella casa isolata e torturata dalle intemperie. — Salgo a vedere che fanno gli altri — disse, sentendo un bisogno assoluto di mutare compagnia. La prima persona che incontrò in anticamera fu Stephen Rice. Aveva già aperto l'attaccapanni e stava staccando dalla gruccia il suo vecchio Burberry. — Non avrete intenzione di uscire — urlò Helen.

Lui sogghignò, con un dito sulle labbra per invitarla a stare zitta. — Ssst! Sto svignandomela al Bull. Ho bisogno dei miei amici per togliermi dalla bocca l'amaro di questa faccenda. Potrei arrivare alla follia di bermi un boccale di birra. Appartengo alla categoria di quei disperati che, almeno una volta nella vita, devono provare tutto. — C'è comunque una cosa che non proverete mai a fare — disse Helen al culmine della sua pazzia. — E cioè? — Scappare con la moglie di un altro. Stephen seguì l'occhiata che Helen lanciò verso il salotto. — Sacrosanto e vero — le confermò. — Per me niente donne. — Poi tese la mano. — Sorella, potreste prestarmi uno scellino? Helen non riuscì a credere che le stesse chiedendo del denaro in prestito finché lui non provò a spiegarsi. — Voglio saldare il mio conto al Bull, e l'acquisto del cane mi ha asciugato le tasche. — Dov'è il cane? — domandò Helen per cambiare discorso. — In camera mia, dorme sul letto… Allora, questo scellino? — Non ho soldi — balbettò Helen. — Mi pagano alla fine del mese. — Che disgrazia. Altra zona depressa… Scusate se mi sono permesso di chiedere a voi. Non mi rimane che Simone, allora. È piena di soldi. Simone uscì proprio in quel momento dal salotto. — Dove stai andando? — chiese. — Da te, mia cara, a chiederti in prestito un po' di spiccioli. Poi vado al Bull, a consegnare gli stessi di cui sopra. Simone corrugò la fronte.

— Non occorre che ti inventi delle scuse per andare al Bull — disse. — So qual è l'attrattiva di quel posto. — Whitey? — gemette Stephen. — Ma piantala di battere sempre sullo stesso chiodo. È una ragazza simpatica, siamo amici e niente altro. Si interruppe vedendo Newton. — Volete venire tutti nello studio? — disse. — Il Capitano ha una comunicazione importante da fare. Il professore era seduto alla sua scrivania e parlava a bassa voce con la sorella. Era stanchissimo e Helen se ne rese conto. Vide anche il bicchiere d'acqua e la boccetta di compresse bianche appoggiata vicino al suo gomito. — Ho qualcosa da dire — annunciò — una cosa che riguarda tutti. Nessuno uscirà da questa casa, stanotte. Simone lanciò uno sguardo di trionfo a Stephen che incominciò a balbettare. — Ma, signore… ho un appuntamento. — Rimandalo — gli disse il professore. — Ma non sono un bambino. — Allora dimostralo. Se sei un uomo ti renderai conto che ci troviamo in una situazione molto pericolosa e quindi tutti gli uomini che abitano in questa casa hanno il dovere di non andarsene. Stephen non mollava. — Resterei di sicuro senza esitare se ci fosse un motivo fondato. Ma non c'è. Le donne non devono uscire, qui in casa sono al sicuro. Quel pazzo non entrerà di certo qui. — Vi siete dimenticato della ragazza uccisa nella sua camera? — intervenne la signorina Warren con una voce fioca. — La finestra era aperta — ribatté Stephen.

— Ma avete sentito quello che ha detto il dottor Parry? — continuò la signorina Warren. — E hai capito quello che ho detto? — sottolineò il professore con decisione. — Sono il padrone di casa, e non consentirò che l'incolumità di chi ospito sia messa in pericolo da eventuali insubordinazioni. Helen notò lo sguardo del professore fermarsi su di lei per un attimo e il cuore prese a batterle di gratitudine. — C'è un'altra cosa, un'altra precauzione che voglio sia rispettata — continuò il professore. — Questa notte non deve entrare nessuno. Chiunque bussi o suoni alla porta, uomo o donna, resterà fuori. Vi proibisco di aprire per qualsiasi motivo. Questa volta fu Newton a intervenire e a obiettare. — Mi pare tutto abbastanza esagerato — disse. — Potrebbe venire chiunque, per esempio la polizia a qualcuno con qualche notizia importante. — Oppure, perché no… qualche disgraziato pellegrino vittima del freddo — soggiunse Stephen. Il professore prese un foglio come se ne avesse abbastanza di polemizzare. — Questi sono i miei ordini — disse — basati soltanto sulla convinzione che sia necessaria la massima attenzione. Se qualcuno esce da questa casa, anche solo per un attimo, vi avverto, non rientrerà più. Gli chiuderemo la porta alle spalle. Ad Helen parvero possibili alcune spiacevoli eventualità. Per esempio il dottor Parry, che giunto fino a Summit apposta per lei… fuori di casa, davanti alla porta, sotto la pioggia. — E se riconoscessimo la voce di un amico che ci chiama? — chiese timida. — Non dovete aprire in ogni caso — disse il professore. — Una voce si può imitare. Ve lo ripeto: non dovete aprire a nessuno, che sia uomo, donna o bambino. — Ma nemmeno a un bambino? — disse Helen come dispiaciuta. — Se dovessi

sentire un bambino che piange, come potrei non farlo entrare? Il professore tentò un sorriso desolato e guardò la sorella che mostrava evidenti segni di impazienza. — Vi trovereste di sicuro faccia a faccia col vostro bambino che vi prende alla gola — le disse. — Avrete avuto modo di sentire alla radio con quale cura un adulto riesce a imitare la voce di un bambino. — Per conto mio un pupo potrebbe piangere fino a farsi scoppiare gli occhi — disse Stephen astioso. — Si è dissolto un patrimonio grazie a un tale evento inaspettato nella mia famiglia… E vi giuro un'altra cosa: non muoverei un o neanche per salvare la pelle a una donna. L'occhiata che Simone gli lanciò fu di sfida e Newton la notò, scoppiando in una risatina isterica. — Non hai mai sentito parlare di Shakespeare, Rice? — domandò acido. — «Forse che la signora non protesta troppo?» Vi sentiamo tanto sbandierare ai quattro venti il vostro odio per le donne, ma i fatti non lo confermano di sicuro. — Non ho altro da aggiungere — disse il professore. — Volete per cortesia riferire subito i miei ordini alla signora Oates e all'infermiera, signorina Capel? — Certo, professore — disse Helen. E presa da un'improvvisa preoccupazione, aggiunse: — E Oates? — Resterà fuori — fu l'implacabile risposta. — Può parcheggiare l'auto in garage e restarci fino all'alba. — E se Lady Warren avesse necessità di ossigeno? — Anche Lady Warren dovrà correre la sua parte di rischi, come tutti. Prudenza assoluta, ecco che cosa desidero. Comprendo ciò che sta accadendo meglio di tutti voi… Quando da ragazzo ero in India, ricordo che una tigre si aggirava sempre attorno al recinto del bestiame. È riuscita a entrare, nonostante le nostre precauzioni. Poi abbassò il tono della voce e aggiunse:

— E là fuori, adesso, c'è un animale feroce. Mentre parlava bussarono alla porta.

15. Notizie segrete

Finirono di bussare e si attaccarono al camlo, cosa che fece sobbalzare Helen. — Vado ad aprire — disse. Attraversò il locale senza capire quello che stava per fare. La guardarono tutti, chi con occhi pieni di disprezzo, chi divertito, a seconda dei rispettivi punti di vista. Il professore fece un cenno con la testa alla sorella con un lampo ironico negli occhi. — Ecco l'anello debole — sottolineò a voce bassa. Quando sentì, Helen cominciò ad arrossire fino alla radice dei capelli. — Vi chiedo scusa — biascicò — ma mi viene automatico rispondere a un camlo. — L'abbiamo capito — disse risentito il professore. — Non voglio sembrare troppo severo, ma bisogna che capiate che la distrazione, in questo caso, è un tratto disobbediente. E bussarono di nuovo, e di nuovo suonarono alla porta. Benché capisse di non avere scelta, Helen dovette lottare con se stessa per non muovere un dito. «È come rimanere immobili a guardare il latte che trabocca dal pentolino» pensò «oppure come non fare niente davanti a un bambino che gioca con il fuoco. Sono sicura che stiamo facendo un errore.» I muscoli del viso della signorina Warren tremavano a ogni colpo dato alla porta, e i nervi di Helen si urtavano. Ci fu un un terzo assalto alla porta d'ingresso. Questa volta Stephen sembrò non resistere più alla tensione.

— Con il rispetto che vi devo e tutte le belle parole che si dicono in questi casi… non stiamo forse andando oltre? Insomma, tagliamo tutti i ponti con l'esterno. Potrebbe essere il postino con una lettera indirizzata a me, che mi dice che è morta mia cugina Fanny lasciandomi tutti i suoi averi. — Rice, ho dato un ordine — ribatté il professore. — E se commettessi l'errore per il quale ho appena rimproverato la signorina Capel cadrei in contraddizione. Se cominciamo con le eccezioni, tutte le precauzioni con cui intendiamo difendere la nostra incolumità perdono qualsiasi valore. — Sì, signore. — Stephen fece una smorfia nel sentire il quarto e più rumoroso assalto alla porta. — Ma mi fa uscire di testa non sapere chi c'è là fuori. — Rice, perché non l'hai detto subito? — Sulle labbra del professore comparve un sorriso che subito svanì. — È la polizia, ovviamente. Quello che disse creò un leggero sconcerto. — La polizia? — ripeté Newton. — E perché da noi? — Una pura formalità, dal momento che siamo nel raggio d'azione. Vorranno chiederci informazioni. Se si accontentassero di sentirsi rispondere che non sappiamo nulla e se ne andassero, sarei disposto a un'eccezione. La polizia è un corpo di pubblici ufficiali degni di tutta la considerazione… Però sono legati a doppio filo con la squadra anticrimine, e così buttano il tempo in dettagli insignificanti e non riescono mai a catturare l'uomo che ricercano. — Ma Sebastian non puoi tenerli fuori di casa, — gridò la signorina Warren. — Non ho nessuna intenzione di lasciarli fuori: domani, quando ritorneranno, li faremo entrare. Sono libero di fare ciò che voglio in casa mia e stasera ho perso già troppo tempo. Gli occhi lampeggiavano furibondi sulle sue carte da dietro le lenti degli occhiali. «Questo è il difetto peggiore degli uomini intelligenti» pensò Helen. «Sono testardi.» Sperava con tutta se stessa che la signorina Warren aprisse alla polizia che

rappresentava la risposta alle sue preghiere in quel preciso momento. Vide un gruppo di uomini in uniforme che provvedevano a proteggerla nel nome della legge. Le venne in mente qualcosa che forse avrebbe convinto il professore. — Io avrei delle cose da dire alla polizia — disse speranzosa. Il professore appoggiò sulla scrivania la penna stilografica e si girò a guardarla. — Signorina Capel — disse con un tono pacato — sapete qualcosa di così circostanziato da essere di aiuto alla polizia? Avete forse visto il maniaco e lo potreste descrivere o riconoscere? — No — rispose Helen. — Forse allora sapete chi sarà la sua prossima vittima, o dov'è in questo momento? — No — rispose Helen, augurandosi di sprofondare nelle profondità della terra. — Allora avete una vostra teoria? — No, ma… credo che si nasconda dietro gli alberi. Simone fu la prima a trattenere una risata e a lei si unì la signorina Warren. — Grazie mille, signorina Capel — disse il professore. — Credo che la polizia possa aspettare fino a domani la vostra collaborazione. Helen si sentì svenire. Tutto rimandato al giorno dopo e lei che aveva paura di quella notte senza fine. Il professore sembrò comunque avere un po' di pietà per il suo stato confusionale e ritornò a parlarle come era corretto fe un padrone di casa avveduto. — Signorina Capel, volete essere così cortese da comunicare le mie decisioni prima alla signora Oates e poi all'infermiera Barker? — Certamente — assicurò Helen. — Immagino che la nonna non sappia dell'omicidio — intervenne Newton.

— No — rispose la signorina Warren. — Non ne sanno niente né lei né l'infermiera. Io sono l'unica che è salita di sopra dopo la visita del dottor Parry. E non mi sono certo sognata di crearle agitazione. — A lei non va detto proprio nulla — ordinò il professore. — Non aprirò bocca — disse Helen, ansiosa di adeguarsi alle nuove e più prudenti precauzioni. Uscì nell'anticamera immersa nel totale silenzio. Il professore aveva avuto la meglio sull'insistenza della polizia, in realtà sulla testardaggine di un unico agente. Quest'ultimo, sotto la bufera, aveva deciso di ritornare l'indomani, con la luce del giorno. La paura di quel pazzo aveva breccia anche nelle residenze signorili. Helen arrivò fino alla porta della cucina ma non riuscì a entrare. Prima la signora Oates non rispose, poi una gigantesca ombra distorta ò dietro i vetri satinati e girò la chiave nella toppa. La signora Oates, che la sovrastava con la sua mole, aveva l'aria confusa e gli occhi assonnati. — Devo avere fatto un pisolino — disse. — Vi sembra sensato dormire con la porta chiusa a chiave? — chiese Helen che, come al solito, doveva dire la sua. — E se gli abiti si incendiassero come faremmo a prestarvi aiuto? — Non ci sarebbero problemi, quasi tutte le chiavi vanno bene in tutte le serrature, sono solo arrugginite. — Certo — disse Helen. — Le chiavi servono solo nelle case poco sicure o negli hotel. Io sono sempre stata in posti di lavoro sicurissimi, e non ho mai chiuso a chiave una porta nella mia vita. — Se fossi in voi darei un po' d'olio alla mia chiave e mi chiuderei ben bene in camera, questa notte… — E a che cosa servirebbe — rise Helen — se tutti la possono aprire quando vogliono?

— Le altre chiavi sono tutte arrugginite — le spiegò di nuovo la signora Oates. Helen le riferì il messaggio del professore e lei sollevò sdegnata la testa. — Mille grazie a sua maestà. Io sono una persona libera, quando ho finito di rigovernare. Aprire e chiudere le porte non rientra nei miei compiti e mai mi interesserà. Fece per ritornare in cucina ma Helen la prese per un braccio. — Non chiudete a chiave, ve lo chiedo per piacere. Non sopporto l'idea di non poter rifugiarmi da voi in caso di necessità. Non ci capisco più niente, stasera. E conto su di voi più che su chiunque. — Va bene. — La signora Oates serrò le mascelle col suo solito fare aggressivo. — Se qualcuno entra in questa casa, gli stacco la testa dal collo. Confortata da quelle parole Helen salì nella camera azzurra, che ormai aveva riconquistato ai suoi occhi parte dell'antico interesse. Come se fosse stata in attesa di sentire i suoi i, la porta si aprì leggermente, e apparve l'infermiera. Helen le fece segno di uscire sul pianerottolo. — Ho qualcosa da dirvi — bisbigliò. — C'è stato un altro delitto. L'infermiera ascoltò tutti i dettagli, le labbra tra i denti e gli occhi pieni di orrore. Fece domande su Ceridwen, sul suo ruolo a Summit, sui suoi amanti. Poi, quando Helen ebbe finito, si mise a sghignazzare. — Benissimo! Un po' di pulizia ci vuole, di tanto in tanto! Non è una grande perdita. Era quel genere di ragazza che le grane se le va a cercare. — Come sarebbe a dire «quel genere»? — chiese Helen, sconvolta da quelle parole impietose. — Oh, conosco il tipo, io… Non ho bisogno che mi si spieghi… Una donnicciola sciatta, con il collo sporco e un filo di perle attorno. Gli occhietti neri che sussurrano: «Vieni qui in un angolo con me» a ogni uomo che incrociano. Una bocca rossa e carnosa che dice: «Baciami». Era immorale, ecco che cos'era.

Helen la fissava sbalordita: descriveva Ceridwen nei dettagli, eppure lei, dell'aspetto della ragazza, non aveva detto una sola parola. — Avevate già sentito parlare di Ceridwen? — le chiese. — Mai. — E allora come fate a sapere che tipo era? — Era gallese. — Ma le ragazze gallesi non sono tutte come pensate voi. L'infermiera si limitò a scrollare la testa e cambiò discorso. — Poi… gli ordini del professore, non mi riguardano. Sembrerà strano, ma aprire le porte non è un compito che riguarda un'infermiera diplomata. Non metterò di certo a repentaglio la mia vita, con il valore che ha, uscendo sotto questa bufera. È un'offesa alla mia intelligenza. Helen era molto più tranquilla quando l'infermiera esaltava le sue capacità. Era presuntuosa e con i presuntuosi, per sgradevoli che fossero, aveva già avuto a che fare. Era ben meglio di quell'ombra terrificante suggerita dalla signora Oates… la strega di mezzanotte che scendeva giù per le scale e, mentre gli altri dormivano, apriva la porta all'assassino. — Infermiera! Sentendo la voce provenire dalla camera, l'infermiera disse a Helen: — Vorrei scendere un momento in cucina. Potreste restare con lei? — Ma certo — rispose Helen. — ata la paura? — le disse l'infermiera. — Quand'è che vi è tornato il coraggio? — Ammetto di essermi comportata come una stupida — disse Helen. — Sono stanchissima. Ma di fronte a un vero pericolo reale tutte le fantasie svaniscono. Entrò in camera tranquilla, aspettandosi di essere bene accolta. Ma Lady Warren

sembrava avere perso ogni interesse per lei. — Che cos'era tutto quel rumore alla porta? — le chiese. — Ci sentite bene — disse Helen, mentre cercava un argomento convincente. — Ho un odorato, un gusto… ci vedo e ci sento anche meglio di te — sbottò Lady Warren. — Sapresti dirmi che differenza c'è tra una bistecca cotta troppo poco e una al sangue? — No — rispose Helen. La domanda successiva fu ancora più spiacevole. — E tu saresti capace di puntare una pistola contro un uomo e sparargli in mezzo agli occhi?… Chi era a bussare in quel modo? — Era il postino — disse Helen, mentendo per ubbidire al professore. — Oates è andato a prendere una nuova bombola d'ossigeno e io ero lontana dalla porta e non l'ho sentito subito, così ha dovuto insistere per farsi aprire. — Com'è disorganizzata casa mia! — protestò furibonda Lady Warren. — Che cos'hai da guardarmi così? Sì, cara, è ancora casa mia, questa, come una volta. Ma allora avevo domestici in uniforme… Ma se ne sono andati tutti… Troppi alberi… La nostalgia era autentica: il ato aveva avuto ancora una volta la meglio. Mentre Helen si lasciava prendere dalla pietà per quel povero relitto umano, Lady Warren tornò a essere ben più vivace di lei: aveva sentito dei i salire le scale e gli occhi le scintillavano. La porta si aprì e il professore entrò. Helen notò interessata come l'atteggiamento verso una persona di sesso diverso fosse determinante anche a un o dalla morte: Lady Warren accolse il figliastro in modo ben diverso da quello con cui era abituata a trattare le donne che le giravano intorno. — Finalmente ti sei deciso a farmi visita! — esclamò. — Hai fatto tardi questa sera, Sebastian. — Scusami, — disse il professore.

Restava in piedi, con la sua figura alta e rigida, in fondo al letto, sotto il baldacchino azzurro. — Non andate via — bisbigliò a Helen — non mi rimarrò a lungo. — Stasera era in ritardo anche il postino — commentò indifferente Lady Warren. Il rispetto che Helen aveva per l'intelligenza del professore crebbe notevolmente nel vedere con quanta rapidità avesse compreso il sotterfugio a cui era ricorsa. — Colpa della tempesta — spiegò. Perché non ha infilato la lettera nella buca invece di fare tanto rumore? — Era una raccomandata. — Già… Dammi una sigaretta, Sebastian. — Ma… il cuore? — Il professore esitò. — Vi pare una cosa sensata? — Il mio cuore è ancora quello di ieri, e ieri non hai nemmeno fiatato. Sigaretta. Il professore aprì il suo portasigarette. Helen li guardò: lui si era chinato su di lei con il fiammifero che illuminava l'incavo ossuto della sua mano e il viso di Lady Warren. Lei era grottesca, con i nastrini rosa nei capelli grigi e la sigaretta tra le labbra. Helen capì dal primo tiro che era una fumatrice incallita. — Novità? — chiese decisa. Con un tono conciso il professore le raccontò gli eventi della giornata. — I politici sono tutti imbecilli — commentò Lady Warren. — Qualche delitto? — Ti consiglio di rivolgerti alla signora Oates: questo è campo più suo che mio — rispose il professore. — Se mi vuoi scusare, devo tornare a lavorare. — Non esagerare troppo — gli consigliò lei. — Hai delle brutte occhiaie. — Non ho dormito bene. — Il professore sorrise appena. — Se non sapessi che è

una frase fatta, direi che non ho chiuso occhio un minuto. Invece devo essermi appisolato a intervalli, perché non ho chiara coscienza di essere stato sempre sveglio tra un rintoccare e l'altro della pendola. — Tu sì che hai testa, Sebastian. Quelle stupide infermiere sono certe di svegliarsi se solo mi cade di testa un capello, e invece dormono come ghiri. Potrei girare in bicicletta per la stanza che loro neanche si accorgerebbero. Anche Blanche. È crollata nella sua poltrona al tramonto, ma non lo ammetterebbe mai. — Allora non potreste servirvi di lei se aveste bisogno di un alibi — disse scherzosamente il professore. Helen si domandò perché quel discorso le desse così fastidio. Ogni volta che si trovava nella camera azzurra, sembrava che l'atmosfera producesse cellule velenose nel suo cervello. — Dov'è Newton? — domandò la vecchia signora. — Salirà tra poco per la buonanotte. — Sarà meglio. Diglielo che la vita è breve, e che farebbe bene a non trovarsi in ritardo per la buonanotte definitiva. Il professore le strinse la mano augurandole buon riposo. Helen, ubbidendo al suo sguardo, lo seguì fuori della camera. — Mettete bene in chiaro con l'infermiera, quando torna, che Lady Warren non deve sapere nulla di… quello che è successo stasera. Deve stare attenta. Un'emozione potrebbe esserle fatale. — Certo, capisco — annuì Helen, mentre la sua mente era già al testamento non ancora scritto. Lady Warren l'attendeva con gli occhi neri a forma di mezzaluna quando rientrò nella stanza.. — Vieni qui — le disse. — È stato commesso un altro delitto. Il cadavere? L'hanno trovato?

16. La seconda falla

Mentre sentiva quelle parole, i sospetti e le paure assalirono Helen. Autoritaria e decisa, Lady Warren non le lasciava scampo: non tirava a indovinare, sapeva qualcosa. Era proprio quel suo sapere le cose a metà che la terrorizzava. Se avesse sentito il dottor Parry non avrebbe chiesto se avevano trovato il cadavere. L'infermiera era l'unica presente al racconto del medico. Ma questo non doveva per forza assumere i contorni più sinistri: per usare le parole del professore, lei aveva un alibi di ferro. Mentre Ceridwen veniva uccisa, lei arrancava su per le colline in un vecchio catorcio in compagnia di Oates. Dato che Lady Warren la teneva stretta per un polso, Helen capì che era inutile dire bugie. Il suo silenzio e l'espressione del suo viso la tradivano. — Ma come fate a saperlo? — chiese. La vecchia signora non rispose, ma le sfuggì un gemito. — Certo! L'hanno trovata. Allora era la polizia che bussava alla porta. Lo sapevo… Dimmi tutto, hai capito? Siccome le stava facendo male al polso, Helen decise che era meglio fare presto. — È Ceridwen — disse. — La ricordate? Veniva a pulirvi la stanza, e vi lamentavate del cattivo odore dei suoi piedi. L'hanno strangolata nella tenuta di Summit, più o meno verso l'ora del tè, e poi trascinata nel giardino del capitano Bean. L'ha trovata lui. — Indizi? — Uno. Ha strappato con i denti un pezzo di frangia dalla sciarpa di seta bianca dell'assassino. — Basta così… vattene — le ordinò Lady Warren.

Alzò le lenzuola e si coprì del tutto il viso, come se fosse stata già morta. Helen, ben attenta alle sorprese, si sedette vicino al camino per non perdere di vista il letto. Anche se una paura aveva divorato l'altra, come due serpenti che puntassero alla stessa preda, ora non se la sentiva di girare le spalle a Lady Warren. Tentò un riepilogo della situazione in cerca di tranquillità. «C'è la famiglia Warren, quattro persone; la signora Oates, l'infermiera, c'è il signor Rice e ci sono io. Siamo in otto. Dovremmo, noi tutti, avere la meglio su un solo uomo, per intelligente e furbo che sia, come dice il professore. Ma se dovesse vincere lui, beh, quasi se lo meriterebbe.» Se avesse saputo quello che stava succedendo in quel momento in salotto, si sarebbe agitata ancora di più. Stephen era quello che risentiva di più della reclusione. Non solo non sopportava le finestre sbarrate, ma era preoccupato per Simone. Le sue occhiate apionate e la mancanza di autocontrollo lo mettevano davvero a disagio, riportandogli alla mente l'episodio di Oxford, nel quale aveva fatto da capro espiatorio agli intrighi amorosi di un altro. Newton era stato il primo ad arrivare in aiuto della ragazza, chiusa in camera sua, a sentire lei, da Stephen, e si era sempre rifiutato di credere nella sua innocenza. E anche ora la gelosia continuava a fare danni. Era stato per puro masochismo che aveva chiesto di diventare allievo del professore: voleva costringere Newton a sentire un senso di colpa… una debolezza di cui aveva cominciato a pentirsi nel preciso momento in cui la coppia era arrivata a Summit. Finalmente smise di camminare avanti e indietro e si rivolse a Newton. — Con tutto il rispetto che devo al tuo bravissimo padre, Newton, devo dire che proprio non ci capisce. Noi giovani non abbiamo paura di niente, né del ato né del futuro né, figuriamoci, del presente. E questo stare chiusi assieme, come topi in gabbia, mi fa stare male. — Io invece trovo la cosa adorabile — cinguettò Simone. — È come se tante

coppie fossero intrappolate dalla neve in un capanno. Aspetta solo che possano uscire e vedrai quanti cambiamenti di partner! Non c'erano dubbi: la reclusione aveva trasformato Summit in un luogo in cui le ioni non avevano più freni. Sembrava che Simone avesse perso ogni senso della misura: fissava Stephen con occhi vogliosi, come se fossero stati soli su un'isola deserta. Incosciente, non si accorgeva nemmeno della presenza degli altri. Da mocciosa viziata qual era, non capiva proprio come mai, dopo averle consentito di saccheggiare un negozio di giocattoli, non volessero lasciarle tutto ciò che desiderava. — Che programmi hai per il futuro, Stephen? — gli chiese. — Per prima cosa, non erò gli esami. — Bella pubblicità per il Capitano — intervenne Newton. — Poi probabilmente andrò in Canada a fare il taglialegna. — Il tuo cane dovrà starsene in quarantena — gli ricordò maligno Newton. — Allora resterò in Inghilterra, giusto per far felice te, Warren. E verrò a casa vostra a prendere il tè con Simone tutte le domeniche pomeriggio mentre tu farai il pisolino. Newton trasalì e guardò l'orologio. — Devo salire dalla nonna. Posso chiederti per l'ennesima volta di accompagnarmi, Simone? Solo per dirle «Buonanotte». Sarebbe contenta. — Assolutamente no. — Alzando le spalle, Newton se ne andò. D'istinto Stephen si mosse verso la porta ma Simone gli sbarrò il o. — No — disse decisa. — Rimani qui, parliamo… Mi stavi dicendo dei tuoi programmi… sono patetici. Se tu avessi dei soldi che cosa faresti? — Se avessi soldi? — Stephen rise. — Farei le solite cose. Sport, viaggi, gioco d'azzardo. — Ti attira l'idea?

— Puoi giurarci. Ma sai che vantaggi ne ho io a parlarne. — Io di denaro ne ho. Stephen si sentì i crampi allo stomaco. — Beata te — disse. — Sì. Posso fare tutto. Mi rende sicura. — Una donna non dovrebbe mai sentirsi troppo sicura. — Stephen tentava disperatamente di scherzare. — Finisce per rendersi troppo elastica la coscienza. Simone fece finta di non sentire. Si avvicinò e gli posò le mani sulle spalle. — Steve, domattina io vengo con te. — Oh no, tesoro mio, niente affatto — ribatté lui. — Invece sì — insistette lei. — Non capisci. Sono pazza di te. Stephen si inumidì le labbra, disperato. — Ascoltami bene — disse — sei molto agitata. Stai delirando. Non sai quello che stai dicendo. Per prima cosa… c'è Newton. — Può divorziare. A me non mi interessa. E se non lo fa, non mi interessa lo stesso. Avrei te. Ci divertiremmo tanto… insieme. Stephen lanciò uno sguardo speranzoso alla porta. Eccolo di nuovo coinvolto senza alcuna colpa come a Oxford… ma aveva già pagato di persona, sapeva come sarebbe finita… La paura lo rese brutale. — Per te non provo niente — le disse. — Nessuna attrazione. Quel rifiuto ebbe come unico effetto quello di renderla ancora più apionata. — Mi basterà poco per farti provare qualcosa per me — disse sicura. — Sei solo un bambinetto stupido e pieno di inibizioni. Alzò il viso esultante verso quello di lui, in attesa di essere baciata. Ma lui la spinse da parte e, alla

fine, l'ombra del dubbio rabbuiò lo sguardo di lei. — C'è un'altra — disse. — Ecco perché. — Naturalmente — disse. — C'è sempre stata. Adesso, capisci? Il viso di Simone perse la sua bellezza curata e si raggrinzì in una smorfia rabbiosa. — Ti odio — gridò furiosa. — Spero che tu vada a farti fottere e che crepi in una fogna. Corse fuori della stanza sbattendo la porta. Stephen tirò un profondo sospiro e si batté il petto. — Dei del cielo, grazie — disse pieno di devozione. Ma l'episodio lo lasciò preoccupato e irrequieto. Aveva paura che Simone stesse tramando qualche vendetta, come raccontare al marito che lui l'aveva offesa. Convinto che fosse inutile provare a prevenire o sventare una simile possibilità, dal momento che il giorno dopo avrebbe lasciato per sempre quella casa, cercò di dimenticare tutto immergendosi nella lettura di un romanzo poliziesco. Si accorse ben presto che non gli riusciva di concentrarsi. Oltre gli ululati del vento e delle raffiche di pioggia contro i vetri, sentì un debole lamento. Sembrava un cane che guaisse. Si morse le labbra e aggrottò la fronte, perplesso. Nonostante le obiezioni sollevate, era convinto che le precauzioni prese dal professore fossero corrette, era deciso a seguirle alla lettera. Il professore però aveva detto che non si doveva aprire la porta né a un uomo, né a una donna, né a un bambino: non aveva parlato di animali. Stephen capì che quella era la prova del fuoco. Se si trattava di una trappola, un cervello sconosciuto era riuscito a scoprire il suo punto debole, e ne aveva approfittato. «Si stanno prendendo gioco di me» pensò. «È Newton. Vuole farmi uscire, per poi chiudermi fuori. Quel cretino crede di dover proteggere sua moglie da me.» Il vento gli portò di nuovo quel debole lamento, facendolo sobbalzare in piedi.

Ma poi tornò a sedersi. — Maledetti — sussurrò. — Non cederò. Non mi avranno. Non è giusto mettere in pericolo la vita delle donne. Riprese il romanzo e riprovò a concentrarsi. Ma le righe erano solo un'accozzaglia di parole prive di senso, perché lui aspettava, e temeva, di riascoltare quel lamento. Lo risentì, disperato da spezzare il cuore, come se la povera creatura fosse allo stremo delle forze. Stephen trasalì immaginando un cane bagnato fradicio e quasi morto di fame che invocava un aiuto che non sarebbe mai arrivato. Non riusciva più a stare seduto: uscì piano piano nell'atrio e, con tutte le precauzioni, aprì la porta d'ingresso. Mise fuori la testa. Il vento parve strappargli le orecchie ma, contemporaneamente, gli lasciò sentire il latrato di un cane. Poteva anche essere un'imitazione fedele, ma aveva qualcosa di familiare. Fu assalito da un improvviso sospetto. Richiuse accuratamente la porta e corse su in camera, facendo i gradini due alla volta. Nessun cane gli venne incontro né rispose al suo fischio. Il letto era in ordine e la stanza anche: qualcuno aveva pensato a sistemarla alla bene meglio. Digrignò i denti rabbioso. — Luridi maiali! — disse. — L'hanno buttato fuori. Dopo avermi incatenato qui dentro… Bene…così è tutto risolto. Mi tolgo dai piedi. Imprecando a bassa voce si infilò il vecchio vestito di tweed e le scarpe. Con la valigia in mano, scese per le scale del retro. Nessuno lo vide attraversare l'anticamera, ma Helen sentì la porta d'ingresso che sbatteva richiudendosi. Quando Newton era arrivato in camera della nonna, Lady Warren le aveva ordinato di lasciarli soli e lei era scesa in cucina. A quell'ora, di solito, si coricava, ma quella sera aveva deciso di fare un'eccezione. Del resto tutti erano agitati: la noia di solito li spingeva di buon'ora nelle loro stanze, ma quella sera sembrava che nessuno avesse sonno.

La signora Oates voleva aspettare il ritorno del marito. Helen pensò di tenerle compagnia per evitare che si addormentasse e non sentisse la porta. Arrivò di corsa alla porta d'ingresso, proprio in tempo per vedere Stephen che istintivamente indietreggiava sotto il diluvio. Lui si girò e le gridò deciso: — Chiudete bene… non torno più. Helen si affrettò a chiudere con il chiavistello. — Bene — disse. — Il giovane scapestrato. Mentre ridacchiava, si trovò davanti l'infermiera. — Che cosa c'è? — chiese con un tono sospettoso la Barker. — Il signor Rice… se n'è andato — la informò Helen. — Dove? — Non me l'ha detto, ma credo di poterlo indovinare facilmente. Moriva dalla voglia di andare al Bull a saldare il suo conto e salutare gli amici. I piccoli occhi infossati dell'infermiera Barker lampeggiarono di sdegno. — Ha disobbedito al professore mettendo a repentaglio la nostra sicurezza — commentò arrabbiata. — È da criminali. — No, non c'è da preoccuparsi — la rassicurò Helen. — Ho chiuso la porta non appena è uscito, e non ritornerà. L'infermiera rise amaramente. — E così non c'è da preoccuparsi, eh? — disse. — Ma non vi rendete conto che oramai abbiamo perduto i due uomini più validi che avevamo in casa?

17. Quando le signore si accapigliano…

Helen fissava piena di sgomento gli occhi dell'infermiera: l'ira aveva scatenato una cupa luce di soddisfazione, come se la donna fosse contenta per lo stato di instabilità in cui si trovavano. Ricordando che l'esca era lei, Helen prese un'aria di sfida. — Ce ne sono sempre altri due — disse. — E poi cinque donne, tutte sane e forti. — Perché, voi siete forte? — chiese con un tono di sfottò l'infermiera, guardandola dall'alto della sua altezza. — Sono giovane. L'infermiera Barker si morse le labbra. — Certo che siete giovane — disse. — E fate bene a ripetervelo, prima di ritrovarvi vecchia. Allora… forse… potreste rimpiangere la giovinezza. Helen buttò indietro la chioma rossa con un gesto impaziente. Immagino si debba avvertire il professore che il signor Rice se n'è andato — disse. — Ci penserete voi, ovviamente. — E perché proprio io? — chiese Helen. — Be', è un uomo o no? Helen aprì la bocca per ribattere, ma si fermò. — Sentite, — disse con la voce più dolce che le riuscì di trovare — ritengo che provocarsi a vicenda, in un momento simile, sia non solo una cosa sciocca ma anche pericolosa. Non vorremo andare avanti con questa farsa, immagino. E immagino anche che non mi vogliate vedere morta. Siete pur sempre buona.

— Non ho nulla contro di voi — le assicurò l'infermiera con un'intonazione pacata, molto raffinata. — Bene — replicò Helen. — Allora quando sarete da Lady Warren dite il signor Newton dell'accaduto e ditegli pure di riferirlo a suo padre. L'infermiera abbassò il capo, in cenno di solenne conferma, e salì per le scale. Helen la guardava dall'anticamera. «Se una è piccola, può permettersi i tacchi alti» pensò guardando soddisfatta i propri piedi. «Lei cammina come un uomo…» Attraversando il pianerottolo poco illuminato, l'infermiera sembrava quasi una figura spettrale che uscisse dalla sua tomba. Quel gioco ottico le fece ritornare in mente l'esperienza di qualche ora prima, quando le era sembrato di vedere il diavolo in persona. «Doveva essere il professore» si disse per farsi coraggio. «Il resto me lo sono sognato.» Ma si ricordò di un dettaglio. Il professore era uscito dalla sua stanza, e invece secondo lei era stata un'altra porta ad aprirsi e richiudersi subito dopo. «È strano» pensò. «Il professore non può di sicuro avere aperto la sua porta, averla richiusa, e poi averla riaperta di nuovo. È assurdo.» Guardando il pianerottolo, vide che la porta del professore era molto vicina a quella che dava sulla scala a chiocciola: qualcuno poteva avere spiato fuori della seconda e averla chiusa proprio nel momento in cui la prima si apriva, per puro caso. Era un'opinione così inverosimile e inquietante al tempo stesso che Helen si rifiutò di considerarla seriamente. «Non può essere entrato nessuno in casa» si disse. «Le porte e le finestre erano tutte chiuse, quando Ceridwen è stata strangolata… Ma se ci fosse qualche aggio nascosto… allora l'assassino avrebbe potuto attraversare di corsa la tenuta e essersi nascosto sulla scala, e io quella persona l'ho vista… No, non era il professore.»

Anche se le sembrava impossibile che qualcuno avesse potuto entrare in quella fortezza inespugnabile, cominciò a chiedersi se, per caso… magari per qualche minuto… nello loro difese non si fosse prodotto un pertugio. In fondo ai suoi pensieri c'era qualcosa che la tormentava… Qualcosa di dimenticato e di trascurato, che non riusciva a capire fino in fondo. Per tutta la serata non aveva fatto altro che cominciare una cosa, lasciarla a metà e cominciarne un altra. Non aveva, ad esempio, svitato la maniglia della porta della signorina Warren: prima di capire quale fosse il problema era stata interrotta dal professore, e aveva abbandonato gli attrezzi sul pianerottolo. «Potrebbero pensare che sono una disordinata» pensò. «Ora salgo e provo a sistemare quella maniglia.» Stava per mettere in pratica ciò che aveva deciso quando venne fermata da Newton che scendeva di corsa, trafelato, le scale. Il suo viso terreo era rosso d'eccitazione. — Così Rice ci ha lasciato? — chiese a Helen. — Sì — rispose lei. — Quando è uscito ero lì… ho chiuso la porta personalmente. — Bene… Era solo? — Io ho visto solo lui. Ma era molto buio, e pioveva forte. — Certamente. — Gli occhi di Newton lampeggiarono. — Vi spiace aspettarmi qui per un momento? Helen immaginava che cosa gli ava per la mente, e non poté trattenersi dal sorridere per i suoi timori infondati. Avrebbe potuto evitargli di salire fino al secondo piano, ma avrebbe mancato di sensibilità. Un momento dopo lo vide scendere con un fazzoletto pulito che doveva servire come alibi per la sua assenza momentanea. — Mia moglie è un po' fuori di sé — annunciò come se la cosa avesse ben poca importanza. — Mal di testa… Potreste salire a vedere se le serve qualcosa, quando avete un momento?

— Certamente — promise Helen. — Grazie. Può darsi che occorra essere decisi con lei. Pensate di riuscirci? — Certo. Sono piccola… ma sono minuti anche i fermacarte. Newton le sorrise in maniera giovane e così teneramente che Helen finalmente capì il segreto del suo successo con le donne della famiglia. — Quante pretese abbiamo noi Warren in virtù dei nostri soldi — disse lui. — Spero vi diano uno stipendio decente. Ve lo meritate… Ora dobbiamo andare dal Capitano a dirgli di Rice. Helen era lusingata, qualcuno richiedeva la sua presenza. Anche se aveva un debole per Stephen, provava senz'altro maggiore stima per Newton. Sembrava che quella sera tutti gli uomini chiedessero una mano a lei: invece di restare fra le quinte era sempre sotto i riflettori. Arrivò addirittura a ringraziare il cielo che l'infermiera non fosse lì a vederla entrare nello studio, perché il suo successo personale non valeva il rischio di ulteriori contrasti. Il professore era seduto in poltrona, appoggiato allo schienale con gli occhi chiusi, e non li aprì finché Newton non lo interpellò. Helen si rese conto che aveva le pupille stranamente fisse e vitree. Anche Newton doveva avere avuto la stessa impressione. — Hai svuotato il flacone del Quadronex? — chiese con apparente indifferenza. Lo sguardo del professore fu eloquente, non gradiva tanta impertinenza. — Dato che, finanziariamente, questa casa dipende da me — gli fece notare — devo mantenermi in forma, anche per gli altri. Bisogna assolutamente che stanotte riesca a dormire… hai qualcosa da dirmi? Le labbra gli si contrassero mentre sentiva ciò che gli raccontava Newton, ma conservò la sua espressione da sfinge. — Quindi si è ribellato alle mie disposizioni — commentò. — Ultimamente mi

era sembrato che quel ragazzo fosse sulla buona strada, ma alla luce dei fatti penso proprio che sia un selvaggio. — Direi più semplicemente che è ricaduto nel solito errore — sottolineò Newton. — Comunque, per quanto selvaggio, era un uomo capace — gli ricordò suo padre. — Senza di lui, tu e io abbiamo una responsabilità in più. — Vorrai dirmi che l'avrò io, Capitano. Sei un po' troppo bollito per affrontare un matto. Helen capì che il rilievo aveva irritato il professore. — Il mio cervello è sempre in servizio. Purtroppo sono riuscito a artene solo una parte. — Grazie, sia per il complimento sia per l'aiuto. Temo che una formula per un gas velenoso serva a ben poco in questo momento. Qui occorre forza, bruta. Il professore sorrise gelido. — Può darsi che il mio povero cervello partorisca la mossa vincente — disse. — Simone lo sa che Rice se n'è andato? — Sì. — A Newton il significato sottinteso diede sui nervi. — E con questo? — Risponditi da solo. — Ha mal di testa — disse Helen. — Il signor Warren mi ha chiesto di badare a lei. Gli occhi del professore sembrarono infossarsi leggermente, come se volessero vedere più a fondo i luminosi antri del suo cervello. — È un'ottima idea — disse. — Considerate che mia nuora è molto emotiva. Può darsi che dobbiate darle dei consigli, ma cercate di non farla arrabbiare. Bisbigliò qualcosa al figlio che annuì e ò a Helen le istruzioni. — Signorina Capel, sarebbe più prudente non lasciarla da sola. Helen, salendo le

scale, si sentiva molto importante, anche se non era affatto certa del successo della sua missione. Quando fu davanti alla porta della camera rossa, sentì dei singhiozzi soffocati provenire dall'interno. Bussò ma non ebbe risposta, e quindi entrò senza aspettare ancora. Vide che Simone era sdraiata sul letto. — Oh, il vostro bel vestito! — gridò Helen. — Lo rovinerete. Simone sollevò la testa mostrando un viso segnato di lacrime. — Lo odio — disse ringhiando. — Allora toglietevelo. Vi sentirete meglio con una vestaglia addosso. Per Simone era normale essere servita, e quindi non fece resistenza a Helen che le sfilava dalla testa quell'abito attillato. La ragazza impiegò molto per trovare qualcosa con cui sostituirlo nell'armadio. La vista di tanti indumenti così belli fece nascere in lei una malinconica invidia. — Che cose meravigliose avete — disse tornando verso il letto con in mano una vestaglia di seta e pizzo, ancora più leggera del vestito che aveva riposto. — A che mi servono? — fu la domanda amara di Simone. — Non c'è un uomo che li veda. — Vostro marito — le ricordò Helen, sentenziosa. — Ho detto «un uomo». — Volete che vi porti un'aspirina per il mal di testa? — le propose Helen, ben decisa a considerare l'indisposizione di Simone come un fatto squisitamente fisico. — No — rispose Simone. — Mi sento uno straccio, ma non è il mal di testa. È perché sono terribilmente infelice. — Ma se avete tutto, non vi manca niente! — esclamò Helen. — Tutto, certo. E niente di quello che voglio… Tutta la mia vita è stata una privazione. Ogni volta che desidero qualcosa, me lo tolgono.

Si mise seduta, nella posizione di chi sta per abbandonarsi alle confidenze. Il trucco si era rovinato, ma la tempesta sembrava non avere sfiorato la sua pettinatura, che splendeva come un perfetto smalto nero. — Stephen Rice vi ha mai fatto la corte? — chiese. — No — rispose Helen. — E anche se me l'avesse fatta non ve lo direi. Certe cose dovrebbero restare private. — Ma com'è possibile? Si esce, si va a ballare, al ristorante e, inevitabilmente, si trova sempre qualcuno. — Non era riferito a voi — disse Helen. — Stavo parlando per me. — Voi? Avete un uomo, voi? — Certo — rispose Helen sicura, ricordando la scommessa col dottor Parry. — Dovete scusarmi, ma io mi interesso più a me che a voi. Certo, lo so che avete fotografie sui giornali e che la gente parla di voi, ma per me siete solo una delle tante che si incontrano ovunque. Simone fissava Helen con aria incredula. Fino a quel momento l'aveva appena notata, un esserino minuto con il piumino della polvere costantemente in mano. Certo, dietro quell'apparente nullità si nascondeva un preciso carattere, ma quello non era un pensiero che potesse coinvolgere per molto la mente di Simone. — Che cosa pensate di Stephen? — le chiese. — Mi dispiace — rispose Helen — lo trovo un gran mascalzone. Non avrebbe dovuto lasciarci nei guai. — Lasciarci? — ripeté Simone, mettendosi di colpo a sedere diritta. — Sì, se n'è andato per sempre. Non lo sapevate? Helen rimase piuttosto stupita dalla reazione di Simone. Rimaneva lì, come intontita, e si premeva forte le dita sulle labbra. — Dov'è andato? — chiese con un filo di voce.

Helen decise di toglierle ogni illusione. — Al Bull — rispose. — Da quella ragazza, intendete dire. Simone prendeva la medicina con tanta calma che Helen pensò che la tattica migliore fosse quella di farle credere a una rivale. — Se state parlando della figlia del proprietario ne parlava in cucina. Ha detto che non se ne poteva andare via senza salutarla. Un momento dopo capì di aver commesso un errore imperdonabile, perché Simone scoppiò a piangere. — Se n'è andato — gemeva. — È con quella donna… Anch'io lo voglio. Voi non potete capire. Impazzisco… Devo fare qualcosa. — Non struggetevi per lui — la implorò Helen. — Non ne vale la pena. Vi state sminuendo. Se un uomo non mi volesse, io non lo vorrei. — Silenzio. Fuori dalla mia camera! Helen rimase dov'era, benché si sentisse esausta come un limone spremuto. — Di solito non resto dove non sono gradita — disse decisa. — Ma mi hanno chiesto di non lasciarvi mai sola. Quelle parole mandarono Simone su tutte le furie. — Ah, è così? — gridò. — Vi hanno detto di venire qui a spiarmi? Molto intelligente da parte loro. Ringraziateli a nome mio. Com'è che non ci sono arrivata da sola? — Che cosa volete dire? — domandò nervosa Helen. — Vedrete. Oh, se lo vedrete! Helen, costernata, restò a fissare Simone che imperversava per la stanza afferrando oggetti e indumenti con una frenesia frenetica. Sapeva che la situazione le era sfuggita di mano. Non avrebbe più potuto evitare la catastrofe.

Quando vide Simone afferrare la pelliccia gridò a sua volta: — Dove andate? — Vado fuori da questa casa. Non intendo restare qui a farmi controllare e offendere. — Simone afferrò una manciata di gioielli e li mise nella borsa, poi disse a Helen: — Vado dall'uomo che amo. Dite al professore che non ritornerò… questa notte. — No, voi non ve ne andate — sentenziò Helen, cercando di prenderla per i polsi. — Lui non vi vuole. Dov'è finito il vostro orgoglio? La lotta fu rapida e disperata, ma Simone era la più forte e poi aveva completamente perso la testa. Senza pensare alle conseguenze, diede una tale spinta alla ragazza che Helen finì per cadere pesantemente sul tappeto. Non si era fatta niente ma perse qualche attimo per rendersene conto. Mentre si toccava la testa in un punto che le faceva male, sentì la chiave girare nella serratura e capì di essere prigioniera.

18. La difesa si indebolisce

Helen si alzò in piedi e si precipitò alla porta, anche se aveva capito che ormai era troppo tardi. Tirò la maniglia con tutte la sue forze e batté i pugni, più per sfogare la sua rabbia che per chiedere aiuto. Era una situazione umiliante, era indignata. Era stata sballottata da una parte all'altra, come un fantoccio in un film; il suo vestito era uscito dalla lotta piuttosto malconcio e, cosa peggiore di tutte, ancora una volta non era riuscita a portare a termine con successo un incarico di fiducia. Queste considerazioni risvegliarono il suo senso del dovere e cominciò freneticamente a spremersi le meningi per trovare la maniera di dare l'allarme agli abitanti della casa… con l'unico risultato di ricorrere all'inutile camlo. Poteva premere il bottone all'infinito, tanto era sicura che nessuno sarebbe arrivato. Il camlo suonava giù nell'anticamera del seminterrato: la signora Oates l'avrebbe preso, senza neppure sentirlo, come un flebile accompagnamento al suo russare. E se anche si fosse svegliata, avrebbe fatto finta di niente per principio. I camli non la riguardano, aveva detto. Lavorava tanto durante il giorno che, per salvarsi la vita, si imponeva di salvaguardare le sue preziose ore di sonno. E non avrebbe fatto eccezioni per nessuno. Helen smise di suonare e si rassegnò a un'attesa senza fine. Dapprima trovò il modo di tenersi occupata, curiosando fra gli abiti e gli accessori di Simone, i suoi trucchi, ma senza trarne il solito godimento. Ogni calza di seta e ogni scatola di cipria le ricordavano Simone. Era uscita nel buio della tempesta, travolta da quella che era solo una piccola fiamma di desiderio e che lei, con la fantasia, aveva ingigantito fino a credere in un incendio di ione. Stava rischiando tutto: la sua reputazione e anche la vita, per qualcosa che esisteva solo nella sua fantasia. Helen delineò il suo personaggio: era un prodotto del lusso, viziata, nevrotica e inutile. Fin dalla culla, ogni suo desiderio era stato soddisfatto per non dire

anticipato. L'avevano tenuta sotto una campana di vetro, per timore che la vita la scalfisse. E in quel momento forse la tragedia stava per travolgerla: una volta rotto il vetro che la proteggeva, lei era allo scoperto, indifesa davanti alla realtà. Anziché braccia protettive avrebbe trovato mani minacciose tese su di lei. Il mondo le sarebbe crollato addosso. Avrebbe chiesto aiuto urlando e, per la prima volta nella sua vita, le sue grida non avrebbero avuto risposta. Si immaginava Simone così, pensando di continuo al pericolo che stava per correre. Aveva fatto tutto quello che aveva potuto ma si sentiva in colpa. Per prepararsi una difesa, cominciò a ricostruire i fatti. E ancora una volta le sembrò di ricordare un particolare inquietante, qualcosa di strano… come un'illusione acustica. Era sicurissima di aver sentito girare la chiave nella toppa mentre i i frenetici di Simone correvano giù per le scale. — Mi ha chiusa qui dentro un'altra persona, non è stata lei… — sussurrò. — Chi? Perché? L'unica ipotesi che riusciva a formulare era che fosse stata l'infermiera, attirata sul pianerottolo dal rumore dei loro tafferugli. Se era riuscita a capire perché Helen si era lì, spinta dall'invidia l'aveva rinchiusa per dimostrare la sua incapacità. Alla fine ebbe un'intuizione. La signora Oates le aveva detto che tutte le porte della casa avevano la medesima serratura, quindi la chiave dello spogliatoio di Newton avrebbe dovuto funzionare anche per la camera da letto. Ebbe qualche problema nel toglierla, tanto era arrugginita. Era già stata lì e sapeva dove trovare la brillantina di Newton. Ma prima di cominciare a lubrificarla, provò comunque a infilarla nella toppa. Con la maniglia stretta in mano, sentì la chiave girare e si trovò con la porta aperta. Le si aprì anche la bocca, mentre guardava stupita il pianerottolo deserto. — Bene — commentò ansimando. Aspettandosi senza dubbio di vedere sminuita la considerazione in cui era stata tenuta, corse sotto per dare l'allarme. Pur convinta che le avessero fatto uno scherzo, bello o brutto, non avrebbe potuto in nessun modo dimostrarlo ai suoi

datori di lavoro. Decise che la cosa più saggia fosse prendersi tutta la responsabilità senza fiatare, e invece nessuno le fece domande. La famiglia Warren, quando seppe della fuga di Simone, si dimostrò compatta nel tentativo di correre ai ripari. Mentre il professore, la signorina Warren e Newton si guardavano l'un l'altro, Helen notò quanto si assomigliassero. I muscoli delle loro facce magre si contraevano convulsi come le ganasce in ferro di una trappola, tradendo la violenza dell'emozione e la forza del self-control. Sfuggì qualche gemito a Newton, ma i suoi modi rimasero tranquilli come se stessero parlando del tempo. — Avete detto, signorina Capel, che è andata al Bull da Rice? — chiese il professore. — Sì — rispose Helen, evitando di guardare Newton. — Ho fatto di tutto per fermarla, ma… — Sì, sì… Il problema è questo: chi di noi va a prenderla, Newton? Tu o io? — Vado io — rispose Newton. — No, caro — intervenne ansiosa la signorina Warren. — Tu sei giovane. Tuo padre avrà più autorità. Tu devi restare qui. — Non correte nessun pericolo — le rispose Newton. — Lei invece sta rischiando grosso. Il professore appoggiò una mano sulla spalla del figlio per fargli coraggio, e Helen si accorse che le magre dita nodose tremavano appena. — Capisco quello che provi, Newton — disse. — Ma credo sia molto improbabile che il… pazzo si trovi all'aperto con questo tempo. A quest'ora sarebbe già bell'e morto. Se non è tornato a casa sua, si sarà nascosto in qualche granaio. Sono certo che Simone arriverà al Bull sana e salva. — Che bella prospettiva. — Newton si morse il labbro. — Un motivo in più perché suo marito vada a prenderla. — Forse hai ragione. Ma prima dobbiamo pensare a una linea di condotta da

seguire per evitare lo scandalo. — Non voglio il divorzio da Simone. — La voce di Newton si incrinò. — Voglio solo portarla via da quel… da Rice. — Personalmente non penso che Rice rappresenti un pericolo — commentò il professore. — Conosco i giovani, lui non è di sicuro il tipo del grande seduttore. — Ha chiuso in camera sua quella povera ragazza, a Oxford — disse Newton fuori di sé. — Non ti dimenticare, Newton, che anch'io sono stato studente, una volta. Capita che episodi di quel genere siano una messa in scena. Ho sempre avuto qualche dubbio sulla sua colpevolezza. Dimentica Rice… Il problema è quale scusa trovare per la fuga di Simone. — Un momento di pazzia, dovuto a una crisi nervosa — consigliò la signorina Warren. — Basta l'assassinio di oggi per giustificarlo. Il professore annuì in segno d'approvazione. — Ho paura che tu e Simone dobbiate are la notte al Bull — disse. — Non hanno alcun mezzo di trasporto, e Simone non può tornare a casa sotto questo diluvio. — Newton, non potresti tornare almeno tu dopo aver dato le spiegazioni necessarie e aver sistemato le cose? — propose la signorina Warren. Newton rise mentre si allacciava l'impermeabile. — Magnifica idea. Potrei affidarla alle cure di Rice… Non ti preoccupare, zia. Aspettaci domani mattina. Il rumore che segnava l'uscita di Newton provocò una nuova sensazione di solitudine in Helen. Attraverso la porta appena chiusa aveva visto la pioggia turbinare nel vento e, per contrasto, in anticamera l'atmosfera sembrava stagnante. Ormai in casa erano rimaste solo donne, oltre al professore che sembrava sfinito dal suo carico di responsabilità. — Il signor Rice dovrà ritornare domani a prendersi il cane — disse la signorina

Warren. Il viso di Helen si illuminò: si era dimenticato l'alsaziano. — Lo liberiamo, per fare la guardia alla casa? Il viso della signorina Warren tradì l'indecisione. — Ho paura dei cani e non mi piacciono — disse. — Certo che… quella bestia ci potrebbe proteggere. — Io ho esperienza di cani — le disse Helen. — Posso dargli da mangiare e poi portarlo nel seminterrato con me? — Ha già pensato la signora Oates a sfamarlo, prima che lo portassi in garage. — La signorina Warren guardò il fratello con un'aria di sfida. — Sebastian, potresti andare tu a prenderlo? Helen addrizzò le orecchie: il mistero degli strani rumori sulla scala di servizio era svelato. La reticenza della signora Oates provava una volta in più la sua fedeltà verso i padroni. Il professore guardava sua sorella con un leggero sorriso sulla labbra. — Tipico, mia cara Blanche — disse. — La porta del garage è aperta? — No, è chiusa. Ho la chiave di sopra. Mentre aspettavano il ritorno della signorina Warren, Helen cercò di vincere la soggezione per il professore. Come un gattino allunga una zampa verso un oggetto sconosciuto e subito, per paura, fa un salto indietro, così Helen non poté trattenersi dal provare a capire che cosa asse per quella mente. — Ammiro molto la forza di carattere della signorina Warren — disse. — La paura dei cani è più forte di lei. — Ma mia sorella non ha paura nel vero senso della parola — le disse lui. — Non ha paura certo che un cane la morda, ma sa il pericolo di infezione batteriologica che è latente nei parassiti degli animali. Helen fece del suo meglio per essere all'altezza. — Lo so — disse — ci sono milioni di germi ovunque. Sufficienti per uccidere tutte le persone di questo mondo. Ma… mi pareva di aver capito che esistono

anche germi buoni che combattono quelli cattivi. Il sorrisetto del professore non bastò a nascondere il suo disprezzo. — Proprio come gli angeli combattono i diavoli? — chiese. — Può scatenarsi una specie di lotta ma tra gli animali il Bene Ultimo non prevale, a differenza che nella vostra fantasiosa religione. Helen, benché a disagio, continuò sullo stesso tema. — Se i germi distruttivi fossero i più potenti, saremmo tutti morti… — E ben presto lo saremo. La longevità è solo relativa, molti giovani muoiono. Pensate alla mortalità infantile, che è il sistema di selezione naturale contro il sovrappopolazione. Sfortunatamente la medicina, fino a un certo punto, riesce a scombinare i piani della natura. Perché comunque la morte vince sempre. Helen era ormai troppo intimidita dagli occhi sarcastici dello scienziato per trovare il coraggio di andare oltre. — Di che cosa si occupa di preciso la signorina Warren? — chiese timidamente. — Di tassonomia. È la parte della storia naturale che cura la classificazione dei vari organismi. Quindi la sua logica è diversa dalla vostra. Voi vedete con gli occhi, lei vede attraverso un microscopio cose terrificanti che a lei si rivelano e che voi non vedrete mai. A Helen piaceva il modo in cui il professore provava a mascherare i lati deboli del carattere della sorella. Era sempre stata convinta che, come le ombre sul mare rivelano la presenza delle rocce, così certi particolari servono a delineare un carattere. Nonostante fosse ateo, il professore aveva una sua morale. — Che cosa interessante! — disse educatamente. — Mia sorella ha un carattere troppo sensibile per andare d'accordo col mondo esterno — continuò il professore — eppure ha i nervi saldi. Ha fatto un lavoro prezioso durante la guerra, al fronte, un lavoro che la sfiniva ogni giorno. Eppure non ha mai dato segno di stanchezza, e ne è uscita con molta esperienza. Questo è il motivo per cui non vuole che in questa casa ci siano alcolici… le danno troppo fastidio le bassezze umane.

— Penso che sia meravigliosa! — esclamò Helen con vera ammirazione. — Certo. Soprattutto se considerate, ve ne sarete accorta, che soffre di disturbi all'ipofisi. Helen non comprese l'allusione, ma guardò con rinnovato rispetto la signorina Warren quando rientrò nello studio e, in silenzio, diede la chiave al fratello. — Chiudi bene appena esco, per favore — disse il professore — e rimani ad aspettarmi. Non dobbiamo correre rischi. Busserò per farmi aprire. In questo modo. Batté sull'attaccapanni, e poi uscì sotto la pioggia. Fu terribile aspettare in quell'anticamera così vuota e silenziosa. Nessuna voce giovane né musica alla radio. I giovani, tutti, se n'erano andati da Summit. Come compagnia, Helen aveva un'inferma cattiva, un'infermiera ostile, un'irresponsabile governante di mezz'età, e due anziani studiosi che vivevano come eremiti. «Per fortuna tra poco ci sarà il cane» pensò. Anche quella consolazione le fu negata. Poco dopo il professore batté alla porta e entrò, era solo. — Rice ha messo in pratica la sua minaccia — le disse. — Il lucchetto del garage è stato forzato e il cane non c'è più. Togliendosi l'impermeabile bagnato si diresse verso lo suo studio. Disperata quasi fino al pianto, Helen scese in cucina dalla signora Oates. Bussò invano molte volte, anche se dai vetri si vedeva la luce accesa. Mentre stava per andarsene, sentì una voce impastata: — Entrate pure, mia cara. Helen entrò con il cuore in gola: aveva paura ma non sapeva di che cosa. La signora Oates era sprofondata nella sua poltrona come un sacco di patate, e sorrideva intontita.

I capelli le coprivano gli occhi, come se fosse stata chinata sul pavimento fino a quel momento. Non aveva alcuna esperienza in materia, ma Helen capì che era arrivato il colpo di grazia. Il suo secondo guardaspalle l'aveva tradita. La signora Oates era ubriaca.

19. Più che bevuta

Guardando la signora Oates, Helen si sentì prigioniera di un incubo. Era cambiato tutto in poche ore. Ormai era impossibile che la cucina fosse il locale allegro in cui aveva preso il tè e sentito racconti assurdi. Non era solo squallida e sporca, ma anche molto scura: le fiamme guizzanti del camino erano spente, la cucina a legna era piena di cenere e il camino cosparso di tizzoni. Il tavolo era sommerso di briciole e di gusci d'uova. Addirittura il gatto aveva abbandonato il suo posto sul tappeto ed era andato a trovare un po' di pace nel salotto disabitato. Ma ciò che più impressionava era il mutamento della signora Oates. Brutta in condizioni normali, adesso aveva perso ciò che la riscattava dall'esserlo: gli occhi non erano più sinceri e i tratti del viso si erano dissolti in una smorfia idiota. A Helen ricordava la visione di un incubo. La testa le dondolava e rideva senza un motivo. La mise al corrente degli ultimi eventi, e lei dimostrò una tale indifferenza da far venire il dubbio che avesse capito che tutti se ne erano andati dalla casa. «Una donna non è in grado di ubriacarsi in maniera decorosa» pensò Helen. E la colpì il fatto che, in quel particolare campo, l'uomo aveva una decisa supremazia. La donna poteva tenergli testa in molti altri, ma mentre un uomo, ubriaco, riusciva a essere divertente o anche brillante, una donna sbronza si riduceva sempre a un livello bestiale. Nonostante la faccia volgare e rubizza della signora Oates la disgustasse, Helen capì che non aveva perso ancora del tutto la coscienza del sé. E finché la catastrofe non era completa, restava la possibilità di far leva sul suo senso del dovere per recuperarla. — Avete bevuto alla mia salute? — chiese Helen allegra. La signora Oates esagerò nel proclamarsi innocente.

— Siete allegra, eh? Birra… avevo i soldi… quella sì. Lo ammetto. Quello che è giusto è giusto. Ma nemmeno un cicchetto. — Strano — fece Helen, fiutando l'aria. — Mi sembra di sentire aroma di brandy. — Deve essere il fiato dell'infermiera. È venuta qui giù a trafficare. Helen decise di giocare d'astuzia. — Che peccato — disse sospirando. — Ne avrei bevuto un goccio anch'io, per tirarmi un po' su. Rimase a osservare la lotta interiore della signora Oates: in lei la naturale gentilezza lottava con l'avidità e la prudenza. Alla fine la generosità ebbe la meglio. — Lo berrete, povera impicciona — le disse. Si chinò e prese da sotto la gonna una bottiglia di brandy, che appoggiò trionfante sul tavolo. — Potete servirvi — disse con tono ospitale. — Ce n'è un sacco là da dove arriva. — Dove l'avete trovato? — chiese Helen. — In cantina, quando il padrone è andato a guardare il termommm… Mentre la signora Oates si dibatteva per pronunciare la parola, con ciò che restava dell'antica tenacia del bulldog, Helen allungò la mano verso la bottiglia. — Ne avete già bevuto quasi metà — disse. — Non fareste meglio a tenere quello che resta per domani? — No — dichiarò solennemente la signora Oates. — Non lo sento nemmeno se lo bevo poco alla volta. Mi piace a sorsate. Una bottiglia, io, la finisco sempre. — Ma vi ubriacherete, e la signorina Warren vi manderà via. La signora Oates strizzò l'occhio e scrollò la testa. — Per niente. È già successo. Il padrone dice solo che mi devono tenere alla larga dalle tentazioni. Di cameriere qui non riescono a trovarne e lo sanno bene.

Helen reagì con il dispiacere di chi, giocando a carte, scambia una scartina per un asso: aveva perso una grossa chance, la paura delle conseguenze. Era chiaro che per la signora Oates il futuro non riservava sorprese. La famiglia Warren, considerando l'importanza dei suoi servizi, lasciava correre i suoi occasionali peccati. — E allora mettetelo via per una giornata di pioggia — continuò, mentre le dita della signora Oates si stringevano attorno alla bottiglia. — Perché la trovi Oates? Nemmeno per sogno! Sa bene che vado oltre una semplice bevuta ed è sempre in agguato per bloccarmi. No. La nasconderò nell'unico posto utile. — Che sfortuna che vostro marito sia dovuto uscire — disse Helen senza mezzi termini. — Perché doveva succedere proprio stasera? La signora Oates scoppiò in una risata stridula. — Sono stata io — disse esultante. — Ho portato su il budino in camera quando sapevo che l'infermiera era occupata a sistemare per la notte sua maestà. Ho dato un bel colpetto alla valvola della bombola e ho appoggiato il vassoio. — Chi o che cosa vi ha fatto venire un'idea del genere? — disse Helen incredula. — Voi. Siete stata voi a dire che l'ossigeno era la sua vita. Ma se non avesse funzionato questa, ne avrei trovata un'altra per togliermi di torno Oates. Quel senso di oppressione da incubo continuava a crescere. Helen sedeva di fronte alla signora Oates e la guardava scolarsi il bicchiere. Sembrava una cospirazione ai suoi danni, anche se, cercando la causa di ogni effetto, non riscontrava nessuna traccia di umana cattiveria. Nulla di strano nel fatto che la signora Oates avesse una debolezza e che suo marito cercasse di correggerla e, di conseguenza, era naturale che lei aguzzasse l'ingegno per levarselo di torno. La stessa logica era applicabile al comportamento che aveva portato alla defezione dei giovani abitanti della casa. Stephen Rice voleva bene al suo cane e non aveva accettato che lo allontanassero, e Simone aveva agito come una

ragazzina nevrotica e viziata che si era vista ostacolare nei suoi progetti. Il professore non avrebbe potuto agire diversamente, autorizzando Newton a seguire la moglie. Certo, c'erano state parecchie coincidenze banali che avevano messo in moto l'ingranaggio, ma ogni ospite di quella casa aveva la sua parte di responsabilità. Disgraziatamente Stephen aveva portato in casa quel cane, per prima cosa, e disgraziatamente la signorina Warren non amava la presenza di animali. Anche la disattenzione del professore aveva giocato il suo ruolo, anche se lui non poteva di certo sapere che la signora Oates fosse così spudorata da rubare una bottiglia proprio sotto il suo naso. Helen dovette riconoscere che anche lei aveva contribuito in modo considerevole a tessere quella tela malefica. Prima aveva spinto il dottor Parry a esagerare sulle condizioni di salute di Lady Warren e poi, con la sua annotazione sull'importanza dell'ossigeno, aveva fatto venire alla signora Oates la geniale idea di svuotare la bombola. Mano a mano riordinava le idee, la sua paura cresceva. Qualcosa avanzava lentamente verso di lei… un movimento fatto di intrighi che lei non era in grado di controllare. Vide come in una visione il versante di una montagna che si staccava e che precipitava, e si ricordò che per fare una valanga era sufficiente una crepa nella neve. Non si poteva dare la colpa di tutta quella serie di eventi solo al caso. Erano accadute cose naturali, ma in una successione innaturale. Era andato tutto troppo liscio: si erano susseguite l'una dopo l'altra con un tempismo perfetto, come se una mente superiore stesse dirigendone il corso. Lo spettacolo della signora Oates che, da donna piena di buon senso, si stava trasformando in un'ubriacona, spinse Helen a tentare tutto il possibile. — Datemela — urlò, prendendo la bottiglia. — Vi dovreste vergognare. Si rese conto di avere commesso un errore quando vide la furia negli occhi della signora Oates. — Mettila giù — le gridò.

Helen finse di scherzare muovendosi per la cucina inseguita dalla signora Oates. — Non fate la stupida — la supplicò, sempre tenendo la bottiglia. — Provate a riprendervi, avanti. Ansimante e con gli occhi rossi, la signora Oates la spinse in un angolo, le tolse di mano la bottiglia e la schiaffeggiò. — Te la faccio are io la voglia di ridere — urlò. Poi la prese per le spalle e praticamente la buttò fuori dalla cucina. — Fuori! — borbottò sbattendo la porta. — E adesso vattene fuori e resta lì. Helen fu lieta di andarsene, perché aveva bisogno di aiuto. Era troppo timida per affrontare il professore, per cui andò in biblioteca. La signorina Warren, curva su un libro, non accolse favorevolmente l'interruzione. — Mi auguro, signorina Capel, che non siate venuta a disturbare per qualche stupidaggine. — No — le disse Helen — è importante. La signora Oates… è ubriaca. La signorina Warren ebbe una reazione istintiva, poi lanciò un'occhiata all'orologio. — Non c'è motivo di preoccupazione — disse calmissima. — Ci dormirà sopra stanotte. Forse domani sarà di umore pessimo, ma svolgerà i suoi compiti come sempre. — Ma non è ancora del tutto ubriaca — insistette Helen. — Se voi le parlaste potreste farla smettere. — Non ho certo voglia di mettermi a discutere con una donna mezza alcolizzata — disse la signorina Warren. — E mio fratello è occupato in un lavoro troppo importante per poterlo interrompere. Se foste intelligente, non vi mettereste di mezzo… Cose del genere sono già accadute, in ato. La signorina Warren riprese il suo libro, per far capire che il discorso era finito. Sentendosi una poverina, Helen vagò per l'anticamera. Ma appena le cadde l'occhio sul telefono le ritornò il coraggio. Pensava di essere abbandonata su

un'isola deserta, e invece Summit era collegata con il resto del mondo civile. — Telefonerò al Bull — decise. — Dovremmo sapere se Simone è al sicuro. E poi chiamerò il dottor Parry. Prese la cornetta in preda al dubbio. Il maltempo aveva di sicuro abbattuto i pali del telefono: le erano capitate tante disavventure che si aspettava anche quella di trovarlo muto. Invece sentì il segnale e, subito dopo, la voce del centralinista che le chiedeva che numero volesse chiamare. Dopo un breve intervallo, un'altra voce con un forte accento gallese si presentò come il signor Williams, il proprietario del Bull. Rispondendo alle domande di Helen la informò che i signori Warren erano arrivati alla locanda e che si sarebbero fermati per la notte. Aggiunse che il signor Rice se n'era andato, subito dopo il loro arrivo, forse per lasciare il posto alla signora. — Dov'è andato? — domandò Helen. — Alla parrocchia. Ha detto di essere certo che il parroco l'avrebbe ospitato, sapendo com'è affezionato ai cani. Con queste notizie in serbo che le sarebbero potute servire come scusa in caso l'avessero vista telefonare, Helen cercò nell'elenco il numero del dottor Parry. Sentì subito la sua voce all'altro capo del filo. Sembrava stanco, e non proprio felice. — Non ditemi che la signora ha avuto un attacco. Mi sono appena seduto a tavola. — Ho bisogno di un consiglio — gli disse Helen. — Non so a cui chiederlo, se non a voi. Ma alla fine del discorso non era riuscita a convincere neanche se stessa della gravità della situazione. Sembrava tutta una montatura di eventi senza peso, ed era sicura che il dottor Parry l'avrebbe presa per quel verso. — C'è stato un po' di movimento — disse — ma voi non potete farci nulla. Lasciate perdere la signora Oates. Sarebbe più semplice rubare l'osso a un leone.

— Ma io voglio a tutti i costi che torni in sé — gemette Helen supplichevole. — Mi sento sola, troppo sola. Dopo una pausa il dottor Parry fece una domanda. — Avete paura? — N… no — rispose Helen. — Perché se avete paura, io vengo subito. Come aveva previsto, la proposta restituì coraggio a Helen fino al punto da rifiutarla. Lui aveva fame, era bagnato fradicio e stanco morto: benché fosse sensibile a certe tentazioni, in quel momento il fuoco del camino e la sua pipa lo attiravano più degli occhi più belli del mondo. — Mi rendo conto che la torre di guardia di un edificio non può essere troppo allegra sotto una tempesta — disse. — Ma pregate e vedrete che non crollerà. Stasera i vostri nervi hanno subito un duro colpo, è logico che vi sentiate sola avendo visto andare via i tre. Ma siete ancora messi bene. Tenete chiuso a chiave, e non abbiate paura di niente. — Sì — rispose Helen, trasalendo per un violento colpo alle persiane. — Se andaste a letto credete che riuscireste a dormire? — chiese il dottor Parry. — Non penso. La mia camera è all'ultimo piano e sembra una culla, per quanto dondola al vento. — Allora tenete il camino nel vostro salotto, e restate lì per questa notte. Là sotto quasi non sentirete il vento. E prima di quanto immaginate verrà mattina. — E le cose ci appaiono in una luce così diversa, la mattina — disse Helen. Era facile fare la coraggiosa sentendo la voce del dottor Parry che le parlava. — Ricordatevi una cosa — disse lui. — Se avete paura, chiamatemi e io sarò lì da voi.

Tranquillizzata da quella promessa, Helen riattaccò. Ma le bastò uno sguardo all'anticamera per vedere in pezzi la sua sicurezza. Sicura che in qualsiasi modo lei l'accogliesse, la compagnia della signora Oates fosse preferibile alla solitudine, Helen ritornò in cucina. C'era di sicuro un modo per prendere per il verso giusto la signora Oates. Con suo grande sollievo, la signora Oates la accolse con un benevolo cenno del capo. Aveva il viso ancora più arrossato, il livello del brandy nella bottiglia era sceso, ma sembrava disposta a un benevolo contatto. «Non la devo irritare» pensò Helen sedendosi e battendo amichevolmente una mano sul ginocchio della signora. — Siamo amiche, noi due, non è vero? — Sì — confermò l'altra con un cenno di assenso. — Oates ha detto: «Abbi cura della piccola signorina». Queste sono state le sue ultime parole, prima che lo mandassero via. Proprio le ultime. Abbi cura della signorina. — Oh, non parlate come se non ci fosse più! — gridò Helen. Prendendole la mano, cominciò a parlarle in tono persuasivo. — Ma come fate ad occuparvi di me se vi ubriacate? — Io non sono ubriaca — protestò la signora Oates. — Sono solo un po' su di giri. Riesco a stare su un piede solo. Posso rompere la testa a chiunque allunghi un dito sulla signorina. Si alzò e cominciò a saltellare per la cucina tirando pugni contro avversari immaginari, con una forza tale che per Helen fu di vero conforto. «Se riuscissi a trattenerla a questo punto» pensò. «È forte quanto un uomo.» La signora Oates si fermò, sbuffando come un delfino, in attesa dell'applauso di Helen. — Sono rimasta qui seduta — disse — a pensare e a ripensare. Quando bevo mi viene in mente tutto. Sono preoccupata per quell'infermiera. C'è una cosa che vorrei proprio sapere: perché parla come se avesse sempre la bocca piena di pane? Rispondetemi.

— Non lo so — disse Helen. — Io sì — le comunicò la signora Oates. — Parla con una voce finta. State pur sicura che lei una voce sua, una voce vera, ce l'ha. Come la vecchia Lady Warren. E si è inventata anche il modo di camminare. Cerca sempre di muoversi come se stesse evitando di schiacciare degli scarafaggi. Allora, che cosa ne pensate? — Che cosa ne dite voi, piuttosto? — domandò Helen sempre a disagio. — Forse… Forse non è una donna… non è proprio come voi e me. Forse è… Mentre la signora Oates si fermava con lo sguardo fisso, Helen si girò e vide, immobile sulla porta, l'infermiera.

20. Una Lady si fa bella

Helen scattò all'indietro, terrorizzata dall'occhiata dell'infermiera. Non aveva mai visto negli occhi di una persona un odio tanto evidente. Aveva di certo sentito le parole della signora Oates, ma Helen tentò una via di fuga. — Stavamo parlando di Lady Warren — disse. — Non è straordinaria, quella donna? L'infermiera evitò perfino di rispondere: in un silenzio paurosamente significativo si avvicinò alla stufa e guardò il bollitore. — Niente acqua calda — disse. — Mi dispiace, ma il fuoco si è spento — si scusò Helen a nome della signora Oates. — Se volete aspettare qualche minuto ve la farò bollire io sul mio fornello. — Non ho bisogno di aiuto — disse l'infermiera. — So fare benissimo il mio lavoro da me. E fino in fondo. Quelle parole, banali, le pronunciò come se sottintendesse un malefico scopo. Con uno sguardo altrettanto significativo, l'infermiera guardò prima la bottiglia sul tavolo e poi la signora Oates, sprofondata nella sua poltrona. — Brandy — commentò. — In una casa di astemi… La signora Oates alzò subito il bicchiere con un'aria di sfida. — Alla vostra salute, infermiera — disse con la lingua impastata. — E che possiate avere tutto quello che desiderate! L'infermiera ridacchiò. — Grazie — disse. — Presto avrò voi fra le mani. E saprò bene come occuparmi di un tipo così. E se ne andò senza lasciare alla signora Oates il tempo di rispondere.

— Be' — ansimò, fiutando l'aria. — C'è odore di zolfo, qui dentro. Meglio che non provi a farmi qualche brutto scherzo, meglio che non mi faccia arrabbiare, altrimenti la concio per le feste… Non mi lascio trattare così, io, da una cosa così. — Cosa così? — le fece eco Helen. — Insomma, come si fa a capire se è un uomo o una donna? Helen ricominciò a vivere un incubo, mentre la signora Oates abbassava la voce fino a un rauco bisbigliare. Da bambina, Helen aveva la fama di non piangere mai, ma in quel momento non ce la fece più. — Basta — disse in lacrime. — Smettetela, non resisto. Vedendola in lacrime, la signora Oates la fissò frastornata, e pian piano la comione si fece strada nel suo cervello annebbiato. — Che c'è, cara? — chiese. — Sono terrorizzata — le confessò Helen. — Voi continuate a bere e tra poco dormirete come un ghiro e sarete in sua balìa. Ve la sarete voluta. Farò il possibile per difendervi, è logico, ma quella mi farà a pezzi. E gli altri non crederanno nemmeno a una parola, finché non sarà troppo tardi. Helen aveva chiaramente perso la testa, ma la sua disperazione ottenne l'effetto sperato. La signora Oates cominciò a riprendersi. E a sua volta dipinse il futuro a tinte buie. — Punta a voi — disse. — Vuole prendere me per avere voi. Bene, gliela faremo vedere noi. Deglutendo con violenza per l'agitazione, spinse via la bottiglia di brandy. — Mettetela in un posto in cui io non possa prenderla. Chiuderla sotto chiave non serve. In un modo o nell'altro l'aprirei. Mettetela lontano, in modo che non cada in tentazione. Helen si guardò intorno, mentre la signora Oates la guardava con penoso interesse. Appena la ragazza si arrampicò sulla credenza, si pentì del suo nobile

gesto. Helen dovette salire sul secondo scaffale per mettere la bottiglia in cima alla credenza. Lì la signora Oates non sarebbe arrivata. Scendendo con cura da quel pericoloso trespolo, Helen cominciò le trattative con la signora Oates. — Siete stata meravigliosa — disse. — Se riuscirete a resistere, vi prometto che domani sera terminerete quella bottiglia nel mio salottino. Penserò io a ad allontanare Oates, vedrete che non gli consentirò di entrare. — Giuratelo — disse la signora Oates. Helen procedette al rituale segno di croce. — Adesso tocca a voi — disse. — Promettetemi di non cercare di prendere quel brandy. Riuscireste solo a rompervi il collo e poi la bottiglia. La signora Oates rifece il gesto di Helen, leccandosi prima il dito per dare maggiore solennità al suo giuramento. — Adesso faccio del caffè forte per rimettervi in piedi — disse Helen. — Caaaffeeeeè — grugnì la signora Oates. — Se mai vi capitasse un uomo che alza il gomito, il cielo abbia pietà di lui! Helen accese il fornello nel suo salottino e ripensò al dottor Parry. Si mise a fischiettare. Da quando se ne era andato, le emozioni erano state tali e tante che lei non aveva più avuto il tempo di pensare a lui. Ma vivendo a ritroso il colloquio di quella sera le parve una sicura promessa di felicità. Era come se fosse davanti a un lungo tunnel buio che finiva in uno splendore glorioso. Ma tra lei e l'alba del giorno seguente era in agguato il nero serpente della notte. Guardò l'orologio che ticchettava sulla mensola del camino. Benché fosse un oggetto modesto era molto preciso, ma per tutta consolazione segnava solo le dieci e venticinque.

L'acqua bollì e lei preparò il caffè; riempì una grossa tazza con il nero liquido forte e la portò alla signora Oates. La donna stava fissando la credenza con gli occhi leggermente arrossati. Era così giù che Helen si sentì la cattiveria in persona. — Ecco qui — disse. — Nero come la notte e bollente come l'inferno. — L'inferno — ripete la signora Oates, alzando il viso e ingoiandolo tutto d'un fiato. — Signora Oates, il dottor Parry è fidanzato? — Non ancora, ma può darsi che lo sia presto — rispose la signora Oates. — Gli chiedo sempre quando si sposa e lui mi risponde che sta aspettando di trovare una ragazzina da prendere e portare sulla luna. Il commento faceva pensare che fosse stato fatto apposta per la felicità di chi lo ascoltava e così Helen sorrise e provò il desiderio di dividere con altri la sua allegria. — Porto un po' di caffè all'infermiera — disse. — Si deve essere proprio offesa, prima. Arrivata alla porta della camera azzurra, bussò più volte, ma l'infermiera non venne ad aprire. Dopo qualche momento d'esitazione Helen schiuse la porta senza fare il minimo rumore e sbirciò nella stanza. Era quasi buia: la illuminavano solo una flebile lampada con il paralume azzurro e qualche guizzo intermittente delle fiamme del camino. Avanzando sulla soffice moquette, Helen individuò la mantellina di Lady Warren appesa al letto: la vecchia signora sembrava profondamente addormentata, russava. Per paura di svegliarla, Helen non osò chiamare l'infermiera. Vedendo la luce filtrare dalla porta accostata dello spogliatoio, comprese che era là dentro. Nonostante avesse il dovere di dormire con la paziente, il piccolo appartamento

attiguo alla camera azzurra era riservato a lei. Helen la prese di sorpresa. Probabilmente stava facendo toeletta, perché era in piedi davanti allo specchio e si guardava. Si ava un dito sul mento, sfregandolo, ed Helen intravvide il bagliore di un oggetto metallico stretto nel pugno. Trasalì sentendo Helen bussare alla porta, e guardò la ragazza con un'aria sospettosa. — Bene — disse acida. — Questo è l'unico posto che pensavo mi garantisse un'assoluta privacy. — Sì, è vero, trovare un po' di tranquillità in questa casa è un problema — fu d'accordo Helen. — Ho pensato che un caffè l'avreste gradito. — Grazie. L'infermiera Barker cominciò a berlo con studiata raffinatezza, ricordando a Helen uno spettacolo che aveva visto a teatro. «L'uomo che faceva la parte da donna, però, era molto più femminile di lei» pensò. Era così affascinata da quello che vedeva che cercò una scusa per non andarsene via subito. — Come avete visto, la signora Oates ha alzato il gomito — disse. — Potete darmi qualche dritta per rimetterla in sesto? — Lasciate che si scoli tutta la bottiglia e poi lasciatemela — sbottò l'infermiera. — No, grazie. Sono io la responsabile. — Allora tentate con un uovo in salsa Worcester, e un bicchierino dello stesso liquore che l'ha ubriacata — le consigliò l'infermiera. — A che ora andate a letto? — Di solito verso le dieci. Ma stasera non voglio andare a letto. — Perché? — Qualcuno deve pure stare alzato ad aspettare Oates.

Helen vide l'infermiera accigliarsi e non capì perché la guardasse con tanto interesse. — E così avete già scordato gli ordini del professore? Ha detto che non si deve far entrare in casa nessuno. Helen si vide già colpevole. Il dottor Parry aveva promesso che sarebbe venuto se fosse stato necessario e lei certo non l'avrebbe lasciato fuori di casa. — Me n'ero dimenticata — confessò. — Vi prego, non ditelo al professore né alla signorina Warren. — Io non prometto niente — disse l'infermiera Barker. — Se non vi si tiene d'occhio di continuo, finirete per mettere in pericolo l'incolumità di tutti quelli che vivono sotto questo tetto… È già abbastanza spiacevole che siate qui… ad attirarlo. Perché guardate che è voi che vuole. A Helen parve che una mano robusta l'avesse presa per i capelli, e al tempo stesso le sembrò di svenire. — Perché continuate a farmi paura? — chiese. — Perché avete la memoria corta. — L'infermiera posò la sua tazza e si avvicinò a Helen. — C'è un'altra cosa che ho in serbo da dirvi — soggiunse. — Non sono per niente soddisfatta di quel medico gallese. — Del dottor Parry? — chiese Helen incredula. — Sì, è un tipo strano, collerico… manca di equilibrio, è un nevrotico. Ha gli occhi allucinati e fa dei castelli in aria per delle stupidaggini… Potrebbe anche essere un maniaco omicida. Helen si affrettò a frenare la risata per paura di svegliare la malata. — Ma non dite cretinate! Disse Helen. — Sapete qualcosa di lui? — proseguì l'infermiera. — Questi delitti sono stati commessi da un uomo che ispira fiducia alle sue vittime, e che può spostarsi veloce da un posto all'altro… Bene, pensate a come lui corre veloce per la campagna sulla sua moto… ora è qui, e un minuto dopo è a due chilometri di

distanza. E tutti, naturalmente, si fidano di un medico. — Naturalmente — disse Helen infervorata. — E io per prima. Affiderei la mia vita al dottor Parry. È così caro. Mi ha promesso di venire a Summit, se fossi stata in difficoltà, nonostante questo tempo infame. L'infermiera tolse una sigaretta dall'astuccio e l'infilò, senza accenderla, in un angolo della bocca. — Non disturbatevi a chiamarlo — disse. — Può darsi che arrivi di sua spontanea volontà. Helen si girò per andarsene. — Non vorrei importunarvi oltre — disse. — Ma penso che siate fuori strada. L'infermiera fece qualche o e la prese per il braccio. — Voi avete paura di me — disse. — Non è vero. — Che idea vi siete fatta di me? Helen fece una scelta di appellativi adulatori. — Vi trovo degna della massima fiducia… e intelligente… competente. — E sciocca? — Tutto meno che quello. — Allora — disse l'infermiera abbassandosi per strofinare il fiammifero sotto la suola di una scarpa — forse mi ascolterete… a meno che la sciocca non siate voi. L'uomo che commette questi omicidi è un uomo normale, una volta ato il momento di follia. E quindi non avrete alcun segno premonitore. Potreste trovarvelo davanti stanotte, e sarebbe la sorpresa più grande di tutta la vostra vita. E pure l'ultima. Helen, ascoltandola, perse leggermente l'equilibrio; il cuore le batté violento due volte consecutive nel petto e la testa le girò. L'infermiera Barker sembrò

ingigantirsi e incombere su di lei come una torre bianca. Comprese che stava perdendo il senso del reale. Ogni cosa si trasformava davanti ai suoi occhi, prendeva contorni spaventosi. Non sapeva più di chi fidarsi, né cosa pensare. In quella confusione gli amici erano mascherati da nemici… ogni cosa perdeva credibilità. Il fatto più incredibile era che il dottor Parry le aveva parlato con lo stesso crudo linguaggio. Rivide il suo viso cambiare espressione, il sorriso immobilizzarsi in una smorfia, il rosso bagliore del delitto brillare in fondo ai suoi occhi. Perché tutti le dicevano di stare attenta, di aspettarsi qualche spaventosa sorpresa? Quella continua atmosfera pregna di veleni avrebbe finito per paralizzarle il cervello. La nebbia si dissipò alla luce del fiammifero dell'infermiera. La sua paura sembrò essiccarsi a quella fiamma, e staccarsi da lei come una pelle, lasciando però il posto a un'altra. Perché la fiamma che illuminava il volto dell'infermiera Barker le fece vedere, senza ombra di dubbio, un labbro superiore rasato da poco.

21. Aprendo la strada

Lo choc ebbe l'effetto di rinfrancare Helen. Adesso aveva qualcosa di chiaro contro cui combattere, non brancolava più nell'orrore incessante di un incubo. Scivolò silenziosa fuori della camera azzurra mentre Lady Warren continuava il suo concerto e scese in anticamera. Benché una delle finestre tremasse per la forza del vento, come se fossero stati sul mare in tempesta, quel locale era il meno esposto alle intemperie. L'atrio la riparava. E poi le permetteva di stare in una posizione di vantaggio: da lì poteva tenere sotto controllo tanto la scala quanto il resto della casa. E aveva anche la confortante certezza che il professore e la signorina Warren fossero così vicini che le sarebbe bastato chiamarli perché la sentissero. Sedendosi sull'ultimo gradino, con il mento tra le mani, provò a riepilogare della situazione. Tanto per cominciare, sapeva con certezza che l'infermiera non poteva essere l'assassino perché, al momento dell'ultimo delitto aveva un alibi di ferro. Nella peggiore delle ipotesi era una mistificatrice d'accordo con quel criminale. In quel caso andava tenuta sotto controllo fino a quando non avesse avuto prove valide per chiedere l'intervento della polizia. Quattro uomini robusti l'avrebbero sistemata… uomo o donna che fosse. La difficoltà sarebbe stata convincere i Warren. Doveva trovare prove inconfutabili… cercarle… e finì anche lei per aumentare il numero degli scettici. Era stata la signora Oates a insinuare i primi dubbi sul sesso reale dell'infermiera. Probabilmente la colpa era dell'alcool. Helen era più dell'idea di considerarla una donna invidiosa e crudele, che la natura aveva reso così dotandola di un aspetto non attraente. Il fatto che si fe la barba non era così rilevante: molte donne avevano peluria sul labbro superiore… anche se utilizzavano sistemi meno drastici per eliminarla. Se invece i sospetti della signora Oates avevano un fondamento le possibilità che si prospettavano erano molte e sgradevoli. Prima di tutto doveva esserci un piano prestabilito che comprendeva l'eliminazione della vera infermiera. E se il pazzo, in qualche cellula malata del suo cervello, aveva pensato a lei, Helen, come sua

prossima vittima, nessuno gli avrebbe impedito di raggiungere il suo scopo. Era inspiegabile che scegliesse lei, come lo era del resto la logica di tutti i suoi crimini. Con tutte le ragazze che circolavano per le strade della città era andato ad arrampicarsi, rischiando la vita, fin nella stanza di quella cameriera. E, mentre i delitti in aperta campagna si potevano giustificare immaginando un raptus improvviso, quello che prevedeva lei come vittima era terrificante, perché dimostrava una caccia paziente e premeditata a sangue freddo. Helen si immaginava quel pazzo fare domande, scoprire il suo indirizzo, pedinarla, spiarla di nascosto dagli angoli o dietro gli alberi. La cosa che più la stupiva era come gli avessero aperto la strada. Nessuno avrebbe potuto prevedere una tale sequenza di incidenti e, anche se lui non poteva averli pianificati, non si trattava di pure coincidenze, perché avevano una logica troppo evidente. Aggrottò la fronte provando a diradare la nebbia di quel mistero. «Perché dovrebbe puntare proprio a me? Non sono nessuno. Non somiglio certo a una stella del cinema.» ando in rassegna i ricordi, uno la colpì. Quando era arrivata a Summit, era rimasta per un'ora alla stazione ad aspettare Oates. Siccome la testa le faceva male dopo il viaggio da Londra, si era tolta il cappello. La panchina su cui era seduta era sotto un lampione, che di sicuro aveva esaltato di riflessi luminosi i suoi capelli rossi. Ricordava un uomo che si era girato a guardarla, ma aveva il cappello così calato sul viso che non avrebbe saputo riconoscerlo. «Sono i capelli» pensò. «Ma basta, sono proprio una cretina. È solo un'idea dell'infermiera. Nessuno mi dà la caccia. È lei che cerca di farmi paura.» E le si ripresentò la vecchia domanda: ma chi era la “signora” Barker? Chiuse gli occhi e cominciò a dondolarsi avanti e indietro. Il vento e la pioggia erano meno forti lasciando una quiete tranquillizzante. L'ora in cui si coricava di solito era ata da un pezzo e la giornata era stata molto faticosa. Distrutta dalla tensione cominciò ad assopirsi: nelle orecchie sentiva la voce del dottor Parry come una ninnananna, le ripeteva di non avere

paura. «Nessuna paura… nessuna paura.» Galleggiava sull'acqua di un fiume tranquillo, poco profondo e limpido, che terminava in una cascata sopra un buco senza fine. Il cuore sobbalzò e lei spalancò gli occhi. Si stupì nel vedere che non era sola. Il professore era chinato su di lei. — Vi addormentate sulle scale, signorina Capel? — chiese. — Perché non andate a letto? Helen ritrovò la sua calma. I delitti non succedono nelle case per bene, dove gli uomini indossano tutte lo smoking le sere come fosse un rito. — È una cosa poco saggia — fu il commento del professore quando capì che Helen non aveva alcuna voglia di coricarsi quella notte. Le ò vicino e salì le scale tenendosi al corrimano. Helen, istintivamente lo chiamò. — Professore… posso dirvi una cosa?… Ma non la posso gridare. Lui l'aspettò sul pianerottolo. — La signora Oates vorrebbe informazioni su quell'infermiera — disse. — Cioè… vorrebbe sapere se viene proprio dal Pensionato… — E che ci vuole a scoprirlo? — rispose il professore con la solita, disarmante pazienza. — Basta il telefono. Nonostante i suoi modi distanti, il professore non la faceva sentire come se combattesse contro il nulla. Alla notizia dell'ultimo omicidio solo lui era rimasto imibile, anche se non aveva sottovalutato il pericolo. «Se avessi bisogno, preferirei il cervello ai muscoli» pensò Helen. «Grazie a Dio ci è rimasto il professore.»

Non voleva interrompere il discorso. — Andate a coricarvi? — domandò coraggiosa. — Sì — rispose lui — sono quasi le undici. — Bene, vi auguro di riposare un po'. Ma se dovessi aver bisogno… per qualcosa che non riesco ad affrontare da sola… posso bussare alla vostra porta? Il professore non rispose subito. — Soltanto se è urgente. Confortata da quella risposta, Helen corse giù a telefonare. Fece are le pagine dell'elenco. Abituata a non dimenticarsi nulla di conversazione, ricordava l'indirizzo di quel Pensionato, era una fortuna, perché sull'elenco ce n'erano molti. La comunicazione era disturbata, e la donna che rispose non solo era quasi inascoltabile, ma anche abbastanza seccata per il disturbo. — Mi scusi, c'è l'infermiera Barker? — No — rispose la segretaria. — Chi parla? — La residenza Summit. — Ma l'infermiera Barker è a Summit. — Certo. Vi spiace descrivermela? Seguì qualche momento di silenzio, come se la segretaria stesse chiedendosi se la persona dall'altra parte del filo fosse a posto. — Non capisco — disse. — È alta, ha i capelli scuri… è una delle nostre migliori infermiere. Avete qualcosa da dire sul suo conto? — No. Parla con un tono sofisticato? — Naturalmente. Le nostre infermiere sono tutte signore.

— Sì, certo. Voi l'avete vista salire sull'auto che è venuta a prenderla da Summit? — No — rispose la segretaria dopo una pausa. — Era tardi e così lei ha aspettato giù all'ingresso. E quando ha sentito suonare il clacson è uscita, portandosi da sola la valigia. Helen agganciò con la sicurezza che il risultato dell'interrogatorio era soddisfacente. «Adesso è meglio che vada a dare un'occhiata alla signora Oates» pensò. La cucina era ancora più fredda e aveva un aspetto così squallido e desolato che pensò di accendere di nuovo il fuoco nel camino. La signora Oates era ancora più sprofondata nella sua poltrona, gli occhi fissi sulla bottiglia di brandy in alto sulla credenza. — Mi avete messo a stecchetto. Voi e il vostro caffè. E non sono neanche contenta. — Mi spiace — la consolò Helen battendole la mano sulla spalla. — Le parole non servono, ci vogliono i fatti — biascicò la signora Oates. — Domani — le promise Helen. — Ho telefonato al Pensionato. L'infermiera può sembrare la cattiveria fatta persona, ma credo proprio che sia in regola. La signora Oates non aveva intenzione di abbandonare i suoi punti di vista. — Per me no — grugnì. — Ho un barattolo di latta che ha il coperchio incastrato. Oates non è riuscito a muoverlo di un millimetro. Le chiederò di aprirlo, e vedremo se cade nella trappola. — Vorrebbe solo dire che è una donna con molta forza nelle mani — disse Helen. — E questo non vorrebbe dire che è un uomo. Che ore sono? — Lanciò un'occhiata all'orologio a muro, che funzionava come gli pareva. — Le undici meno cinque. È abbastanza preciso. A che ora sarà di ritorno vostro marito? La signora Oates cominciò a contare sulle dita.

— Dunque, più o meno un'ora e mezzo per andare e due per tornare. Quel catorcio deve riposarsi un po' sulle colline, con Oates che gli saltella intorno. Diciamo cinque ore al massimo, ma può darsi che riesca a rientrare prima. Helen si sentì speranzosa. — È partito verso le otto e mezzo, quindi ci restano soltanto due ore d'attesa. — E io che l'ho spedito fuori sotto quel diluvio per niente! — sospirò la signora Oates. — Non avrei dovuto farlo. Oates è il meglio del meglio. È un signore. Un vero signore è uno che sputa ma, prima di farlo, guarda dove sta sputando. Helen rise di cuore, soprattutto perché era contenta all'idea che Oates stesse per tornare. — Dormirò come un ghiro quando sarà qui con noi — ammise. — Non portereste lenzuola e coperte nella camera libera qui sotto, così saprò che voi dormite dall'altra parte del muro? — Nulla in contrario — promise la signora Oates. — È più sicuro sotto che sopra, con tutti quei camini. A Helen sfuggì un sospiro improvviso. — Mi ero dimenticata… Il professore ha detto di non far entrare vostro marito. — Questa è bella davvero — disse la signora Oates. — Il professore impartisce ordini e noi dobbiamo ubbidire, lui no. Non ha forse mandato il signor Newton dietro la sua mogliettina? Figuriamoci… state sicura che farò entrare Oates. Helen rimase colpita da tanta furbizia. — Pensate sia stato solo un modo di fare… per dimostrare che è lui a comandare? Se Oates è riuscito a prendere la bombola d'ossigeno non lo lascerà seduto in garage tutta la notte. Appena lo sentiremo bussare, andrò di sopra ad avvertire il professore che è tornato. — Oates sarà comunque già entrato! — profetizzò la signora Oates. — Non crederete che lasci il mio uomo sullo zerbino, non è vero?

Helen saltò in piedi. — Torno subito — disse. — Vado a mettermi in vestaglia. Poi ci faremo un tè e ce ne staremo tranquille. Nell'anticamera del seminterrato si fermò esitante. La strada più rapida era la scala a chiocciola. Ma le bastò guardare quella spirale poco illuminata per tirarsi indietro di colpo, decisa a non usare quei gradini per nessuna ragione al mondo. La scala a chiocciola offriva troppi angoli in cui nascondersi, dietro ciascuna di quelle volute poteva essere in agguato chiunque. Pur sapendo di esagerare con le sue paure, salì per la scala principale. Si fermò sul pianerottolo del primo piano, e sbirciò nella camera del professore, la porta era socchiusa. Non aveva neppure cominciato a spogliarsi, e stava seduto su una poltroncina davanti al camino. Sussultò sentendo un grido smorzato arrivare dalla camera azzurra. Aspettò di sentirne un altro, ma non fu così. Riluttante all'idea di andarsene, restò immobile, mordicchiandosi il dito indice. «Vorrei proprio sapere che fare» pensò. In quel grido c'era qualcosa di… una nota soffocata, come se una mano pesante avesse premuto sulle labbra di chi lo aveva emesso. Concluse che era stato un nuovo scherzo della sua fantasia. Lady Warren doveva aver gridato nel sonno, oppure l'infermiera aveva provato in qualche modo di farla smettere di russare. Iniziò a salire la seconda rampa di scale e si rese conto che aveva paura. Tutte le camere da letto del secondo piano, meno la sua, ormai erano disabitate. E qualcuno avrebbe potuto anticiparla lì sopra salendo dalla scala a chiocciola. Aprendo la porta, il primo pensiero fu che qualcuno, dall'interno, le impedisse di entrare, tanto forte era la pressione dell'aria che circolava in quel locale. Ma appena ebbe accesa la luce comprese di essere sola, mentre il tappeto che ondeggiava come il mare dopo una tempesta. Una volta ispezionata la stanza si sentì più tranquilla. C'era qualcosa di

contagioso nell'infermiera, se erano bastati quei pochi minuti fuori della camera azzurra per toglierle la tranquillità. E non serviva ricordare che probabilmente Oates stava per arrivare: avrebbe potuto anche trovarsi sul cancello e arrivare in ogni caso troppo tardi. Un colpo alla finestra le fece pensare che qualcuno stesse tentando di forzarla. Tirò la tenda. Immediatamente l'ombra nera che l'aveva già terrorizzata in precedenza si mosse davanti ai suoi occhi, sfiorando il vetro. Un'illusione ottica sgradevole faceva credere l'albero animato da uno scopo ben preciso. Una voce tonante lanciava minacce giù per la cappa del camino. Helen richiuse la tenda mentre si trovò con un salto nel bel mezzo alla stanza, nel panico. Stavano per aggredirla… come l'altra ragazza, la governante. Si sarebbe spalancata una finestra, da dietro una una tenda, se lo sentiva. Anche se Helen non lo poteva sapere, al piano di sotto una porta si era aperta con molta cautela. Una testa si era sporta a scrutare il pianerottolo… gli occhi che si muovevano rapidissimi da destra a sinistra. E qualcuno si infilò su per le scale, verso il secondo piano. L'occhio di Helen cadde all'improvviso sul crocefisso appeso sopra il suo letto. Anche se era stato schernito durante la cena, ebbe davvero il potere di renderla un po' più tranquilla. Non era una favola e neppure un mito: per secoli aveva protetto e benedetto… non l'avrebbe lasciata sola nel momento del bisogno. Cercando di non pensare a quell'infelice governante, si sfilò il vestito dalla testa, lo buttò da una parte e si preparò a guardare nel guardaroba. Dietro le grucce non c'era nascosto nessuno. Il vento continuava a battere sulle finestre e la pioggia a striare i vetri, ma il resto era tranquillo e normalissimo. Con la vestaglietta di lana blu e le pantofole senza il tacco, che la facevano apparire più piccola che mai, si sentiva molto più a suo agio. Scese le scale senza fare rumore e si fermò ad ascoltare davanti alla camera azzurra. Di colpo il silenzio fu interrotto dal lamento di una voce anziana. — No infermiera. No…

Helen stentò a riconoscere la voce rauca che in risposta urlò: — Zitta, sennò vi sistemo io. Helen chiuse le mani a pugno mentre il viso le si faceva rosso di rabbia. Niente le era più insopportabile di un atto di crudeltà. Lady Warren era veramente insopportabile, ma restava pur sempre una vecchia… nelle mani di una donna violenta. Ma aveva già conosciuto le conseguenze di un'intromissione diretta. Questa volta decise di chiedere al professore. «Credo proprio che sia una cosa urgente» pensò mentre attraversava il pianerottolo. La porta era ancora socchiusa e lui era dov'era prima. Aveva la testa girata, ma si vedeva la mano appoggiata sul bracciolo. Le sembrò piuttosto strano che non si fosse mosso. «Se dorme, lo sveglio?» si chiese. Appena arrivò alla poltrona fu presa dal panico. Il volto del professore sembrava una maschera di cera giallastra, con le palpebre chiuse color dell'argilla. Accanto a lui, sul tavolino, una bottiglietta e un bicchiere vuoto. — Professore — gridò. — Professore! Non aveva più paura di disturbarlo: adesso era terrorizzata dall'idea di non poterlo più risvegliare.

22. Incidente

Helen lo chiamò più volte, ma il professore non si mosse. Col coraggio della disperazione, lo prese per le spalle e cominciò a scuoterlo con violenza. Ma lui ricadde rigido di lato sulla poltrona, come un cadavere che avesse ripreso vita per un istante grazie a una scarica elettrica. Helen lasciò la stanza di corsa e si precipitò al pianterreno, nello studio. Nel sentirla entrare trafelata, la signorina Warren sollevò gli occhi dal libro e fissò su di lei lo sguardo vuoto dei suoi occhi slavati. Sembrava appena risalita a galla dopo una lunga immersione. — Il professore — disse Helen senza fiato. — Venite… Presto. — Che cosa è successo? — chiese alzandosi la signorina Warren. — Non lo so. Ma credo che sia… morto. Quelle parole ebbero l'effetto desiderato: la signorina Warren si precipitò su per le scale, veloce e decisa. Helen arrivò ansimante in camera del professore e la trovò già chinata su di lui. — Signorina Capel — disse con un fare che tradiva fastidio. — Vorrei che ci pensaste due volte prima di disturbarmi senza un motivo. — Ma non sta male? — domandò Helen osservando quella specie di cadavere. — No di sicuro. Ha solo preso troppo sonnifero. — Prese la boccetta del Quadronex e la osservò con attenzione. — Sono certissima che mio fratello non ha esagerato di proposito, non è matto. E non può essere stato distratto. Probabilmente non ha valutato l'effetto che le pillole avrebbero avuto sul suo fisico già provato. Controllò le pulsazioni. — Sta bene — disse. — Lasciamolo tranquillo.

Helen restò immobile come se avesse le radici nel pavimento, a fissare quel corpo immobile. Il caso aveva raggiunto il culmine dell'ironia: l'aiuto del professore veniva a mancare proprio quando lei aveva compreso appieno il valore della sua mente. Era una fonte di saggezza a cui si sarebbe potuta attaccare, e il suo gelido raziocinio agiva su di lei come una doccia gelata. Quel cervello da gelido, ormai, si era congelato, era quindi del tutto inutile. La signorina Warren andò a prendere una coperta dal letto e la appoggiò sulle ginocchia del fratello. — Venite, signorina Capel — disse. — No — rispose Helen. — Io… io ho paura. — Paura di cosa? — Non lo so. Ma l'ultimo uomo ci ha lasciate. La signorina Warren sembrò colpita da quell'osservazione. — In effetti è una curiosa coincidenza — disse. — Ma non capisco perché dobbiate terrorizzarvi così. — C'è stato un delitto — bisbigliò Helen. — Da qualche parte si nasconde un pazzo. E se ne sono andati tutti, uno dopo l'altro. Ormai mi attendo che accada l'inevitabile. Non può finire qui. Magari rimarrò solo… io, o solo… voi. La signorina Warren appoggiò, con gentilezza, una mano sulla spalla della ragazza. — Se siete nervosa perché non andate dall'infermiera? — Anche lei mi terrorizza — ammise Helen. — Usa la forza con Lady Warren, l'ho appena sentita. La signorina Warren schiuse le labbra, indecisa. Non era sua abitudine dare spiegazioni o confidenza ai dipendenti. Ma l'istinto, in questa occasione, la convinse a infrangere la regola.

— Di solito non parlo della mia famiglia con persone che non ne fanno parte — disse altezzosa — ma immagino che abbiate saputo che cosa è successo con l'infermiera che era qui prima della signorina Barker, no? — Sì. Lady Warren le ha tirato addosso qualcosa. — Esatto. Ed era già successo prima. Lady Warren, vista l'età, non è più capace di controllare le proprie azioni. È regredita a un livello istintivo, lo capite? Helen annuì, mostrando di capire che così si parlava di una nobildonna con un bruttissimo carattere. — Sfortunatamente — continuò la signorina Warren — la direttrice del Pensionato mi ha informato che non aveva una persona disponibile per Summit, e così mi sono vista obbligata a chiedere un'infermiera specializzata in malati con disturbi del comportamento. Una persona gentile, ma energica. — Non la definirei proprio gentile — dichiarò Helen. — Perché non andate personalmente a vedere come sta Lady Warren? Ancora una volta i lineamenti della signorina Warren sembrarono dissolversi, diventando sfuocati come in un ingrandimento fotografico. — D'accordo — disse. — Qui lasciamo la luce accesa. Helen, che uscì dalla stanza dopo di lei, sbatté apposta la porta. Poi la riaprì e sbirciò dallo spiraglio, animata da un pizzico di speranza. Purtroppo il professore non si era mosso di un millimetro. Il suo cervello chiuso a doppia mandata gironzolava in regioni scure e inaccessibili. Attraversando il pianerottolo la signorina Warren si fermò e si abbassò a osservare da vicino un oggetto sul pavimento. — Che cos'è? — chiese. — È un cacciavite — rispose Helen, illuminandosi nel vederlo. — Non ricordavo dove l'avessi lasciato. Stavo tentando di svitare la maniglia della vostra porta e l'ho dimenticato qui. Si chinò a raccoglierlo, ma subito la signorina Warren glielo prese dalla mano e

lo appoggiò su una delle poltrone della sua camera. — Fa sembrare tutto in disordine — disse. Helen la seguì nella stanza azzurra, che era quasi completamente buia. Dallo spogliatoio filtrava un raggio di luce, l'infermiera doveva trovarsi lì. Siccome dal letto non si sentiva il fragoroso russare di Lady Warren, Helen intuì che stava davvero dormendo. «Speriamo che non l'abbia drogata» pensò. L'aria nella stanza era ancora più pesante, sapeva di mele marce e di lenzuola non lavate. La signorina Warren ebbe un fremito di disgusto. — È un'aria rivoltante per chi non ci è abituato — disse. — Ho dovuto stare chiusa qui dentro tutto il giorno, e mi sento la testa scoppiare. Ecco perché io apprezzo correttamente le capacità dell'infermiera, a differenza di quanto fate voi. Helen capì il sottinteso. «Significa che è dalla parte dell'infermiera, e che io posso andare a quel paese» concluse. La signorina Warren bussò alla porta dello spogliatoio con una gentilezza che lasciò Helen senza parole. — Permesso? — chiese. L'infermiera Barker lo accordò. Era seduta con le gambe allungate su una sedia e la sigaretta in mano, sigaretta che si affrettò a posare nel portacenere per alzarsi davanti alla sua padrona. — Scusatemi se mi sono permessa di disturbare — disse la signorina Warren — ma volevo sapere se avevate avuto dei problemi con Lady Warren. — Ha fatto qualche capriccio perché non voleva bere il tranquillante — le rispose l'infermiera — ma l'ho convinta abbastanza in fretta. — Allora spero iate una buona notte. — Con questo vento? Difficile. Resterò sveglia, come tutti gli altri.

— Come sarebbe a dire? Io sto per andare a letto, e il professore dormirà di sicuro fino a domattina. Ha leggermente esagerato con il sonnifero. L'infermiera schioccò la lingua, con un'aria decisamente seccata. — Perché non mi ha chiesto la dose giusta? — È molto difficile che il professore chieda a una donna se può fare da solo — disse gelida la signorina Warren. — Probabilmente ha agito in piena coscienza per garantirsi qualche ora di riposo. Sa quanto sia importante mantenersi in forze, con tante persone che dipendono da lui. L'infermiera non la stava nemmeno a sentire, presa com'era dai suoi pensieri. Negli occhietti infossati ò un lampo brillante, allarmato e compiaciuto al tempo stesso. — Che strano — commentò gongolante. — È come se qualcuno si stesse preparando la strada. Helen notò gli occhi smunti della signorina Warren riempirsi di terrore. L'infermiera non aveva il potere di influenzare la sua datrice di lavoro, ma di sicuro non moderava i termini. — E perché mai? — chiese la signorina Warren. — C'è una spiegazione per tutto ciò che è successo. Facciamo solo un esempio: il signor Rice, mio nipote e sua moglie se ne sono andati da questa casa perché avevo chiuso fuori quel cane. — No, dovete andare più indietro — disse l'infermiera. — Il giovane Rice lo sapeva che voi odiate i cani? — Certo. — Bene. Allora sapete chi l'ha informato di un cane in vendita? Helen l'ascoltava con il cuore stretto in una morsa di ghiaccio. Forse non aveva valutato nel modo giusto quanto un evento fosse contemporaneamente effetto e causa degli altri? Da dove aveva avuto inizio quella catena? A quale mente deviata portava? La risposta spazientita della signorina Warren fu per lei un sollievo.

— Potete congetturare all'infinito, ma restano semplici ipotesi. Quale potenza malefica avrebbe agito su di me facendomi dimenticare di avvitare la bombola dell'ossigeno? Helen fu lì lì per spiegarglielo, ma la signora Oates non era certo una potenza malefica e non la volle tradire. Restò ad ascoltare l'infermiera che rigirava il coltello nella piaga, sempre più demoralizzata. Era evidente che sentiva un enorme piacere a impaurire il prossimo. — Ora in questa casa ci sono solo tre donne — disse. — Sono quattro — la corresse subito Helen. — La signora Oates era solo un po' su di giri, e sono riuscita a rimetterla in sesto. Ora è pienamente in sé. La signorina Warren e l'infermiera la fissarono. Alte com'erano, la sovrastavano e lei, in pantofole e vestaglia, sembrava una tredicenne dal visino pallido sotto la chioma spettinata e gli occhi assonnati. — Ho l'impressione — considerò la signorina Warren — che siate in grado di badare a voi stessa. — Lo faccio da quando sono nata — confermò Helen. Gli occhi della signorina Warren trattennero con difficoltà una punta di invidia per la sua piccola dipendente. — In caso di bisogno, sareste di sicuro all'altezza della situazione, signorina Capel — disse. — Ma se non volete dormire mi sentirei più tranquilla sapendo che siete con la signora Oates. Voi agite su di lei da elemento frenante mentre lei potrebbe aiutarvi. Helen, che stava per crollare sopraffatta dalla tensione, deglutì più volte sentendosi esprimere tanta ammirazione. In cucina ritrovò la signora Oates sempre sprofondata nella sua poltrona, ma non più depressa. Agitò l'indice verso Helen con un gesto di amichevole rimprovero. — Com'è, arrivate quatta quatta per non farvi sentire? Cercate di prendermi in castagna? Ma sono volatile troppo vecchio per farmi beccare…

E strizzò l'occhio così allegra che Helen, subito sospettosa, si affrettò a guardare la credenza. Fu sollevata quando vide la bottiglia ancora al suo posto. — Il dramma si complica — le disse teatralmente. — Il professore è uscito di scena. La signora Oates ascoltò con poca attenzione il resoconto della vicenda. — Non è una grande perdita — disse. — Quello lì non fa altro che restarsene seduto nel suo studio a pensare. — Esatto — le spiegò Helen. — Senza di lui siamo come un corpo senza testa. Evidentemente l'infermiera la pensava allo stesso modo perché, poco dopo, entrò in cucina con la dignità di una regina che, per un attimo, ha deposto la corona. — Ho pensato che sia meglio metterci d'accordo — disse. — Senza il professore, chi si assume il potere decisionale in questa casa? — La padrona, è logico — rispose la signora Oates. — Non è capace — disse l'infermiera. — È nevrotica, senza alcun dubbio. Mi vorrete concedere una certa esperienza, lo spero, nel mio campo… — Io continuerò a prendere ordini da lei — disse Helen. — È lei che mi ha assunto ed è lei che mi paga. — Senti, senti! — La signora Oates applaudì. — La fidanzatina del dottore vi sgrida! Il piacere di sentirsi definire così riempì Helen di una calda sensazione vittoriosa. — Non sapevo che foste la fidanzata del dottor Parry — disse l'infermiera. Aveva le labbra contratte e gli occhi pieni di gelosia. — Infatti non lo sono — chiarì subito Helen. Nonostante l'argomento fosse delicato, l'infermiera sembrò non riuscire a cambiarlo. Sedette incrociando le gambe e, senza che le venisse offerta, prese

una delle sigarette della signora Oates. — Immagino dipenda dalla vostra altezza — disse. — Strano come gli uomini scelgano sempre le donne di bassa statura. È sintomo di inferiorità mentale. Gli uomini sanno bene che il cervello è proporzionato alla statura, e non se la sentono di mettersi con chi, intellettualmente, è come loro. Helen si arrabbiò moltissimo, permalosa com'era. Da bambina non era stata educata all'autocontrollo e persino suo padre, diretto responsabile di questa mancanza, la canzonava chiamandola piccola delinquente. — Forse è perché siamo più attraenti — disse. L'infermiera Barker si accese la sigaretta con le dita che tremavano. — Allora mi volete offendere — disse rauca. — Non vi sembra poco furbo, visto che molto presto saremo sole, io e voi? — Con noi ci sarà anche la signora Oates — le ricordò Helen. — Ma davvero? — La risata dell'infermiera era gravida di significato. — Se fossi in voi non ci conterei tanto. Aspirando con furia il fumo della sigaretta si alzò e uscì in anticamera. — Che cosa voleva dire? — domandò Helen preoccupata. — Scemate — commentò la signora Oates, scacciando un insetto inesistente. — Comunque — aggiunse scura in volto — non avremmo dovuto fare così. È venuta giù con le migliori intenzioni e noi l'abbiamo fatta arrabbiare. Ho cominciato io e voi avete finito. — Non dovrebbe lasciare sola così a lungo la povera Lady Warren — disse Helen ando all'attacco. — Per carità, non vi preoccupate per lei — le consigliò la signora Oates. — Sa bene come difendersi. Chiuderle assieme quelle due in una stanza, è come chiudere un leone con una tigre. C'è da chiedersi chi dei due uscirà vivo il mattino dopo. Helen pensò alla camera buia del primo piano, e si chiese se non fosse davvero

un'arena in cui si scontravano due forze bestiali: due donne che si assalivano a vicenda. — Vorrei proprio essere certa che Lady Warren è capace di difendersi — disse. — Ho paura di quell'infermiera. — Non dovete fateglielo capire — le consigliò la signora Oates. — No. — Helen lanciò un'occhiata all'orologio a muro. — Non so cosa darei per sapere esattamente dov'è in questo momento il signor Oates — disse. — Il tempo sembra andare al contrario. Se solo ce la fi a resistere finché ritorna. — Perché non dovreste? — Sono terrorizzata dall'idea che mi capiti una cosa — le confessò Helen. — Non ditela — intervenne rapida la signora Oates. — Non si può mai dire, qualcuno potrebbe sentirci. Helen aprì la porta della cucina e guardò l'anticamera del seminterrato. Era vuota. — Ho paura di questa cosa: se dovessi sentire un bambino che piange fuori nel giardino non potrei non uscire, lo capite? — Su, non fate la stupida — la supplicò la signora Oates. — Da quando sono qui, è tanto, non è mai accaduto che lasciassero un bambino sulla porta. La signorina Warren non è il tipo che arriva a casa con un fagotto in braccio. Helen sorrise e si alzò. — Mi sento in colpa — disse. — Vuole andare a riposare e io non ho ancora sistemato la maniglia della sua porta. Contenta di avere qualcosa da fare, salì in anticamera, dove c'era la massima tranquillità. Arrivata al primo piano si rese conto che, dalla porta della camera della signorina Warren, filtrava della luce.

«Speriamo non stia andando a letto» pensò mentre bussava. — Sì? — rispose la signorina Warren. — Scusatemi tanto. Vi dispiacerebbe armi il cacciavite che avete appoggiato sulla vostra poltrona? — Ma certo, signorina Capel, purché non lo dimentichiate ancora in giro. Helen sentì i i della signorina Warren sul parquet e poi notò la maniglia della porta che girava. A vuoto. Restò a fissarla per qualche istante,e poi chiese: — Non riuscite ad aprire? — No — si sentì rispondere. — Gira nella mano senza fare presa.

23. Ubriachezza

Nonostante un'indefinita sensazione di sconcerto, Helen sentì la situazione sotto il suo controllo. — Non preoccupatevi — gridò. — L'aprirò io da fuori. Bisogna solo spingere in un certo modo. Fin troppo fiduciosa prese la maniglia, con il solo risultato di sentirla girare in mano come se fosse stata lubrificata. — Sembra rotta definitivamente — urlò di nuovo. — Gli attrezzi li avete voi. Li sapete usare? — Il cacciavite non c'è più — si sentì rispondere con la massima calma. — Non importa. Oates la riparerà domani mattina presto. — Ma, signorina Warren — insistette Helen. — Non è prudente che rimaniate bloccata lì dentro. Supponete… supponete che accada qualcosa, che, solo per fare un esempio, scoppi un incendio… — E perché mai dovrebbe scoppiare un incendio? Ma per favore, signorina Capel… andate via. Devo finire un lavoro importante. Il tono era categorico, ma anche Helen era simile a un cane mastino, proprio come la signora Oates, e non mollava subito la preda. — La chiave è dalla vostra parte? — chiese. — No. La serratura si era rotta e avevo messo un chiavistello… Adesso, per piacere, lasciatemi in pace. — Sì, signorina Warren. Ma… se avessi bisogno di voi, non potrei entrare in camera vostra. — Sicuramente non avrete bisogno di me. Buona notte, signorina Capel. Helen si allontanò intristita dalla porta. Non poteva rischiare di farsi licenziare. Cercò conforto dicendosi che, se quella notte sembrava un incubo, il giorno dopo tutto sarebbe diventato normale.

Mentre ava davanti alla camera azzurra, l'infermiera, che aveva sentito il rumore, sporse la testa dalla porta. — E che cosa succede adesso? — le chiese. Appena Helen le spiegò ciò che era successo, l'infermiera esplose in una sgradevolissima risata. — Che cosa vi dicevo? Quella si è chiusa dentro apposta. — Non ci credo — disse Helen. — Perché avrebbe dovuto? — Paura. Mi sono ben accorta che le stava venendo… E… ho notato anche altro, tra poco ve ne renderete conto. I vostri guai non sono ancora finiti. Helen rimase spiacevolmente sconcertata dalle acute sottolineature della donna. «Ne sa molto più di noi» pensò. «Ecco perché voleva prendere in pugno la situazione». — Infermiera — le gridò d'istinto — voglio chiedervi scusa. Se vi ho offeso, non l'ho fatto apposta. — È un po' tardi per pentirsi — disse l'infermiera con un ghigno. — Ormai quello che è fatto è fatto. — Ma non potrei rimediare? Helen vide che le narici della donna si dilatavano, come per aspirare l'aroma dell'incenso bruciato per blandirla. — Mi potete promettere ubbidienza — disse. Helen esitò mentre i suoi pensieri andavano veloci al dottor Parry. Sapeva bene che l'infermiera avrebbe fatto di tutto per impedirgli di entrare sé fosse venuto a Summit. Ma l'arrivo del dottor Parry era improbabile, e invece l'infermiera si sarebbe potuta rivelare un valido ostacolo sulla strada del criminale, incredibilmente forte e furba com'era. Helen si portò la mano alla tempia come in un saluto militare.

— Lo prometto, Sergente. — C'è ben poco da scherzare — ribatté seria l'infermiera. — Non sono certa di potermi fidare di voi. Nella mia vita non sono mai stata insultata come da voi due, una serva alcolizzata e una ragazza ignorante. Quel rossore violento comune a tutti coloro che hanno i capelli rossi, apparve sulle guance di Helen. — Oh… — disse. — Non ho mai pensato di voi quello che è stato detto. L'infermiera prese a considerare quello che aveva sentito senza essere vista. — Certo, ha parlato l'altra, ma voi le andavate dietro. — Dovevo per forza essere d'accordo con lei, perché non era del tutto in sé. Non ho mai condiviso la sua opinione. Rapida come un fulmine, l'infermiera la inchiodò con una domanda senza scampo. — Ma che pensa quella, lo si può sapere? Helen, soggiogata da quegli occhi che emanavano scintille, si sentì come ipnotizzata da un serpente. — Secondo lei… voi siete un uomo — confessò. L'infermiera Barker deglutì più volte. — Me la pagherà — sussurrò, girandosi per tornare nella camera azzurra. Scendendo le scale, Helen fece un veloce riepilogo: per colpa dell'infermiera non si sentiva la coscienza così tranquilla, e non sopportava l'idea di essersi comportata in modo falso. Alla fine si tranquillizzò: aveva dato il giusto risalto all'episodio del rasoio e non ne aveva fatto parola a nessuno e, con la signora Oates, aveva sempre minimizzato, sostenendo che se a lei l'infermiera non piaceva erano fatti suoi. Mentre era davanti al telefono, le tornarono in mente le ultime «coincidenze»

della serata. «Dovrei davvero telefonare al dottor Parry» pensò «e raccontargli ciò che è successo. Sarebbe un aiuto importante il parere di un uomo.» Lui ci mise molto a rispondere, e la sua voce sembrò impastata di sonno. — Oh, stavate dormendo? — chiese Helen, che aveva dimenticato che il resto del mondo, quella notte, non era sveglio come lei. Il dottor Parry si guardò bene dal ricordarglielo. — Che c'è? — le chiese. — Il professore. Ha preso una dose troppo forte di sonnifero e la signorina Warren è rimasta chiusa in camera sua. Dato che il dottor Parry non commentava, Helen non trovò di meglio che chiedere scusa. — Mi rendo conto che non avrei dovuto disturbarvi. Ma qui continua a calare il numero delle persone… vengono a mancare una dopo l'altra, lo capite… Che cosa ne pensate? — Che non ci capisco niente! — fu la risposta. — Sembrerebbe tutto normale. Sembrerebbe. Per me la più saggia è stata la signorina Warren. Perché non fate come lei? — Perché… non mi crederete dopo il trambusto che ho fatto per non dormire nella sua stanza… è perché non mi sento di lasciare da sola con quell'infermiera Lady Warren… — Credete che le faccia del male? — Non lo so. Ma ha un carattere terribile. — Allora vi do un consiglio, e prendetelo per buono. Se quelle due dovessero litigare, date per vincente la vecchia. Anche la signora Oates le aveva detto la stessa cosa, ma Helen non era convinta. — Grazie per il consiglio — disse Helen. — Scusate il disturbo, ma un po' di colpa l'avete anche voi. Mi avete autorizzato voi a seccarvi.

— Un attimo… non agganciate — intervenne il medico. — Sto pensando al professore. Non è il caso che venga lì a dargli un'occhiata? — Ha un aspetto terribile — dichiarò Helen, giocando l'ultima carta a sua disposizione. — Me lo immagino. Che cosa ha fatto la signorina Warren? — Gli ha sentito il polso e l'ha coperto. — Bene. — Helen sentì un sospiro di sollievo. — Allora possiamo stare tranquilli. È una donna intelligente. Rimaniamo d'accordo così: se cambio idea, prendo la moto e vengo. Anzi, per essere sincero, dite una sola parola e parto subito. — Voi verreste qui per me? — Solo per voi. Nonostante la pioggia e il vento contro la casa, nonostante la stanchezza e la solitudine, nonostante il pericolo che incombeva su quella notte, Helen riprese improvvisamente vita. Sentì salire la marea, sorgere il sole, e si sentì galleggiare nell'aria. — Ora che lo so — disse — non voglio che veniate. Mi sento benissimo. Io… Agganciò rapida sentendo dei i sul pianerottolo del primo piano. L'infermiera si sporse dalla balaustra: nella penombra sembrava una scultura inquietante. — Chi era? — chiese. — Il medico — rispose Helen. — L'ho chiamato per avvertirlo del professore, ma dice che non è necessario venire a visitarlo. — Preferisce prenderci di sorpresa — profetizzò l'infermiera. — Non mi fido di quel giovanotto… E voi, non fareste meglio ad andare dalla vostra alcolizzata? Le state dando troppa libertà. Ma fate come volete, io sono solo un'infermiera diplomata.

Helen, piena di sensi di colpa, attraversò l'anticamera correndo. Aprendo la porta del seminterrato urtò un oggetto che cadde, gradino dopo gradino, facendo un chiasso tremendo. Helen lo inseguì e lo raccolse in fondo alla scala. Era un contenitore per il latte da mezzo litro. — Signora Oates — gridò entrando in cucina — chi ha avuto la brillante idea di mettere questo coso in cima alle scale? — Non lo so. — Non può esserci andato da solo. — Non lo so. Helen guardò subito la credenza. Grazie a Dio la bottiglia era ancora là, non era stata toccata, almeno in apparenza. Eppure la signora Oates sembrava diversa, messa peggio. Sulle labbra aveva stampato quel sorrisetto sentimentale che cancellava la sua aria grintosa. Helen immaginò guardandola una capanna in riva al mare che, vista dall'acqua, tremolasse in lontananza. Come raggiungerla se chi guidava la barca era sbronzo? «Dopo stanotte» pensò «ne saprò abbastanza per scrivere un libro.» All'improvviso pensò che avrebbe dovuto averla, una certa esperienza: suo padre, un carattere debole anche se pieno di fascino, di tanto in tanto provava ad affogare nell'alcool qualche dispiacere. Ma sua madre si era sempre preoccupata di nascondere alla figlia quei suoi momenti di cedimento. «Stasera avrei bisogno di saperne di più» pensò Helen. «Povero papà, mi sarebbe servito molto più di tutta l'educazione che mi ha dato». La signora Oates stava facendo evidenti sforzi per seguire la vicenda della maniglia della signorina Warren, e non faceva che ripetere in forma interrogativa tutto ciò che Helen andava dicendo. — Oates avrà fame quando tornerà — fu il suo ultimo commento. Helen colse al volo l'occasione, e si affrettò a prendere un vassoio.

— Vi aiuto a preparargli da mangiare — disse. — Alzatevi. Prese la signora Oates sotto le ascelle e provò a sollevarla con tutta la forza che aveva. Ma la donna ricadde in poltrona. — Bisogna che mi lasciate tranquilla ancora per un po' — fu il consiglio della signora Oates. — Ho mezza bottiglia in corpo, non lo dimenticate. Mi riprenderò presto. — Va bene — disse Helen. — Allora farò da sola. Andare nella dispensa da sola era una grande prova di coraggio. Aveva sentito parlare di una teoria secondo la quale la paura dei serpenti produce nell'organismo umano l'acido formico, una sostanza che attira i rettili verso le vittime e, contemporaneamente, li eccita. Dopo questa considerazione si rese conto che era importantissimo tenere a bada il panico. Aprì la porta della dispensa e accese la luce: ogni angolo del locale diventò all'improvviso giallastro. Un topo corse a rifugiarsi nella tana mentre la solita finestra sbatteva come al solito. Il corridoio sembrava un tunnel dall'aria sinistra. La luce era troppo fioca e le porte erano molte per poterlo percorrere in completa tranquillità. Dietro l'angolo, cominciava il buio labirinto della Morte. Helen sapeva di dover controllare la sua immaginazione: doveva pensare solo al cibo, dimenticando i racconti orribili che le avevano fatto. Continuando a ripetersi che era già stata là dentro e aveva già ispezionato personalmente ogni angolo che potesse prestarsi a un nascondiglio, entrò nel deposito delle provviste. A Summit erano così abbondanti che operare una scelta attenta non era facile, così riempì il vassoio di sardine, lingua di manzo, carne in gelatina e salsa piccante. Tenendo il vassoio appoggiato sul fianco con una mano sola, spense la luce e aprì la porta. Un attimo dopo sentì un gran fracasso, il rumore di un vassoio di

metallo che rotolava giù per la rampa delle scale. Helen aggrottò la fronte, ben poco disponibile a un nuovo scherzo. Si allarmò. Non potendola sentire arrivare perché aveva le pantofole con le suole di feltro, probabilmente la signora Oates aveva messo alcuni oggetti di latta che potessero avvisarla del suo ritorno. Quindi aveva qualcosa da nascondere. Non sarebbe stata al suo gioco. Nonostante il peso del vassoio corse in cucina. La signora Oates era ancora in poltrona, e dava le spalle a Helen. L'infermiera era accanto a lei, in piedi con le braccia conserte. — Dove siete stata? — le chiese. — Nella dispensa — spiegò Helen. — A prendere qualcosa da mangiare per il signor Oates. Pensavamo di farci uno spuntino, anche con voi, tanto per are il tempo. Vi va? L'infermiera Barker fece un cenno d'assenso, con uno strano sorrisetto che fece agitare Helen. — Pensavo di mangiare qui con la signora Oates, e di portarvi poi di sopra qualcosa. Siete d'accordo? Che cosa preferite nei panini? — Chiedete alla signora Oates che cosa preferisce — disse l'infermiera. — Credevo vi foste assunta la responsabilità di ciò che faceva. Immaginando il peggio, Helen sbatté il vassoio sul tavolo e corse a guardare in faccia la signora Oates. Ma non ci riuscì perché, all'improvviso, lei tese le braccia sul tavolo e ci appoggiò il la testa, come un fiore reso pesante dalla pioggia. — Che c'è? — gridò Helen. — State male? La signora Oates aprì un occhio a fatica. — Ho tanto sonno — disse. — Io… io… Mentre la voce le veniva meno, Helen la scuoteva per le spalle. — Svegliatevi — la supplicò disperata. — Non lasciatemi. L'avete promesso!

Un vago segno di lucidità unito a un senso di colpa apparve negli occhi della signora Oates, ma subito evaporò. — Qualcuno… si è… approfittato… di me — disse con la lingua impastata. — Sono stata drogata. La testa le cadde pesante sulle braccia, chiuse le palpebre e cominciò a respirare a fatica. Con un'orribile sensazione di impotenza, come se fosse stata spinta da parte da un rullo compressore che aveva invano cercato di fermare, Helen la guardò sparire in un sonno incosciente. L'infermiera si teneva in disparte e si ava la lingua sulle labbra, quasi stesse assaporando il gusto piacevole di quella situazione. L'orologio ticchettava: scandendo ogni minuto che avvicinava Oates a quella casa. Finalmente Helen interruppe quel silenzio. — Perché non le offriamo un bicchierino? — ribatté con un tono di scherno l'infermiera. — Magari l'alcool sarà un tonico per lei… Helen non aveva dubbi sui motivi del crollo della signora Oates. Come i ladri, che per aprirsi la strada prima di una rapina addormentano i cani da guardia, così qualcuno aveva approfittato della sua assenza per fare lo stesso con la signora Oates. Con la paura di offendere l'infermiera, anche se era certa che la colpevole fosse proprio lei, cercò di non far capire né dal tono di voce né dall'espressione del viso qual era il suo sospetto. — Ma che cos'ha? — chiese. L'infermiera le rispose furente. — Non fate la stupida. È ubriaca fradicia.

24. Uno spuntino

Le parole dell'infermiera, dopo un primo choc, furono quasi un sollievo per Helen. Le esplosero in testa, spezzando l'intrico di ragnatele intessute dal suo sospetto. Nessuno si era approfittato della signora Oates: lei non aveva retto alla tentazione, nonostante le promesse che aveva fatto, niente altro. — Ma come ha fatto a prendere quella bottiglia? — chiese Helen. — Non era in grado di arrampicarsi sulla credenza. Con un calcio l'infermiera spinse in avanti un pesante sgabello, ci salì, allungò la mano e prese la bottiglia dallo scaffale. — Non sono tutti nani come voi — disse. — La signora Oates è meno alta di me, ma ha le braccia lunghe come quelle di un gorilla. Helen si morse le labbra per essersi fatta fregare così facilmente. — Mi considererete di sicuro un'ingenua — disse — ma io mi fidavo di lei. E comunque il brandy non l'ha toccato, il livello è lo stesso. L'infermiera tolse il tappo della bottiglia, l'annusò e poi si versò qualche goccia del contenuto sul dorso della mano. — È acqua — dichiarò. Helen guardò arrabbiata la signora Oates, che respirava a bocca aperta emettendo bolle di saliva. — Che ne facciamo? — domandò disperata. Prima di rispondere, l'infermiera con un gesto brutale le aprì con violenza la bocca. — Non ha protesi dentarie — disse. — Se dovesse vomitare non soffocherà. Lasciamola dov'è.

— E se le fasciassi la testa con una pezza bagnata d'acqua e aceto? Sembra così calda, e poi è scomoda. — No — sbottò l'infermiera. — Ci ha messo nei guai e non perderemo tempo a occuparci di lei. È solo ubriaca, punto e basta. Preparate qualcosa da mangiare, sto svenendo dalla fame. Non ho mangiato. Portate il vassoio su da me: mangeremo lì. — Che cosa volete che vi prepari? — Carne fredda, patate, sottaceti, formaggio. Col pane abbondate pure. Fate del tè molto forte: ricordatevelo bene, dobbiamo restare sveglie. — Non pensate, vero, che siamo in pericolo? — chiese ansiosa Helen. L'infermiera la fissò in silenzio. — Che fortuna avere a che fare con voi! Siete una stupida, e uno stupido è due volte più pericoloso di una persona cattiva. Le conoscete le basi dell'aritmetica? — Ma certo. — Bene. Allora: in questa casa, a cena, c'erano nove persone. Ora ne sono rimaste due. Quante ne mancano? — Sette — rispose Helen con un sobbalzo, terrorizzata dal numero. L'infermiera si inumidì le labbra con un gusto sadico. — E capite, vero, che cosa vuol dire? Vuol dire che oramai “lui” è a un o da voi. Benché fosse certa che l'infermiera approfittasse della sua paura, Helen si sentì venire meno quando rimase da sola in cucina. Era pur sempre una compagnia, per cattiva che fosse. Quel ripetersi di disgraziati incidenti le aveva logorato i nervi. Ogni colpo alla finestra del corridoio le rispondeva direttamente al cuore. Il giardino, pieno di pericoli incombenti, sembrava soffocare quella casa.

«E se tra le due scale ci fosse un ingresso segreto? Qualcuno potrebbe essersi nascosto nelle stanze vuote» pensò. Desiderava solo salire al primo piano il più rapidamente possibile. In attesa che bollisse l'acqua per il tè ebbe il tempo di preparare i panini, ma ormai le era ata la voglia di mangiare. Riempì svelta il vassoio e tornò nel suo salottino per vedere se l'acqua per il tè bolliva. Intanto i suoi pensieri vagavano disarticolati, come gli accordi stonati di un vecchio organo. «Secondo me alla signorina Warren è andata bene di trovarsi chiusa in camera… Non sarebbe successo se non fossi stata tanto distratta, anche lei mi ha fatto capire che era colpa mia… Quindi la responsabilità di ciò che è successo è nostra, mia e sua… e di nessun altro.» Per un momento la logica dei suoi pensieri le fu di aiuto, ma subito si fermò davanti a una domanda che questa stessa logica aveva suscitato. C'era forse qualche rapporto che aveva provocato, o magari aiutato, lo scontro tra i vari caratteri? Lei, con la sua emotività e la sua testa fra le nuvole. La signorina Warren con la sua presunzione, la signora Oates con la sua fame di alcool… si erano comportate, indipendentemente l'una dall'altra, secondo la propria natura. Ma ora il mosaico si ricomponeva… come se fossero state solo le pedine di un gioco, mosse da un giocatore invisibile. La teiera emise un getto di vapore e il coperchio si alzò, schizzando l'acqua. Helen preparò il tè rapidissima e si precipitò su per le scale continuando a lanciare occhiate alle spalle. Chiuse la porta della scala con un calcio. Nella stanza azzurra c'era un profondo silenzio. Helen fece del suo meglio per non far rumore con le tazze. Nello spogliatoio l'infermiera stava accendendosi una sigaretta col mozzicone di quella che aveva appena finito. Mentre Helen posava il vassoio, cominciò a lagnarsi. — Mi sono quasi rotta le dita provando a girare quella chiave. — E con un cenno della testa indicò la seconda porta. — Incredibile. Mettermi in una stanza vicina alla camera da letto di un uomo, con tanto di porta comunicante. Dimostra

il tipo di infermiera che va bene per questa gentaglia. — Era uno spogliatoio — le spiegò Helen. — E il professore non è l'uomo che pensate: avrebbe timore di voi. E questa notte non verrà di certo a farvi visita. Oltre a divertirla, quell'episodio le dava morale: aveva lasciato la signora Oates in uno stato che sembrava comatoso, ma adesso aveva la prova che l'infermiera non aveva la forza di uno strangolatore. — Apro la porta, nel caso che Lady Warren vi chiami? — chiese. — Non chiamerà — grugnì l'infermiera. — L'ho sistemata io. — Volete dire che le avete dato un sonnifero… come ai bambini? — E perché no? Che cos'è una vecchia… non è una bambina? — Ma… mi sembra un modo di fare piuttosto drastico. L'infermiera si limitò a mugolare, mentre si versava il tè aggiungendoci un'abbondante dose di brandy. Helen la guardò sbalordita riempirsi il piatto di patate e di fette di carne fredda che coprì di sottaceti. «Una portata da uomo» pensò seguendo quel pasto con gli occhi sbarrati. L'alcool migliorava il carattere dell'infermiera. Prese la bottiglia e la tese a Helen. — Ne volete un goccino nel tè? — No, grazie. — Ne avrete bisogno ben presto. Quell'individuo ha provato il gusto del sangue. Avete visto la signora Oates: non è riuscita a lasciare la bottiglia a metà, ha dovuto finirla. Per lui è la stessa cosa: è una tigre affamata, con la saliva che gli cola dalle fauci assatanate. Helen appoggiò nel piatto il pezzo di formaggio che stava mordicchiando.

— Infermiera — chiese — posso sapere perché non vi vado a genio? — Perché mi ricordate una persona che odio — rispose l'infermiera. — Era esattamente come voi: un cosino tutto ossa, tutta gambe, risatine e capelli ricci, una specie di bambola. L'unica differenza è che era bionda. — Mi considerate ben poco — commentò con calma Helen. — E voi invece vi considerate molto, come tutte le nane di questo mondo. Parola mia, se potessi comprarvi al prezzo che valete per me, e rivendervi al prezzo che valete secondo voi, mi sistemerei per sempre. Helen concluse che l'altezza era un vero complesso per quella donna mastodontica. — Perché odiate tanto quell'orribile biondina? — chiese con istintiva curiosità. L'infermiera si versò dell'altro brandy nel tè e lo mescolò. — Per un uomo — rispose. — Facevo il tirocinio. Lui era un medico. Un uomo intelligentissimo, ma così piccolo che avrei potuto appoggiarlo sulle ginocchia e sculacciarlo. — La diversità avvicina — disse Helen. — Eravate fidanzati? — Il suo interesse era autentico, perché la strana confidenza che stava dimostrandole l'infermiera riaccendeva in lei la dolcezza della sua storia d'amore, e l'ascoltava con attenzione, convinta che dopo avrebbe parlato anche lei. — Non ancora. Ma eravamo vicini. Ci saremmo arrivati, al fidanzamento. Ma la bionda me l'ha portato via, maledetta lei. — Che peccato — disse Helen con sincera condivisione. — Peccato? — L'infermiera Barker rise amaramente. — Oh, molto di più. Era tutta la mia vita. È stato il mio primo e unico uomo della mia vita. Non ne ho più avuti altri e mai più ne avrò. Mi ha portato via tutto ciò che avevo. — Si sono sposati dopo? — chiese Helen rompendo quel silenzio. — No, lei l'ha abbandonato. Voleva solo portarlo via a me. Ma di lui era rimasta

solo la buccia: l'aveva spremuto come un limone… e per me non era rimasto più niente. Ecco perché detesto le donne come lei. Sono leggere, frivole, superficiali… capaci solo di disfarsi di chi non serve più. Se un uomo provasse a torcere loro il collo, gli augurerei di farcela. Helen si chiuse nel suo guscio sotto quello sguardo di fuoco: ormai la voglia di parlarle delle sue speranze era svanito e cercava solo il modo di somigliare il meno possibile a quella ragazza. — Sapete — disse — voi e io siamo sulla stessa barca. Gli uomini mi hanno sempre ignorato… proprio perché sono così piccola. Quel lampo avido negli occhi dell'infermiera le fece capire che aveva abboccato. — Ma il dottor Parry non vi fa la corte? — No di sicuro. È solo una fantasia inventata dalla signora Oates. Non ho mai avuto una relazione sentimentale in vita mia. Mi sono sempre dovuta guadagnare da vivere e non ho mai avuto abbastanza soldi per comprarmi dei vestiti. E senza vestiti belli non si fa colpo su nessuno. — State dicendo la verità? — insistette l'infermiera. Helen annuì, ricordandosi delle umiliazioni e degli stenti che avevano contrassegnato la sua adolescenza. E l'infermiera le credette, anche se assomigliava a quell'odiata bionda. In quel momento, per lei, Helen era una povera rachitica, senza arte né parte, una donna di nessuno. Con un'unica prospettiva, una via diritta e rapida verso la tomba. Se l'avessero ammazzata, nessuno avrebbe pianto per lei, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. Ci sarebbe stato solo un posto di lavoro in più per qualcun altro. Ma anche se disprezzava tutti i deboli, ormai non era più gelosa di lei, e non sentiva più alcun rancore nei suoi confronti. Vedendola prendere di nuovo la bottiglia, Helen emise in un grido di protesta. — Per favore, piantatela.

— Non crederete che mi sbronzi per due dita di alcool, eh? — ghignò l'infermiera che ormai aveva perso ogni controllo. — No. Ma con quello che è successo ho paura che sia drogato. — Se è così, resterete completamente da sola. Io, il rischio lo corro. — Portò la tazza alle labbra e bevve tutto il contenuto d'un fiato. — Sarebbe la cosa migliore che mi potesse capitare — continuò l'infermiera. — Così, quando arriva, avrà a che fare solo con voi. Se invece dovessi mettermi di mezzo io, potrei farne le spese. La mia, di vita, è utile. Perché dovrei sacrificarmi per voi? — Ma io ho bisogno di voi. Siamo rimaste solo noi due. Se vi capitasse qualcosa, credo che impazzirei dal terrore. — Dipende tutto da voi. Io non mi fido. Sareste capace di tradirmi pur di salvarvi la vita. Sembrava inutile continuare a discutere. Helen restò immobile a guardare l'infermiera che finiva di mangiare. E fu una cosa lunga, perché dopo ogni boccone, l'intermezzo era una boccata di fumo. Di nuovo fu assalita da un senso di oppressione mentre faticava a tenere gli occhi aperti. «Devo per forza restare sveglia» pensava disperata. «Se smettessi solo un momento di guardarla, sparirebbe». Nonostante l'impegno per tenersi aggrappata alla realtà, in fondo ai suoi pensieri c'era la sicurezza che, ancora una volta, l'àncora a cui si attaccava le sarebbe scappata di mano. La signora Oates le era venuta a mancare, e sarebbe capitato anche con l'infermiera Barker. Intanto, però, la notte stava ando. Lo stesso pensiero ò probabilmente per la mente dell'infermiera, che lanciò uno sguardo all'orologio da viaggio posato sulla mensola del camino. — Dovrebbe essere qui da un momento all'altro — disse. — Mi chiedo quale sarà la sua prima mossa. Helen riuscì a non tremare: lo studente anziano stava tormentando il novellino,

solo per sentirlo urlare. Con quel poco di presenza di spirito che le restava, ò al contrattacco. — Non dovete dimenticatevi di una cosa — disse. — Sembra che nessuno si interessi a me da viva… ma potrei diventare molto importante da morta. Se mi dovesse succedere qualcosa stanotte, aprirebbero un'inchiesta che farebbe gran scalpore. E potrebbero ritenere responsabile proprio voi… L'infermiera Barker corrugò la fronte: aveva sottovalutato quella possibilità. Viveva del suo lavoro, e se si fosse trovata coinvolta in un'inchiesta la sua reputazione ne sarebbe uscita rovinata, soprattutto se l'avessero accusata di infamia. — Non fate la cretina — le disse. — Siamo legate a filo doppio, noi due… Che cos'è stato? Anche Helen aveva sentito: un tonfo sordo al piano di sotto. — Sembrerebbe qualcuno che sta bussando — disse. — Guardatevi bene dall'esserne sicura — la ammonì l'infermiera. — Potrebbe essere una trappola. — Ma devo farlo. Forse è Oates. Senza lasciare all'infermiera il tempo di fermarla, aprì la porta e uscì di corsa dalla camera azzurra. Dal pianerottolo sentì bussare forte alla porta e poi suonare il camlo. Helen si fermò di colpo, come paralizzata, e si aggrappò alla balaustra rosa dal dubbio che l'assaliva. La persona sulla soglia poteva essere Oates, tornato più presto del previsto. Ma proprio per quel motivo, non osava fare un o. Lei aspettava il ritorno di Oates: chiunque avrebbe potuto entrare in quella casa giocando sull'equivoco. All'improvviso l'istinto le disse che era il dottor Parry. Non era tranquillo nonostante le sue parole rassicuranti. Si era precipitato a Summit per vedere di persona se non correva rischi. Con gli occhi che le brillavano di gioia, si precipitò giù per le scale nell'istante in cui l'infermiera usciva sul pianerottolo.

— Ferma! — le gridò. — Non aprite quella porta! — Devo aprirla — rispose Helen trafelata. — È il dottore. Aveva promesso di venire. Devo aprire. Sentì i i pesanti dell'infermiera alle sue spalle e accellerò la corsa. Ma nonostante i suoi sforzi, si sentì prendere da due braccia possenti. — Stai zitta, piccola stupida! — bisbigliò l'infermiera tappandole la bocca con una mano. — È lì fuori.

25. La sentinella

Nonostante il tono deciso dell'infermiera, Helen continuò nella lotta. Era sicura che fuori ci fosse il dottor Parry, era un supplizio saperlo così vicino e non poterlo raggiungere. Seppe fin dal primo istante che avrebbe avuto la peggio, perché l'infermiera con un braccio l'aveva immobilizzata e le premeva con forza l'altra mano contro il viso. A Helen non rimaneva altro che tirare calci, deboli e frenetici, con le sue pantofole di feltro. Bussarono e suonarono per un tempo interminabile. E anche quando finirono l'infermiera non allentò subito la presa: si limitò ad aspettare, finché non sentirono bussare, come un'eco, da un'altra parte della casa. — È ato alla porta di servizio — disse cupa. — È tenace, ma lo sono anch'io. Helen si contorceva dal dolore, adesso fisico oltre che mentale. Le sembrava di soffocare, stretta in quella morsa d'acciaio che le premeva le costole e la bocca. E quando ricominciarono a bussare alla porta principale aveva raggiunto il limite della sopportazione. «Vai via, caro. Non serve. Vai via. Fallo per il mio bene. È inutile.» Come se chi stava di fuori avesse sentito quelle parole neppure pronunciate, di colpo scese un silenzio che si protrasse tanto a lungo da convincere l'infermiera a liberarla. — Oh! — ansimò Helen, massaggiandosi delicatamente il collo. — Per poco non mi strangolavate. L'infermiera scoppiò in una risatina rauca. — Ecco come mi ringraziate. Peccato che non l'abbiate fatto entrare. Vi avrebbe

definitivamente sistemato lui… Non meritate alcun aiuto. Helen spostò dagli occhi una ciocca di capelli e la guardò torva. — Non mi avete aiutato per niente. Era il dottor Parry. — E come fate a saperlo? — Aveva detto che sarebbe venuto da me. L'infermiera sollevò di colpo le folte sopracciglia. — Allora non è vero che per voi non è niente! Helen non aveva abbastanza energie per discutere. — Che importanza ha… oramai? L'avete mandato via. — Ha importanza, invece. Significa che mi avete raccontato una bugia, in un momento come questo. Avete cercato di accattivarvi la mia simpatia, e invece, sotto sotto, mi prendevate in giro. Helen ricordò quello che le aveva detto Stephen Rice, e cioè che la sua sicurezza dipendeva da chi aveva intorno. Dal viso congestionato, l'infermiera sembrava essere in preda a un violento attacco di gelosia e, improvvisamente, Helen sentì pietà per quella donna brutta e cattiva. — No, vi ho detto la verità — garantì con gentilezza. — È successo soltanto stasera. — È successo cosa? — Niente. — Helen ridacchiò, come se avesse dimenticato il pericolo sulla scia dei ricordi… — Mah…! C'era qualcosa in lui che mi ha fatto nascere qualcosa. La sensazione forse è stata reciproca, se è venuto fino qui. Mi capite, vero? È successo anche a voi, no? Ansiosa di stabilire un rapporto con l'infermiera, le prese la mano. Lei la respinse con uno scatto che fece cadere Helen in ginocchio.

— Sì — disse. — So perfettamente come accade. So come comincia, so come finisce. Con una sporca falsa femmina dai capelli riccioluti come voi. — Ma non è giusto punirmi per una cosa che non ho fatto — protestò Helen. — Io non vi ho fatto nessun male. — Ma neanche del bene. Avete parlato del mio aspetto in modo maleducato e offensivo. Solo perché sono alta e ho un viso duro avete avuto il coraggio di mettere in dubbio che io sia una donna. — Non è vero. Ve ne prego, cerchiamo di essere amiche, anche solo per questa notte. Non dovremmo accapigliarci l'una con l'altra: non facciamo altro che indebolire le difese. — Oh, sì, vi capisco. Gli uomini trovano più attraenti le donne piccole, vero? Ma le donne piccole hanno bisogno di essere protette. Sentirete la mia mancanza quando sarete sola. Quelle parole furono per Helen una stilettata. — Se dovesse succedere una cosa simile — disse Helen — morirei di terrore. Ma non permetterò che succeda. — Non è detto. Il professore dorme grazie a una dose eccessiva di sonnifero, e la cuoca è ubriaca. Ma come facciamo a essere sicure che non sono stati drogati? — E chi li avrebbe potuti drogare? — Qualcuno che ha agito di nascosto — suggerì l'infermiera Barker. — Gli eventi di stasera sembrano opera di qualcuno che si trova in questa stessa casa. — E aggiunse, caricando le parole di un sinistro significato: — Lo sapremo, comunque, se anch'io perderò i sensi. Ho messo il brandy nel tè: sarà per questo che mi sento la mente tanto offuscata? Mentre parlava, barcollò leggermente e si ò una mano sulla fronte. Helen la fissò senza parlare. Anche se il buon senso la confortava ricordandole che l'infermiera era maestra nella politica del terrore Helen non poteva negare un certo fondamento in ciò che diceva.

Decisa a non dare all'infermiera la soddisfazione di vederla distrutta dalla paura, tenne la testa alta e controllò le labbra che le tremavano. — Vorrei tanto che fosse già domani. Vi prego, cercate di essere umana. Aiutatemi a are questa notte. — E perché dovrei? Voi non rischiereste di sicuro per me. — Vorrei tanto trovare la maniera di provarvi la mia sincerità — disse Helen con trasporto. — Ho cominciato male, lo so. Sono stata indegna. Ma, ve lo assicuro, poi ho cominciato a stimarvi. Credo di capire, adesso, il sentimento del vostro medico. L'infermiera l'ascoltò in silenzio. Squillò il telefono, un suono acuto da far ghiacciare il sangue. Quel suono fu musica per le orecchie di Helen: Summit era ancora legato alla civiltà. Corse a rispondere con le guance in fiamme. — Avevate ragione voi, come sempre — disse correndo. — Non era il dottor Parry a bussare alla porta, è lui che chiama. Era così sicura di sentire la sua voce all'altro capo del filo che rimase molto delusa sentendo la voce di una donna. — Pronto, Summit? — Sì, qui Summit — rispose Helen insicura. Dopo un istante si girò verso l'infermiera. — È per voi. L'infermiera si alzò con un'aria importante. — Chi mi vuole? — Non lo so. Assolutamente impreparata all'imminente sciagura, Helen guardò l'infermiera senza un briciolo dell'interesse che le riservava di solito. Notò solo con quanta

eleganza e raffinatezza rispose. — Sì? Sono l'infermiera Barker. Chi parla?… Oh, sei tu, cara? — Che piacere sentirti, carissima. Sono ancora in servizio. Abbiamo un intervento urgente, e provo a rintracciare Blake. È in vacanza, e gli sto dando la caccia per tutta l'Inghilterra. Sai bene quanto ti fanno aspettare le chiamate interurbane. Così, nell'attesa, ho pensato di telefonarti, nel caso non fossi andata a letto. — È una cosa da escludere — disse con amarezza l'infermiera. — Poco allegro. Come mai, è un caso difficile? — Difficile al massimo. E spiacevolissimo oltre che stranissimo. — Stranissimo? Non mi sorprende, cara. Figurati che una persona mi ha telefonato qui e mi ha fatto delle domande su di te che non esito a definire incredibili. — Su di me? Helen avvertì l'inflessione di voce dell'infermiera. Pietrificata tese le orecchie. — Ripeti, prego… Ma no! E poi?… Cosa?… Sei sicura che fosse la voce di una ragazza?… A che ora? Per cortesia, cerca di ricordare perché intendo risalire alla fonte… Sei proprio sicura?… Allora so chi era la ragazza, perché gli altri se n'erano già andati… Ma figurati, anzi! Hai fatto benissimo a dirmelo. Se c'è una cosa che voglio sapere è con chi ho a che fare. Ciao, grazie e a presto. L'infermiera agganciò e fissò Helen. — Volevate trovare un modo per dimostrarmi che siete sincera? Bene, ce l'avete fatta. Completamente. Siete una bugiarda, siete velenosa come un serpente. Un essere disgustoso. Se per salvarvi la vita mi bastasse alzare un dito, non lo alzerei. Helen aprì a stento la bocca, per spiegare. Ma le idee non riuscivano a prendere consistenza nella sua mente: un flusso e riflusso di ricordi le ava per la testa senza che lei riuscisse a metterli a fuoco.

Tutto quello che sapeva era che si era inimicata l'unica persona che la potesse difendere e che fuori, nel buio, girava un uomo pericolosissimo. L'uomo era sempre là nel giardino, girava intorno alla casa, ava sfiorando i lauri e attraversava i cespugli di sempreverde. Battuti dal vento, i rami gli tormentavano il viso, erano come fruste, mentre lui si chinava a esaminare le finestre del seminterrato. La casa era una fortezza. Con le finestre e le porte tutte sprangate, era sicura come un carro armato. Il dottor Parry sarebbe stato contento nel vedere con quanta diligenza avevano ubbidito ai suoi ordini. Era stato lui a consigliare la massima prudenza. Eppure, mentre se ne stava a fissare il muro nella vana attesa che un raggio di luce filtrasse da qualche finestra, provò una sensazione di gelo nelle ossa. Non gli era mai piaciuto l'isolamento di Summit anche se amava la solitudine. La sua casa era in una zona pianeggiante, esposta ai venti come una piccola barca ancorata in un porto, e non incassata in una laguna limacciosa come Summit. Sensibile, soggetto com'era a simpatie e antipatie istintive, ammetteva, e cercava di combattere, quel fondo superstizioso comunque nella sua natura. In quel momento quell'edificio vittoriano pieno di camini che sembravano sorreggere le nuvole lo terrorizzava. La luna, che appariva e spariva tra cumuli di nuvole, era oscurata dalla pioggia: in quel paesaggio confuso Summit sembrava conservare un segreto. Gli ricordava una vedova rispettabile e prosperosa, che firma un assegno per i bisognosi dopo aver versato l'arsenico nello stufato del marito. Si morse le labbra maledicendo la sua stupidità: c'era un modo semplicissimo per comunicare con Helen. Accese l'accendino e frugò nelle tasche in cerca di un pezzo di carta: riuscì a trovare solo una busta usata, e si affannò a scribacchiarci sopra un messaggio. Fiducioso, infilò la missiva nella buca delle lettere e bussò per due volte, come faceva sempre il postino.

«Questo la farà scendere più velocemente di un candelotto di dinamite» pensò, indietreggiando sul viale d'ingresso fino a un punto da cui poteva avere una visione completa della casa. Ma i minuti avano senza che ai piani superiori nessuna finestra si illuminasse. Cominciò a essere apprensivo. Quell'indifferenza a una sollecitazione estranea non rispondeva alla natura curiosa di Helen. Ricordava benissimo a che velocità di solito salisse le scale, e quindi non avrebbe dovuto impiegare molto per arrivare al pianterreno, se era giù nel seminterrato come le aveva detto lui. Finì per non resistere più all'immobilità dell'attesa: gli sembrava di essere lui stesso come un albero, radicato al suolo. Era che Summit, come la rispettabile vedova, dopo il tramonto non apriva più la porta a nessuno e, date le circostanze, non poteva che rallegrarsi per quell'eccesso di prudenza. Stava per andare quando accadde qualcosa. In una stanza del secondo piano si accese una luce. La finestra era chiusa, ma non le imposte: vide solo la tenda, tirata, azzurra. Il viso gli si illuminò di felicità: doveva arrivare quel momento, riascoltare la sua voce, per rendersi conto dell'intensità del sentimento che sentiva per Helen. E quella ione gli salì dal cuore fino alle labbra, in un sorriso. La delusione, in quel desiderio amoroso, fu ancora più cocente: vide, attraverso il leggero velo delle tende, un'ombra muoversi furtiva, come piegata su se stessa. E distinse la testa e le spalle di un uomo.

26. Un'intuizione

Anche all'interno di Summit era tempesta, non solo fuori. Terrorizzata dalla faccia furibonda dell'infermiera, Helen provava disperatamente di calmarla, provando di tutto. — Ma non capite? — chiese implorante. — Si era appena saputo del delitto. Tutti eravamo così agitati. Avevamo paura della nostra ombra e non sapevamo più di chi fidarci. Vi do la mia parola, ho solo cercato di diminuire la tensione accertandomi che foste l'infermiera che avevamo chiesto. La signora Oates va foste una mistificatrice. Più dava spiegazioni, e più l'infermiera si inferociva. Sotto l'aspetto di un gigante si nascondeva la natura di un essere minuto e indifeso, morbosamente preoccupato del giudizio degli altri. Divorata dal sospetto che qualcuno potesse ridere alle sue spalle, considerava tutto il genere umano suo nemico. — Siete riuscita a estorcermi delle confidenze con l'inganno — disse con rabbia. — Mi avete fatto dire… dire… cose sacre. E poi vi siete precipitata a telefonare al pensionato. Sporca bastarda… bugiarda. — No — protestò Helen — ho telefonato prima. Sono stata leale con voi, soprattutto dopo avervi dato la mia parola. — Bugiarda. Vi ho visto io al telefono. — È vero, ma parlavo con il dottor Parry, in quel momento. L'infermiera si limitò a serrare le labbra. Sapeva che il silenzio era la punizione peggiore per la ragazza, perché la teneva nell'incertezza. Helen, che aspettava timorosa un nuovo attacco, trasalì sentendo un tonfo. Pur non essendo un rumore forte, era insolito, e lo distinse al di sopra della furia del temporale. Subito pensò al professore: non conoscendo la potenza dei narcotici, restava sempre ancorata alla speranza che si svegliasse in tempo per riprendere il controllo della situazione. Ma l'infermiera le tolse brutalmente ogni illusione.

— Andate a vedere se la vecchia è caduta dal letto — le ordinò. Helen salì di corsa di sopra, ed entrò con la massima cautela nella camera azzurra. Lady Warren, raggomitolata nel grande letto, dormiva profondamente. Russava forte, non fingeva. Uno dei nastri che le fermavano i capelli era scivolato sul cuscino, e sembrava una piccola rosa. Helen si rese conto che la stanza era in disordine e che il fuoco stava per spegnersi. Occupata com'era ad aggiungere del carbone, non sentì il dottor Parry che per due volte bussava alla porta d'ingresso. Lo sentì invece, e distintamente, l'infermiera. Sbirciando furtiva a destra e a sinistra aprì la porta dell'ingresso e subito, dietro il vetro della cassetta delle lettere, vide qualcosa di bianco. Estrasse la busta e la scrutò strizzando gli occhi: era una vecchia busta indirizzata al dottor Parry, sul retro della quale c'era un messaggio firmato con le iniziali D. P. Il cuore le si contrasse in uno spasmo di gelosia: l'istinto non aveva ingannato Helen. Il dottor Parry si trovava davvero fuori dalla porta d'ingresso mentre loro due stavano lottando. A differenza di quanto era successo a lei, Helen aveva saputo conquistarsi il cuore di un uomo al punto da farlo alzare dal letto, dopo una giornata pesantissima, per amor di lei. Lesse il messaggio, chiaramente diretto a Helen, con uno sguardo tesissimo. «Sono arrivato fino qui in bicicletta per vedere con i miei occhi come stessero le cose. Ho bussato come un matto, ma senza successo. Appena lette queste righe, salite in camera vostra e aprite la finestra: vi parlerò, così sarete certa che sono io. Ma, per l'amor di Dio, fatemi entrare. Penserò io a spiegare tutto al professore, dopo».

L'infermiera deglutì a fatica mentre faceva a pezzettini la busta e la buttava nel portaombrelli. — Nell'Ufficio della posta inevasa — sussurrò cupa.

Helen, senza sapere quello che stava accadendo di sotto, sistemò sedie e comodino nella camera azzurra, ripose degli indumenti; poi prese il catino con l'acqua saponata con cui l'infermiera aveva lavato Lady Warren prima che si addormentasse e uscì sul pianerottolo. Le sembrò che l'aria si muovesse appena attorno a lei, come se qualcuno l'avesse preceduta in quella direzione qualche secondo prima. La porta che dava sulla scala a chiocciola sembrava soltanto accostata. Il suo visino pallido apparve all'improvviso nella buia oscurità della solita specchiera e Helen, fattasi più vicina, notò un particolare inquietante. C'era una macchia opaca sullo specchio, più o meno all'altezza della bocca di un uomo. «Qualcuno si è fermato qui, poco fa» pensò impaurita, mentre guardava sparire la macchia. Sostenendo il catino con le dita irrigidite, fissò le porte chiuse. Non osava spostare gli occhi per paura che una si aprisse. Non osava muoversi per paura di favorire l'attacco. Sentiva il ticchettio dell'orologio al pianterreno e, nel petto, i battiti violenti del suo cuore. Poi i nervi cedettero. Lasciò cadere a terra il catino, schizzando acqua dappertutto, e si precipitò giù per le scale. L'infermiera si limitò a fissarla mentre, ansimante, si sedeva sull'ultimo gradino. — E allora? — chiese con freddo e distaccato interesse. Vergognandosi del proprio terrore senza senso, Helen si riprese alla svelta. — Lady Warren riposa — disse. — Non è lei che abbiamo sentito. — E allora dove siete stata tutto questo tempo? — A mettere in ordine la camera. L'infermiera decise di non raccogliere l'allusione implicita nelle parole di Helen. — Non siete salita in camera vostra? — chiese. — No.

— Bene. Al posto vostro non salirei, è troppo in alto, troppo lontana da qui. È pericoloso, potreste fare brutti incontri. Di nuovo, in distanza, si sentì un tonfo sordo. — Eccolo di nuovo — disse l'infermiera. — Vorrei proprio che la fe finita, mi dà ai nervi. Helen, finalmente, capì da dove proveniva quel rumore. — È giù nel seminterrato. Deve essersi riaperta quella finestra che avevo chiuso alla bene meglio. — Una dimenticanza criminale — dichiarò l'infermiera Barker sbadigliando con una certa classe. — Avete sonno? — chiese brusca Helen. — Mi si chiudono letteralmente gli occhi — dichiarò l'infermiera con un altro sbadiglio. — Non ce la faccio più. Avevo appena terminato un turno di notte. È un'indecenza. Avevo ben diritto a una notte di sonno tra un'assistenza e un'altra. Ma mi hanno spedita qui di corsa. Posso stare senza mangiare, ma non senza dormire. Helen, sentendosi gelare il sangue, si rese conto che l'infermiera stava per crollare: non l'avevano affatto drogata, aveva solo bisogno di dormire. Cosa inevitabile. Le spettava una notte di riposo. Aveva fatto un lungo viaggio in auto, aveva fumato, mangiato e bevuto in abbondanza. E poi, l'aria in casa era pesante, viziata, e il maltempo incombeva come una cappa umidiccia. Non c'era nessun legame chiaro tra questo rapporto di causa-effetto e quelli che l'avevano preceduto, eppure Helen aveva una gran paura di restare sveglia da sola, perché anche il sonno dell'infermiera sembrava arrivare con la precisione di un treno sempre in orario. Orribile. Helen cercò di risalire alla fonte di tante disgrazie. «La direttrice del Pensionato… Avrebbe dovuto mandarci un'infermiera più efficiente, non stanca… No, no. È stata costretta a trovarne una subito. Forse la

colpa è di Lady Warren, è stata lei a far scappare quella che l'ha preceduta.» All'improvviso la testa dell'infermiera ricadde sul petto, con un colpo tale che la svegliò di colpo. Si alzò barcollando. — Dove andate? — chiese ansiosa Helen. — A letto. — Dove? — Nella camera della paziente. — Ma non potete. Non potete lasciarmi qui da sola. L'infermiera fece uno sforzo disperato per tenere gli occhi aperti e li fissò con aria persa su Helen. — La casa è tutta chiusa. Non correte rischi se non aprite quella porta. Ma non provatevi di nuovo a dimenticarvi le regole, se non volete assistere al vostro funerale. — La situazione è molto peggiore — si lamentò Helen. — Non ve l'ho detto prima perché non ne ero certa. — Certa di che cosa? — ripeté l'infermiera, appena un po' più vigile. — Temo che ci sia qualcuno chiuso in casa con noi. L'infermiera Barker ascoltò con aria scettica il racconto di quello che era successo di sopra. — Vento — sentenziò. — Oppure topi. Io vado a letto. Potete venire di sopra anche voi, basta che vi troviate un posto per accomodarvi. Helen esitò, divorata dall'idea di accettare la proposta. Una volta chiusa a chiave la porta della camera azzurra e quella che dava nella stanza del professore, sarebbero state al sicuro come in un castello. L'infermiera avrebbe potuto dormire, e lei avrebbe continuato a stare sveglia. Ma la signora Oates sarebbe rimasta fuori, in trincea. Nonostante l'angelo

custode che, secondo le sue opinioni, la Provvidenza aveva destinato alla signora Oates per proteggerla, Helen non se la sentiva di lasciarla sola nelle condizioni in cui si trovava. — Non potremmo portare nella camera azzurra anche la signora Oates? — Trascinare un'ubriacona per due rampe di scale? — L'infermiera scosse la testa in segno di diniego. — Nemmeno per sogno! — Ma non possiamo lasciarla là. Ricordatelo: domattina dovremo rendere conto delle nostre azioni. Helen aveva toccato il tasto giusto, per fortuna. L'infermiera rifletté, e ammise che aveva ragione. — Be', mi dovrò fare un letto in salotto. Helen la seguì in quel locale spazioso, ancora illuminato. In esso restavano i segni degli ultimi occupanti: quei giovani annoiati il cui atteggiamento di moderna indifferenza era andato in frantumi grazie all'esplosione delle loro ioni. L'infermiera prese due cuscini di seta dal pavimento e, mettendoseli sotto la testa si distese sul grande divano azzurro. Chiuse gli occhi e si addormentò quasi subito. «Adesso sono sola» pensò Helen. «Ma, in caso di necessità, la posso sempre svegliare.» E continuò la sua veglia, guardandosi attorno con gli occhi sbarrati, grandi come due laghetti neri. In mezzo al caos dei pensieri, era alla ricerca di un ricordo, e lo sapeva. E finalmente si ricordò. Certo, la finestra del seminterrato. L'aveva lasciata aperta, chissà quanto, per fermarsi in cucina ad ascoltare la signora Oates assieme a Stephen Rice. Il paletto interno, che doveva accomodare, era rimasto sul tavolo. Il cuore sobbalzò, ma subito Helen cercò di superare il panico con la ragione. C'era una possibilità su cento che quel criminale, con tanti nascondigli a disposizione in quell'immensa campagna, si fosse intrufolato in una casa piena di persone, e una probabilità su mille che avesse scoperto quell'unico pertugio

disponibile. «Ma se c'è riuscito» pensò «si è nascosto in una delle cantine e, appena la via è stata libera, ha attraversato di corsa le dispense e la cucina e si è infilato su per la scala a chiocciola.» C'era un solo modo per garantire l'incolumità della signora Oates: tornare a perquisire con cura il seminterrato. Una volta visto che non ci fosse stato nessuno, avrebbe chiuso la porta della cucina e si sarebbe portata con sé la chiave. L'infermiera non la sentì alzarsi e andarsene con il viso irrigidito da una maschera rassegnata. Ma si svegliò poco dopo, e si mise a sedere di colpo, strofinandosi gli occhi. Riposata e sveglia, si guardò intorno in cerca di Helen, che aveva visto sedere accanto a lei a vegliare. La ragazza non c'era più. E anche il dottor Parry non era più in giardino come una sentinella. Qualche istante dopo avere visto le spalle e la testa di quell'uomo dietro la tenda della camera di Helen, la luce si era spenta. Aveva aspettato, sforzandosi di mantenersi calmo: Helen, con quella massa di capelli, non poteva di certo sembrare un uomo, ma tanto la signorina Warren che l'infermiera, senza cuffia, loro sì. E poi doveva tenere conto degli effetti deformanti della luce. Così se ne andò. Era consapevole che i suoi sentimenti per quella ragazza non gli consentivano di ragionare lucidamente, aveva bisogno di sentire cosa pensasse qualcun altro. Non ci mise molto ad arrivare al villino del capitano Bean. La tenda del salotto era aperta, e quindi lo notò subito, seduto in maniche di camicia a un tavolo coperto di carte, con accanto la teiera. Stava di sicuro scrivendo la relazione di un suo viaggio. Il capitano Bean gli aprì subito. Aveva dei lineamenti imprecisi, la pelle cotta dal

sole dei tropici e occhi azzurri acuti e penetranti che scrutavano l'interlocutore attraverso le spesse lenti. — Vi chiederete come mai sia venuto da voi a quest'ora — gli disse il dottor Parry. — Ma sono un po' sconcertato da certi eventi che sono accaduti a Summit. — Entrate — lo invitò il capitano Bean. Il dottor Parry rimase sorpreso dalla serietà con cui il capitano lo ascoltò. — Il fatto è — ammise il medico — che in quella casa c'è una ragazza che mi sta molto a cuore, e non sono per niente tranquillo. È piccola e minuta, spaventata da morire. — Ha i suoi buoni motivi! — intervenne il capitano. — Se solo penso a quella poverina che mi sono trovato in giardino stasera…! Il dottor Parry, che avrebbe voluto sentirsi dire delle parole tranquillizzanti, lo fissava ansioso. — Quella casa non mi è mai andata a genio. E nemmeno chi ci abita. Andiamo insieme a dare un'occhiata! — Non servirebbe — disse sconsolato il dottor Parry. — Pare un castello: potete far saltare il camlo a forza di suonare, senza nessuno che vi apra. — E la polizia? — Ci ho pensato. Ma non so che scusa trovare per spingerli a perquisire. È tutto regolare. E, se le porte sono sbarrate, io sono il principale responsabile, accidenti! Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, agitatissimo. — È poi c'è quell'ombra che mi preoccupa — disse. — In camera sua. Non somigliava per niente a una donna. — Ma ci sono degli uomini giovani e forti in quella casa — considerò il capitano Bean.

— No. Se ne sono andati. C'è solo il professore… sempre che abbia superato l'effetto del Quadronex. Possibilità molto molto improbabile. Il capitano mugolò riempiendosi la pipa. — Raccontatemi tutto — disse. — Ho girato il mondo e ho visto le cose più orribili che si possano vedere. Ma il cadavere di quella ragazza nel mio giardino è stato un colpo durissimo. Da quel momento non ho fatto che pensare… un po' a questo, un po' a quello. Niente di certo, ma si sa che da un filo d'erba si capisce da che parte tira il vento... Ascoltò con attenzione il dottor Parry senza fare commenti. Appena ebbe finito il suo racconto, il capitano si alzò e si mise gli stivali. — Dove andate? — gli chiese il dottor Parry. — Al Bull. Vado a telefonare alla polizia. — Perché? — Ci sono cose che non si possono spiegare razionalmente… Ma quando i topi se ne vanno dalla nave per me è sempre un brutto segno. Il dottor Parry, così teso e sconvolto, esplose. — Smettetela di parlare per metafore! Dite chiaramente quello che pensate. Il capitano scrollò la testa. — Non si può parlare chiaro fino in fondo quando non si hanno prove certe — disse. — Vi confido solo una cosa: che non lascerei mia figlia in quella casa stanotte nemmeno per un milione di sterline.

27. La sicurezza è la peggiore nemica

All'inizio l'infermiera non riuscì a convincersi che Helen se ne fosse andata. Si guardò intorno, cercandola senza successo tra la confusione di divani e poltrone. Ma i suoi movimenti disturbarono solo il gatto rosso che saltò giù da un divano e abbandonò il locale, dimostrandosi oltremodo infastidito. L'infermiera, che ormai era completamente sveglia, lo seguì fino in anticamera, e lì si fermò chiamando: — Signorina Caapeeel… Nessuna risposta, nessun o felpato. L'infermiera aggrottò la fronte, gli occhi verdi per la gelosia. — Puttanella — disse con cattiveria. Non le venne assolutamente il dubbio che fosse successo qualcosa a Helen: per lei Summit era un fortino inespugnabile. Se aveva insistito nell'intimorire la ragazza era stato per due motivi: primo, voleva costringerla a essere davvero prudente, e secondo voleva sfogare su di lei l'acredine che covava da molti anni. Nonostante avesse intercettato il suo biglietto, pensò che il dottor Parry fosse riuscito a mettersi in contatto con Helen. «Lei l'ha fatto entrare» pensò. «Bene, non mi riguarda.» Prudente come la sua professione esigeva, evitava sempre di fare scalpore. Se le capitava di avere dei dubbi sulla condotta di qualcuno dei suoi datori di lavoro, faceva finta di ignorarli. Il mattino dopo, alle domande del dottor Parry a Summit, avrebbe confermato di essere sempre stata dove avrebbe dovuto essere, e cioè nella camera della sua paziente. Con un sorriso per forza puro, salì nella camera azzurra. Mentre entrava, Lady Warren si mosse.

— Ragazza — chiamò. — Non è questo la maniera di rivolgersi alla vostra infermiera — ribatté lei. Lady Warren si mise a sedere, strofinandosi gli occhi. — Andatevene. Non vi voglio. Voglio la ragazza. — Chiudete gli occhi e dormite. È tardissimo. Lady Warren, sveglissima, la fissava con i suoi occhi da gufo. — Non si sente un rumore — disse. — Dove sono andati tutti? — Nei loro letti, a dormire. — Andate a dire al professore che lo voglio vedere. Potete are dalla porta dello spogliatoio. L'infermiera si ricordò di quel particolare spiacevole. — Lo sapete che quella porta non si può chiudere a chiave? — Non è il caso di preoccuparsi — ridacchiò la vecchia. — Non vi capiterà nulle. Siete troppo vecchia, voi! L'infermiera fece finta di non sentire. Non voleva fare altro che sdraiarsi e dormire. Le stava tornando il sonno. Non appena la sua paziente fosse ritornata tranquilla si sarebbe infilata sotto le coperte del suo lettino. Dato che non aveva alcuna intenzione di parlare a Lady Warren del sonnifero, fece finta di andare a svegliare il professore. ando dalla porta dello spogliatoio, entrò nella sua camera. La poltrona era proprio sotto il lampadario, e così il viso era in ombra, innaturale come se fosse di cera, e ancora più innaturale appariva quel corpo rigido. Sembrava una sorta di automa. L'infermiera Barker, istintivamente, avanzò di un o per sentire il polso, ma si fermò subito: non era un suo paziente e poi era un uomo. Ed era quasi mezzanotte.

— Viene, il professore? — le chiese Lady Warren non appena la vide ritornare. — No, dorme profondamente — rispose l'infermiera. Lady Warren la vide chiudere a chiave la porta della camera. — Perché la chiudete? — chiese. — Chiudo sempre a chiave la porta della camera in cui dormo quando mi trovo in casa d'altri — rispose l'infermiera. — Io invece la tenevo sempre aperta, per poter scappare più in fretta. Mi darete ragione. Quando si chiude una porta, si sa quello che si chiude fuori ma non quello che si chiude dentro. — Insomma, basta con le parole! — disse l'infermiera, liberandosi delle scarpe con un calcio. — Voglio coricarmi. Ma prima di coricarsi sul lettino, andò a chiudere a chiave anche la porta dello spogliatoio. Nonostante le precauzioni, non riuscì ad addormentarsi. La sua mente tornava di continuo su Helen e il suo amante. Si chiedeva dove fossero… che cosa stessero facendo. In quel momento il dottor Parry stava soffrendo le pene dell'inferno, e Helen si preparava alla sua volontaria prova del fuoco… erano lontano l'uno dall'altra. Helen, con in mano una candela dalla fiamma tremula, era nel seminterrato, andava a tentoni fra i topi, i ragni e le ombre. Coi nervi tesissimi, si aspettava un attacco improvviso da un momento all'altro. E nell'attesa avanzava in quell'antro tetro. Davanti a lei si estendeva il labirinto della Morte… alle sue spalle la finestra continuava a sbattere. Dei i la seguivano costantemente, e si fermavano in sincrono con i suoi, producendo l'effetto di un'eco. Ogni volta lei si voltava e non vedeva nessuno, ma non riusciva a convincersi di essere da sola. Mentre girava nel labirinto della Morte qualcuno soffiò sulla candela, che si

spense. E così restò al buio, intrappolata fra la finestra e il posto in cui una ragazza aveva subito il suo tragico destino. Sentì la finestra spalancarsi, qualcuno che saltava all'interno e poi delle dita che le prendevano la gola, stringendola in una morsa. Nell'aria si sentiva un respirare pesante, come il soffio di una pompa pneumatica impazzita di paura, mentre il cuore le batteva furiosamente. Poi la morsa si allentò, e i muscoli pietrificati del suo collo ripresero elasticità. Si rese conto solo allora di quello che stava facendo, e staccò la propria mano dalla gola. Sentiva ancora quella corrente d'aria che aveva spento la candela sulla guancia e sul collo. Ormai aveva i nervi a pezzi. Riuscì a muovere le gambe che sembravano paralizzate, e si lanciò correndo lungo il corridoio, attraversò la cucina e arrivò su nella sala da pranzo. Sul divano, al posto dell'infermiera, vide il gatto rosso, con la testa appoggiata ai cuscini di seta. Il gatto saltò dal divano e la seguì fino al piano di sopra. Tremando, Helen girò disperatamente la maniglia della porta. Resasi conto che l'infermiera si era chiusa a chiave dall'interno, non poté frenare la sua protesta. L'infermiera non ci fece caso finché poté. Poi scese dal letto. — Andatevene — gridò — disturbate la malata. — Fatemi entrare — gridò Helen. L'infermiera girò la chiave nella toppa senza aprire la porta. — Ritornate pure dal vostro dottore — disse. — Dal mio… che cosa? Sono sola! — Adesso, forse. Ma prima discorrevate teneramente col dottor Parry. — Fosse vero! Non vi capisco… L'infermiera aprì la porta di colpo e Helen restò allibita. Era molto diversa da

come se l'aspettava. Si era tolta la cuffia e le scarpe e non aveva i capelli corti come quelli di un uomo ma una capigliatura arricciata dalla permanente. — Dove siete stata? — chiese. — Giù nel seminterrato — rispose Helen con un'aria colpevole. — Mi sono… mi sono ricordata che qualche ora fa avevo lasciato aperta per qualche minuto una finestra. E così sono scesa per assicurarmi che non fosse entrato nessuno. La ragazza era così sconvolta che l'infermiera si convinse dell'infondatezza dei suoi sospetti. — Voglio riposare — disse — anche se non ce la faccio a dormire. — Posso entrare anch'io? — la supplicò Helen. — No. Andate a letto oppure sistematevi in salotto. Fece per girarsi ma Helen la prese per una manica. — Un momento. Perché avete pensato che fossi con il dottor Parry? — Perché era qui fuori, poco fa. Ma adesso se n'è andato, definitivamente. Helen, benché si vedesse sbattere la porta in faccia, si sentì rivivere. Per la prima volta, dopo tante ore, non aveva più paura. Le era stata data una chiara dimostrazione degli eccessi a cui poteva arrivare una fantasia fuori controllo. «Mi sono inventata tutto» pensò. «Come quando da bambini facciamo le boccacce allo specchio e finiamo per avere paura.» Chiamò il gatto rosso che giocava dietro la porta della scala a chiocciola, ma la bestia, per quanto addomesticata, inarcò la schiena e soffiò, lasciando intendere che avrebbe preferito andare in cucina. Helen intese favorirlo aprendogli la porta ma lui, invece di scendere nel seminterrato, saltò su un piccolo oggetto che si trovava sulla atoia in fondo alla rampa di scale. Helen gli lasciò credere di giocare con un topo. Se le fosse venuta l'idea di guardare bene l'oggetto che teneva tra le zampe, la sua tranquillità sarebbe

sfumata immediatamente. Era una scheggia di larice. Qualcuno, dal giardino, l'aveva portato in casa, incollato alla suola delle scarpe con il fango, e senza accorgersi l'aveva lasciato sullo zerbino mentre si puliva i piedi. Helen era l'unica che quel giorno avesse attraversato la tenuta di Summit. Ed era salita in camera sua dalla scala principale. Non l'aveva fatto nessun altro. Allegramente inconsapevole della scoperta del gatto, che era un indizio da non sottovalutare, scese in salotto. Il divano era invitante, ma Helen era troppo agitata per seguire il consiglio dell'infermiera e riposare un po'. Dimenticò perfino l'infermiera, felice dell'idea che il dottor Parry fosse tornato per la seconda volta fino a Summit solo per lei. «Ho un uomo che mi vuole bene, finalmente» pensò esultante, avvicinandosi al pianoforte. Sapeva strimpellare solo a orecchio, ma riuscì suonare con buona precisione la Marcia Nuziale. Su, nella stanza azzurra, Lady Warren si mise a sedere sul letto. — Chi sta suonando la «Marcia Nuziale»? — domandò. — Nessuno — rispose l'infermiera Barker. — Silenzio. — Ma certo — mormorò la vecchia astiosa — voi non l'avete mai sentita, e mai la sentirete. Rimase in ascolto, ma la musica cessò. Helen si era resa conto che avrebbe potuto disturbare chi dormiva. Chiuse il pianoforte e aprì un romanzo, solo per scoprire che non era in grado di concentrarsi su quello che leggeva. Gli occhi avano rapidi sulle righe, ma la mente continuava a vagare senza sosta. Si accorse che ascoltava i rumori della notte, come se si aspettasse di sentire qualcosa di insolito. A un certo punto si alzò e accese la radio, ma le trasmissioni erano finite e l'apparecchio le rimandò solo una sequenza di interferenze disturbate. Le tornò in mente quella volta che aveva recitato una parte in teatro. Era stato

nel convento in cui era vissuta per qualche anno in Belgio. Gli studenti inglesi avevano interpretato la scena delle streghe del «Macbeth». Ricordò subito i versi, che suonarono come un tetro avvertimento. E, tutti sapete, la sicurezza è la peggiore nemica dell'uomo. Helen trasalì, come se il vento avesse soffiato nel camino quelle parole con la violenza di un boato. «Non sono da sola» pensò. «L'infermiera è mia alleata, anche se ce l'ha con me. Oates sarà presto qui. E poi… non è successo niente, erano solo mie fantasie.» Eppure si sentiva logorare da quell'attesa snervante: stava con le orecchie così tese che sentì distintamente lo stridere acuto di un pipistrello. Poi sentì un suono metallico, come la corda di un violino che le vibrasse vicino all'orecchio. Lo sentì ancora, appena più acuto, debole come un gemito, come il verso di un gabbiano. Era un grido nella notte.

28. Leone… o tigre?

Helen alzò la testa per sentire meglio, era spaventata. Quello che aveva temuto di più stava succedendo, avrebbe dovuto decidere all'istante ed era rischioso. Ma che le capitasse anche questa la insospettì. Qualcuno che conosceva bene il suo carattere la stava attirando in una trappola fuori dalla casa. Lei aveva detto che non avrebbe resistito al piangere di un bambino lasciato in balìa delle intemperie. E per incanto ecco il bambino arrivava, proprio al momento giusto. Sentendo di nuovo quel gemito, aprì la bocca incerta. Non era facile capire da dove venisse quel grido, il vento ululava fortissimo, ma sembrava provenire dall'interno della casa. Salì di nuovo in tutta fretta al piano superiore, con il cuore che le batteva all'impazzata. Mentre saliva, il grido si faceva sempre più distinto: era il pianto disperato di un bambino o di un vecchio. E veniva dalla camera azzurra. L'infermiera era l'unica compagnia rimasta. Helen faceva affidamento su di lei con la disperazione con cui un bimbo, per paura del buio, si attacca al collo della sua balia cattiva. Ormai avevano litigato troppo, non poteva rischiare ancora. L'infermiera poteva attuare le sue minacce e lasciarla da sola. Helen si sentì gelare il sangue solo al pensiero. Era abituata a stare sempre in mezzo alla gente, anche troppa, forse, perché qualche volta aveva sentito il desiderio di restare sola. «Non devo perdere la testa» pensò disperata. «Meglio non mettermi in mezzo.» Si ricordò che Lady Warren non era una vecchietta indifesa in balìa di una donna malvagia. Nell'ipotesi migliore era una vecchia stizzosa e prepotente, nella peggiore, un'assassina. Quando era giovane aveva ucciso centinaia di piccole creature indifese solo per divertirsi. Benché vedesse Lady Warren in una luce così negativa, arrivò, senza rendersene

conto, fino alla porta della camera azzurra. Sentì subito dei singhiozzi soffocati, disperati. Non era una messinscena perché Helen, se non fosse stata così attenta, dal piano terra non li avrebbe neppure sentiti. Come fosse stata colpita fece un o deciso indietro, allorché sentì una voce sgarbata urlare: — Smettetela di fare chiasso! I singhiozzi finirono in un attimo. Dopo qualche istante sentì Lady Warren dire, con un tono supplichevole: — Infermiera,venite qui, per favore. Helen sentì i i pesanti attraversare la stanza, e l'infermiera che gridava: — Vedrete che cosa vi faccio se vengo lì. Helen si sentì il cervello bruciare. Si gettò sulla porta bussando con tutte le forze che le erano rimaste. — C'è qualcosa che non va? — chiese. — No — rispose l'infermiera. — Non mi lascereste un po' in compagnia di Lady Warren? — No. Helen si allontanò asciugandosi il sudore che le imperlava il viso. Stava per scendere il primo gradino quando fu fermata da un urlo, un grido di dolore e rabbia. Fremente d'indignazione, entrò a forza nella camera azzurra. L'infermiera era in piedi, davanti al letto, e scuoteva con furia Lady Warren per le spalle. Appena vide Helen si ritrasse, e Lady Warren cadde bocconi sul letto come un sacco di patate. — Sporca bastarda — gridò Helen — vattene fuori di qui!

— È stata lei a cominciare, questo vecchio demonio — disse l'infermiera. — Ha bisogno di educazione. Come Davide di fronte a Golia, Helen fissò minacciosa l'infermiera dal basso della sua statura. — Siete una donna cattiva — le disse. — E quindi non avete il diritto di insegnare l'educazione a chicchessia. — Ripetetelo e me ne andrò da questa stanza… per non tornarci mai più — urlò l'infermiera. — Ma certo… uscite subito e guardatevi bene dal ritornare — ribatté Helen, diventata ora coraggiosa e di forte. L'infermiera si strinse nelle spalle e se ne andò. — Adesso è tutta vostra, godetevela voi — disse tra i denti. — Ricordatevelo, ve la siete voluta. Helen sentì il primo brivido quando la porta sbatté alle spalle dell'infermiera. Quel tonfo aveva qualcosa di veramente sinistro. «È una nevrastenica» pensò. «Il cane che abbaia non morde.» Si girò a guardare il letto, con uno slancio di comione. Lady Warren era comodamente stesa sui cuscini, e sorrideva compiaciuta. — Lo sapevo che sareste venuta — disse con un tono trionfante. Helen ebbe la sensazione di essere caduta in un tranello. — È meglio che vi sdraiate. Non vi sentite debole per la lotta che avete affrontato? — Quello che ha fatto lei a me è niente al confronto a quello che io ho fatto a lei — spiegò Lady Warren. Helen la guardò fissa negli occhi, incredula e inorridita. Lady Warren si ò un dito sull'arcata inferiore della dentiera. — Ho sborsato di malavoglia i soldi per questi denti — disse. — Ma sono denti

ottimi. Le ho morso un pollice fino all'osso… Helen rise senza allegria. — Mi avevano detto di scommettere sempre su di voi come su un cavallo vincente — disse. — Ma non ci ho creduto. Mi domando chi siete… se il leone… o la tigre? Lady Warren la guardava con occhi idioti. — Una sigaretta — le chiese decisa. — Voglio togliermi dalla bocca il saporaccio di quella donna. Avanti… non ne hai? — No. — Devi dire: «No, Milady». Vai in biblioteca e prendine un pacchetto di mio nipote. Helen fu felicissima di avere una scusa per uscire dalla camera. Aveva capito troppo tardi di essere stata ingannata e voleva far pace con l'infermiera. Mentre stava per aprire la porta, udì la voce bassa di Lady Warren. — Ho tanto sonno, ragazza. Quell'infermiera mi ha chiuso il naso per ficcarmi in gola uno schifosissimo tranquillante. Non mi disturbare, se mi addormento. Sul pianerottolo, Helen vide la luce filtrare sotto la porta del bagno e sentì l'acqua che scorreva nel lavandino. L'infermiera era chiusa lì dentro. — Infermiera — disse. — Non so come scusarmi. Mi spiace tanto. Nessuna risposta. Helen attese. Ripeté il tentativo senza alcun risultato e quindi si decise a scendere al piano terra. Quando ritornò nella camera azzurra con le sigarette trovò la luce del comodino spenta e Lady Warren che dormiva. Helen sedette accanto al camino, preoccupata. La scorta di carbone era quasi finita, e le fiamme si stavano spegnendo.

A brevi intervalli, un ramo sbatteva contro il vetro della finestra, era come un dito esilissimo che le desse un segnale. L'orologio ticchettava e il vento urlava senza sosta giù per la gola del camino. «Eccomi qui di nuovo» pensò Helen costernata. Da ore combatteva contro il destino, e aveva dato solo colpi al vento. Solo una cosa la confortava, la notte stava ando. E anche Oates doveva essere sulla via del ritorno. Ma anche quello le dava ben poco sollievo: l'infermiera non gli avrebbe permesso di entrare in casa, proprio come aveva fatto col dottor Parry o con chiunque altro avesse bussato prima alla porta. Helen provò a considerare quanto fosse corretta tanta attenzione. Vedendo come era caduta facilmente nella trappola di Lady Warren, le sembrava di annaspare in un groviglio di serpenti con le sembianze umane. Lanciò uno sguardo diffidente al letto: Lady Warren non si era mai mossa e non la sentiva respirare, era strano. Al pensiero che fosse stata brutalmente malmenata, lei che soffriva di cuore, corse accanto al letto. Helen guardò quella sagoma finta di Lady Warren sotto le coperte con lo stesso sbalordimento di Macbeth che guardava la foresta avanzare verso di lui. Sentì dal letto un forte odore di narcotico. Girò il cuscino e lo vide impregnato di un liquido giallastro. «Anche l'infermiera ha mentito» pensò. E vide la scena: Lady Warren che lottava a ogni sorso di liquido che l'infermiera cercava di farle ingoiare, e lei che riusciva a sputarlo girando la testa. La furbizia di quella vecchia era incredibile. Il letto era vuoto, solo cuscini. Helen la cercò per la stanza, pur sapendo che stava solo perdendo il suo tempo. Anche lo spogliatoio era vuoto, così uscì sul pianerottolo. — Infermiera — gridò. — Lady Warren se n'è andata. La porta si aprì e l'infermiera la fissò con evidente ostilità.

— E a me che cosa importa? — chiese. — Non è più una mia paziente. — Non ve ne andate, vero? — boccheggiò Helen. — Appena avrò fatto la valigia. Domani mattina la signorina Warren saprà che sono stata licenziata da una sua dipendente. — Ma non ve ne potete andare — gridò Helen, in pieno panico. — Vi chiedo scusa. Io… io farò tutto quello che vorrete. — Fatela finita. Ne ho abbastanza delle vostre promesse. Me ne vado, e subito. Non ho altro da dire. — Ma… dove andate? — Sono fatti miei. Troverò un posto dove are la notte. Non è poi così tardi, e io non ho certo paura, né del buio né di due gocce di pioggia. — Fece una pausa e poi, ancora più malvagia, aggiunse: — Una volta fuori da questa casa, mi sentirò finalmente al sicuro. Tenete gli occhi ben aperti: quella non sta di sicuro tramando qualcosa di buono. — Si guardò il pollice bendato. — E intanto che non c'è fareste meglio a trovare la rivoltella. Helen si morse le labbra vedendosi sbattere in faccia la porta del bagno. «Non può andarsene sul serio con questo tempo terribile» decise. Tremendamente preoccupata per la responsabilità che si sentiva addosso non solo non si spiegava il motivo per cui Lady Warren si fosse alzata dal letto, ma le sembrava anche inutile provare a cercarla. In quella casa avrebbe potuto giocare a nascondersi all'infinito. Forse aveva deciso di farla finita. Era vecchia, e nella sua vita c'era quell'oscuro segreto: il rimorso avrebbe potuto indurla a farlo. Le bastò uno sguardo per accorgersi che la sagoma stesa ora nel letto aveva assunto una forma diversa, e quando si avvicinò vide Lady Warren che la guardava con occhi furtivi. — Dove siete andata? — le chiese Helen. — Nel Mondo dei sogni — fu la risposta innocente. Il suo sguardo impenetrabile la sfidava a mettere in dubbio ciò che aveva detto.

Helen, intuendo che insistere era inutile, tornò a sedersi sulla solita poltrona. — L'infermiera se n'è andata? — chiese Lady Warren. — Domani — le rispose Helen. — Perfetto. Presto mi libererò di loro. Le odio. Non fanno che lavarti la faccia… Non ti muovere, ragazza, ti voglio tenere d'occhio. Helen pensò alla pistola nascosta e, come al solito, non poté non tradurre in parola quello che le ava per la mente. — La signora Oates mi ha detto che da giovane andavate molto a caccia — disse. Lady Warren le lanciò un'occhiata prima di risponderle. — Sì, selvaggina. Sai sparare tu? — No, e lo trovo un atempo crudele. — Però la carne la mangi. Se ognuno dovesse uccidere personalmente l'animale che mangia, nove decimi dell'umanità diventerebbero vegetariani… Io facevo bene le cose: io non ferivo, uccidevo sul colpo. — Ma uccidevate. — Sì, uccidevo. Ma non l'ho mai neanche data a nessuno, la vita. Per fortuna… Fuori dalla mia camera! Helen trasalì. Seguendo la direzione in cui era puntato l'indice di Lady Warren, vide l'infermiera nella stanza. Senza una parola puntò diritta verso lo spogliatoio, dove aveva i suoi effetti personali, e si chiuse dentro. Helen la sentì muoversi avanti e indietro, aprendo e chiudendo i cassetti e gli armadi. Sembrava proprio che stesse mettendo in pratica la sua minaccia. A Helen, seduta in quella camera opprimente, venne di colpo un morboso sospetto. Molti anni prima due ragazze erano morte di morte violenta in quella casa. Nessuno aveva mai saputo la verità su quei due tragici eventi. Erano rimasti

avvolti nelle ipotesi e seppelliti da un superficiale verdetto del Coroner. «È una donna strana» pensò Helen guardando di sfuggita Lady Warren. «Ipotizziamo che sia stata lei ad ammazzarle… e che suo marito l'abbia scoperto… Lei l'avrebbe ucciso per impedirgli di parlare.» All'improvviso si accorse che dallo spogliatoio non arrivava più nessun rumore. Speranzosa pensò al divano dello spogliatoio, e concluse che l'infermiera aveva deciso di non andarsene subito e che in quel momento si era addormentata. Ripensò al trattamento che la donna le aveva riservato. «Se non dorme,voglio proprio dirle che è stata di una crudeltà incredibile» si disse. «La costringerò a baciarmi i piedi, di sicuro.» Attraversò la stanza senza fare rumore e aprì la porta dello spogliatoio. Le sfuggì un piccolo grido smarrito. L'infermiera se n'era andata.

29. Da sola

Helen si guardò intorno basita. Dal disordine si sembrava che l'infermiera fosse scappata. I cassetti erano aperti e l'ombrello e una valigia erano ancora sul tavolo. «Non se n'è ancora andata» pensò Helen. Ma le bastò un attimo di riflessione per perdere anche quella speranza. Era logico: l'infermiera aveva lasciato il bagaglio perché glielo spedissero in un secondo momento. E l'ombrello, con quel vento fortissimo, serviva a ben poco. Fuori di sé e agitata, aprì l'armadio: dalla gruccia mancava l'uniforme da eggio. I cassetti erano tutti vuoti. Aveva lasciato solo una collezione di mozziconi di sigarette e di cenere. Una diserzione, evidente e semplice. L'infermiera aveva lasciato volutamente da sola Helen e, per andarsene, era ata dalla camera del professore. «Sono da sola» pensò spaventata. Certo, in casa ci sono altre persone, ma lei aveva l'unico cervello funzionante, l'unico corpo ancora in moto. Spinta da un disperato bisogno di compagnia, aprì la porta del professore ed entrò nella sua camera. Il professore sembrava una statua, assomigliava a una salma in attesa di essere sepolta. Se ne sarebbe voluta andare, ma le mancava il coraggio di tornare nella camera azzurra. La vecchia mancava di umanità, ed era di quello che Helen aveva bisogno. A quel punto avrebbe accettato di buon grado qualsiasi crudeltà da parte dell'infermiera Barker, purché fosse in casa. Il desiderio di sentire una voce umana era così forte, così pressante che uscì sul pianerottolo e bussò frenetica alla porta della signorina Warren. — Signorina Warren — gridò. — Aiuto! Ma nessuno rispose. Era come bussare a una tomba. — Com'è cattiva — bisbigliò Helen allontanandosi dalla porta.

Ma la signorina Warren dormiva troppo profondamente per sentirla. Il contatto diretto con la gente le dava sempre l'impressione che i nervi le si tendessero sotto la pelle, fino a bucarla. E quella sera, con quel che era successo, si era sentita come se avesse avuto il corpo davvero lacerato. Nata per vivere da reclusa, non sognava che starsene sotto chiave nel suo studio. Ma l'avevano tolta a forza dal suo guscio, e costretta a stare ore in compagnia di una vecchia sgradevole, avvolta in un'atmosfera mortale. Il brutto tempo l'aveva definitivamente fatta a pezzi. Per cui trovarsi chiusa nella sua camera senza possibilità di scampo era stata una vera benedizione: si era scaricata di ogni responsabilità. Non aveva fatto il minimo sforzo per uscire dalla stanza, anzi, aveva tirato il chiavistello isolandosi dal resto del mondo. Con due batuffoli di cotone nelle orecchie e le coperte fin sopra la testa per non sentire il vento, era piombata priva di forze in un sonno profondissimo. Benché Helen fosse molto vicina al collasso nervoso, la sua forza di volontà lavorava ancora, dicendole di non mollare. Ricordò a se stessa che non tutti i fili che la legavano alla civiltà erano stati recisi. Ma, mentre scendeva al piano terra per telefonare, si rese conto di quanto ormai la paura la condizionasse. Non poteva chiedere più a nessuno di venire a Summit, perché non avrebbe avuto il coraggio di farlo entrare. Il professore aveva detto di non aprire la porta, e quell'ordine veniva da una mente eccezionalmente razionale. Se aveva preso una certa linea di comportamento era stato per salvaguardare chi era in quella casa. Anche l'infermiera l'aveva messa in guardia più volte, e Helen aveva constatato di persona che, almeno per quel che riguardava Lady Warren, aveva ragione. E quindi se l'assassino puntava a lei, gli fatti erano stati concepiti in modo tale da spingerla, nel panico, a spalancare la porta appena avesse sentito qualcuno bussare. Qualcuno voleva spingerla fuori da Summit. «Anche se pensassi a un segnale di riconoscimento, non sarebbe comunque sicuro. Qualcuno mi potrebbe sentire. No, è tutto inutile». Però sapeva che solo il fatto di parlare con una persona avrebbe potuto rinfrancarle i nervi. Non sapeva se il dottor Parry potesse essere già tornato a

casa: aveva le idee troppo confuse per calcolare tempo e distanze. Ma poteva sempre chiamare qualcun altro. «Il pensionato» pensò. «Dirò che l'infermiera se ne è andata e che ce ne mandino subito un'altra.» Con quel poco che le restava dell'antica fermezza, staccò la cornetta. Ma non sentì né il segnale né altro. Solo silenzio. Il telefono era guasto. Si guardò intorno terrorizzata. Ma c'era una spiegazione logica anche per quello: i sentieri e le strade dovevano essere bloccati dai pali e dai tronchi degli alberi, divelti dalla furia del vento. E quello non poteva essere frutto di una mente umana, era un disegno divino. Ma Helen non riusciva a convincersi: quel tocco finale era arrivato proprio al momento giusto. Anche troppo giusto. «È meglio che ritorni da Lady Warren» pensò. «In fin dei conti la sto vegliando io, e non va lasciata da sola.» Attraversò di nuovo la stanza del professore, sperando che si fosse svegliato: col suo freddo autocontrollo, sarebbe stato in grado di fronteggiare ogni pericolo. Ma lui se ne stava sempre seduto rigido come una mummia. Mentre era nello spogliatoio, sentì uno scalpiccio frettoloso dall'altra parte del muro. «È scesa dal letto ancora una volta» pensò. Se il suo sospetto era fondato, a Lady Warren non mancava di certo l'agilità, perché Helen la trovò distesa, tranquilla, tra le coperte. — Perché mi hai lasciato sola, ragazza? — le chiese. — Sei pagata per assistermi. Helen non aveva più la forza di dire bugie. — Sono scesa a telefonare — disse. — Ma non c'è la linea. È muta. Mentre parlava, Helen capì che Lady Warren si guardava intorno guardinga. Col

suo arrivo aveva forse bloccato l'esecuzione di un piano. Si sentì più forte. — Perché siete scesa dal letto? — le chiese. — Non sono scesa affatto. Non posso. Smettila di fare la cretina. — Una cosa è certa: sono meno cretina di quanto credete. E poi non siete paralizzata, né inchiodata al letto da una malattia precisa. Danno per scontato che non siate in grado di muovervi, tutto qui. Perché non vi alzate se ne avete voglia? Invece di andare su tutte le furie, Lady Warren rifletté prima di rispondere. — Non raccontare mai tutto — le disse. — Tieni sempre un asso nella manica per quando sarai vecchia, in balìa del tuo prossimo. Mi va di gironzolare, è vero, ma solo quando nessuno mi vede. — È più che normale — fu d'accordo Helen. — Non lo dirò a nessuno, lo prometto. E poi, spinta dalla sua incrollabile curiosità, aggiunse: — Che cosa stavate cercando? — Cercavo il mio portafortuna. Un elefantino verde, con la proboscide alzata. Lo cercavo perché ho paura. Helen capì che con gli anni l'emotività di una persona aumentava e, di colpo, le venne in mente il crocefisso che teneva sopra il suo letto. «Non avrei dovuto temere nulla» pensò. «L'ho dimenticato, per tante ore, e lui era là… a proteggermi da ogni cosa malvagia.» Anche se il vento soffiava nelle stanze vuote del secondo piano, anche se chiunque avrebbe potuta seguirla, un gradino dopo l'altro su per la scala a chiocciola, mentre lei saliva per quella principale, Helen si sentiva tranquilla. Con una spinta alla porta riuscì a entrare in camera sua. E accese la luce. La prima cosa che notò fu il muro spoglio sopra il suo letto. Il crocefisso non c'era più. Si appoggiò alla porta per restare in piedi, con la sensazione che il pavimento cedesse sotto i suoi piedi. In casa c'era un nemico. Le aveva rubato

l'oggetto che per lei significava protezione. Ormai poteva accaderle di tutto, niente era più sicuro. In quel momento si rese conto di essere a un o dalla pazzia: da un momento all'altro nel suo cervello qualcosa sarebbe esploso. Si sentiva sull'orlo di un burrone. Poi la mente le si schiarì e credette di avere trovato la soluzione di tutto. Era stata l'infermiera a rubarle il crocefisso. Quella donna era ancora in casa, nascosta da qualche parte. Si precipitò giù, alla porta d'ingresso, e scoprì che questa volta l'intuito non l'aveva ingannata. Il chiavistello della porta era tirato, e anche la catena. «A meno che non sia uscita dalla porta di dietro, cosa difficile, è ancora qui» pensò Helen. Il sollievo fu grande: adesso, più che un pericolo esterno, temeva un pericolo interno. Dal disordine del letto capì subito che Lady Warren aveva ripreso il suo vagabondare mentre lei non c'era. Uno dei tanti cassetti era mezzo aperto, segno che la vecchia signora aveva dovuto abbandonare all'improvviso il suo trafficare. Lady Warren non la poteva vedere dal letto, così Helen andò a chiudere quel cassetto… ma senza riuscirci. C'era qualcosa incastrato lì in fondo. Prendendolo per un angolo riuscì a tirarlo fuori. Una sciarpa bianca.

30. Il crollo

Helen girò la sciarpa tra le dita diventate improvvisamente fredde. Era ottima, di seta, intessuta a macchina e nuova di zecca. Da una parte vide una macchia di fango e, infilzati nella trama del tessuto, aghi di pino. Ebbe un impeto di orrore, provò a scuoterla… e vide quello strappo nella frangia… uno strappo irregolare, frastagliato, come se fosse stato prodotto da un morso. Con un gemito strozzato, la buttò da una parte. Quella era la sciarpa che Ceridwen aveva afferrato con i denti mentre stava difendendosi. Quella sciarpa era orribile, schifosa, era stata al collo di un assassino. Come fuoco d'artificio sparato nel buio che si apre in una pioggia di stelle, una moltitudine di quesiti le esplosero in testa. Com'era arrivata nel cassetto di Lady Warren? Stava nascondendola lei? Che legami aveva lei con il delitto? Ce l'aveva messa qualcun altro? L'assassino si trovava davvero in casa? Le sembrò di essere morta. Ogni cellula del suo corpo era come atrofizzata. Restò in piedi, con i muscoli tesi, la colonna vertebrale irrigidita, incapace di fare qualcosa. Anche se tutti i sensi le si erano assopiti e non poteva né vedere né sentire nulla, immaginò una scena. Summit stava andando in rovina. Le pareti erano una ragnatela di crepe che si allargavano fino a diventare fessure. Tutto attorno si sgretolava, e le fessure si allargavano lasciandola preda della notte. D'improvviso sentì un singhiozzo, e comprese che era uscito dalla sua gola. Nello specchio vide il suo viso, minuto e bianco, una ragazza che la fissava con gli occhi dilatati dalla paura. Dai capelli rossi che incorniciavano il viso comprese che quella era la sua immagine. Facendosi forza, provò ad esaminare la sciarpa. Era umida. «Dovrebbe essere bagnata fradicia, se fosse restata sotto la pioggia» pensò. «Devono averla portata qui subito dopo il delitto.» Questa conclusione condusse a nuove, orribili congetture. Nessuno era in grado

di dire con certezza quando fosse stata uccisa Ceridwen, avevano detto al tramonto. Tutti, tranne Oates, a quell'ora erano in casa, e chiunque di loro poteva essere uscito per qualche minuto senza farsi vedere. A cominciare dal professore, si poteva sospettare di tutti. Il dottor Parry le aveva detto che l'assassino poteva essere qualcuno che conosceva e di cui si fidava. Il professore lavorava tantissimo, la mente poteva avere avuto un crollo. Sia suo figlio che Rice avevano un carattere lunatico, introverso. E il dottor Parry? Anche lui era sospettabile, perché era entrato nella camera azzurra. E la signorina Warren? Si era appisolata sulla poltrona, quella sera, al tramonto. «Sono impazzita» pensò Helen. «Non è stato nessuno di loro, non è possibile. Nessuno di loro. È stato senz'altro uno che viene da fuori.» Rabbrividì ripensando a quella finestra aperta nel seminterrato. — Ragazza — chiamò Lady Warren. — Che cosa stai facendo? — Vi sto prendendo un fazzoletto pulito. Helen rimase colpita dalla freddezza della propria voce. Sotto l'effetto della paura, sembrava avere una doppia personalità. Un'estranea, sicura di sé, aveva preso il comando e procedeva al posto della vera Helen, travolta dalle rovine della fortezza ormai crollata… preda per una tigre umana. — Hai trovato… qualcosa? — chiese Lady Warren. Helen fraintese apposta. — Sì, ce n'è una pila — disse, affrettandosi a nascondere la sciarpa. Con un fazzoletto in mano, ritornò verso il letto. Lady Warren lo buttò sul pavimento. — Ragazza — disse con voce bassa e roca — voglio che tu faccia una cosa. — Sì. Ditemi.

— Vai sotto il letto. Gli occhi di Helen si soffermarono sul bastone di ebano. — Così quando uscirò mi darete un colpo in testa? — chiese. — Non devi uscire. Devi nasconderti. La nuova Helen, quella che aveva preso la situazione in pugno, capì subito che era un modo per impedirle di vedere quello che sarebbe successo in quella camera. — C'è troppa polvere sotto il letto — obiettò, indietreggiando attenta verso la porta. La sciarpa, era sicura, era una prova importantissima. Bisognava consegnarla alla polizia, senza pensarci troppo. Non poteva telefonare per il guasto, casuale o voluto che fosse, ma poteva andare di corsa al villino del capitano Bean e chiedere a lui di fare tutto il necessario. Lady Warren si mise a frignare, come un bambino spaventato. — Non lasciarmi da sola, ragazza. Verrà l'infermiera. Sta aspettando che tu te ne vada. Helen esitò: non aveva ancora risolto il mistero della sparizione dell'infermiera. Uscita sconfitta dalla lotta con Lady Warren, se era ancora in casa avrebbe potuto vendicarsi. «Come mi piacerebbe sapere che cosa devo fare» pensò. — Se te ne vai — la minacciò Lady Warren — mi metterò a gridare. E allora lui verrà. — Lui? — chiese Helen. — E chi è, lui? — Ho detto «lei verrà». Lady Warren si morsicò le labbra, indispettita per quell'errore involontario. Helen si sentiva disperatamente alla ricerca del bandolo di quella imbrogliata matassa. La vecchia sapeva qualcosa che non voleva dire. Ma l'alba era vicina. Helen si fece forza a quel pensiero. Era appena stata assunta, non poteva correre

il rischio di farsi licenziare. Lady Warren non doveva gridare: avrebbe potuto svegliare di colpo il professore, e sarebbe stato pericoloso. Distrutto com'era dal sonnifero, il suo cervello avrebbe potuto risentirne. E sarebbe anche stata una crudeltà allarmare la signorina Warren, che non poteva uscire dalla sua camera. Inoltre, e il pensiero le si insinuò nel cervello come un serpente, un eventuale grido avrebbe potuto attirare qualcuno. Intanto Lady Warren vagava altrove coi suoi pensieri. — Sta per arrivare un altro temporale — disse. — Sta diventando più buio. Helen notò che la stanza sembrava davvero più scura. Si strofinò gli occhi, ma senza risultato. La luce elettrica si stava indebolendo, come se un leggero velo la offuscasse. Sentì le labbra irrigidirsi, mentre si chiedeva se quello non fosse l'inizio della completa futura oscurità. «È sempre più vicina» pensò spaventata. Anche se aveva deciso di non impressionare Lady Warren, non poté stare zitta. — Qualcuno ha manomesso la centralina elettrica — bisbigliò. Lady Warren sbuffò. — Sono le batterie, si stanno scaricando, stupida — disse secca. Helen accolse con gratitudine quella banale spiegazione. Responsabile dell'impianto era Oates, e ben si sapeva quanto fosse indolente. Per la paura di restare al buio, lei aveva lasciato accese tutte le luci, senza pensare alle conseguenze. — Sarà meglio che vada a spegnerle — disse. — Sì — disse Lady Warren con un cenno d'assenso. — E prendi anche delle candele. Non possiamo restare al buio. Helen non trovò le candele nella camera, e pensò che venissero usate solo negli

appartamenti di servizio. Si ricordò di averne viste giù nel ripostiglio vicino alla dispensa. — Vi dispiace restare da sola? — chiese. — Devo andare giù immediatamente, prima che… Non potendo reggere oltre, uscì fuori dalla camera e corse giù per le scale. L'anticamera sembrava vibrare, come se l'intera casa stesse emettendo sospiri. Meglio non perdere tempo: scese per le scale della cucina con la velocità di una gazzella. La signora Oates stava ancora dormendo nella sua poltrona, tranquilla come una bambina. ando, Helen le sfiorò una guancia, era calda. «Grazie al cielo la divina Provvidenza pensa a proteggere bambini e ubriachi» pensò. Nel corridoio la luce era ormai un filo rosso dentro la lampadina. Helen trattenne il respiro e si infilò velocissima nel ripostiglio, terrorizzata dall'idea di trovarsi intrappolata nel labirinto della Morte. Prese le candele ritornò lasciandosi alle spalle l'ombra buia delle luci che andava spegnendo una alla volta. Sapeva di agire in maniera sensata, eppure le sembrava che il destino, anche questa volta, volesse abbandonare quella casa e immergerla nel buio. Quel buio forzato era forse un segnale. Il pensiero la impressionò così tanto che fu tentata di correre fuori, e sfidare il suo destino nella notte. Il capitano Bean l'avrebbe accolta, la sua casa non era lontano se si tagliava per la tenuta. Ormai gli alberi non nascondevano più orrendi accadimenti e lei pensava con gioia al vento e alla pioggia che le avrebbero sferzato il viso. Il vero pericolo era dentro casa, nascosto chissà dove. Fu sul punto di aprire la porta, ma si fermò pensando a quelli che stava per lasciare, indifesi, in quella casa. Lady Warren, il professore e la signora Oates non erano capaci di difendersi e il pazzo, una volta scoperto che la sua preda era scappata, avrebbe potuto scaricare la sua violenza su di loro.

Con il presentimento di andare incontro alla morte, tornò al primo piano e, dopo un momento di riflessione per riprendere il controllo dei nervi, aprì la porta della camera azzurra. Durante la sua assenza sembrava che non fosse accaduto nulla. Lady Warren era seduta nel suo letto, circondata di ombre azzurrine. — Sei stata via molto, ragazza — le disse. — Accendi le candele. Non c'erano candelieri, quindi Helen versò un po' di cera calda sulla mensola di marmo del camino e fissò due candele, proprio di fronte allo specchio. — Sembrano lumini cimiteriali — commentò Lady Warren. — Ne voglio delle altre. Tutte. — No, dobbiamo tenerne qualcuna di scorta — le disse Helen. — Vedrai che ci basteranno. Il tono della vecchia rivelava un'orribile sicurezza, eppure a Helen parve diversa in qualcosa da come l'aveva lasciata. Gli occhi spalancati le brillavano di soddisfazione mentre sollevava una mano per mostrargliela. — Guarda — disse forte. — Non trema. Senti le mie dita come sono forti. Helen si alzò per avvicinarsi al letto, ma Lady Warren sembrò dimenticare ciò che aveva appena detto. — Voglio dormire — disse. — Non te ne andare, ragazza. Chiuse gli occhi e in un attimo il suo respiro si fece pesante e regolare. Era incredibile il self-control di quella donna. Helen era certa che dormisse davvero. «Chissà se la rivedrò sveglia» pensò Helen. Anche le sue palpebre si erano fatte pesanti come piombo. Soltanto lei era sveglia, adesso, in un mondo in cui tutti dormivano. E doveva restare sveglia. All'improvviso sobbalzò in piedi, con il cuore che le batteva forte per il terrore. C'era qualcuno nello spogliatoio. Aveva sentito distintamente un rumore di i

e dei movimenti. Andò alla porta dello spogliatoio e la spinse: apparve una striscia di luce, schermata dall'ombra di un uomo. Come succede ai criminali che, non reggendo più alla tortura, si consegnano spontaneamente alla giustizia, Helen sentì che non avrebbe più potuto resistere a quell'ansia. Disperata spalancò la porta. Un enorme sollievo: vide il professore in piedi davanti al piccolo scrittoio. Subito, in presenza di quella figura familiare, tutto ritornò normale. La casa smise di crollare: le pareti parvero richiudersi su se stesse ridiventando l'antica fortezza. Lottò per trattenere le lacrime, tanto forte era la felicità di trovarsi nuovamente con una persona amica. — Oh, professore! — gridò. — Come sono felice che siate meglio! — Non credo di essere mai stato male. — Il tono del professore era, come sempre, freddissimo. — Mi sono solo limitato a garantirmi qualche ora di riposo. C'era qualcosa che lo infastidiva, perché aggrottò la fronte e aprì un cassetto. — Dov'è l'infermiera? — chiese. — Se n'è andata — rispose Helen, incapace di dare una spiegazione. — Andata dove? — Non lo so. Magari si è nascosta da qualche parte in casa. — Lei, o chi altro, mi ha preso una cosa che desidero assolutamente ritrovare. Ma per il momento non è importante. Come colpito da un improvviso ricordo, si girò e guardò Helen. — Com'è che siete ritornata in casa? — le chiese. Lei non comprese la domanda.

— Quando? — chiese. — Quando venivate dalla tenuta. Ho sentito i vostri i. Ho aspettato… Ma non siete venuta. Mentre sentiva quelle parole… Helen capì. — Voi! — esclamò. Helen capì…

31. Buona caccia

Il terrore le schiarì i pensieri, che cominciarono il loro lavoro febbrile. Le sembrava che ogni cellula del suo cervello stesse andando a fuoco mentre, in un crescendo di immagini, rivedeva tutta la vicenda, e ne prendeva coscienza terrorizzata. Il professor Warren aveva strangolato quelle cinque ragazze, proprio come suo padre, anni prima, aveva ucciso le due cameriere in quella casa. La vecchia Lady Warren sapeva dei delitti e si era sostituita alla legge: dopo la morte della seconda cameriera aveva sparato al marito. Era invecchiata, ma il suo cervello non aveva smesso di funzionare. Soffriva al pensiero di dover uccidere il figliastro… e continuava a rimandare. Dopo ogni delitto si diceva che sarebbe stato l'ultimo, e invece ne seguiva sempre un altro. Appena Helen era arrivata in casa, lei aveva fiutato il pericolo, e aveva cercato di proteggerla. Voleva che stesse nella sua camera, perché lì sarebbe stata al sicuro. Aveva chiesto al professore di accenderle una sigaretta per guardarlo dritto negli occhi: la luce che aveva visto le era bastata per sapere che aveva ucciso ancora. Ma voleva salvarlo dalla polizia. Si era alzata, senza farsi vedere, per andare a cercare nella sua stanza la prova che potesse incriminarlo. E… aveva trovato quella sciarpa. Helen si sentì profondamente grata nei confronti della vecchia signora, anche se ormai era troppo tardi per dirglielo. «Sono felice di avere preso le sue parti contro l'infermiera» pensò. Anche l'infermiera, a quel punto, le apparve sotto una luce diversa: era una donna da compatire, non della quale avere paura. Dietro quella sgradevole apparenza fisica si nascondeva una femminilità autentica, che desiderava solo essere scoperta. Frustrata nei suoi istinti, era diventata acida e violenta. Helen si chiese che fine avesse fatto. In quel momento avrebbe avuto tanto bisogno della sua forza fisica. Guardò il professore senza crederci. A vederlo, sembrava quello

di sempre: grigio, anonimo, intellettuale… un prodotto della civiltà, abituato allo smoking e alle formalità. Non riusciva ad avere paura di lui… così com'era. Quello che la terrorizzava era il mutamento che si sarebbe verificato in lui. Si ricordò del dottor Parry che le spiegava che, tra un attacco e l'altro di pazzia, l'assassino era una persona normale. Helen fece del suo meglio per mantenerlo nelle condizioni in cui si trovava. — Che cosa stavate cercando? — chiese, usando volutamente un tono di voce indifferente. — Una sciarpa di seta bianca. La risposta le gelò il sangue — L'ho vista in un cassetto di Lady Warren — disse pronta. — Vado a prendervela. Per un attimo sperò di poter fuggire, ma il professore scrollò la testa. — No. Dove sono gli altri? — La signora Oates è ubriaca, e la signorina Warren è rimasta chiusa in camera sua — rispose Helen. Un leggero sorriso di soddisfazione gli tremò sulle labbra. — Bene — disse. — Finalmente siete qui con me, sola. La voce era così distaccata e fredda che Helen cercò qualche altro argomento che lo coinvolgesse. — Avete fatto tutto da solo? — chiese. — Sì e no — le rispose il professore. — Ho semplicemente caricato la molla e l'ingranaggio si è messo in moto. È stato molto divertente stare seduto a guardare gli altri che mi aprivano la strada. Helen si ricordò della conversazione di quella sera a tavola. Il professore aveva dimostrato il valore della sua teoria secondo la quale un uomo intelligente era in

grado di dirigere le azioni dei suoi simili. Si era posto al di sopra di Dio. — Che cosa volete dire? — chiese Helen, desiderosa solo di rimandare l'orrore che avrebbe potuto riservarle l'istante successivo. — Solo questo — disse il professore, come se stesse illustrando una tesi. — Mi sarei potuto liberare da ogni… intrusione… facendo ricorso all'ingegno. È un problema mentale molto interessante. L'esperienza che ho della natura umana mi ha però consigliato un metodo più sottile, e più facile… Per prima cosa ho spinto Rice a comperarsi un cane. Quando l'ha portato a casa, ho avuto la certezza che molte persone erano appese allo stesso filo. — Andate avanti — disse Helen senza fiato, mentre pensava solo al tempo che trascorreva. — Che cosa devo spiegare? — chiese il professore irritato dalla sua stupidità. — Avete visto come si sono svolti i fatti! Contavo sulla paura e sull'avversione che mia sorella ha nei confronti dei cani, e sull'incapacità di controllarsi degli altri. — Intelligente… — Helen ò la lingua sulle labbra secche. — E… immagino che abbiate lasciato apposta la chiave nella porta della cantina, vero? Il professore si accigliò di nuovo, arrabbiato. — Ovviamente. La signora Oates sa come liberarsi di suo marito. — Sì, certo… Eravate anche certo che l'infermiera Barker se ne sarebbe andata? Il professore fece una smorfia. — Qui lo ammetto… il mio piano ha fallito. Avevo previsto che, impulsiva come siete, avreste provveduto da voi a toglierla dai piedi. Invece mi avete deluso. Ho dovuto fare da solo. Helen sapeva che c'era una parola che non doveva assolutamente pronunciare ma, ansiosa di sapere qualcosa sul destino dell'infermiera, decise di correre il rischio. — Come? — chiese. — Le avete fatto del male?

Il professore le parlò con il tono del professore che tira le orecchie a un suo allievo. — Temporaneamente. È legata e imbavagliata, è sotto il mio letto. Deve restare viva, per testimoniare che è stata assalita alle spalle da uno sconosciuto, e che io ero dormivo mentre… mentre… Gli mancavano le parole, non sembrava più padrone della sua mente. Inorridita, Helen vide che le sue dita iniziavano a contrarsi. — Perché non avete fatto entrare la polizia? — chiese, comprendendo disperata che stava cercando di tenere accesa una fornace con i fogli di carta velina. — Perché saranno qui domani in ogni caso. — E le dita del professore si piegarono di nuovo. — Sarà tempo sprecato, ma un uomo intelligente non sottovaluta mai l'intelligenza del prossimo. Nel corso di due visite avrebbero potuto notare qualche particolare a cui io non avevo badato… Ma stiamo buttando via del tempo. Helen capì che il momento era arrivato. Non poteva ritardarlo oltre. Ma gli chiese ancora una cosa. — Perché volete uccidermi? — Lo considero un mio dovere — le disse. — Sono un uomo di scienza… ho paura di un eccessivo incremento demografico che porterebbe, alla lunga, alla fame nel mondo. Le donne inutili vanno eliminate. Helen si chiedeva che cos'altro si aspettasse, sapendo quanto sicura fosse la sua fine. — E perché sono inutile, io, perché? Perché non siete né bella, né l'intelligente, né avete una qualità, dico una, da trasmettere ai vostri figli. Siete uno scarto, ecco quello che siete, un sovrappiù. Siete manodopera non specializzata su un mercato pieno di domanda e di richieste. Una bocca in più da riempire. E così… io devo uccidervi. — E come? — bisbigliò Helen. — Come avete fatto con le altre?

— Sì. Non sentirete nulla, non vi farò male, se non farete resistenza. — Ma a Ceridwen avete fatto male. — Ceridwen? — Si accigliò. — Ero contrariato, era voi che aspettavo… E mi ha dato un gran fastidio, perché l'ho dovuta portare da Bean. Non volevo che la polizia venisse qui. Una fatica completamente inutile. Helen non si mosse, mentre il professore faceva il primo o verso di lei. Aveva paura che ogni minimo movimento potesse far scattare la molla dell'irreparabile. Lui sembrava non aver molta fretta di cominciare. Si guardò intorno con aria soddisfatta. — Adesso siamo tranquilli — disse. — Sono felice di avere aspettato… Sono stato sul punto di farlo almeno tre volte, questa sera: fuori in giardino, quando vi siete addormentata sulle scale e quando siete salita in camera vostra. Ma ho pensato che qualcuno avrebbe potuto interferire. Si strofinò le dita con un'aria pensierosa. — È una questione genetica — spiegò. — Da bambino, ho visto mio padre tagliare la gola a una ragazza con un coltello da cucina. Sono stato sul punto di vomitare per l'orrore, quella volta. Ma, molti anni dopo, il seme ha dato i suoi frutti. Aveva una luce sinistra negli occhi e i lineamenti si distorcevano, cambiandogli fisionomia. Helen aveva il male davanti a lei. — E poi — continuò — a me uccidere piace. Erano fermi l'uno davanti all'altra, divisi da pochi metri. Helen, impazzita di terrore, scappò nella camera di lui. Lui la seguì, aveva le dita come artigli. — Non puoi scapparmi — disse. — La porta è chiusa a chiave. In preda al panico che prende le creature perseguitate, Helen continuò a correre. Non sapeva chi fosse né dove si trovasse né cosa stesse facendo. Era tutto rumore e confusione, una nebbia rossa la circondava, un suono simile allo

schioccare di una frusta l'assaliva. Era arrivata a fine corsa. Chiusa all'angolo, il professore le stava addosso, così vicino da vedere il suo viso riflesso nei suoi occhi. Ma prima che potesse toccarla, lo vide cadere pesantemente, come se la molla vitale fosse saltata, e poi restò lì immobile, esanime sul pavimento. Helen sollevò gli occhi e vide Lady Warren sulla porta. Aveva una pistola in mano. Indossava la bella mantellina bianca con i nastri rosa da vecchia signora. Un nastrino rosa le ciondolava da una ciocca di capelli. Mentre la ragazza correva verso di lei, cadde tra le sue braccia. Lo sforzo di sparare era stato fatale, troppo intenso. Nonostante tutto sorrise, anche se le sue ultime parole rivelarono una sorta di rimpianto. — L'ho fatto… Ma con cinquant'anni di ritardo.

Crediti

Ethel Lina White

La scala a chiocciola (titolo originale The Spiral Staircase, 1933)

Traduzione e note di Alberto B. Levorato

Progetto grafico e copertina: Studio MalaMente

Una realizzazione Falsopiano secondo gli standard dell'International Digital Publishing Forum

ISBN 9788898137305

Tra i Fogli volanti

Jack London, Autobiografia alcoolica Edgar Wallace, Il cavallo grigio e la mosca assassina Gustave Le Rouge, Il Dr. Cornelius lo scultore di carne umana Oscar Wilde, Teleny Charles H. Hinton, Il re di Persia Edgar Wallace, La doppia vita di Kate Annie Vivanti, I divoratori Edgar Wallace, La melodia della morte Robert Louis Stevenson, Il Club dei suicidi Edgar Wallace, La maledizione del libro onnipotente Elinor Glyn, Quel certo non so che – It Elinor Glyn, Sei giorni Ambrose Bierce, Dizionario del Diavolo Jack London, I Servi di Mida Rosaria M. Notarsanto, Le mani diverse Edgar Wallace, Il sindacato del crimine Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto Ambrose Bierce, Il Club dei parenticidi

Jules Verne, Un biglietto della lotteria Umberto Boccioni, Taccuini futuristi Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Cinque inchieste Robert Louis Stevenson, La cassa sbagliata Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Quattro inchieste Filippo Tommaso Marinetti, Come si seducono le donne Marc Bloch, Apologia della storia Augusto De Angelis, La prima inchiesta. Il banchiere assassinato Montesquieu, Riflessioni e pensieri inediti Alexandre Dumas, La bella vampirizzata Henri Barbusse, L'inferno Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi, Il do tragico George Ohnet, Il padrone delle ferriere. Storia di Claire e Philippe Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi, Le sette picche doppiate

1) Cittadina di circa 50.000 abitanti al confine con il Galles.

2) Il riferimento è all'Irish Sweep, importante lotteria sostenuta dal governo irlandese a partire dal 1930.

3) Dolce (una variabile del Trifle), affermatosi nell'Ottocento.

4) La citazione è riferita a un verso di Tristram of Lyonesse di A. C. Swinburne (1882).

5) Lungometraggio del 1932 diretto da Cecil B. De Mille.