La Tela Del Diavolo 5q1da

Gianfranco Pereno

La tela del diavolo

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Indice dei contenuti

DOCUMENTAZIONE Prima parte Prologo Capitolo 1° Capitolo 2° Capitolo 3° Capitolo 4° Capitolo 5° Capitolo 6° Capitolo 7° Capitolo 8° Capitolo 9° Capitolo 10° Capitolo 11° Capitolo 12° Capitolo 13° Capitolo 14° Capitolo 15°

Capitolo 16° Capitolo 17° Capitolo 18° Capitolo 19° Capitolo 20° Capitolo 21° Capitolo 22° Capitolo 23° Capitolo 24° Capitolo 25° Capitolo 26° Capitolo 27° capitolo 28° Capitolo 29 Parte seconda Capitolo 30° Capitolo 31° Capitolo 32° Capitolo 33° Capitolo 34 Capitolo 35°

Capitolo 36° Capitolo 37° Capitolo 38° Capitolo 39° Capitolo 40° Capitolo 41° Capitolo 42° Capitolo 43° Capitolo 44° Capitolo 45° Capitolo 46° Capitolo 47° Capitolo 48° Capitolo 49° Capitolo 50°

DOCUMENTAZIONE

Caravaggio (Michelangelo Merisi) Decapitazione di Oloferne Galleria Nazionale di Arte Antica, Roma

Jacques-Louis David, La morte di Marat . Tempera su tela, 1793 Muséès Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles.

Gustave Coubert L’origine del mondo. 1866. Questo quadro accese polemiche feroci: messo al bando,costretto alla visione nascosto dietro ad un drappo, per piacere e tranquillità dei perbenisti più viziosi.

Gustave Courbet, Sleep. 1866 Oil on canvas. Petit Palais, Musée de Beaux-Arts de la ville de Paris.

Pyke Koch, Extase. 1967 Oil on canvas, Collezione privata, Olanda.

Prima parte

“Nella bocca del Drago”

Prologo

L’uomo allungò titubante la mano verso una strana maniglia d’ottone che luccicava debolmente sulla porta posta alla fine del corridoio. Il battente sembrò aprirsi da solo ed egli ebbe la netta impressione di galleggiare nel nulla. Bianco, luce, fastidio, angoscia. Si accorse di aver chiuso automaticamente gli occhi ancora prima di avvertire il vento sulla pelle. L’alito caldo che gli entrò nell’anima spazzò via inaspettatamente tutte le sue paure e avvertì le palpebre rilassarsi, mentre le pupille iniziavano a focalizzare sempre più nitidamente il tranquillo panorama della laguna. In lontananza, quasi galleggiante nell’aria calda del pomeriggio, il rassicurante profilo dell’isola di Murano. Era fuori! Il sole che gli scaldava la pelle aveva il potere di sciogliere anche il gelo che avvertiva dentro e, come chi si risveglia dopo un incubo e con sollievo ritrova attorno a sé oggetti familiari, così per lui, quella distesa di acqua calma e azzurra, tagliata dalle file di grosse briccole poste a delimitazione dei canali navigabili, contribuiva a far retrocedere in un angolo nascosto della sua memoria, l’angoscia e la paura delle ultime ore. Avvertì che stava gradualmente riacquistando la coscienza del proprio corpo, ma quella sensazione gli procurò inaspettatamente un gorgoglio nello stomaco e il suo desiderio più impellente si focalizzò incredibilmente su un tramezzino con i gamberetti, accompagnato da un fresco calice di Prosecco. Da una calletta poco distante svoltò improvvisamente un bambino di due o tre

anni che gli sfrecciò ridendo accanto alle gambe, subito raggiunto dal richiamo imperioso di una giovane donna che lo inseguiva ansante, spingendo un leggero eggino carico di pesanti borse della spesa. Lui accompagnò mentalmente i i affrettati della mamma e solo quando calcolò che fossero ormai arrivata in prossimità del ponte che li divideva dall’imbarcadero di Fondamenta Nuove, voltò la testa nella loro direzione. Il piccolo stava salendo i gradini un o alla volta, alzando sempre per primo il piede destro, concentratissimo. La donna invece, per permettere alle ruote del suo carrello improvvisato di salire più agevolmente gli ampi gradini, si era voltata con le spalle al ponte. Si vedeva chiaramente che era in difficoltà, ma l’istintivo impulso di aiutarla gli si bloccò sul nascere quando la vide voltare il capo verso una figura seduta ai piedi del ponte che lui ancora non aveva notato. Osservò il volto grassoccio della mammina aprirsi in un leggero sorriso e, dopo un rapido cenno di saluto, ritornare con calma a concentrarsi sul eggino. Alcuni anni prima era rimasto affascinato da uno spot pubblicitario ove i personaggi si bloccavano di colpo. Foglie, abiti, capelli, sciarpe, si cristallizzavano in un fermo immagine perfetto, mentre al contrario, il punto di vista della telecamera continuava a ruotare lentamente, permettendo in quella surreale pausa tridimensionale di osservare con calma tutti i particolari della scena da diverse angolazioni. Ora anche quella donna si era assurdamente immobilizzata dentro un silenzio irreale, la schiena curva nello sforzo di far superare un gradino al eggino e il foulard azzurro, che prima gli svolazzava leggero attorno al collo, ora sembrava essersi tramutato in una scheggia di vetro veneziano posta in controluce. Poi il punto di vista della telecamera immaginaria si spostò verso la figura accoccolata sui gradini, rivelando una giovane ragazza caratterizzata da una gran massa di capelli rosso fuoco e da una strana tuta aderente, fatta da quelle che sembravano a prima vista squame di serpente, anche se in verità molto più grosse e massicce. L’immagine s’ingrandì lentamente, soffermandosi sul primo piano di un volto

bellissimo, orientaleggiante, con gli occhi chiusi, per scendere poi a osservare senza alcun pudore l’elegante profilo di un morbido seno. Si abbassò ulteriormente per sfiorare la leggera rotondità di un ventre color giallo tenue, terminando infine la sua esplorazione andando a ruotare vicinissima a una coscia lunga e affusolata. Ci fu un impercettibile rumore e subito la telecamera ritornò rapidamente sul volto della ragazza. Ora gli occhi erano ben aperti e le pupille, di un giallo caldo e morbido, lampeggiavano al riflesso del sole. Nel momento in cui le palpebre si chio e si riaprirono su quel metallo liquido, lui comprese; seppe senza margine di errore che quella ragazza non stava indossando uno stravagante abbigliamento, ma che quella che aveva appena visto era la vera pelle della ragazza. Sul bellissimo viso si disegnò un sorriso divertito, che ebbe come unico effetto quello di farlo urlare spaventato mentre attorno a lui quell’intero mondo cristallizzato esplodeva in una miriade di frammenti. Aghi luccicanti che svanirono poi lentamente, lasciando al loro posto un immenso buio, pregno dell’eco prolungato del grido che gli era sfuggito dal petto. Poi il silenzio… silenzio e buio. Dal nulla gli venne incontro un nuovo suono, dapprima lieve, poi sempre più forte, sino a diventare qualcosa di molto simile al galoppo di un cavallo, regolare e potente. Nell’istante in cui realizzò che non si trattava altro che del battito del proprio cuore, percepì che anche quel buio aveva dei limiti e dei confini e allungò prudentemente una mano in avanti per sondarlo. Un fulmine alle sue spalle lo fece voltare di scatto. Non vide nulla, anche se il suo inconscio registrò ugualmente l’immagine indistinta di una fluida massa rossastra.

Un altro lampo, seguito da una fitta lancinante alle tempie. Mentre con il palmo delle mani si premeva con forza gli occhi doloranti, il suo cervello gli incollò sulle retine la sagoma inconfondibile di un drago cinese, subito seguita da un bagliore che sembrò illuminargli anche l’anima. Il tempo cessò d’esistere. Quando l’uomo riaprì lentamente gli occhi nel buio onnipresente, il suo cuore aveva ripreso il battito regolare. Aveva finalmente compreso! Ora lui sapeva esattamente dove si trovava. Nella bocca del drago!! Con calma si voltò verso il punto che sapeva essere il più buio e profondo ed attese immobile, con serenità, l’enorme fiammata che ne sarebbe scaturita.

Michele Barovier si svegliò madido di sudore. Quell’incubo ricorrente incominciava a innervosirlo. In vita sua non aveva mai dato eccessivo peso ai sogni, ma ultimamente la regolarità con cui questo si ripresentava, identico e immutabile, aveva qualcosa di veramente preoccupante. Scosse il capo e con un’alzata di spalle si alzò dal letto per andare a riempire d’acqua bollente la vasca da bagno. Michele era l’ultimo discendente di un’antica famiglia veneziana arricchitasi prima con il commercio di stoffe importate dall’oriente e poi con la lavorazione di splendidi oggetti in vetro di Murano; ma di quei fasti era rimasto ormai solo un vago ricordo. A lui la cosa sembrava non importare e quando occasionalmente il discorso cadeva sulle ormai perdute fortune della sua famiglia, il massimo che si riusciva

a tirargli fuori era un sorriso melanconico, misto a una notevole dose d’ironia. Era soddisfatto di se stesso. A trentadue anni compiuti la sua vita era ormai avviata al meritato consolidamento, insegnava storia dell’arte al Liceo Artistico Statale di Venezia, riuscendo persino a riscuotere una certa simpatia dai suoi allievi; anche se a onor del vero erano le ragazze quelle che gli tributavano, più o meno velatamente, un ben più accentuato interesse. Lui però sorvolava sulla cosa. Certamente un bel sorriso o uno sguardo leggermente più lungo del necessario lusingava il suo amor proprio, ma a parte la naturale attrazione maschile verso minigonne svolazzanti, il suo coinvolgimento emotivo finiva lì. Aveva una fidanzata ufficiale, Vanessa Della Vigna. Bella, bionda, alta. Una splendida donna che teneva saldamente nelle proprie mani affusolate le redini della vita di entrambi, che si preoccupava di regolare attentamente i loro impegni per disporre del tempo necessario per fare regolarmente all’amore e garantire che i loro appagamenti fossero autentici e soddisfacenti. Uscivano a cena almeno due sere la settimana, frequentando amici giusti e selezionati e soprattutto, grazie al proprio importante impiego alla Cassa di Risparmio di Venezia, lei aveva già preventivamente studiato un perfetto piano di mutui agevolati per la loro futura casa, per i mobili e per l’immancabile pensione facoltativa. Unica seccatura era una fastidiosa indecisione sulla destinazione del futuro viaggio di nozze. La sola stravaganza di Michele sembrava essere l’accentuato interesse verso la storia dell’Arte, cosa che a detta di tutti andava ben oltre un normale impegno professionale. ione così intensa che neppure Vanessa si era sentita di contrastare, anzi, si era addirittura convinta che avere come rivali donne come la Venere del

Botticelli o dame eteree che tenevano in braccio deliziosi ermellini, fosse un elegante gioco che il atempo del fidanzato le permetteva di fare con le sue amiche più intime. Fu proprio per la totale predilezione che Michele aveva per i colori di Giotto o per l’eleganza formale espressa dal Botticelli, che si stupì di se stesso nell’accettare l’invito di una collega che lo pregava di accompagnarla all’apertura di una mostra di Caravaggio allestita nelle prestigiose sale del Museo Correr. Il signor Michelangelo Merisi proprio non rientrava nei suoi gusti. Certo ne apprezzava l’enorme talento, riconoscendogli il grande contributo dato alla storia della pittura; ma la sua vita disordinata e soprattutto quei colori, anzi, quelle ombre minacciose così presenti nei suoi quadri, erano lontane anni luce dalle tranquillità e dalle tonalità dei suoi artisti preferiti. Carlotta era ormai giunta al suo ultimo anno d’insegnamento, poi la pensione e questo, forse, era stato il vero motivo che quel giorno l’aveva indotto a salire la scalinata del Correr, nonostante che per arrivare avesse dovuto fare l’intero giro del globo a causa di una fastidiosissima acqua alta che sommergeva buona parte di Piazza San Marco. Certo avrebbe potuto infilarsi un paio di stivali di gomma e guadare con attenzione le poche centinaia di metri che separavano il museo dal suo appartamento da scapolo, ma poi avrebbe dovuto tenerseli ai piedi per tutto il tempo della visita e l’idea che le sue suole squittissero a ogni o sui pavimenti tirati a lucido non lo aveva per nulla convinto. Senza contare inoltre, che con tutte le probabilità sarebbero stati presenti anche vari assessori e il sindaco medesimo. Lei lo attendeva in cima alla scala, con in mano, bene in vista, i biglietti d’ingresso. Michele ebbe un tuffo al cuore. Carlotta era alta, di carnagione scura, e nonostante fosse a un o dalla pensione, era ancora ben dritta nel portamento e piena di vitalità.

Il suo eterno sorriso, unito a uno sguardo leggermente beffardo posto sopra a un seno ampio e pesante, lasciava intuire l’abitudine a essere ammirata e corteggiata; il fascino discreto di quella che sino a non molti anni prima era stata sicuramente una donna molto bella. Inoltre era intelligente, arguta e molto preparata professionalmente. Unico neo, i colori. Sembrava che per lei non esistessero le comuni regole d’abbigliamento. Se ti mettevi a contare, potevi trovargli addosso decine di colori differenti, senza alcun tentativo di coerenza o di abbinamento tonale. A volte gli ricordava un attaccapanni collocato, al tempo dell’Accademia di Belle Arti, in un angolo di un appartamento che aveva avuto dalle parti di Campo S. Stefano. Il classico piccolo appartamento da studente, affittato a seguito di un feroce attacco d’indipendenza e arredato con quello che si trovava al mattino presto accanto ai canali, prima del aggio degli spazzini. Quell’attaccapanni lui se lo ricordava bene; sempre sommerso da sciarpe variopinte, giacche e giubbotti che la marea di amici vi buttava sopra alla rinfusa quando veniva a far finta di studiare, prima di mettersi poi tutti a rollare coscienziosamente e a parlar di tette. Poi per fortuna nella sua vita era entrata Vanessa e tutto era finito.

Carlotta lo salutò con la delicatezza che si usa verso un vecchio amante, prima di prenderlo con impazienza sotto il braccio. «Hai fatto colazione? Mi sembri palliduccio!» Disse senza guardarlo. La vide poi sventolare i biglietti sotto il naso di una hostess perfetta nel suo completo blu scuro e prima che la poveretta avesse avuto il tempo di reagire si trovò trascinato dentro una stanza stracolma di gente.

Istintivamente Michele si diede un contegno. Quasi senza accorgersi, con un gesto rapido ed efficiente si ò le dita tra i capelli e mentre con la coda dell’occhio riconosceva accanto alla finestra un alto responsabile dell’assessorato alle Belle Arti, controllò accuratamente l’orologio Fece un o per andarlo a salutare e squittì! Un altro o e un ulteriore squittio, tutt’altro che sommesso, risuonò blasfemo nella stanza. Si guardò i piedi, vedendo solo un paio di scarpe dei fratelli Rossetti, ma poi nel suo campo visivo entrarono con disinvoltura i gialli stivali da barca di Carlotta. «Cara professoressa, benvenuta! Sono lieto di rivederla! Mi sembra di ricordare che da sempre lei sia un’accanita ammiratrice di Caravaggio.» La voce proveniva da un completo di velluto verde-bosco, anche se l’espressione di derisione che aleggiava inconfondibilmente sul volto curatissimo del proprietario, l’assessore alla cultura Marco Visentin, esprimeva esattamente il contrario. «Visentin Marco!» La voce di Carlotta risuonò chiara e autorevole nella grande stanza luminosa e per un istante negli occhi dell’assessore ò il lampo di un timore riverenziale dimenticato da tempo. «Vedo che continua a piacerti essere sempre al centro dell’attenzione!» Il tono era così cortese che era difficile intuire l’ironia che invece brillava negli occhi nocciola della donna. «È un vero piacere costatare come interagiscano intelligenza e cultura con l’immagine mondana che si ha di loro.» «Cosa?… Sicuramente! Un momento culturale notevole!» L’assessore, notevolmente a disagio, si rifugiò dietro a un affrettato cenno a un cameriere di aggio.

«Un calice di prosecco?» Il tono risuonò eccessivamente acuto e Michele soffocò con abilità il sorriso, che inarrestabile gli stava modellando le labbra, dentro al bicchiere. Poi, mentre la giacca verde-bosco scompariva rapidamente dietro lo smoking impeccabile di un altro cameriere, sussurrò all’orecchio di Carlotta: «Come diavolo fai a dire nulla con tante parole e a convincere nel medesimo tempo la gente che hai espresso qualcosa di molto profondo?» L’occhiataccia che ricevette in cambio lo fece desistere immediatamente da altri commenti. La lancetta lunga del suo Rolex riuscì a compiere quasi due giri completi prima che si accorgesse all’improvviso d’essere da solo. In lontananza, davanti a lui, scorse un gruppo di persone bighellonanti, registrando meccanicamente il senso di stanchezza e noia che esse emanavano. Il senso di vuoto inaspettato gli riportò alla mente la sua collega. «Carlotta?» Le sue parole si persero nel nulla. Si guardò attorno preoccupato e solo allora scorse la professoressa appoggiata allo stipite di una porta, alcune stanze indietro. Imbarazzato, ritornò sui suoi i e in quelle poche decine di metri si rese conto di quanto si fosse estraniato e quanta maleducazione avesse avuto nei confronti dell’amica. Il fatto che Caravaggio non lo entusiasmasse affatto, non poteva certo giustificarlo dal comportamento tenuto. «Carlotta, io…» «Zitto e ascolta!» La voce dell’anziana professoressa sembrava non avere tempo né età.

«Pensi veramente che per quasi due ore ti abbia ascoltato parlare di pennellate e di chiaroscuri, di un nuovo modo di presentare la realtà, di prospettive scenografiche e altre stupidaggini del genere, senza rendermi conto che tu non c’eri?» Il tono della sua voce sembrava galleggiare nell’aria. «Sono vecchia ma non ancora rimbambita! O pensi forse che abbia bisogno di te per farmi spiegare una tela?» «Ma io…» La voce di Michele si era ridotta a un soffio. «Zitto! Guarda e poi dimmi cosa vedi!» Al comando, Carlotta aveva fatto seguire un arco pericoloso a un ombrello di plastica trasparente, color violetto, che Michele non aveva assolutamente notato prima e che la donna aveva appena puntato risoluta verso una parete. «È un quadro…» Sussurrò Michele. «Deficiente! Certo che è un quadro! Siamo in un museo, non al mercato del pesce di Rialto!» Il tono della sua voce era notevolmente aumentato. «Che quadro è?» La voce di Michele aveva ripreso il consueto timbro professionale, anche se incrinato da un certo stupore. «E che cosa vedi?» Incalzò nuovamente Carlotta. Ora fu il turno di Michele di rivelare impazienza e disappunto. «Vedo Giuditta che taglia la testa a Oloferne e la vecchia serva che attende di poterla aiutare! Tecnicamente posso dirti che…»

«Tecnicamente?» Gli occhi nocciola dell’anziana signora erano virati pericolosamente verso una tonalità marrone scuro. «Tecnicamente! Ma non sai vedere proprio altro?» Michele a quel punto perse del tutto la pazienza e il senso d’imbarazzo precedente fu sostituito da una profonda irritazione. Che diavolo faceva lì, davanti a un quadro che non gli piaceva, a sentirsi criticato e giudicato da una vecchia zitella con stivali gialli ai piedi e un ridicolo ombrello in mano? Si girò determinato verso di lei voltando le spalle al quadro, ma la dura replica che si preparava a dare gli rimase bloccata in gola. Carlotta, con un gesto fluido e sicuro, gli aveva appoggiato il palmo della mano sulla pancia, appena sopra la cintura di coccodrillo. «Quando hai avuto il tuo ultimo vero orgasmo?» Si sentì chiedere. Le parole sembrarono penetrare nel suo ventre assieme alla pressione della mano, e quel contatto e l’intimità della domanda assolutamente fuori luogo lo disorientarono completamente. Guardò prima il dorso della mano della donna, sorprendendosi a osservare la miriade di rughe che la ricoprivano, mescolate al rapido guizzare di piccole vene azzurre, poi alzò lo sguardo verso gli occhi che aveva di fronte. Sembrava ora che un torrente d’oro fuso scorresse placido sotto le palpebre socchiuse. Sentì aumentare notevolmente la pressione della mano. «Questo è il punto del terzo chakra!» La voce aveva ora assunto lo stesso calore della lava presente negli occhi.

«Chakra?» Nel momento stesso in cui Michele udì il suono della propria voce, la spinta aumentò a dismisura e sentì il proprio corpo proiettato violentemente all’indietro. Contro il quadro! Quando urtò con le spalle la tela, il suo pensiero corse all’assurdità della catastrofe in atto: una donna impazzita, un capolavoro lacerato, l’altrettanto lacerante urlo della sirena dell’allarme che sarebbe immediatamente scattata accompagnata da un pesante bagaglio di sconcerto e di vergogna. I secondi avano veloci, ma lui non avvertiva nessun suono riempire lo spazio, mentre invece la sua caduta sembrava non avere fine. Continuò a cadere, avvolto in una nebbia sempre più densa, sino a che divenne solida sotto di lui. Con un certo sforzo si mise in ginocchio, il palmo delle mani sudate appoggiate su un freddo pavimento. La testa gli faceva male e una miriade di punti luminosi erano intenti a roteare impazziti dentro i suoi occhi. Allungò titubante una mano e avvertì sotto i polpastrelli quella che pareva una stoffa calda e ruvida. Con avidità si aggrappò a quell’unico contatto con la realtà, mentre i suoi occhi si stavano intanto abituando alla fioca luce circostante. Proprio sotto il suo naso riusciva ora a scorgere un paio di informi ciabatte di stoffa, di un colore sporco e indefinito, ma che poteva essere stato una volta un bel rosso vivo. Dall’odore, che s’infilò perfido dentro suo naso, comprese più che vedere che erano abitate da pesanti calzettoni, a loro volta un tempo sicuramente bianchi, che fasciavano caviglie ossute. Mentre il suo cervello realizzava che quello che stava stringendo nella mano era

l’orlo di un’ampia gonna di lana grezza, un oggetto scuro si spostò sopra alla sua testa e una lama di luce andò ad illuminare il volto rugoso e terrorizzato di una vecchia. Aveva la bocca aperta in un urlo silenzioso e un po’ di bava biancastra schiumava leggermente tra gli unici due denti sopravvissuti nelle gengive rossastre. Sotto una piccola cuffia, pochissimi capelli bianchi lasciavano intravedere una cute macchiata e lucida e, più sotto, occhi spalancati testimoniavano quello che era indubbiamente un vero istante di terrore. Qualcosa di denso cadde a colpire la sua mano e un liquido scuro gli s’infilò appiccicoso tra il polso e il cinturino dell’orologio. Michele non aveva mai avuto una simile esperienza prima d’allora, ma comprese immediatamente, senza margine d’errore, che si trattava di sangue. Tanto! Le mani della vecchia presero a tremare impazzite e il nero involucro che la donna teneva in grembo ondeggiò pericolosamente. Improvvisamente Michele vide aprirsi uno squarcio in quella massa scura e qualcosa ne sgusciò fuori cadendogli tra le braccia. Era un uomo! Gli ci volle qualche istante per realizzare che però mancava tutto il corpo. Tra le mani aveva solamente una testa tiepida che stava inconsciamente reggendo per la barba. Sconvolto, rimase pietrificato a guardare due occhi scuri che lo stavano fissando a loro volta, colmi di altrettanto orrore. Uno strillo acuto alle sue spalle lo fece voltare terrorizzato. Di fronte c’era ora una bellissima ragazza in un vestito giallo-ocra su cui spiccavano nitidamente alcune strisce nere.

Una leggera camiciola bianca era tesa su un seno bellissimo, grande e sodo, con i capezzoli così eretti che solo un’eccitazione violenta poteva aver provocato. Sul bellissimo volto, l’incredulità stava ora disegnando una miriade di piccoli movimenti incontrollati. Vide la ragazza portare il dorso della mano sinistra alla bocca e distinse i piccoli denti bianchissimi incidere con forza la tenera pelle vellutata. Un lampo di determinazione che saettò negli occhi della ragazza, lo mise però in allarme, permettendogli di notare il movimento del suo braccio destro, seminascosto dietro un drappo rosso. Un istante dopo, rapidissimo, arrivò il fendente. Se la ragazza non fosse stata così sconvolta, lui sarebbe sicuramente morto e la sua testa sarebbe rotolata a far compagnia a quella che nel frattempo gli era sfuggita di mano. Nella fretta del gesto, la punta della lama di una pesante spada che la donna teneva nascosta, si era impigliata nel tendaggio che pendeva dal soffitto e il colpo, così deviato, ottenne come unico effetto solo quello di provocare alcune scintille sul pavimento. Michele schizzò in piedi e con l’intento di mettere più oggetti possibili tra sé e quella lama assassina, cercò riparo oltre il letto che sembrava occupare tutto lo spazio alla sua sinistra. Incredulo, avvertì il suo piede destro impigliarsi nel grande lenzuolo macchiato di sangue e cadde a testa in avanti nel buio che aveva di fronte. Anche questa volta la caduta sembrò nuovamente eterna, ma l’atterraggio in compenso fu sicuramente più morbido e si ritrovò avviluppato in caldi panni che coprivano inutilmente candide gambe femminili. Confuso cercò di rialzarsi, ma l’unico risultato che ottenne fu quello di rivelare ulteriormente l’interno di una coscia pienotta e levigata. Scivolò malamente e il suo naso si arrestò a pochi centimetri dall’inguine indifeso della donna.

Un pungente odore di urina gli colpì l’olfatto, mescolato alla lieve fragranza del gelsomino. Istintivamente cercò di ricoprire la donna, ma la gonna giallo-ocra, solcata da una grande striscia nera che strinse nella mano, lo fece rabbrividire. Con un balzo fu in piedi, inseguito da un piccolo grido divertito, poi un drappo rosso gli cadde sulla testa, coprendogli del tutto la visuale. Con furia lo scagliò di lato, preparandosi nel contempo a difendersi strenuamente. La donna, invece, era rimasta seduta a terra, con le gambe allargate e con la gonna che non nascondeva ormai assolutamente più nulla della sua intimità. In mano reggeva una spada tagliente, ma faceva fatica anche solo a tenerla sollevata e la punta sembrava essersi sincronizzata sul dondolio dei suoi grossi seni, scossi da una risata senza freno. Un’imprecazione lo fece voltare. Da dietro una grande tela posata su un cavalletto da pittore, era nuovamente spuntata la testa tagliata di prima, con tanto di barba. Solo che ora non c’era tutto quel sangue e soprattutto era perfettamente attaccata a un corpo robusto, rivestito con un elegante abito di velluto. Posato vicino al cavalletto, il fodero vuoto di una spada. Michele sconvolto si mosse adagio, con le spalle ben appoggiate al muro della stanza, gli occhi puntati sui due sconosciuti mentre tentava di raggiungere una porta che aveva intravisto alla sua sinistra. Lo stupore che aveva coinvolto tutti quanti era palpabile e il tempo stesso sembrava aver rallentato la sua corsa, consentendo però ugualmente a Michele di avvicinarsi al suo obiettivo. Ma a pochi i dalla porta lanciò uno sguardo in direzione della tela, ora perfettamente visibile e il cuore gli si fermò.

Vivida, fresca e palpitante, “La decapitazione di Oloferne” era lì, davanti ai suoi occhi! Alcune parti del dipinto avevano ancora il pigmento bagnato e sembravano aspettare impazienti di ricongiungersi con il colore che gocciolava indifferente dal lungo pennello che il pittore stava tenendo in mano. Ora la Giuditta in carne ed ossa si era alzata in piedi e Michele poté osservare quanto simile fosse a quella del quadro; le uniche differenze erano le grosse borse sotto gli occhi, che la seconda non aveva e il colorito sano e abbronzato che solo la prima ostentava impudentemente. Michele tornò a osservare l’uomo e nella battaglia che ne seguì, tra il suo inconscio che non aveva dubbi e il suo cervello che si rifiutava di credere, vinse il suo raziocinio. Fu però una vittoria pagata a caro prezzo; le gambe incominciarono a tremargli e sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Si lanciò verso la porta spalancandola con violenza, oltre, solo un lungo corridoio buio. Senza pensarci si mise a correre con le mani protese in avanti, ma con tutto il resto del suo essere teso a sentire cosa stava accadendo dietro di lui. Ben presto rimase senza fiato e si appoggiò stremato contro la fredda parete del cunicolo. Solo dopo che sentì diminuire il rombo assillante dentro le orecchie e i polmoni smettere di bruciare; solo quando non udì infine più alcun rumore e capì di essere solo, completamente solo, allora pianse! Ci volle ancora molto tempo prima si raddrizzasse, ricominciando a tentoni ad andare avanti nel buio. Si trovò di fronte alla porta quasi senza accorgersene. Una piccola, massiccia porta di legno scuro, su cui spiccava una lucida maniglia di ottone finemente lavorato.

Lentamente Michele allungò la mano.

Capitolo 1°

La biondina in gondoeta l’altra sera gò menà… Non seppi mai se a svegliarmi fu l’incongruenza di quella musica tra le pareti di casa mia o il rumore di pentole proveniente dalla cucina. Sul corpo nudo avvertivo sia la morbidezza delle lenzuola sia il tepore della leggera coperta. Tesi l’orecchio verso i rumori provenienti dalla cucina che indicavano inconfondibilmente la presenza di Vanessa. Non fosse altro perché era l’unica che aveva le chiavi di casa mia. Avevo un vuoto nella testa e per quanto tentassi di sforzarmi non riuscivo a ricordare quand’ero tornato a casa, se ero rientrato con la mia fidanzata e soprattutto perché, a giudicare dal riflesso della luce che filtrava dagli “scuri” socchiusi, fossi ancora a letto in pieno pomeriggio. La cosa ridicola era comunque il canale su cui era sintonizzata la radio. Radio Vanessa era inconfondibile, ma era anche l’ultima stazione che la mia Vanessa potesse ascoltare. A parte la similitudine dei nomi, le due Vanesse erano diametralmente opposte, sia come scelte musicali sia come approcci culturali. Rimasi alcuni minuti ad ascoltare divertito il cicaleccio tra la conduttrice e un paio di casalinghe agguerrite, poi mi decisi finalmente ad alzarmi. Mi stiracchiai con calma scoprendomi stranamente indolenzito e, nudo com’ero, mi diressi incuriosito verso la cucina. «Gesummaria!!»

L’esclamazione della donna mi bloccò nel vano della porta. Il tono era sicuramente sensuale, solo che non proveniva dalla mia bionda fidanzata, ma dalla moracciona cinquantenne del piano di sotto. A dire il vero il termine “moracciona” era stato utilizzato da Vanessa nei riguardi della mia vicina, una delle prime volte che aveva cominciato a frequentare il mio appartamento. “Sarà meglio trovare presto una nuova casa”aveva detto “non mi va di lasciarti troppo vicino a quella moracciona strapazza uomini!” Il tono era scherzoso, quasi, e pensare che l’aveva incrociata solamente una volta per le scale. Ora la moracciona era lì, con in mano la padella antiaderente che utilizzavo per le frittate, un bel po’ della sua “quarta abbondante” messa in bella evidenza dalla camicetta sbottonata e un grembiule legato sulla vita rotondetta su cui spiccava una giallissima polenta fumante adagiata su un improbabile tagliere di legno. Ma soprattutto con due occhi nerissimi che puntavano scanzonati i miei attributi penzolanti. «Maria? Ma che…» Dalla mia gola improvvisamente secca non uscì altro. “La Maria” allungò un braccio e raccolse dalla spalliera di una sedia un accappatoio bianco. «Su, metta questo… l’ho appena stirato.» E con finto pudore e tanta calma, me lo porse. «Non dovrebbe comparire così all’improvviso davanti a una povera donna» disse ridendo, «una potrebbe spaventarsi.» Ero sicuro che per spaventare quella donna ci volesse ben altro e quindi domandai titubante:

«Maria, io non capisco proprio! Cosa ci fa lei a casa mia? Com’è entrata?» Sentivo nella mia voce una nota stonata, ma non ci feci troppo caso. «Io… pensavo fosse Vanessa!> L’espressione sul volto della donna mutò repentinamente, i suoi occhi divennero una fessura e la piega della bocca perse l’aria sensuale che l’aveva caratterizzata sino a qualche istante prima. «Povero caro! Deve essere stato un duro colpo per te! Vieni a sederti qui… ti faccio un caffè.» Il fatto che Maria fosse ata a quel tono confidenziale, da mamma, mi disorientò ancor più delle sue parole incomprensibili. Avvertii un gelo insinuarsi nello stomaco e senza rendermene conto crollai sulla sedia che la donna aveva spostato verso di me. Il mio volto doveva rispecchiare lo stupore più assoluto perchè, dopo una breve esitazione, le sentii dire: «Non ricordi nulla?» Mossi lentamente la testa. «Sei svenuto alle Fondamenta Nuove, vicino ai vaporetti… Per fortuna ti ha visto Bepi, il gondoliere, lui sa dove abiti… Che brutta faccia avevi quando sei arrivato! Io ero appena tornata da Rialto e avevo ancora in mano la borsa della spesa con i branzini… Hai tirato fuori le chiavi di casa, ma se non ti portavamo su noi, mica ci arrivavi da solo! Hai voluto che ti mettessimo sul letto…» Continuavo a non capire e non ricordavo assolutamente nulla di quello che la donna raccontava. Maria mi guardò dritto negli occhi. «Dopo quasi mezz’ora mi sono accorta di avere ancora le tue chiavi in tasca e sono tornata su per restituirtele, ho suonato, ma non hai aperto. Preoccupata, le ho utilizzate per entrare e ti ho trovato ancora addormentato, nella stessa

posizione in cui ti avevamo lasciato.» Ora il suo tono era leggermente mutato. «Bepi aveva detto che certamente dovevi aver bevuto parecchio e così ti ho lasciato dormire, ma ho tenuto le chiavi per precauzione.» Altra lunga pausa. «… Poi alla sera al telegiornale… che brutta cosa… allora ho capito che cosa avevi veramente… povero ragazzo… che duro colpo deve essere stato… così giovane e bella!» Una sensazione di gelo era scesa dal mio stomaco agli intestini e il desiderio di andare in bagno era esploso violentissimo, accompagnato da un’improvvisa sudorazione. «Questa mattina sono tornata su ed eri ancora steso sul letto, così ti ho spogliato e ti ho infilato sotto le lenzuola... Poi ho visto che c’erano delle cose da fare… Le camicie da stirare, i piatti nell’acquaio… In verità era che non me la sentivo di lasciarti solo, soprattutto dopo il colpo che hai avuto!» «Colpo?» Riuscii a sussurrare. «Ma sì! La signorina Vanessa… nella vasca da bagno… morta! Un omicidio assurdo!» Non riuscii più a resistere e mi scaraventai in bagno, ma giunto sulla tazza mi accorsi che i miei intestini si erano paralizzati; in compenso caddi in ginocchio e vomitai, a lungo, non ricordo cosa. Quando tornai in cucina Maria faceva finta di riordinare le posate. Notai che ora aveva la camicetta perfettamente abbottonata e sospettai, da una leggera sbavatura nera sotto l’occhio sinistro, che avesse pianto. Ostentava ora un’aria rassicurante da mamma che sostituiva in modo confortante quella sensuale di poco prima e sul tavolo, in bella vista, spiccava una fumante

tazza di camomilla. «Forse è meglio del caffè… bevila finché è calda!» Nella mia testa continuavano a roteare impazzite le parole “Vanessa”, “morta”, “vasca”, “omicidio”, ma qualche cosa all’interno del mio cervello non mi permetteva di accettarle e le lasciava girare a vuoto nelle orecchie. Nel medesimo tempo, però, sentivo con altrettanta sicurezza che quelle stesse parole si erano già consolidate, con tutta la loro agghiacciante verità, nella parte più intima e riservata della mia anima. Il trillo del camlo della porta mi fece sobbalzare e solo in quel momento mi resi conto del silenzio pesante che aleggiava nell’appartamento. Maria doveva aver spento la radio da parecchio tempo, ma io non l’avevo notato. Le lanciai un’occhiata di ringraziamento, ma lei fraintese e si mosse per andare ad aprire la porta. Mi alzai di scatto, bloccandola per un braccio. «Lascia stare, scusa! Vado io!» Gli ultimi i verso la porta li percorsi con il cuore in gola e con la certezza che aprendola avrei trovato fuori Vanessa intenta a rovistare come suo solito nella borsetta, alla ricerca delle sue chiavi, mentre scuoteva esasperata i lunghi capelli biondi. La spalancai. Gli occhi erano azzurri, ma sopra ad essi vi era un grande cappello nero con un’evidente fiamma argentea nel mezzo. «Carabinieri! Il signor Barovier Michele?»

Capitolo 2°

Erano due ore che ripetevo le stesse cose. Mi ero scolato quasi un quarto dell’ultima bottiglia di Jack Daniels rimasta in casa e avevo rovistato sicuramente mezza dozzina di volte nel freezer a caccia di cubetti di ghiaccio. Avevo ricacciato con fermezza le incalzanti tentazioni di accendermi una sigaretta ed ero andato in bagno almeno altre tre volte. Loro invece lì, fermi, seduti composti sul mio divano, a guardarmi amichevolmente. O meglio, il loro sorriso era amichevole, gli occhi no! Non mi mollavano un attimo e controllavano ogni mio gesto, ogni mia espressione, ma di Vanessa e di quello che era successo garantivano di non saperne nulla, a parte il fatto che era stata trovata morta a casa sua. «Un’ultima volta, sia cortese signor Barovier, può ripeterci cos’ha fatto martedì pomeriggio?» “Occhi azzurri”, che per quanto riuscivo a ricordare, era stato sino ad allora l’unico dei due carabinieri a parlare, si era prima identificato con estrema professionalità per poi presentarmi il suo collega, il quale si era limitato a un semplice “Buon giorno!” Poi era rimasto in assoluto silenzio, le labbra serrate in un sorriso formale, gli occhi mobilissimi. «Ve lo ripeto per l’ultima volta, non lo so! I miei ricordi si fermano a martedì mattina. Ricordo solo che mi stavo preparando per andare a una mostra al museo Correr, c’era l’acqua alta, poi più nulla! Mi sono risvegliato nel mio letto oggi pomeriggio e la mia vicina asserisce che mi hanno trovato svenuto vicino

all’imbarcadero di Fondamenta Nuove, ma non so se è vero. Non ricordo!» Ormai avevo la bocca impastata dall’alcol e mi resi conto che sicuramente mi avevano lasciato bere apposta per allentare le mie difese; ma come potevo raccontargli di Carlotta, del tuffo dentro il quadro, della testa grondante sangue e soprattutto degli occhi pieni di stupore di Caravaggio con il pennello ancora in mano? Per non parlare poi delle morbide cosce della modella o di quella meravigliosa creatura dalla pelle di drago. Come potevo spiegare loro immagini che erano affiorate a poco a poco alla mia mente? Ricordi nati prima come frutto di un incubo, poi a mano a mano che si facevano più nitidi e precisi, assurdi nella crescente consapevolezza che potessero corrispondere alla realtà, ad un’incredibile realtà? Sollevai il bicchiere per l’ennesimo sorso di whisky. Il liquido ambrato nel bicchiere mi rimandò l’immagine riflessa del mio occhio e vi lessi tutta l’angoscia del mondo. Una domanda sembrava galleggiare nel liquore, gelata come i cubetti di ghiaccio in cui era immersa: quelle immagini e quei ricordi erano reali? Facevano parte della realtà comune? Quella realtà dove io e i miei amici vivevamo e dove lavoravano i due carabinieri seduti sul mio divano? La realtà dove Vanessa mi baciava ridendo, o era invece l’altrettanto tangibile mondo della pazzia? «Signor Barovier...» La voce di “occhi azzurri” era ancora calma, le pupille invece incominciavano a virare verso un minaccioso blu scuro. «Siamo venuti a parlare con lei, a casa sua, su espressa richiesta del capitano Redaelli… è veramente sicuro di non avere altro da dirci?»

Un leggero tamburellio alla porta mi risparmiò la risposta e “occhi azzurri” accennò un rapido ordine al collega, che si affrettò ad andare ad aprire. Più che vederlo, intuii il saluto militare che eseguiva, poiché i miei occhi, ormai notevolmente appannati, erano puntati solo sul capitano Redaelli che stava entrando con aria divertita. Avvertii con sollievo che era ancora un amico. «Marco!! Dio sia ringraziato!!» Ormai ero alla disperazione e lui se ne accorse bene. «Potevi dirlo subito che martedì eri all’inaugurazione della mostra di Caravaggio! Deficiente!» Il suo tono, mentre mi lanciava una copia del Gazzettino ripiegata alla pagina culturale, era quello di un fratello maggiore. In mezzo al foglio una grande fotografia dell’assessore Visentin e del sindaco con alle loro spalle il manifesto della mostra del Caravaggio. Nell’angolo a destra, di profilo, c’ero io che mi guardavo i piedi. A un secondo esame notai che proprio all’altezza del mio bacino spuntava la punta di un ombrello. Così mi vidi ritratto in piena pagina del Gazzettino, alle spalle del sindaco, immortalato nella posizione esatta di chi sembra urinare sulle scarpe di un cameriere. Nonostante il fatto che la fotografia fosse in bianco e nero, sapevo benissimo che l’ombrello era di color viola. Scossi la testa e mi lanciai ansioso in una veloce lettura dell’articolo sottostante. Nulla! Nulla a riguardo di tele rovinate, capolavori distrutti o insegnanti di liceo, con relativa discendenza, indebitati a vita.

Sollevai lo sguardo con sollievo. Tre paia di occhi mi guardavano stupiti e provai una gioia profonda nel sentirmi nuovamente partecipe del loro mondo, della mia consueta realtà quotidiana. Ma subito, con maligna rapidità, un dubbio m’inchiodò nuovamente alla poltrona. Pazzia? «Hai corso il rischio di are un guaio serio, credimi!» Ora il tono di Marco era tornato normale, ma s’intuiva un’apprensione a malapena celata. «Se non avessero pubblicato quella fotografia a quest’ora saresti già in caserma, se non addirittura davanti a un magistrato.» Il timbro era professionale, privo d’inflessioni. «Marco ti prego! Dimmi cosa è successo.» La mia disperazione ormai rasentava il panico. L’ufficiale fece un rapido cenno ai suoi uomini che, dopo avermi lanciato un’occhiata preoccupata uscirono, ma non prima che “occhi azzurri” si voltasse ancora una volta a scrutarmi, scuotendo lentamente la testa. «Come ben saprai, il palazzo dove… abitava Vanessa...» Quelle leggere pause e il verbo al ato furono un macigno. «E uno dei pochi a Venezia ad avere un custode e ieri pomeriggio verso le diciotto, l’uomo ha ricevuto la telefonata di un vicino che si lamentava per la musica troppo alta proveniente dall’appartamento della ragazza.» Marco non staccava gli occhi dai miei. «Lui personalmente non aveva udito nulla, ma per scrupolo salì ugualmente per controllare ed effettivamente, accostandosi alla porta, percepì della musica all’interno dell’appartamento. Classica, sembra, ma il volume era contenuto, per

nulla fastidioso. Seccato per l’imbecillità della telefonata, stava già per ritornare alla sua guardiola quando si accorse di un rivoletto d’acqua che aveva incominciato a filtrare da sotto la porta.» Il capitano continuò a parlarmi con calma, raccontando di come il custode allarmato avesse suonato il camlo, ma non ricevendo alcuna risposta, si fosse preoccupato seriamente. La sua prima idea, basata una possibile rottura della conduttura dell’acqua, s’era tramutata presto nell’ipotesi di un possibile malore nel momento in cui s’accorse di non aver notato la signorina Dalla Vigna uscire quel giorno. Non udendo altri rumori provenire dall’appartamento e constatando che la blindatura della porta sembrava decisamente solida, si era deciso infine a chiamare i vigili del fuoco. «Vuoi veramente che vada avanti? Ti avverto che il seguito non è per nulla piacevole!» Avvertii l’amico dietro quelle parole e annuii senza staccare gli occhi dai suoi. «Trovarono Vanessa in bagno… immersa nella vasca… con la gola tagliata!» Ero talmente allibito che non mi accorsi di come aveva spezzettato la frase e della luce strana che era aleggiata nei suoi occhi mentre la pronunciava. Mi alzai con un senso di vertigine dirigendomi verso il tavolino dei liquori, voltai due grossi bicchieri di cristallo e vi versai dentro quanto restava del Jack Daniels. Sapevo vagamente di avere già un bicchiere da qualche altra parte, ma non mi andava di cercarlo. Presi i bicchieri e ne porsi uno a Marco. Lo vidi esitare e compresi. «Sei in servizio?» Domandai cauto.

Marco mi fissò a lungo, poi vidi nei suoi occhi consolidarsi una decisione, mentre i suoi lineamenti si rilassavano in un leggero sorriso. Infine tese la mano mormorando: «Ora non più!»

Capitolo 3°

Rimasi in casa per tre giorni filati, la porta sprangata e sulla segreteria telefonica il laconico messaggio: “Buongiorno! Purtroppo sono momentaneamente impegnato. Lasciate il vostro nome e il motivo della chiamata, appena possibile vi richiamerò io”. Feci un’unica telefonata, alla scuola, per darmi malato. Eravamo in pieno periodo di esami per la maturità e sapevo che avrebbero dovuto trovare urgentemente un sostituto. La segretaria fu troppo gentile, ma non me la presi, anche lei doveva aver sentito il notiziario alla televisione. Il resto del tempo lo ai davanti al televisore a guardare il nulla. Decisi di uscire che ancora albeggiava. Avevo bisogno di respirare, di camminare; ma nel medesimo tempo non volevo vedere nessuno, non avevo voglia di rispondere al saluto del giornalaio o sopportare lo sguardo già normalmente indisponente del solito barista. Volevo solo essere nessuno in un mondo di estranei. Mi ritrovai, senza averlo programmato, di fronte al pontile da cui partivano le motonavi per il Lido. Notai che stava per lasciare gli ormeggi una corsa che proseguiva poi per Punta Sabbioni e per Burano e decisi che poteva andare bene. Mi sedetti a prua, sulla prima panchina. Di fronte avevo solo l’acqua fredda, dietro tutto il resto, e meccanicamente ripensai a Marco e a come c’eravamo conosciuti.

Mi ero appena iscritto all’Accademia di Belle Arti e avevo affittato da poco il mio primo appartamento. O più precisamente io pagavo l’affitto, ma i locali, sempre a volerli giudicare con magnanimità tali, appartenevano in realtà a un imprecisato numero d’individui, di sesso, colore e religione altrettanto vaghi. Un microcosmo unito solo dalla medesima, unica e incrollabile incapacità di sapere cosa si voleva veramente dalla vita e da tante ma concrete “canne” rollate con estrema competenza. In quel periodo, quando Venezia diventava stretta e noi ci si sentivamo troppo “isolani”, venivamo irrimediabilmente presi dalla paranoia di essere di serie “B”… allora si andava a Bologna. Avevo acquistato in multiproprietà una vecchia Land Rover di tipo militare, con starter a pedale ma dotata in compenso di una robusta e micidiale manovella per metterla in moto in caso di emergenza. O forse sarebbe meglio dire “di regolare e costante emergenza”. Ricordo ancora con angoscia che il volume dell’aria che entrava nell’abitacolo, ando da tutti gli spifferi, era solo paragonabile al volume della benzina che usciva in modo esponenziale dai due serbatoi gemelli collegati tra loro. Una notte, tornando appunto da una di queste scorribande bolognesi, fui fermato da una pattuglia di carabinieri a un posto di blocco. Non ricordo il perché ma ero solo ed era tardi. Inoltre, la stanchezza unita al timore inconscio che le divise sanno provocare, sovralimentata dal Sangiovese allegramente ingurgitato nella cena precedente, doveva aver messo sulla mia faccia un’espressione decisamente particolare. E tutto si era svolto come in un film. Il giovane carabiniere che avanza con la mitraglietta a tracolla. Il saluto formale con la mano alla tesa del cappello.

Il ragazzotto alla guida, aria strafottente ma occhi impauriti che abbassa velocemente il finestrino della Jeep. Il militare che allunga il braccio chiedendo i documenti, mentre il suo sguardo a dal viso del conducente al mollettone porta-fucile avvitato saldamente sul cruscotto. Ebbene sì! Quella stupida auto da safari aveva ancora in dotazione i ganci metallici predisposti per collocarvi il fucile del cacciatore. Infilato nel mollettone, bene in vista, il o per il potente teleobiettivo della mia macchina fotografica, con tanto d’impugnatura, grilletto e appoggia-spalla. Se non fosse stato per la mancanza della parte superiore e della canna, il tutto era notevolmente simile alla mitraglietta impugnata dal carabiniere. Specie a quell’ora di notte. La reazione fu immediata. Contemporaneamente a un repentino balzo all’indietro, il militare aveva alzato la mitraglietta urlando e una luce accecante aveva spaccato istantaneamente il parabrezza. In quell’attimo avevo saputo cos’era il terrore. Non quello provocato dalla canna puntata del mitra o dalla situazione incontrollabile, ma quello scatenato dagli occhi pieni di paura del giovane carabiniere. Se io ero terrorizzato, lui lo era molto di più. Quando ero uscito dalla caserma era ormai mattina, quasi come ora e ricordavo l’aria fredda, stranamente piacevole e confortante. Appoggiato a una macchina, un ragazzo in jeans che quando mi vide si raddrizzò e mi venne incontro.

Lo osservai mettere le mani impacciate in tasca, mentre mormorava: «Marco!» Rividi gli occhi di chi era stato a un o dall’uccidermi e lui probabilmente rivide a sua volta, il viso stanco di chi per pochi secondi non si era trasformato in un incubo incancellabile. All’angolo c’era un bar e andammo a far colazione; quando uscimmo, non lo sapevamo ancora, ma avevamo trovato tutt’e due un amico. Poi io avevo incontrato Vanessa, mentre lui era stato trasferito su sua richiesta a Roma presso il “Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale” e quando dopo la laurea, avevo incominciato a insegnare Storia dell’Arte, Marco mi aveva fatto inserire nell’elenco dei consulenti esterni. Così capitava a volte di lavorare assieme.

La motonave nel frattempo, aveva quasi raggiunto la punta del forte di Sant’Andrea e ora di fronte avevo l’ampia imboccatura di porto, mentre l’aria si faceva sempre più forte e fresca. I ricordi mi arrivavano a ondate confuse, senza un senso logico o un filo conduttore. Cercai di rilassarmi e li lasciai fluire senza opporre ostacoli. «Vanessa, anche se non lo sbandierava in giro, era la nipote di un conosciuto senatore della Repubblica…» Potevo sentire la voce di Marco come se fosse ancora di fronte a me. «… e quindi, subito dopo il ritrovamento, le indagini hanno immediatamente preso una connotazione di urgenza e parecchi pezzi grossi sono stati scomodati senza tante cerimonie. Ma è stato solo grazie all’intuito di un giovane sott’ufficiale che stava osservando le fotografie scattate sulla scena del crimine, che si sono accorti del messaggio. Una rapida ricerca su internet e gli investigatori si sono trovati di fronte a un’incredibile rivelazione: la fotografia

della ragazza immersa nella vasca da bagno, era terribilmente analoga alla scena del quadro di David “La morte di Marat”.» Seppi così che, una volta scartata la casualità della similitudine, si era pensato di informare anche la sezione patrimonio culturale e le fotografie erano apparse sul monitor situato sulla scrivania del capitano Marco Redaelli. Quello che Marco non aveva detto, ma che intuii benissimo, era che a Venezia la pressione sul caso era arrivata immediatamente alle stelle e che il poter scaricare parte delle responsabilità delle indagini sul nucleo romano era stato per molti un grosso sospiro di sollievo.

Un “cofano”, lanciato a tutta velocità, dopo aver picchiato duramente la prua su un’onda più grossa delle altre sembrò schizzare letteralmente fuori dall’acqua. Seguii l’evoluzione dell’imbarcazione con lo sguardo, curioso di vedere come avrebbe fatto a recuperare l’assetto, ma vidi invece al suo posto Vanessa, immersa nella vasca da bagno, appoggiata a un lenzuolo bianco su cui spiccavano le pieghe della stiratura. Maledette foto! Ero riuscito a convincere Marco a farmi vedere alcune delle istantanee scattate sul luogo del delitto solo dopo ripetute ed estenuanti insistenze e sinceramente ora rimpiangevo la mia scelta. La testimonianza dell’assessore Visentin sulla mia presenza alla mostra di Caravaggio, comprovata dalla fotografia sul Gazzettino, mi aveva scagionato completamente da qualsiasi collegamento con l’omicidio e, anche se per tutti ero ormai solo “il fidanzato distrutto dal dolore”, ero ugualmente troppo coinvolto per poter far valere la mia qualifica di collaboratore e partecipare attivamente alle indagini. Mi riconcentrai ugualmente con sadico autolesionismo su quello che ricordavo delle fotografie. Il braccio destro di Vanessa penzolante fuori dal bordo della vasca.

Tra le dita esangui la Mont Blanc nera che gli aveva regalato suo padre il Natale precedente, mentre sulle sue gambe galleggiava invece il mio accappatoio verde di spugna, imbevuto di acqua rossastra. A fianco della vasca un tavolinetto in arte povera che ricordavo situato in ingresso e sul quale lei aveva l’abitudine di appoggiare la borsa quando rincasava. A terra l’antiquato rasoio da barbiere, con il manico di madreperla, con cui era stata uccisa. Nell’altra mano, per metà sommerso sott’acqua, un foglio bianco su cui si poteva intravedere, sbavato e quasi illeggibile, il mio nome scritto con l’inchiostro blu della stilografica…

La barca ora aveva virato e stava iniziando una planata spettacolare. Nero, rosso! Il sangue doveva essere rosso, ma sulle fotografie, nonostante fossero a colori, appariva nero e senza luce. Mi accorsi che avevo osservato quelle immagini senza vederle nel suo insieme, notando solamente i particolari, le sfumature; ma ora improvvisamente mi si erano ripresentate nella loro agghiacciante interezza, immobili e prepotenti davanti ai miei occhi. E Vanessa era lì, bianca, nuda, con il turbante altrettanto candido sulla testa. Morta! Quante volte le avevo visto fare il gesto rapido ed efficiente con cui, come per miracolo, l’asciugamano si trasformava in una struttura portante di pieghe perfette. Tutte le volte mi sorprendevo a pensare che non serviva a contenerle i capelli, ma solo a evidenziare meravigliosamente il suo collo lungo ed elegante, la gola da baciare. Più di una volta eravamo partiti da lì.

Ora di elegante, quella gola non aveva più nulla. Una linea netta la divideva in due. In alto, un biancore cereo la faceva confondere con il mento e le guance; in basso invece,quella meravigliosa gola era invasa dal sangue che era colato a sporcarle i seni grandi, caldi… Improvvisamente mi resi conto che di calore quel corpo non ne aveva più e con le lacrime che mi pungevano gli occhi odiai! Per la prima volta in vita mia sentii di poter odiare in modo feroce chi le aveva rubato quel tepore che le apparteneva di diritto e che io avvertivo ancora addosso. Nel frattempo la motonave aveva attraccato a Punta Sabbioni e distrattamente stavo fissando i pochi eggeri che stavano scendendo e la notevole folla di turisti che attendevano invece di potersi imbarcare. Li guardai salire lentamente, mentre osservavo sui loro volti da vacanza la voglia di divertirsi. A mano a mano che la fila si assottigliava, avvertivo però che anche le mie idee si stavano esaurendo e guardando l’imbarcadero ormai vuoto mi resi conto dell’abisso che avevo dentro. Ero a un punto morto. Nessuna idea sulla morte di Vanessa e il buio assoluto riguardo a quello che era capitato a me. All’improvviso non ebbi più voglia di lasciarmi portare da nessuna parte, né dalla motonave, né dagli eventi e né tanto meno da una moltitudine di carabinieri invadenti. Mi lanciai come un matto verso il portellone d’imbarco e proprio mentre il marinaio aveva quasi terminato di chiuderlo, gli scivolai di lato. Con un balzo fui fuori, mentre distintamente udii infrangersi sulla mia schiena un’espressione dialettale per nulla simpatica.

Con un cenno della mano cercai di scusarmi, ma stavo già correndo verso l’imbarcadero accanto da dove stava per salpare un’altra motonave, solo che questa mi avrebbe riportato a Venezia. Mi sedetti nuovamente a prua, ma questa volta avrei voluto poter far navigare la nave più in fretta, le orecchie tese al rumore sordo dei motori che giravano nel ventre dello scafo. Carlotta! Dovevo vederla! Parlarle! E affrontando lei, confrontarmi con le mie paure e con l’ignoto che mi terrorizzava. Non potevo continuare ad arrovellarmi nelle incertezze e nei dubbi, dovevo sapere con esattezza cosa era successo quel giorno alla mostra di Caravaggio!

Capitolo 4°

-Jimbutas Carlotta - La piccola targa in ottone, con sopra il nome inciso in nitidi caratteri, luccicava al sole di mezzogiorno. Mi soffermai ad ammirare l’eleganza della fattura, aveva l’aria d’essere molto antica e l’artigiano che l’aveva realizzata era stato indubbiamente abile. Non c’era il camlo ma un anello, anch’esso in ottone, da tirare con forza. A Venezia si scorgono sovente ai lati delle porte marchingegni di questo tipo, dove un sistema di tiranti fa tintinnare una camla direttamente all’interno della casa. La maggior parte hanno ormai soltanto una funzione ornamentale, ma quello che avevo di fronte aveva invece l’aria di essere perfettamente efficiente e frequentemente utilizzato. Mentre lo azionavo con prudenza, mi soffermai a considerare che nonostante avessi sentito pronunciare più volte il cognome straniero della mia collega, solo ora, vedendolo scritto su quella bellissima targa, mi accorgevo di non saperne esattamente le origini. Il portone di legno intarsiato si aprì con un leggero scatto. Entrai. Un magnifico giardino mi accolse in un insieme di colori e di profumi e una volta in più potei constatare come Venezia fosse strana e meravigliosa. Girando per le calli potevi vedere mura colorate, ponti, canali, palazzi, ma solo se ti capitava l’occasione di osservare una panoramica aerea restavi sbalordito dalla quantità di verde che la inondava, rinchiuso in centinaia di giardini segreti.

E questo era sicuramente uno di quelli, stupendo, con un’autentica vera da pozzo al centro. Avvicinandomi ammirato mi accorsi del suo perfetto stato di conservazione, ma la cosa che mi stupì maggiormente fu la stella a cinque punte in massiccio ferro battuto, che costituiva il suo coperchio. Durante il periodo della peste, i veneziani chio per precauzione le vere da pozzo con pesanti lastre di ferro, coperchi che ancora oggi sono il sedile preferito dei bambini quando giocano nei campi, nonché stupende lavagne per i loro gessetti colorati. Qui invece non si trattava di un coperchio completo, ma solo dell’intrecciarsi di robuste sbarre di ferro a formare una figura geometrica perfetta, con al suo centro lo spazio sufficiente per far are un piccolo secchio di legno sospeso a una carrucola. Incominciai a realizzare che il giardino doveva essere molto più ampio di quanto avessi in un primo momento immaginato quando poco più avanti mi trovai di fronte a un piccolo crocevia. Di fronte avevo ora l’imponente ingresso di una grande casa, mentre a sinistra, dopo una ventina di metri, un cancello era posto a delimitazione dell’ingresso acqueo e lasciava intravedere un piccolo “sandalo” ormeggiato alle classiche paline di legno verniciato. Sulla destra invece s’intravvedeva una piccola serra, con ampie vetrate sorrette da un’intelaiatura di ferro battuto in chiaro stile liberty. A lato del sentiero, una stupenda statuetta di marmo raffigurante Ecante. Avevo intuito più di una volta che il bagaglio culturale di Carlotta era di gran lunga più approfondito e solido del normale standard di docenza, ma non ero certo preparato a trovare nel suo giardino una bellissima statua della Dea dei crocicchi, la Dea Trivia, la Triplice. Stavo ancora osservando le perfette forme della dea, nelle sue fattezze di giovane, di madre e di vecchia, quando la porta della casa si aprì e apparve sulla soglia un’anziana signora.

Un casco di lunghi riccioli bianchi, un accappatoio immacolato strettamente allacciato in vita e ai piedi un paio di Nike, altrettanto candide. Osservando quel bel volto sconosciuto fui preso da un dubbio e tutto a un tratto mi resi conto che quella casa e quel giardino non potevano certamente appartenere a una modesta insegnante di liceo e che dovevo quindi aver fatto un errore nel cercare l’indirizzo. «Desidera giovanotto?» Il tono era dolce, ma non mite. «Scusi signora, devo aver fatto un errore, cercavo la signora Jimbutas». «E allora mi ha trovato! Io sono la signora Jimbutas.» Il tono era divertito. «Lilith Jimbutas!» La confusione doveva essere stampata sul mio volto. «Io… cercavo Carlotta… Carlotta Jimbutas.» «Ah!! Mia sorella Carlotta! Perché non l’ha detto subito!» Sul suo volto il sorriso era diventato identico a quello che poteva esibire un gatto verso un topo. «Venga dentro… la chiamo subito! Stavamo facendo un po’ di yoga, sa, alla nostra età bisogna pur tenersi un pochino in forma!» La vidi sparire con la stessa rapidità con cui era apparsa e per un momento mi chiesi se fosse veramente reale, poi udii distintamente la sua voce squillante: «Carlotta! C’è qui un bel giovanotto che ti cerca!» Mi feci coraggio e varcai la soglia d’ingresso, ritrovandomi in un piccolo atrio ricoperto da pannelli di legno scuro. In un angolo, un tavolino rotondo a tre gambe con sopra una grande ciotola di

legno, spiccava per il fatto di essere l’unico elemento d’arredo. andoci accanto vidi che la ciotola era piena di chiavi di varie misure e forme ed alcune dovevano essere vecchissime. Seguendo la voce mi ritrovai in un grande salone rotondo, dal soffitto altissimo, morbidamente illuminato dalla luce proveniente da tre grandi porte–finestre impreziosite da stupendi vetri alla veneziana. Un insieme equilibrato di tondi di vetro coloratissimo, molati a mano e tenuti assieme da una perfetta intelaiatura di piombo. Tre enormi divani di pelle nera si fronteggiavano invece attorno a un grande e bassissimo tavolo di pietra, anch’esso perfettamente rotondo, collocato esattamente al centro del pavimento di marmo lucidissimo. In alto invece una grande balconata di legno correva tutto attorno alla stanza. Avanzai fin quasi a toccare il tavolo e notai che sul ripiano era stato realizzato un mosaico raffigurante una grande luna argentata su un fondo blu cobalto, con a lato altre due piccole mezzelune. Alzai istintivamente la testa verso il soffitto e stupefatto vi vidi affrescato un ampio cielo blu scuro, disseminato di stelle dorate raffiguranti l’Orsa Maggiore. «Ti aspettavo! Mi stavo giusto chiedendo quando saresti venuto!» La voce familiare di Carlotta cadde dall’alto, riportandomi alla realtà. La cercai con gli occhi. Dal mio punto di osservazione, potevo notare che sulla balconata si affacciavano quattro porte, posizionate verso i punti cardinali, ognuna con il proprio simbolo dipinto sopra. Una di queste era aperta e appoggiata allo stipite la mia collega mi stava fissando con aria divertita. «Mettiti comodo… vengo giù subito.»

La voce cadde dall’alto, mentre lei scompariva all’interno della stanza. «Una tisana? Questa fa benissimo per i raffreddori!» Mi voltai di scatto e vidi Lilith arrivare di gran carriera tenendo in mano un vassoio d’argento colmo di tazzine, zuccheriere, caraffe, piattini e biscotti. «Veramente siamo a metà giugno e fa caldo!» Obbiettai. La vidi bloccarsi di colpo pensierosa, poi scrollando le spalle ritornò tranquillamente sui suoi i. «Forse hai ragione… vado a vedere se trovo una bottiglia di limoncello ghiacciato!» «Non farci caso, è solo un po’ eccentrica!» Carlotta era comparsa silenziosa alle mie spalle. «A volte fa fatica a ricordarsi dove si trova, sai, a furia di viaggiare.» Le ultime parole sembravano dirette più a se stessa che a darmi una vera e propria spiegazione. Si lasciò sprofondare con un sospiro su uno dei divani e solo allora notai che sembrasse indossare unicamente un leggero kimono di seta bianca sulla pelle abbronzata. Il suo atteggiamento e le movenze erano più simili a quelle che mi sarei aspettato da una giovane ragazza, piuttosto che a quelle dell’anziana professoressa che conoscevo e se non fosse stato per le rughe che ne disegnavano il volto e segnavano il dorso delle sue mani, potevo pensare di avere di fronte un’autentica bellezza. Mi resi conto improvvisamente che doveva esserlo stata veramente e con mio stupore provai rammarico per non averla conosciuta nel pieno del suo splendore, sorprendendomi a immaginarmi nella stessa stanza, con tutti quei divani e Carlotta trent’anni più giovane.

«Ehi! Dongiovanni!!» Il tono era tra il divertito e il lusingato. La guardai arrossendo, imbarazzato che lei potesse assurdamente aver letto i miei pensieri. «Scusa?» «Lascia perdere!» Il timbro della voce era tornato normale, anche se i suoi occhi continuarono però a sorridere ironici. «Dimmi piuttosto… com’è andato il viaggio?» Una morsa sembrò stringermi improvvisamente il torace. Lei sapeva! E se ne parlava così tranquillamente non poteva trattarsi solo di un mio incubo personale. Come un naufrago che si aggrappa all’ultimo relitto galleggiante, per quanto piccolo, così io tentai di mantenere un’imibilità che risultò ridicola. «Viaggio? Non capisco…» «Ma sì! Il viaggio dentro al quadro, da Merisi!» Il suo volto aveva preso un’espressione di ansiosa curiosità. «Raccontami!» Ci furono alcuni istanti di silenzio, poi di fronte ai miei occhi sbarrati assunse la tipica espressione che si usa quando si spiega qualcosa a un bambino. «Hai fatto un viaggio, sei stato in un’altra dimensione… avrai ben sentito parlare dei mondi paralleli, no?» Non staccò gli occhi dal mio viso neppure per un istante.

«Il quadro è una porta… è uno di quei punti di contatto che uniscono un universo all’altro.» Ero sbalordito! Se fino allora avevo pensato di essere io quello in procinto di impazzire, ora ero di fronte a una che lo era per davvero. Senza rendermene conto tenevo le mani chiuse a pugno nelle tasche della giacca e nella sinistra stringevo le chiavi di casa il cui lato seghettato mi stava lacerando leggermente il palmo. Avvertii la forma del portachiavi che le teneva unite, una piccola piramide d’argento che Vanessa mi aveva regalato per un mio compleanno. Il suo ricordo mi riempì gli occhi di lacrime, ma nel medesimo tempo mi trovai colmo anche della sua sicurezza e del suo raziocinio. Questa nuova linearità mentale mi permise di osservare le cose com’erano veramente e di fronte vedi solamente una donna ormai vecchia, ridicola in una vestaglia che sembrava non appartenergli, con rughe profonde che le partivano dalla gola per andare ad insinuarsi profonde nel solco dei seni pesanti, troppo impietosamente esposti. Mi alzai lentamente, con calma. L’unica cosa che volevo in quel momento era la possibilità di andarmene da quella casa per respirare liberamente. Ci fu uno schiocco secco, come quelli provocati dalle fruste, e una delle tre grandi porte-finestra si spalancò sotto l’azione di una spinta violenta. Esattamente al suo centro apparve una strana figura, con alle spalle un cielo oscuro, solcato da minacciose nuvole grigie che ruotavano vorticosamente, rendendo l’immobilità dell’uomo ancora più inquietante e pericolosa. La figura alzò il braccio destro nella mia direzione e sentii il mio cuore rallentare di colpo, mentre un freddo sudore incominciò a scorrermi lungo la schiena e poi giù per le gambe.

Non respiravo più. L’uomo era in ombra e di lui distinguevo solo il luccichio freddo degli occhi, eppure ero sicuro di averlo già visto. Caddi in ginocchio, la mano destra contratta sulla gola. Stavo per morire! Lo sentivo! Il mio cuore perse rapidamente colpi e ogni battito sembrava dovesse essere l’ultimo, poi invece inaspettatamente ne arrivava un altro, solitario. Nella mia mano sinistra, protesa verso il mio carnefice, la piccola piramide d’argento sembrava incandescente. Mi resi conto all’improvviso che l’ennesimo battito non era più arrivato e mentre il buio incominciava ad avvolgermi, aspettai la fine. Arrivò invece un potente calcio alla mia mano protesa, che proiettò con forza il ciondolo contro il muro. Immediatamente ricominciai a respirare, ma l’aria entrava prepotente bruciando i miei polmoni e facendomi girare la testa. L’uomo fece un gesto di stizza, accompagnato da un suono rauco, poi vidi distintamente Carlotta, le braccia alzate, frapporsi tra le nostre due figure. Un istante dopo, un lampo accecante sembrò avvolgerla completamente, mentre i vetri delle finestre tintinnavano paurosamente. Osservai allibito il kimono bianco afflosciarsi lentamente e mi ritrovai a fissare un fagotto di seta candida da cui spuntava il volto esausto della mia collega, gli occhi simili a due globi bianchi, opachi. Le vidi muovere la bocca, da dove usciva, con estrema fatica, un leggero rantolo. Mi chinai angosciato verso le sue labbra secche, fin quasi a sfiorarle, cercando di coglierne un tenue mormorio: «I draghi! Cerca i draghi!»

L’uomo era intanto avanzato di qualche o, facendo divenire la sua figura ancor più maestosa e imponente. Ora potevo osservarlo distintamente in volto e ne rimasi affascinato. Era un viso perfetto, senza difetti, ma proprio per questo poteva essere paradossalmente il volto di chiunque. Non aveva personalità o forse le racchiudeva tutte. Lo vidi alzare nuovamente la mano verso di me, maestoso e terribile, ma contemporaneamente al suo gesto, una nenia invase l’aria. Con fatica voltai il capo verso l’origine di quella strana musica. Lilith era in piedi alle mie spalle, il braccio sinistro teso in avanti. Come fosse stato un naturale prolungamento del suo braccio, un lungo coltello dalla doppia lama, con il manico completamente nero, era puntato contro la terribile figura. La donna aveva gli occhi fissi, mentre le labbra invece si muovevano a un ritmo veloce e cadenzato. Davanti agli occhi mi si materializzò improvvisamente il mio mazzo di chiavi e lo afferrai istintivamente, mentre con fatica mi rialzavo barcollando. Poi mi precipitai fuori, più velocemente che potevo. Mi ritrovai ad ansimare nel sole del primo pomeriggio, con nelle orecchie l’eco della voce di Carlotta che mi ripeteva: «Cerca i draghi!» Negli occhi avevo ancora impressa la figura di Lilith con il coltello in mano, alta, altera, concentrata; e solo allora me ne rendevo conto, completamente nuda.

Capitolo 5°

Anna mi stava guardando offesa. I suoi “scampi alla busara” mi si stavano raffreddando lentamente nel piatto, ma in compenso ero arrivato alla seconda caraffa di prosecco. Avevo vagato tutto il pomeriggio senza avere il coraggio di andare in nessun luogo in particolare, terrorizzato dalla prospettiva di tornare a casa e di rimanere solo con me stesso. L’idea che avevo avuto in un primo momento, di andare a raccontare tutto a Marco, era apparsa poi ridicola anche a me stesso. Per quanto fosse un amico mi avrebbe fatto ricoverare e senza dubbio in perfetta buona fede. Era ormai buio quando ando davanti al “Doge Scarlatto”, il mio baccaro preferito, vidi dalla finestra gente serena che si stava gustando una serata all’insegna della buona cucina e dell’ottimo vino. Il vuoto che avevo dentro diventò insopportabile e la cordiale amicizia che la proprietaria mi aveva sempre riservato mi sembrò quello di cui in quel momento avevo più bisogno. Ero appena entrato che già la vidi venirmi incontro sorridente, piccola e tondetta dietro l’eterno grembiule immacolato e perfettamente stirato. Piegò leggermente la guancia per farsi baciare e io istintivamente le posai le labbra sul collo, proprio sotto l’orecchio destro, rimanendo io per primo stupito dall’intimità insolita che avevo riversato in quel lieve tocco. «Ehi! Facciamo progressi!» La sua voce era risuonata allegra, ma ugualmente la vidi arrossire lievemente.

«Mettiti seduto. Hai scelto la serata giusta, scampi freschi appena cucinati per un piccolo gruppo di si e ne ho giusto ancora una porzione abbondante!» Mi guardò poi dal basso in alto. «Il tavolo accanto alla finestra… intanto ti porto il vino.» In quel momento invece mi stava osservando prudentemente da lontano, scuotendo lentamente la testa. Intuivo che aveva voglia di venire a parlarmi, ma che nello stesso tempo non osava importunarmi e apprezzai sinceramente la sua riservatezza. L’atmosfera rilassata del locale non era riuscita a coinvolgermi, quello che era successo a casa di Carlotta era stato sconvolgente e assurdo, eppure nel medesimo tempo estremamente reale. Avevo ancora il petto che mi lanciava saltuariamente fitte acute e inciso sul palmo della mano sinistra, avevo impresso il segno inequivocabile di una piccola bruciatura triangolare. Mentre il vino scendeva come un toccasana nella mia gola irritata, ripensai a Carlotta sul divano e all’aria incuriosita che aveva mentre mi chiedeva del quadro di Caravaggio. Un dubbio incominciava a prendere consistenza nella mia mente. E se fosse stato tutto vero? Naturalmente avevo già sentito parlare di universi paralleli e serie disquisizioni sulla meccanica quantistica e sulla struttura dell’atomo erano state dibattute in cene tra amici in più di un’occasione, parecchie delle quali consumate proprio al “Doge Scarlatto”. Ma se le incertezze sul “comportamento atomico” promosse dal grande fisico Niels Bohr facevano dichiarare a Einstein che: “Dio non gioca a dadi con l’universo”, solo per risentirsi a sua volta bacchettato dallo scienziato che lo ammoniva di “Non osare dire a Dio cosa deve fare!”, per noi profani, la certezza sulla qualità del cabernet servito da Anna era assoluta.

“Le teorie della meccanica quantistica sono ormai consolidate da decenni...” affermavano gli amici docenti di Matematica e Fisica, prima di calcare la mano con affermazioni tipo: “Le applicazioni pratiche sono ormai vastissime in innumerevoli campi... negare di conseguenza a priori un’implicazione della teoria dei “quanti” a tutto l’universo è ridicolo...”. Le dotte citazioni sulle teorie dei mondi paralleli, come quella formulata da Hugh Everett III, provocavano discussioni infinite e parlare di una cosmologia quantistica, soprattutto dopo il secondo giro di grappe, portava inevitabilmente a parlare di chi, per molti, il mondo l’ha creato. Dio! E se si parlava di Dio, si parlava di “libero arbitrio”. A quel punto normalmente interveniva Anna che, dando del libero arbitrio uno splendido esempio pratico, ci buttava senza pietà fuori dal locale, obbligandoci a continuare le nostre discussioni in compagnia delle gondole taciturne, ormeggiate lungo canali altrettanto silenziosi. Avevo liquidato tutti quei complicati concetti catalogandoli come “teorie intriganti ma inutili” o come “un bel atempo per menti intelligenti che utilizzano quella che innegabilmente ha la potenzialità di una possibile realtà per costruirci sopra autentici castelli di sabbia”. Ma non ero più tanto sicuro che si trattasse di sabbia. Due occhi verdi intanto, mi stavano spiando attenti oltre il vetro della finestra. Sparirono per ricomparire alcuni istanti dopo sulla soglia del baccaro, m’individuarono nuovamente e si diressero sicuri verso il mio tavolo. Parecchi altri occhi si mossero all’unisono, ma i loro sguardi non erano diretti verso di me, andavano direttamente al paio di jeans che coabitavano sotto il verde di quegli occhi. O meglio, ai non jeans. Tra tagli, buchi e giro vita pericolosamente basso, di tessuto ne rimaneva ben poco; in compenso quello che lasciavano intravedere meritava senza dubbio tutto

l’interesse suscitato. Feci fatica a sollevare lo sguardo dal pancino morbido che veniva dondolando verso di me. «Per fortuna che ti ho trovato!» L’accento era marcatamente anglosassone. «Sono ore che ti cerco!» La ragazza si lasciò letteralmente cadere sulla sedia vuota che mi stava di fronte, mentre potevo sentire l’intensità degli sguardi che stavano saettando nel locale. «Non li mangi?» Gli occhi verdi erano puntati sul mio piatto, mentre una mano infantile s’impadroniva tranquillamente del mio bicchiere per ingurgitare il prosecco come se si trattasse di acqua fresca. Posato con calma il calice, le sue dita presero poi uno scampo direttamente dal mio piatto, lo sgusciarono con abilità e lo portarono alla bocca con la naturalezza con cui si mangia una patatina fritta. La guardai con più attenzione, non poteva avere più di diciotto anni e aveva il viso semplice di una ragazzina cresciuta all’aria aperta, bicicletta e scarpe da ginnastica. Poteva benissimo essere una delle mie allieve… solo che questa aveva l’aria molto più sveglia. «Lilith dice di non preoccuparti, Carlotta se la caverà. È un po’ malconcia ma è forte… per la sua età… devi fare attenzione!» Il suo discorso era intervallato dagli scampi che continuava a inghiottire famelica. La bloccai irritato. «Ma tu! Chi sei?»

«Io?» La sua espressione era sinceramente stupita. «Emy, sono Emy Wyfar!» Una caraffa di vino gelato s’intromise tra i nostri sguardi. Anna non aveva resistito! «Avrei anche una fritturetta di calamari niente male.» Il tono era da ostessa consumata. «Per la bambina facciamo mezza porzione?» La guardai allibito, ma il sorriso sincero che le illuminava il volto era colmo di un affetto che non le avevo mai visto dedicarmi. Incrociò per un istante lo sguardo con Emy e vidi are tra di loro quello che parve un lampo d’intesa. «Le porto subito un piatto e un bicchiere, signorina… solo un attimo!» Poi Anna si allontanò velocemente. Mi riconcentrai sulla ragazza. «Emy… Wyfar?» «Mio padre voleva un maschio e dovevo chiamarmi Hermes come mio nonno, invece sono nata femmina e Hermes è diventato Emy.» Intanto si stava succhiando dai polpastrelli il sugo piccante degli scampi. Forse ero prevenuto, ma non sentivo una sola voce maschile in tutto il locale. «Mi avevano avvertito che eri uno nuovo.» Però sembrava molto più attenta nel parlare.

« Solo non pensavo… così nuovo!» Dovevo avere un’espressione notevolmente ebete, perché assunse un’aria preoccupata. «Sono quella che porta i messaggi, mi conoscono tutti! Se devi comunicare qualche cosa d’importante qui o tra una dimensione e l’altra chiami me! Semplice no?» Sperai di affogare scolandomi un altro bicchiere di vino. «Lilith ti raccomanda di non portare addosso nessun oggetto che sia appartenuto a Vanessa, pensa che sia in questo modo che “Lui” ti ha trovato.» Era diventata improvvisamente pensierosa. «Quella piccola piramide, per esempio… veramente ingegnoso.» «Lui?» «Non sappiamo chi sia, non l’avevamo mai incontrato. In verità non dovrebbe neppure esistere e forse per questo deve aver superato indisturbato le difese di casa Jimbutas… comunque di sicuro non fa parte della squadra dei buoni!» Io rimasi muto, senza parole.

Capitolo 6°

Una leggera vibrazione nella tasca lo fece sobbalzare. Con rapidità estrasse il cellulare e dopo un breve colpetto di tosse lo accostò all’orecchio. «Allora?» La voce che gli arrivò era notevolmente preoccupata. «È ancora a tavola, beve! Lo vedo dalla finestra. È stato raggiunto da una ragazza… e che ragazza!! Si consola in fretta il nostro caro professore!» Un attimo di esitazione. «Scusi Capitano! Non volevo! Cioè, io… agli ordini! Ricevuto!» Il carabiniere rimise rapidamente il cellulare in tasca e si appoggiò contrariato al parapetto del ponte. Di fronte a lui, oltre il canale, la lanterna rossa del “Doge Scarlatto” illuminava debolmente la fondamenta; mentre alle sue spalle, nel buio profondo di un portone, un’altra ombra ancora più tetra scrutava rabbiosa tutta la scena.

Intanto al mio tavolo erano arrivati due enormi piatti di calamari fritti e mi sorpresi nello scoprirmi affamato. «Ma tu!... Voi?… Chi siete?» La curiosità incominciava a prendere pericolosamente il sopravvento sulla mia razionalità. Mi rendevo conto che mi stavo abituando rapidamente a convivere in una

situazione anomala, dove le leggi che governavano la realtà che conoscevo io sembravano non aver valore e dove tutto sembrava possibile. La ragazza mi guardava con vero stupore. «Ma come? Non lo hai ancora capito? Siamo streghe!!» «Ah!» Fu tutto quello che riuscii a dire prima di rituffare il naso nel mio piatto. Emy si alzò di scatto, l’aria seccata, e nuovamente avvertii il silenzio piombare nella sala. «Devo andare, ho una commissione da fare prima di mezzanotte.» Poi si piegò in avanti, appoggiando il palmo delle mani sulla tovaglia e portando i suoi occhi alla mia altezza. «Ricordati… fai attenzione… “Lui” vuole ucciderti!» Poi abbassando ancora di più il tono della voce sussurrò: «Cerca i draghi!» «Ma come faccio?» La mia voce uscì con fatica dalla gola e lei mi guardò pensierosa. «Vai da Merisi! È quella la strada!» Dopo che fu uscita il silenzio restò palpabile ancora per qualche secondo in tutto il locale, poi, a poco a poco il brusio riprese la sua normale intensità.

Se al mondo c’è una cosa bella, quella è Piazza San Marco di notte. Quando è vuota. La Basilica era di fronte a me, con le sue cupole inconfondibili e i mille particolari architettonici che la componevano; a destra il campanile con la loggetta del Sansovino, a sinistra la Torre dell’Orologio. Sentii ridere.

Una giovane coppia era apparsa nella “Piazzetta dei leoncini” e vidi la ragazza salire con una certa difficoltà a cavallo del leone di marmo più vicino alla chiesa. Ci fu il lampo di un flash accompagnato da altre risate, poi il suo compagno la baciò e s’allontanarono entrambi verso le Mercerie. Mi concentrai sui freschi gradini su cui ero seduto, in netto contrasto con il fuoco che sentivo sulla nuca. Alle mie spalle il museo Correr incombeva nei miei pensieri e l’idea delle tele del Caravaggio custodite al suo interno mi mandava letteralmente in ebollizione il cervello. Mi rendevo conto che stavo scivolando sempre più verso la pazzia, ma se questo voleva dire riuscire a comprendere e dare un senso alle cose assurde che mi stavano accadendo, allora avrei corso il rischio, permettendo a quel mondo sconosciuto di assorbirmi completamente. Almeno avrei potuto tentare una difesa, o almeno una reazione concreta. Lo stare in bilico tra la realtà come l’avevo sempre vissuta e quella dimensione fantastica che sembrava volermi inghiottire, mi paralizzava il cervello, impedendomi di ragionare. La minaccia di quell’uomo misterioso mi spaventava, ma quello che veramente mi faceva gelare il sangue nelle vene era il sospetto, sempre più angosciante, che l’omicidio di Vanessa, con tutta la sua macabra messa in scena, fosse collegato in qualche modo al mio incubo. In questo caso avrei potuto essere stato, anche se indirettamente, la causa della sua morte. Dovevo sapere! Dovevo capire! Se Carlotta aveva anche lontanamente detto il vero e la tela del Caravaggio rappresentava una porta di comunicazione verso un universo parallelo, dovevo nuovamente tentare di varcarla. Scossi la testa incredulo.

A cosa diavolo stavo pensando? Come potevo formulare anche solo per un momento un pensiero del genere? Come potevo farmi prendere da simili assurdità? E poi, in che modo avrei potuto penetrare nel museo? Rimasi allibito, più tentavo di essere coerente e più il mio cervello sembrava percorrere strade assurde e irrazionali. Alla fine mi arresi e mi concentrai sul modo concreto di penetrare dentro il museo. Di notte era impensabile, io non ero in grado di forzare nemmeno una serratura, figuriamoci tentare di eludere sofisticatissimi sistemi d’allarme. Dovevo per forza aspettare l’apertura, entrare assieme ai primi visitatori e… improvvisare!

Il professore era davanti a lui, lo vedeva bene. Stava seduto sui gradini ai margini della piazza, con la testa tra le mani, pensieroso. Doveva ucciderlo ora! L’unico impedimento era l’intruso che lo pedinava instancabilmente, un’ombra invisibile, ma sempre alle spalle del suo obiettivo. Con cautela si avvicinò al carabiniere sino a sentirlo bisbigliare nel cellulare. Tra di loro solamente lo spessore di una grande colonna di marmo. Quando tornò il silenzio lo sconosciuto aspettò ancora un paio di secondi, poi con un movimento fluido aprì il mantello, fece un o a lato e lo avvolse attorno alla testa della sua vittima. Avvertì la forma della gola adattarsi perfettamente all’incavo del suo braccio

sinistro e strinse forte. Con la mano destra appoggiò la punta di un lungo stiletto nero, dalla lama triangolare, appena sotto la scapola indifesa della sua vittima e lo affondò con un rapido movimento. Quando sentì l’uomo afflosciarsi nelle sue braccia allentò la presa e delicatamente lo depose a terra, gli occhi glaciali già puntati sulla nuca di Michele.

Rassegnato decisi di andare a casa, il vino bevuto senza moderazione e lo stress della giornata reclamavano il loro tributo. Inaspettatamente dalla mia destra arrivò il vociare stonato di una decina di persone, apparse improvvisamente dal nulla sotto il porticato. Con ogni probabilità dovevano essere appena uscite dall’Harry’s bar, l’unico locale in zona ancora aperto a quell’ora. L’accento era quello dei paesi dell’Est. Quattro uomini si stavano raccontando evidentemente qualcosa di buffo, ridendo tutti contemporaneamente, mentre alle loro spalle a qualche o di distanza, cinque ragazze barcollavano su tacchi francamente troppo alti. Era un classico, l’eleganza dei tacchi a spillo era perfetta per valorizzare le loro lunghe gambe “all’interno” del celebre locale, “all’esterno” invece, la pavimentazione delle calli veneziane le trasformava immediatamente in una ridicola imitazione di trampolieri ubriachi. Mi alzai accodandomi a loro, pur mantenendo prudentemente qualche o di distanza. Stavo meditando sul fatto che se le loro gambe erano decisamente instabili, quello che c’era appena qualche centimetro sopra era sicuramente degno di nota, quando una sensazione di freddo alle mie spalle mi fece voltare spaventato. Ma non c’era nulla, a parte una figura sfocata che prima non avevo notato, seduta a terra e con la schiena appoggiata a una colonna.

Scossi la testa, pensando che riguardo al vino quella sera ero indiscutibilmente in buona compagnia. Tornai a concentrarmi sulla ventina di centimetri di elastiche rotondità che mi precedevano e il brivido freddo che mi era corso lungo la schiena si dissolse velocemente. “… ti è ata la morte vicino” avrebbe detto mia nonna. Sbadigliai scrollando le spalle, mentre controllavo di avere ancora in tasca le chiavi di casa.

Capitolo 7°

Fui svegliato che albeggiava. M’infilai con estrema fatica i pantaloni della tuta mentre tentavo di capire dov’ero. Il camlo suonava ora a distesa. «Ma siete deficienti?» Urlai mentre aprivo la porta furioso. Un ufficiale dei Carabinieri era immobile sulla porta, con il dito ancora premuto sul camlo. La sua divisa era inappuntabile, come del resto quella dei due militari dietro di lui, solo che questi ultimi avevano le mitragliette al collo. «Si vesta, per favore! Deve venire con noi! Subito!» Il tono non ammetteva repliche. Dieci minuti dopo eravamo sul ponte della Paglia e oltreandolo sbirciai il ben più famoso “Ponte dei Sospiri”, mentre una brutta sensazione mi faceva accapponare la pelle. Svoltammo nel sottoportego di S. Zaccaria e pochi i dopo, immobile davanti alla porta del Comando dei Carabinieri, il capitano Marco Redaelli mi stava aspettando irritato. Mi guardò senza salutarmi, poi si voltò e ci precedette oltre la grande porta a vetri. Dopo due ore di interrogatorio eravamo ancora al punto di partenza, i carabinieri erano furiosi e io, in piena coscienza, non potevo certamente dargli torto.

Gli esami dell’autopsia sul corpo di Vanessa avevano evidenziato che prima di essere immersa nella vasca, la mia fidanzata aveva subito una feroce violenza sessuale, ma il fatto più sconcertante era che sotto le unghie e tra i peli pubici avevano trovato dei capelli maschili che a seguito dell’esame del DNA erano risultati essere inequivocabilmente miei. Così venni anche a sapere che ero stato messo immediatamente sotto costante controllo. Il mio “angelo custode” mi aveva visto entrare a casa Jimbutas per uscirne poi sconvolto e mi aveva quindi pedinato costantemente nel mio successivo assurdo girovagare. Non mi aveva perso di vista un solo istante neppure al “Doge Scarlatto”, segnalando con solerzia anche il mio incontro con Emy e si era fatto uccidere, qualche ora dopo, a pochi i dal comando di Polizia situato sotto le Procuratie. Se si sommava a tutto questo l’innegabile fatto che per il periodo temporale in cui Vanessa era stata uccisa disponevo di un alibi di ferro, comprovato da fotografie e conferme da parte del sindaco in persona, non ci si poteva certo stupire se loro fossero “incazzati neri”. Da parte mia non avevo potuto affermare altro che ero sì andato a trovare la mia collega, ma che il riparlare di Vanessa mi aveva sconvolto ed avevo preferito andarmene. Che la ragazza del baccaro non la conoscevo e che si era rivolta a me solo perché, sapendo che ero un professore del Liceo Artistico, voleva avere informazioni per un’eventuale sua iscrizione all’anno successivo. Chiaramente erano bugie, raccontate pure male e loro da esperti professionisti sapevano benissimo che mentivo. Ma non avevano in mano elementi utili per inchiodarmi. L’unica cosa su cui ero stato completamente sincero era riguardo al loro collega. Non mi ero proprio accorto di essere stato pedinato e questo almeno sembravano averlo capito bene.

Mi lasciarono da solo in una stanza vuota per almeno un’altra ora, prima che la porta si aprisse ed entrasse Marco. «Non capisco perché ti ostini a mentire!» Il suo tono era tagliente. «Ma almeno sembri estraneo alla morte del carabiniere!» Si sedette e mi raccontò che avevano rintracciato il gruppo di russi della sera precedente, i quali avevano confermato di avermi visto seduto sui gradini della piazza, poco dopo aver notato anche un ubriaco appoggiato a una colonna. Una delle ragazze aveva aggiunto di aver anche visto distintamente un’ombra allontanarsi velocemente verso l’ufficio postale lì accanto e in quanto a me erano sicuri che li avessi seguiti, anzi si erano anche infastiditi per l’attenzione sfacciata che avevo avuto verso le loro donne. «Uno difficilmente pugnala a morte un carabiniere e si siede dopo pochi metri su un gradino a contemplare la notte, per poi seguire sbavando ridotte minigonne!» Marco mi stava guardando serio. «Per quanto stupido, non puoi essere così stupido!»

I turisti sul campanile di San Marco sembravano, visti dalla finestra della mia stanza da letto, grilli colorati posti in una minuscola gabbietta. Eppure li invidiavo. Provavo gelosia per la loro aria rilassata, tipica di chi è in vacanza, ma sopratutto per la possibilità che avevano di poter vedere lontano, di spaziare con lo sguardo oltre i tetti delle case. Mi rodeva la loro possibilità di poter vedere… oltre. I carabinieri mi avevano lasciato finalmente tornare a casa, non avendo in mano nulla che potesse incriminarmi, ma mi stavano sotto e me lo avevano fatto capire

chiaro e tondo. Erano sicuri che fossi pesantemente coinvolto negli omicidi e che sarebbero riusciti a provarlo, era solo questione di tempo. In quanto a Marco, visto il nostro stretto rapporto di amicizia, era stato sollevato dalle indagini e rimandato subito a Roma. Come la prima volta che c’eravamo conosciuti m’aveva aspettato fuori. Si era poi avvicinato e mi aveva abbracciato stretto, sul suo volto la battaglia tra l’ufficiale coscienzioso che si basa sui fatti e l’amico disposto a crederti sulla parola. «Spero che tu sappia quello che stai facendo!» Le parole gli uscivano a fatica. «Cammini su un campo minato… fai attenzione!» Poi si voltò e salì sulla lancia che lo avrebbe portato all’aeroporto Marco Polo. Dalla mia finestra osservavo intanto le “altane” poste sui tetti delle case adiacenti e potevo distinguere chiaramente i tavolini e le sedie di plastica bianca che aspettavano solamente qualcuno che andasse a occuparli per l’aperitivo serale. Un tranquillo bicchiere colmo di ghiaccio tintinnante che galleggiava in una varietà di liquidi colorati e profumati. Sul mio letto, aperta, la lettera che Marco mi aveva fatto scivolare di nascosto nella tasca quando mi aveva abbracciato. “Michele fai molta attenzione, io non posso aiutarti, ma chiaramente sia l’omicidio di Vanessa che quello del mio collega sono stati compiuti da una o più persone determinate e pericolose. Non so cosa nascondi e forse non voglio nemmeno saperlo, ma se penso giusto, chi ha ucciso loro potrebbe avercela anche con te, quindi sii estremamente prudente.

Come ti ho già detto non posso proteggerti ufficialmente, ma se tu avessi bisogno di un serio aiuto non esitare a chiamarmi. Non ti ho risparmiato tanti anni fa per vederti ammazzare ora da qualcun altro! Marco”

Vanessa violentata e uccisa. Un carabiniere accoltellato in piena Piazza San Marco. Un fantomatico stregone che tenta di uccidermi in casa di una collega. Viaggi attraverso quadri in universi paralleli e incubi con donne drago… Il vortice che avevo nel cervello mi dava la nausea. Era successo tutto così in fretta che non avevo avuto modo di ragionare in maniera corretta, stabilire una logica, provare a individuare e isolare i problemi, preparare una linea d’azione. Mentre riflettevo, ai davanti all’ampio specchio che avevo in camera e con la coda dell’occhio vidi transitare la mia figura in mutande. “… specchio dell’anima.” La frase affiorò alle mie labbra provenendo da qualche angolo remoto della mia memoria. Non c’entrava nulla con i miei pensieri e non ricordavo neppure il contesto in cui era inserita, ma in quel breve istante ebbi la consapevolezza di aver veramente intravisto la mia anima. In mutande. Tornai di fronte allo specchio e mi guardai dritto negli occhi, cercando, con tutta la sincerità che potevo metterci, di leggervi dentro. Vedevo un uomo innamorato, io, e una donna sicura e decisa, Vanessa.

Dovevo ammettere a me stesso che la comodità di far prendere le decisioni a una persona fidata e il senso di tranquillità che ne derivava, mi aveva permesso di dedicarmi a tempo pieno ai miei interessi personali senza essere distratto dalle mille “rotture” di tutti i giorni. Ma incominciavo anche a rendermi conto che avevo finito per pensare come la mia fidanzata, assimilando i suoi schemi mentali e il suo stesso carattere. Solo che io non ero lei, non ero Vanessa! Quella realtà lapalissiana mi lasciò di sasso e caddi sul letto con un senso profondo di stupidità appiccicato addosso. Chiusi gli occhi e stranamente mi rividi sedicenne, appoggiato a un lampione di piazzale Roma. L’Alfa Romeo di mio padre poco più avanti… il tonfo del bagagliaio che si chiudeva… lui che appoggiava sul sedile posteriore la sua valigetta accanto a un giubbotto femminile che non apparteneva a mia madre… il suo sguardo triste… il rumore del motore che andava in moto e l’auto che partiva troppo velocemente… gli stop che si accendevano prima del aggio pedonale… un furgone bianco che si staccava dal marciapiede e che gli si accodava, nascondendomelo. Ricordai che ero rimasto lì, da solo, a guardare le macchine che arrivavano e partivano, rendendomi conto che da quel momento avrei dovuto cavarmela da solo, che lui non c’era più... che non avrei più avuto vicino la sua presenza sicura e tranquillizzante. A tavola non avrei più potuto osservare il dorso peloso della sua mano con il grosso cronometro sul polso. Quella mano da uomo così diversa dalla mia, una mano che forse un giorno avrei avuto anch’io… ma il futuro era una cosa lontana, incomprensibile. E ancora mi rividi quel giorno sul pontile mentre aspettavo il battello per Rialto, quando infine mi ero imbarcato e il vaporetto si era staccato beccheggiando dall’ormeggio. Mi ricordo di essermi reso conto solo allora che quello che stavo facendo era il

primo metro del viaggio nella mia vita da adulto. Avevo poi camminato da solo fino all’arrivo di Vanessa, che aveva apportato nella mia vita un meraviglioso periodo di pace e di non responsabilità. La pausa però era finita, capivo che dovevo riprendere la mia vita nelle mani, che dovevo rimettermi in cammino contando solo sulle mie forze. Tornai alla finestra sentendo una nuova energia vibrarmi dentro e scoprii di non invidiare più i piccoli grilli colorati accalcati in cima al campanile. Ero libero! Libero di decidere della mia vita! I mondi paralleli erano un gioco per menti brillanti? Le streghe erano una fantasticheria? Non aveva importanza, se quelle erano le carte che aveva in mano il destino, in quell’assurda e strampalata parodia di una partita a poker… beh, sarei andato a vedere!

Capitolo 8°

Erano trascorse ormai quasi due ore da quando avevo deciso di riprendere in mano la mia vita, affrontando a muso duro la situazione, che già incominciavo a rasentare l’idea del suicidio. Ero ato dall’idea di raccontare tutto a Marco, pur sapendo che non mi avrebbe mai creduto, a quella ancora più assurda di tornare al museo per tentare nuovamente il aggio attraverso il quadro di Caravaggio. Avevo anche valutato la possibilità di tornare a casa di Carlotta, ma, sapendo di essere controllato a vista dai carabinieri, non avevo idea di come poterlo fare senza rischiare di coinvolgerla ancora più pesantemente nelle indagini. Avevo fantasticato, mi ero arrabbiato, calmato e poi nuovamente sognato e riprogettato. Ma alla fine mi ritrovai un’altra volta di fronte allo specchio, a fissare deluso il riflesso di uno sguardo stanco, con due grosse borse peste sotto gli occhi. Capelli arruffati. Barba lunga. Mutande bianche. Mi resi conto che era quella la vera e reale immagine del guerriero spaccamonti che avevo pensato di aver risvegliato. Vidi tutta la mia impotenza, unita alla completa mancanza d’idee, ed ebbi paura. Un terrore freddo e viscerale, un’angoscia che temevo non mi avrebbe mai più abbandonato. Sapevo che quell’uomo di fronte a me avrebbe dovuto decidere da solo della sua vita e subire le conseguenze delle sue scelte. Avrebbe raccolto gioie e felicità, ma avrebbe anche pagato senza scampo errori e mancanze.

Piangevo! Senza rendermene conto avevo incominciato a piangere a dirotto, gli occhi inondati di lacrime silenziose e incontrollabili. Ero incredulo e in un ultimo tentativo di pudore pensai che gli uomini non piangono in quel modo, ma poi mi arresi, accettando la mia condizione di essere umano, con il suo intero bagaglio di sentimenti e di debolezze.

«Studiate! Praticate! Migliorate! E ci arriverete!» La voce era scaturita improvvisa alle mie spalle. «In quanto a studiare e praticare siamo lontanucci… ma in quanto al miglioramento…» L’accento era anglosassone. Balzai in piedi, voltandomi di scatto. Appoggiata alla porta della mia camera, Emy mi stava scrutando divertita. Era la seconda volta che mi facevo beccare nudo in casa mia da un’estranea e il fatto che questa volta ero perlomeno in mutande non mi aiutava affatto. «Come diavolo sei entrata?» La mia mente era corsa al carabiniere che senz’altro doveva essere da qualche parte, là fuori, a controllarmi. «Dalla porta, mi sembra logico!» Disse la ragazza mentre si catapultava sul letto, trasformandolo immediatamente in un tappeto elastico. «Sta ferma!» Le urlai dietro, mentre mi precipitavo alla porta.

La socchiusi con circospezione e sbirciai fuori. Nessuno. Solo una volta richiusa, mi accorsi che avevo dovuto girare due volte la chiave per far scattare la serratura! «La porta era ancora chiusa a chiave! Come hai fatto a entrare?» «Dai ! Non fare il noioso e dimmi piuttosto cosa ti serve.» Emy si era finalmente seduta nel centro del letto. Indossava un corto gonnellino a pieghe, una specie di kilt a scacchi rosso scuro, con una grossa spilla d’argento posta a chiudere un inutile spacco, camicetta chiara aperta sopra un reggiseno altrettanto candido, scarpe nere a tacco basso e… mutandine bianche. Fu quest’ultimo particolare che mi fece ricordare all’improvviso di come fossi vestito io e m’infilai rapidamente un paio di jeans. «Mi serve cosa?» Balbettai sorpreso. «Guarda che io mi muovo solo quando c’è una vera urgenza e se mi hanno mandato qui è perché evidentemente hai veramente bisogno del mio aiuto!» Aveva preso nuovamente fuoco, esibendo un caratterino di tutto rispetto. Mi obbligai a sedermi sulla sedia posta a lato del letto, cercando di evitare per quanto possibile, di sbirciare eccessivamente il micidiale triangolino bianco che giocava a nascondino con il rosso della gonna. «Pace!» Dissi cercando di dare una parvenza di sicurezza alla mia voce. «Fammi capire bene la situazione o non arriveremo da nessuna parte!» Emy mi guardò un istante pensierosa, lisciandosi la gonna con il palmo delle

mani. «Carlotta dice che tu hai un certo potere, solo che è nascosto sotto un’educazione piena di preconcetti che ti soffoca e t’impedisce di scoprirlo. Ha detto che l’ha intuito subito, dalla prima volta che ti ha incontrato in sala professori.» Ero una statua di sale. «Ha provato a mandarti segnali, ti ha regalato libri e ha affrontato con te argomenti che avrebbero dovuto essere illuminanti; ma tu nulla!» Il tono rassegnato della sua voce la diceva lunga. «Poi alcuni giorni fa, durante il Sabbat del solstizio d’estate, Lilith la convinse a “darti una spintarella”, giusto per vedere il livello del tuo potere.» Vedevo che era a disagio per l’attenzione che metteva nell’evitare di guardarmi negli occhi, mentre la gonna era ritornata liscia e ordinata. «Carlotta, pensa che tu possa essere stato in una vita precedente addirittura Merisi stesso, e per questo ha utilizzato un suo quadro per il aggio…» Notai che mi controllava di nascosto, con rapide sbirciatine. «Non doveva succedere nulla, ma forse ha fatto un errore nella scelta del quadro… non valutando a fondo la sua potenza simbolica. Si è subito resa conto che qualche cosa non funzionava a dovere, ma non avrebbe mai immaginato che “Lui” ti potesse seguire mentre ritornavi!!» «Lui? Lui sarebbe quell’essere dal mantello nero?» Ero ancorato alle sue labbra. «Sì! Come ti ho detto ieri sera, non sappiamo ancora chi sia, siamo solo certe che ha ato la porta con te e che… uccide!» Il dolore al petto mi era tornato feroce, accompagnato da una sudorazione violenta quanto improvvisa. «Pensi che possa essere stato “Lui” a uccidere il carabiniere e…Vanessa?»

Chiesi in un soffio. «Può darsi, è quello che stiamo ancora cercando di scoprire. Lilith è in caccia e ti assicuro che non è per nulla simpatico averla alle calcagna!» Mi alzai e andai nell’altra stanza, dritto al tavolino dei liquori, con la consapevolezza che se continuava così o mi uccideva quel “Lui” o mi uccideva l’alcol. Tornai arrabbiato, ferocemente arrabbiato. Anche se fosse stato tutto vero, cosa che incredibilmente incominciavo a credere, Carlotta e le sue... “consorelle”, non sapevo bene come chiamarle, non avevano certamente nessun diritto di immischiarmi nelle loro beghe e nei loro giochi assurdi. Potevano benissimo ballare nude attorno al fuoco e rimescolare pentoloni fumanti, ma a casa loro! Io non c’entravo! Soprattutto se i loro atempi potevano provocare la morte di vite innocenti. «Non siamo consorelle e non balliamo nude attorno al fuoco!!» Pausa. «E comunque sappi che Carlotta è in fin di vita per averti difeso!!» Emy era balzata giù dal letto, piazzando il suo naso a pochi centimetri dal mio. Poi, di fronte al mio stupore, ammise candidamente: «Sì! Leggo nel pensiero. Mi capita… a volte.» Mi lasciai cadere sgomento sul bordo del letto, la testa tra le mani. Dopo qualche istante avvertii un peso modificare il materasso a pochi centimetri da me.

Mi voltai a guardarla. «Non sempre…» Si stava mordendo indecisa il labbro inferiore. «Beh… a volte capita… di ballare nude.» La guardai allibito per qualche secondo, poi scattai in piedi. «Stiamo parlando di omicidi! La mia vita è un casino e tu…» Non riuscii a terminare la frase, dal momento che mi ero reso conto all’improvviso di avere un’erezione che spingeva violentemente contro i jeans. Lentamente lasciai la stanza da letto per andare a sedermi sul divano, lontano da quel pericolo incombente. «Scusa!!» Disse la ragazza, venendo a sedersi anche lei sul divano, ma il più distante possibile. «Scusami tu! Non so cosa mi è preso.» Non convincevo me stesso, figurarsi lei! «E ora cosa facciamo?» Continuai. «Lilith dice che per sconfiggerlo serve un drago! Solo la forza primordiale di un drago può combatterlo.» «Emy, per favore! Credere che sei una strega è già assurdo, ma credere ai draghi è pura pazzia!» «Eppure tu ne hai conosciuto uno! L’ho visto nei tuoi ricordi.» «Quello era un incubo, non un ricordo! E poi era una donna!»

La mia voce però tradiva incertezza. «Devi tornare indietro, da Merisi! Devi ripercorrere i tuoi i, ritornare dove tutto è cominciato. Forse così troverai la soluzione.» I suoi occhi mi scrutavano ansiosi. «Non posso, dovresti sapere che sono tenuto costantemente sotto controllo dalla polizia! Come posso andare al museo e sparire dentro a un quadro?» Anche solo a pronunciarla quella frase mi sembrava pazzesca, figuriamoci poi metterla in pratica. «Per fortuna che insegni storia dell’arte! Non hai imparato nulla in tutti questi anni? Hai mai sentito parlare di simbologia?» «Certo che so cosa sono i simboli, l’arte medioevale ne è piena!» Ero seccato che una ragazzina mi riprendesse sul piano della professionalità e nuovamente mi ritrovai a paragonarla alle mie allieve. Alcune di loro erano certamente carine e un paio forse addirittura più belle di Emy, ma innegabilmente quest’ultima se le mangiava tutte a colazione. Ancora con gli occhi chiusi dal sonno! «Grazie! È bello sentirsi valorizzate! E chi sarebbero queste due o tre bellezze?» La sua voce aveva una nota stranamente acuta, mentre si voltava per andare in cucina. Ancora una volta piombai nella confusione totale. Era fastidiosamente sconcertante essere letto nel pensiero, da una ragazzina poi! Rimasi a osservare il suo o elastico, le lunghe gambe nervose, il fondo schiena da incubo… e mi bloccai terrorizzato. Lei fece un altro o, prima di voltare leggermente la testa dalla mia parte, poi

dal verde dei suoi occhi scaturì un lampo letale. Mi abbandonai esausto sul divano sentendo la mia voce mormorare: «Non è possibile…» Emy tornò con una mela in mano. «Il potere del simbolo è quello di poter evocare con una singola immagine un insieme d’idee, concetti, valori. Quando pensi a quell’immagine e ti concentri su di essa, automaticamente entri in sintonia con le vibrazioni emesse da tutto quello che essa vuole rappresentare.» Ora mi guardava più tranquillamente. «Sarebbe impossibile concentrarsi contemporaneamente sulle mille sfaccettature di un concetto o di una legge fisica, quindi si usa un segno che le racchiuda dentro di sé. Ma se tu carichi quel simbolo con la tua energia in maniera tale che visualizzandolo o tracciandolo, “senti” quello che esso rappresenta, allora avrà un potere enorme. Fai attenzione però, nessun simbolo al mondo, neppure i più grandi e antichi hanno alcun potere se non suscitano prima nulla dentro di te!» La fissai imbambolato. Quante volte avevo letto quei concetti? Eppure era la prima volta che mi rendevo conto di quanto fossero veri, che non erano solo parole galleggianti in un’aula scolastica. «Non sei malaccio dopo tutto, forse Carlotta ha ragione, ma ora devo andare!» E senza darmi il tempo di riprendermi la ragazza uscì dalla stanza. «Peccato che hai paura del tuo pisello!!» Sentii l’eco delle ultime, imbarazzanti parole, provenire dal pianerottolo. Mi alzai con calma avvicinandomi alla porta e non mi stupii, controllando la serratura, di trovarla ancora chiusa con due mandate.

Capitolo 9°

Simboli! Mi sedetti alla scrivania e accesi il computer senza tentare minimamente di ragionare. Mi collegai a internet, aprii la videata di un motore di ricerca e nella casella bianca digitai: “Caravaggio”. Poi cliccai sull’icona relativa alle immagini e istantaneamente mi apparve un’intera pagina di riproduzioni delle opere di Michelangelo Merisi. Selezionai l’opzione per ottenere solo le immagini più grandi e la vidi subito: “judith.jpg.1075x788 pixel - 109k”. La aprii e rimasi a guardare la testa di Oloferne che mi osservava dallo schermo. Creai una cartella apposita e vi salvai il file per richiamarlo subito dopo con un programma di grafica. Modificai i pixel dell’immagine e infine la stampai in formato A3. Ora avevo di fronte a me una perfetta riproduzione di Giuditta e Oloferne. Il Simbolo! Allungai titubante la mano verso la stampa, esitai un attimo, poi vi appoggiai sopra i polpastrelli. Non successe nulla! Riprovai, chiudendo gli occhi e riconcentrandomi al massimo. Ancora nulla! Questa volta evitai di guardare verso lo specchio. L’immagine di un imbecille che vuole entrare in una stampa più piccola di un foglio di giornale era troppo anche per me!

Appallottolai la fotografia e la lanciai rabbiosamente in un angolo della stanza, furioso con me stesso, con la mia stupidità e con le donne! Al diavolo le streghe, gli assassini e i poliziotti! Io ero innocente e decisi quindi che sarei stato rinchiuso in casa mia finché quell’incubo non fosse terminato! Mi gettai sul letto esausto. L’idea di un altro Jack Daniels era allettante, ma ero troppo stanco per alzarmi e chiusi gli occhi che mi sembravano colmi di sabbia. Nel dormiveglia cercai a tastoni il copriletto e quando sentii la stoffa sotto le dita l’afferrai con determinazione, socchiudendo appena gli occhi mentre mi rotolavo dentro. Il tepore provocato dalla leggera stoffa rossa mi stava tranquillizzando. Poi spalancai gli occhi di colpo, faticando a controllare il respiro… il mio copriletto era blu! Mossi lentamente gli occhi, tentando di vedere qualcosa dal di sotto della coperta che mi ero tirato sulla testa. La stanza era al buio, ma di una cosa ero certo, non era la mia camera! Mi misi a sedere in mezzo al letto e non seppi mai chi dei due fu più rapido a urlare. Lei aveva fatto un o indietro, cercando di coprirsi il corpo nudo con il vestito giallo-ocra che reggeva in mano, ma ottenendo solamente il risultato di rovesciare rumorosamente una sedia. Io ero rimasto inchiodato sul letto, con un lembo della coperta rossa nella mano serrata. Sembravo Linus. «Ah! Sei tu! Mi hai spaventata! Non ti avevo visto dormire… con tutto questo

buio… pensavo non ci fosse nessuno… messer Merisi mi aveva detto di venire nel pomeriggio e di indossare il vestito giallo… voleva dipingere.» Era la stessa ragazza sul cui corpo ero ruzzolato quando avevo varcato l’assurdo confine del quadro ed evidentemente anche lei doveva avermi riconosciuto. Notai che le frasi le uscivano veloci, a tratti, e mi resi conto che parlava solo per tenermi occupato, per avere il tempo di valutare meglio la situazione. Lasciai vagare lo sguardo per la stanza. L’oscurità era evidenziata dal soffitto dipinto incredibilmente di nero e un unico filo di luce filtrava da un piccolo lucernario, ando poi attraverso una specie di scudo bombato che la concentrava infine in un fascio circolare bianchissimo su una tela bianca. In un angolo, un grande specchio rifletteva debolmente il letto su cui ero seduto con a lato, parzialmente illuminata, la pelle bianca della modella. La cercai con gli occhi. La donna aveva nel frattempo appoggiato un ginocchio sul bordo del letto e il vestito doveva essersi volatilizzato, visto che solo le sue mani nude tentavano ormai inutilmente di proteggere i grossi seni. Nei suoi occhi una luce pericolosa. Vidi il ginocchio scivolare verso di me e il suo pube arrestarsi contro il bordo del materasso, mentre le mani si tendevano in un leggero movimento circolare sui grossi capezzoli. Sentii cedere una diga e fui travolto dalle immagini confuse della donna drago che si mescolavano con quelle della giovane Carlotta, alternandosi a rapide visioni della minigonna svolazzante e morbida di Emy. Ricaddi sulla schiena. “Giuditta” avanzò appoggiando le mani sul letto a lato delle mie ginocchia. Poi le fece scivolare lentamente fino all’altezza della mia testa, portando i suoi

seni a pendere, sodi e pesanti, sopra il mio volto. Sollevai le mani, facendole risalire sulle sue cosce fino a raggiungere le natiche. Strinsi forte, sentendo provenire dalla sua gola un gemito di soddisfazione, poi schiacciò sulla mia bocca un duro capezzolo. Mi risvegliai tra le lenzuola sfatte e allungai istintivamente la mano cercando la morbida pelle di “Giuditta”, ma strinsi solo un copriletto blu. Balzai a sedere incredulo. La mia stanza, nella penombra della sera inoltrata, sembrava irreale e le tende, rese immobili dall’assoluta mancanza del minimo alito di vento, sembravano fantasmi immobilizzati da un potente incantesimo. Calò sulla mia pelle nuda una delusione oppressiva e la consapevolezza che si fosse trattato solamente di un sogno mi gettò nello sconforto più profondo. Non solo non ero riuscito a varcare confini tra universi paralleli, ma soprattutto quella che ricordavo come una delle più intense esperienze sessuali della mia vita era stata solo un’illusione. Mi alzai sconsolato ed osservai l’intero mio corpo riflesso nello specchio della camera, scrollai lentamente la testa e mi mossi verso la cucina. Il mio piede destro rimase impigliato in qualcosa di morbido e mi chinai a raccoglierlo. Era un vestito femminile giallo-ocra, con una riga nera nel mezzo. In silenzio, con lo sguardo fisso, raggiunsi l’angolo opposto della camera. Sollevai il pesante coperchio di un grosso baule e con delicatezza, dopo aver spostato una pila di coperte, vi riposi il vestito. La riga nera esattamente collocata sopra al mio Rolex d’acciaio, con il cinturino visibilmente sporco di sangue.

Capitolo 10°

Erano le sette di mattina e me ne stavo sul ponte dell’Accademia, appoggiato al robusto parapetto di legno. Di fronte potevo osservare lo scorcio stupendo del Canal Grande che sbocca nel bacino di San Marco e sulla destra, la grande cupola della Chiesa della Salute. Sotto di me avano lenti barconi da trasporto e vaporetti carichi di pendolari che si recavano al loro posto di lavoro. I turisti sarebbero arrivati dopo, quella era l’ora dei veneziani. Faceva già caldo, preannuncio certo di una giornata afosa. Ai piedi del ponte, appiccicati nel piccolo plateatico di un bar, alcuni gruppetti di ragazzi discutevano animatamente, le braccia cariche di libri. Ne conoscevo molti e anche se non erano mai stati miei allievi, sapevo che si stavano preparando ad affrontare l’esame di maturità. Con un profondo sospiro mi scossi dal torpore in cui ero caduto e scesi gli ampi gradini, oltreandoli silenzioso. Dopo pochi metri voltai a sinistra, verso la punta della Salute, diretto alla sede del Liceo Artistico Statale di S. Vito. Quando entrai in sala professori calò il silenzio. Nessuno aveva minimamente creduto alla mia malattia, ma non si aspettavano ugualmente di vedermi ritornare al lavoro e il giro di occhiate imbarazzate che si scambiarono fu ancora più pesante del silenzio. Sicuramente le mie visite alla caserma dei carabinieri non erano ate inosservate e ci volle ancora qualche secondo prima che Marini, il professore di disegno, si alzasse dalla sua sedia per venirmi incontro.

«Siamo tutti con te! Coraggio! È dura, ma vedrai che ce la farai…» Il suo sguardo saettava però in tutte le direzioni, tranne che verso i miei occhi. «Scusa, ma ora devo proprio andare, sono in ritardo!» Mentre si precipitava fuori dalla stanza, alzai le mani in segno di resa, il palmo in fuori, scrutando con un unico sguardo i presenti. Vidi parecchi cenni d’assenso, poi tutti raccolsero le loro carte e uscirono frettolosamente. Il resto della giornata ò in qualche modo e feci domande semplicissime agli studenti che mi si alternavano davanti, ostentando disinvoltamente un’espressione seria e comata di fronte alla loro aria incredula. I miei colleghi m’ignorarono.

Alcuni giorni dopo ero comodamente seduto di fronte a un aperitivo, in una delle tipiche terrazze montate su palafitte delle Zattere. Udivo l’acqua sciabordare sotto i miei piedi mulinando forte attorno ai piloni che sostenevano la struttura, mentre una grande nave da crociera transitava maestosa a poche decine di metri dal mio tavolino. Mi sforzavo di pensare che ogni cosa sarebbe tornata al suo posto e che dovevo quindi solo comportarmi di conseguenza. A un paio di tavoli di distanza, una giovane mamma stava pulendo dagli ultimi residui di gelato la guancia del figlioletto e nel tentativo di tenerlo fermo involontariamente aprì le gambe, regalandomi lo scorcio di una bella porzione di mutandine di pizzo rosato. Mi accorsi di essermi eccitato e distolsi immediatamente lo sguardo, ma solo per riportarlo immediatamente dopo pochi secondi sulla donna. Le ginocchia erano nuovamente serrate.

Deluso finii l’aperitivo e mi alzai lasciando i soldi sul tavolo. Andandomene le ai deliberatamente vicino con la tentazione di far scivolare una mano sotto la sua gonna leggera e con l’acuto desiderio di sentirle scostare le ginocchia per permettermi di avvertire sui polpastrelli la stoffa delicata della sua biancheria e più sotto, il caldo umido del sesso. Invece non la guardai nemmeno e solo dopo aver oltreato lo “squero” di San Trovaso trovai il coraggio di fermarmi. Ero cambiato! Lo sentivo! Qualcosa dentro di me era mutato! Prima una situazione simile mi avrebbe fatto sorridere e forse anche ringraziare il fato per lo spettacolo piacevole, ma quel giorno era stato diverso. Quell’istante sfuggente mi aveva eccitato veramente e avevo sentito serpeggiare dentro di me una forza difficile da controllare. Chiusi gli occhi.

“Giuditta” era prona sotto di me e i suoi capelli mi riempivano la bocca, mentre un profumo di grano maturo m’inebriava il cervello. Mi stavo muovendo dentro il suo sesso umido con calma, lentamente, avvertendo l’elasticità delle sue natiche premere contro il mio ventre. Le stavo baciando le spalle e il collo, quando all’improvviso quell’istinto quasi primordiale e la mia mano destra che stringeva forte il pene per posizionarlo qualche centimetro più in alto. L’immediata contrazione delle sue natiche e i muscoli delle spalle che s’indurivano anche loro sotto le mie labbra. La mia mano sinistra le imprigionava intanto i capelli per spingerle in basso la testa, bloccando così ogni sua reazione. La spinta potente del mio bacino. Il suo urlo soffocato che si mescolava alla mia esaltante sensazione di dominio,

di possesso.

Riaprii gli occhi sudato e mi guardai attorno allarmato, ma nessuno sembrava essersi accorto di nulla. Mi appoggiai a una piccola inferriata che delimitava l’accesso al canale. Ero sconvolto. La sensazione che avevo provato era stata mille volte più intensa di qualsiasi altra mai vissuta con Vanessa. Quella“Giuditta” era eccitante soprattutto perché esaltava il dominio che potevo esercitare sia sul suo corpo che sulla sua mente e che mi permetteva di assaporare l’inebriante esaltazione di godere del potere assoluto che si può avere su un altro essere umano. Contemporaneamente però, ero spaventato dal fatto che si potesse rivelare una sensazione incontrollabile e che soprattutto mi pie averla! Mi allontanai sussurrando: «È stato solo un sogno, un incubo!» E me lo ripetevo a ogni o, anche se in un angolo della mia anima rimaneva gelosamente nascosto un baule con dentro un vestito del Seicento e un orologio con il cinturino insanguinato. Molto più in profondità, tenevo però celato accuratamente anche a me stesso il fatto che Vanessa era stata violentata prima di essere sgozzata e che io ancora non sapevo con esattezza dov’ero stato quel maledetto giorno. Salii sul pontile dell’imbarcadero dell’Accademia mentre un vaporetto incominciava la manovra d’attracco e rimasi a osservare i movimenti veloci e sicuri del marinaio. Lo invidiai profondamente.

Capitolo 11°

L’uomo sapeva di non avere molto tempo a disposizione e che alla fine i carabinieri sarebbero arrivati a formulare ipotesi pericolose. Doveva assolutamente fornire loro, in anticipo, soluzioni inequivocabili. Per ore aveva perlustrato Venezia, lentamente, senza però trovare cosa cercava. Aveva visto in un paio di occasioni quello che poteva servirgli, ma le situazioni o gli ambienti non erano ottimali per poter agire con la sicurezza che gli era congeniale. Poi finalmente l’aveva individuata sulla motonave diretta al Lido. Era sceso dietro di lei a Santa Maria Elisabetta e l’aveva seguita senza fretta verso la grande rotonda situata al termine del Gran Viale, osservandola poi distrattamente mentre varcava l’ingresso della spiaggia libera. Dopo un paio di minuti anche l’uomo varcò lo stesso ingresso. Con noncuranza si tolse scarpe, calze e camicia, si arrotolò i pantaloni sotto al ginocchio e andò tranquillamente a eggiare sul bagnasciuga. Percorse un centinaio di metri prima di voltarsi e rifare il percorso a ritroso. La individuò subito, sdraiata su un grande asciugamano giallo. Un piccolo moto di disappunto gli fece ticchettare una palpebra quando notò che l’asciugamano non andava bene. Le ò vicino. Lei aveva gli occhi chiusi e si godeva il calore del sole sulla pelle. Il corpo maturo da quarantenne, morbido ma non grasso, i capelli scuri e ricci.

Lo sguardo dell’uomo indugiò tra le gambe rilassate della donna, dove alcuni peli scuri uscivano ribelli da un ridottissimo costume arancione, troppo stretto per un inguine che non sembrava conoscere rasoio o ceretta. Era perfetta! Si allontanò quindi fischiettando tranquillamente, pensando che a metà del Gran Viale c’era un grande supermercato dove avrebbe senz’altro trovato il grande asciugamano bianco che gli occorreva. Mentre alcuni minuti dopo metteva piede sulla scala mobile, mescolato fra turisti accaldati e locali scocciati, ripensò al rigonfio triangolino di stoffa arancione e i suoi occhi sorrisero dietro le lenti scure degli occhiali. Sarebbe stato anche piacevole… molto piacevole.

Il capitano Marco Redaelli fissava la scena allibito, mentre una miriade di dubbi gli avano per il cervello. L’avevano prelevato in fretta e furia dal suo appartamento romano, senza neppure un educato accenno al fatto che era appena smontato dal suo turno di servizio e che non aveva ancora mangiato. Un aereo militare lo aveva poi praticamente catapultato in tempo record al Marco Polo di Venezia, dove un elicottero l’attendeva con il rotore già su di giri per trasportarlo sulla spiaggia degli Alberoni. La morte aveva sempre una componente di assurdità, ma il cadavere che aveva di fronte ne era impregnato con una intensità tale che lo lasciava sconvolto. La donna era distesa sulla schiena, le spalle e la testa nascoste sotto un grande asciugamano bianco. Quattro pali di legno erano stati legati tra di loro a formare una specie di cornice che era stata posta scrupolosamente sul restante corpo nudo. Attorno, solo le dune di sabbia deserte e silenziose.

I vestiti della donna erano stati piegati meticolosamente e impilati con cura a un paio di i di distanza. Quello era il punto di vista. Il punto dove ora stava Marco, immobile! Tra le mani stringeva una fotografia del quadro di Gustave Courbet “L’origine du Bonheur”. L’assassino era stato di una meticolosità incredibile. La perfetta posizione delle ginocchia, la curvatura del bacino e della schiena, il drappeggio dell’asciugamano bianco messo a valorizzare il capezzolo del seno destro mentre cadeva invece a nascondere pudicamente quello sinistro. E in primo piano il pube rigonfio di peli scuri, selvaggi. Rimise con cura la fotografia in una cartellina di pelle nera e scuotendo con tristezza la testa si diresse verso la “gazzella” che lo attendeva a poche decine di metri con le ruote semiaffondate nella sabbia. La perfetta somiglianza tra il corpo della donna uccisa con quello della modella nel quadro rivelava la lucidità e la cura che l’assassino aveva messo nel preparare il suo crimine. Due donne uccise e due dipinti. Sia le vittime che i quadri diversissimi tra di loro. Un unico pazzo omicida con la mania dell’arte. Un amico su cui gravavano pesantissimi indizi. Ed inoltre il vero motivo del suo rientro forzato nelle indagini: tra due giorni al Lido di Venezia sarebbero incominciati i lavori di preparazione per il G8! Se li avessero compiuti in qualsiasi altra città del mondo, nessuno si sarebbe preoccupato di quei due omicidi o comunque non avrebbero provocato tutta quell’agitazione, ma nella tranquilla e sonnacchiosa Venezia la presenza di un

probabile serial killer si notava, eccome!

In qualche modo gli esami di maturità finalmente terminarono e io mi stavo godendo il mio primo vero giorno di vacanza. Erano quasi le undici quando giunsi in spiaggia. Con Vanessa affittavo da anni, per l’intera stagione balneare, una “capanna” in prima fila all’Hotel Excelsior. Comodamente abbandonato sul comodo sdraio sistemato con cura sotto un ampio tendalino bianco, osservavo senza partecipazione la sonnacchiosa routine dei bagnanti sulla spiaggia assolata che avevo di fronte. Alcuni bambini giocavano chiassosi nell’acqua bassa, accanto a un capannello di mamme che intervallavano le loro discussioni con acuti richiami allarmati e stanche minacce senza effetto. Un gruppetto di giovanotti palestrati e tatuati erano invece intenti a sfilare, con apparente indifferenza, davanti a ragazze dai ridottissimi bikini che, sdraiate su coloratissimi asciugamani, con altrettanta finta indifferenza si spalmavano di creme abbronzanti. Il vuoto dovuto alla mancanza di Vanessa era però doloroso e continuavo a vederla sdraiata sul lettino accanto al mio nella sua ininterrotta battaglia per la conquista di un’abbronzatura perfetta. Incredibilmente mi mancavano le sue infinite disquisizioni con le vicine di capanna, dallo studio accurato dei millimetri di stoffa da utilizzare nei primi giorni di esposizione al sole a quelli per i bagni, quelli con i lacci e quelli senza… Quasi senza accorgermene, però, il mio interesse si era spostato dai bikini alle forme ben più concrete che a malapena quegli aggeggi cercavano inutilmente di contenere. Andai a tuffarmi.

E mentre scaricavo l’eccitazione crescente in violente bracciate, incominciai a rendermi conto di come si era modificato il mio modo di vedere il sesso. Tornando sfinito al mio sdraio, mi accorsi che nel frattempo erano arrivate in spiaggia anche un paio delle famose amiche e le salutai con rinnovata curiosità. Con Vanessa mi consideravo sessualmente appagato, per cui di conseguenza le sue amiche le avevo sempre considerate più o meno parte dell’arredamento della spiaggia. Perché ora mi scoprivo a fantasticare avventure erotiche con quei corpi che solo alcune settimane prima non mi dicevano nulla? Non poteva essere solo la mancanza della mia donna. Mi rimisi gli occhiali da sole e presi a studiarle con calma. Constatai una volta di più che fisicamente nessuna di loro poteva rivaleggiare con la mia Vanessa e non per snobismo, ma ero anche sicuro che non avrei mai scelto una di loro come compagna di vita. Comunque c’era in loro qualcosa che mi stuzzicava. Improvvisamente compresi e la semplice verità della mia intuizione mi fece sorridere della mia stessa stupidità. Erano “Donne”! Detto così sembrava veramente stupido, lapalissiano, ma non ero proprio vero! Avevo incominciato a guardarle da un mutato punto di vista e a poco a poco, ognuna di loro incominciò a raccontarmi una sua particolare storia. Mi accorgevo che nonostante vivessi in una società dov’era normale il concetto della parità di diritti, le donne erano per me solo l’espressione dell’altra metà del mondo. Colleghe, amiche, donne da desiderare quando erano belle o da conviverci civilmente quando lo erano un po’ meno.

Rientravano generalmente nelle classiche tipologie che andavano da belle a intelligenti, ando dalle categorie oche per arrivare infine a quelle delle puttane o delle frigide. Più o meno come catalogavo d’altronde i maschi. Belli, brutti, arrivisti, puttanieri, stupidi, intelligenti, onesti… Insomma per me il mondo era in pratica diviso in due, maschi da una parte, femmine dall’altra, ognuno con i suoi pregi e i suoi difetti. Incominciava a nascermi però un dubbio. Mi alzai e incominciai a eggiare sul bagnasciuga, attento a non perdermi una sola donna. Piccole, alte, giovani e meno giovani, magre e grasse, sdraiate o in piedi. Indubbiamente stavo facendo la figura del guardone, ma me ne fregai altamente; sia perché probabilmente ero in buona compagnia, sia perché ero ormai estremamente catturato dalla novità di quello che osservavo. Avevo la sensazione di eggiare tra due razze diverse e la sensazione era che loro, le “Donne”, fero parte della razza più avanzata o… più antica. Avvertivo in loro una forza che noi uomini non abbiamo o che forse abbiamo perduto. Era come se loro fossero le depositarie di una saggezza e di un potere antico che, attraverso il tempo e le sofferenze, si fosse consolidato in una specie di aura indefinibile che le circondava. E loro, le carogne, lo sapevano! La parola “femminilità” mi risuonava differente, non vedevo più soltanto moine e trucchi, tacchi alti o una diversa sensibilità. Vedevo Potere! Non quello imposto con la forza o rubato con l’inganno, ma quello vero, quello

autentico, la capacità di “essere”! E a specchio di questa forza interiore, anche i loro corpo avevano incominciato a parlarmi con un linguaggio differente. Era difficile ormai trovarne una brutta, ognuna aveva qualche cosa di speciale, chi la bocca, chi le mani, chi le gambe o gli occhi. A volte i loro pregi si sommavano a volte rimanevano isolati, ma ognuna possedeva quello che bastava per voler starci assieme almeno una volta, per godere dei doni che poteva offrirti. Un bambino mi schizzò d’acqua fredda e lo guardai leggermente infastidito, lui m’ignorò ed io mi soffermai ancora per un istante a osservare la sua spensieratezza. Quando tornai a concentrarmi sull’universo femminile… era tutto finito! Erano tornate le solite donne di tutti i giorni, con le consuete pancette e l’ineluttabile cellulite. Sederi con addosso troppe ore di sedie collocate dietro scrivanie anonime e seni che soffrivano la mancanza del sostegno di solidi reggiseni. L’umanità presente sulla spiaggia aveva riacquistato con forza la sua consueta immagine. Uomini e donne secchi, grassi, molli o asciutti, sportivi o sedentari. Le donne solo più colorate! E su di tutti un sole caldo e accecante. Stanco, feci una doccia e andai a pranzo.

Capitolo 12°

Redaelli tirò un sospiro di sollievo. Dal rapporto che aveva sul tavolo risultava senza possibilità di errore che Michele era in pizzeria con i suoi colleghi, quando era stata uccisa la donna sulla spiaggia del Lido. Un controllo sugli spostamenti del professore era stato d’obbligo, visto i pesanti sospetti che gli investigatori avevano già sul suo coinvolgimento nel caso “Della Vigna”. La competenza del capitano, unita alla sua indiscussa onestà professionale, aveva fatto sì che fosse stato nuovamente designato a condurre l’indagine su quegli strani omicidi, nonostante la sua chiara amicizia con Michele Barovier. E proprio il fatto che il professore fosse ancora pesantemente sospettato non gli aveva permesso di prendere subito contatto con Michele per poterlo avvertire del suo ritorno a Venezia. Accantonò con un sospiro i dubbi morali che lo tormentavano e si concentrò sui documenti che aveva sotto gli occhi. Gli indizi che aveva in mano erano labili e sfuggenti. La vittima era risultata essere un’impiegata di una ditta di spedizioni di Mestre che, secondo i suoi colleghi, aveva l’abitudine di are i suoi pomeriggi estivi liberi sulla spiaggia pubblica del Lido. Non era sposata e dalle informazioni che gli investigatori avevano raccolto, pareva che vivesse da sola, senza un compagno stabile. Dal referto dell’autopsia risultava che era stata strangolata durante un rapporto sessuale e se questo fatto poteva far pensare a una performance di sesso estremo finita male, l’accurata coreografia messa in atto dopo la sua morte conduceva

invece a scenari più inquietanti. La porta si aprì senza che il visitatore bussasse e Marco alzò gli occhi seccato. Il colonnello Alessandro Medini era immobile sulla soglia e gli fu sufficiente notare la ruga profonda sulla sua fronte per intuire che qualche cosa andava storto, molto storto. Il suo superiore richiuse la porta con lentezza, poi, mentre con un cenno della mano lo invitava a rimanere seduto, si piazzò davanti alla scrivania, la schiena dritta e la mascella contratta. «Capitano! Dobbiamo parlare… ma prima ho bisogno di sapere, da uomo a uomo, se posso fidarmi di lei.» Dietro al suo tono ruvido s’intravedeva l’imbarazzo. «Ho bisogno di sapere, soprattutto dopo che le avrò comunicato le ultime novità, se lei possa ritenere sinceramente di essere in grado di portare avanti il suo incarico.» Marco si appoggiò allo schienale della poltrona, mentre avvertiva la camicia appiccicarsi fastidiosamente alla schiena. «Ha la mia parola!» Sentì la sua voce risuonare ferma e se ne stupì. «Accanto al cadavere della donna è stata trovata una penna a sfera, semisepolta nella sabbia.» L’ufficiale non staccava gli occhi dai suoi: «Questo lo sapeva vero?» Poi senza aspettare risposta continuò: «Mi sono appena arrivati i risultati dal laboratorio della scientifica. Sopra hanno trovato l’impronta di un pollice… del pollice destro di Michele Barovier!» «Non è possibile!!»

Marco scattò in piedi. «Ho qui le testimonianze firmate che lo collocano a quell’ora in una pizzeria di Cannaregio, è impossibile che fosse contemporaneamente sulla spiaggia degli Alberoni!!» Nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole, si rese conto che il suo coinvolgimento emotivo rischiava seriamente di compromettere le indagini e si bloccò. «No! Non sono in grado di continuare.» Ammise onestamente. «È quello che mi aspettavo di sentire!» «Che cosa devo fare?» «Continuare!» La risposta del suo superiore lo colse di sorpresa. «Come?» «Devi continuare Marco! In questa storia c’è qualcosa di veramente insolito. Non è solo l’assurdità di un sospettato schiacciato da prove irrefutabili, ma protetto nello stesso tempo da alibi altrettanto inoppugnabili. Avverto che c’è sotto qualche cosa di molto più subdolo e tu devi scoprire cosa! Ufficialmente sei nuovamente sospeso dal caso, ma in realtà hai carta bianca… buona fortuna!» Solo dopo molti minuti che la porta si fu richiusa silenziosamente, Marco riprese a respirare in modo accettabile. Si ributtò a capofitto nei documenti che occupavano ormai tutta la sua scrivania e ancora a notte tarda vedeva solo due possibili spiegazioni: o il suo migliore amico era un assassino dotato di un’astuzia diabolica o qualcuno aveva un’abilità altrettanto incredibile nel manipolare le prove. In ogni caso lui aveva un nodo allo stomaco.

Capitolo 13°

Le tagliatelle con l’astice erano stupende e il prosecco alla giusta temperatura, non presi il secondo, faceva troppo caldo e non volevo appesantirmi inutilmente. La trattoria “Da Carlo” è uno dei miei posti preferiti quando sono al Lido, adoro sedermi nel giardinetto sempre fresco e accogliente grazie alla fitta vite che lo ricopre, godendomi oltre il basso muretto di cinta la tranquillità di una stradina alberata, fiancheggiata da uno dei più bei canali interni dell’isola. «Professore! Professor Barovier!» Alzai la testa. Luisa Ballarin mi stava sorridendo al di là del muretto, i riccioli biondi che svolazzavano ribelli. Percepii in lei un attimo di esitazione, poi la vidi spingere decisa il cancelletto di ferro battuto. «Professore!… Devo ancora ringraziarla! Avevo una paura matta all’esame, ma per fortuna lei è stato così carino e buono!» «Non sono stato buono.» Dissi con la bocca impastata. «Eri molto preparata e lo sai!» Mentre parlavo, mi accorsi però che la mia allieva aveva qualcosa d’insolito, ma pensai che forse ero solo io che la stavo guardando con occhi diversi. La vidi bloccarsi per un istante e un suo sguardo si posò rapidamente sulla mia figura, poi sul suo viso si aprì in un sorriso pericoloso a cui non feci troppo caso, la mia soglia d’attenzione colpevolmente limitata dalla bottiglia vuota di

prosecco. «Stavo andando a casa di un’amica per festeggiare l’esame superato, mi accompagna? È proprio in fondo a questa strada.» Il tono era leggero, come se già si aspettasse un rifiuto. Scusa che arrivò puntuale. «Mi spiace Luisa, ma ho impegni nel pomeriggio!» «Non importa Michele, ci vado da sola.» Notai che la ragazza era ata improvvisamente al tu ed ero sul punto di replicare quando pensai che ormai, non essendo più una mia allieva, non c’erano motivi per non essere amici. Pagai il conto e uscii con lei, accorgendomi di quanto fosse piacevole camminare con quella giovane ragazza al fianco. Arrivammo a un grande portone di vetro e Luisa mi diede un rapido bacio su una guancia, prima di voltarsi per suonare a un citofono. La salutai meccanicamente con un gesto della mano e mi incamminai incerto con un improvviso senso di vuoto dentro lo stomaco. «Professore!... Michele!» La voce della ragazza mi arrivò curiosamente acuta. Mi voltai. «Pensavo che Marta, la mia amica… l’anno prossimo vorrebbe iscriversi all’Accademia di Belle Arti, ma è ancora indecisa sull’indirizzo da prendere… non è che lei, che tu… potresti dare un’occhiata ai suoi lavori e magari darle un consiglio?» Lo sguardo era quello di un cane bastonato. Il vuoto sparì immediatamente, sostituito da un’accelerazione del battito cardiaco.

«Veramente… ok! Cinque minuti però, guardo solo i disegni e me ne vado!» Luisa si aggrappò felice al mio braccio, trascinandomi poi con entusiasmo oltre la porta a vetri. Marta ci stava aspettando sulla porta e notai che aveva più o meno la stessa corporatura della mia ex allieva, però in versione castano scuro. Ostentò uno sguardo infastidito che usò per squadrarmi in una lunga e pesante occhiata, poi si spostò per farci entrare. Case da studenti! Tutte uguali! A parte il computer, il lettore DVD e i CD sparsi ovunque, quell’appartamento poteva essere benissimo la fotocopia di quello in cui avevo abitato io. Stesso attaccapanni ricolmo d’indumenti colorati, libri in ogni luogo, scarpe che spuntavano da sotto il divano. Sentii un nodo di nostalgia salirmi in gola. Luisa lanciò le scarpe in un angolo con un movimento rapido delle gambe, per poi saltare a ginocchia unite sul divano. «Dai Marta… fai vedere i tuoi disegni! Michele è uno tosto, credimi!» Io non sapevo come muovermi e guardai la ragazza stringendomi nelle spalle. La osservai lanciare uno sguardo incuriosito in direzione dell’amica, poi scrollò la testa e si diresse verso la camera accanto. «Vedrai che belli, è sempre stata la più brava a scuola, ti piaceranno di sicuro!» I capelli biondi erano un’aureola soffice nel controluce della finestra. Poi saltò giù dal divano, mi afferrò nuovamente per mano e mi ritrovai letteralmente trainato dentro l’altra stanza. Sul letto erano sparpagliati una decina di lavori, alcuni a carboncino, altri realizzati a tempera.

Istintivamente scartai quelli palesemente scolastici e rimasi con solo due tavole. Una “marina al tramonto”, dove la ragazza era riuscita a ottenere un’atmosfera particolarmente coinvolgente e un ritratto di Luisa, nuda; dove la ragazza era rappresentata di spalle, inginocchiata sul pavimento ma con la testa voltata verso lo spettatore. La torsione della schiena e del collo era notevolmente realistica e molto ben proporzionata, ma era lo sguardo la cosa che maggiormente lasciava interdetti; era sicuramente lo sguardo di una donna innamorata un attimo prima di donarsi e l’artista l’aveva colto con altrettanto evidente amore. «Brava vero?» La voce di Luisa fu un sussurro, poi si piegò in avanti e appoggiò delicatamente un lungo bacio sulle labbra dell’amica. Il mio imbarazzo raggiunse il culmine. Contemporaneamente il mio sesso mi fece sapere che lui d’imbarazzi non ne aveva proprio. Luisa si staccò dalla bocca dell’amica con un gesto morbido, poi si voltò a guardarmi negli occhi e delicatamente mi prese una mano, mettendosi in bocca il mio pollice. Avvertii la sua lingua scivolarci attorno, poi, sempre senza staccare gli occhi dai miei, lo appoggiò sulle labbra di Marta. Spostai lo sguardo sull’altra ragazza. Le sue labbra erano serrate e asciutte. «Sii delicato con Marta, a lei gli uomini non piacciono molto… ma mi deve un favore.» Le parole di Luisa erano dirette a me, ma il suo sguardo era fisso sull’amica. Gli occhi dell’altra ragazza erano un laboratorio di lampi scuri.

Capitolo 14°

La situazione era completamente nuova per me. Per la prima volta che non solo ero di fronte a un’avventura con due donne, ma soprattutto non ero io che decidevo o che perlomeno proponevo. Mi resi conto di essere solamente uno strumento nel gioco in corso tra le due ragazze e che forse non avrei mai conosciuto il vero motivo che spingeva Luisa a coinvolgermi. Marta non staccò gli occhi dal mio viso e vidi chiaramente lo stesso imbarazzo che provavo io riflesso nel suo sguardo. Indubbiamente le motivazioni erano diverse, ma le nostre paure sembravano molto simili. Avvertii una presenza alle mie spalle e mi voltai allarmato. Appollaiata su una sedia a dondolo, in un angolo della stanza, la ragazza con la pelle di drago giocherellava con la sua coda e il calore emanato dai suoi occhi sembrava volermi bruciare le viscere. «Non vorrai mica fuggire? Vero?» Luisa ridendo mi riprese sotto braccio e io la guardai per un istante imbambolato, riportando subito dopo lo sguardo nell’angolo della stanza. Nessuno! Solo la sedia a dondolo, vuota, che oscillava lentamente. Le ragazze intanto mi osservavano, leggermente indecise. Sorrisi della situazione che si era creata. Ora sapevo come comportarmi.

Luisa deglutì nervosamente, forse sentendo che il gioco le stava sfuggendo di mano, sicuramente un conto era progettare una fantasia erotica durante un momento di eccitazione, un altro era metterla realmente in atto. Anche Marta sembrava intimidita e leggermente spaventata. Allungai una mano prendendo con dolcezza il polso sinistro di Marta, poi aprii anche l’altra mano con il palmo rivolto verso l’alto e Luisa vi ci appoggiò fiduciosa la sua piccola mano destra. Unii le loro mani, le dita intrecciate. Sfilai il leggero foulard rosso che la ragazza mora portava al collo e con quello legai assieme, con delicatezza, i loro polsi. Ora tutte e due non staccavano gli occhi dal mio viso, il respiro bloccato. Appoggiai le mani sulle loro spalle e le spinsi con calma sul letto, stese sulla schiena, le gambe penzoloni. «Avete altre due sciarpe?» Il mio tono era sicuro e determinato. Marta m’indicò l’attaccapanni. Scelsi le due più scure che trovai e ritornai verso il letto, dove le ragazze avevano ora un delizioso sguardo tra l’eccitato e l’impaurito. «Ora vi bendo gli occhi! Dovete concentrarvi solo sulle vostre mani unite, sarà l’unico punto di contatto tra di voi.» Sollevarono a turno docilmente la testa, lasciandosi bendare. Le scrutai con calma, con gli occhi coperti, solo l’intensità del respiro tradiva le loro emozioni. Mi misi in ginocchio in mezzo a loro appoggiando i pollici esattamente al centro della loro fronte. «Quello che faccio sul corpo di una di voi» mi sentii dire con voce tranquilla, «lo

faccio contemporaneamente sul corpo dell’altra e quindi quando una avrà una sensazione, l’altra lo percepirà attraverso il contatto della mano.» Lentamente scesi con i polpastrelli sulla curvatura del loro naso, per appoggiarli poi delicatamente sulle labbra. Istintivamente ambedue le ragazze le socchio e vidi le loro mani unite contrarsi leggermente. Superai il mento e sfiorai le loro gole. Aumentai la pressione dei pollici e le sentii irrigidirsi, le mani strettamente allacciate; allentai immediatamente la pressione e scesi ancora più in giù, lungo il profilo dei seni. Sfiorando le camicette leggere, mi bloccai sui capezzoli eretti e un leggero sussulto venne fuori contemporaneamente dalle loro gole. Li schiacciai leggermente tra il pollice e l’indice. Nessun suono uscì dalle loro bocche aperte, ma le mani erano serrate in una morsa ferrea. Continuai a percorrere la curvatura dei seni per scendere con calma fin sotto l’ombelico. Quando, al posto di are sul loro Monte di Venere, mi spostai lateralmente sulle anche e poi sull’esterno delle cosce, le sentii rilassarsi, permettendomi di raggiungere le ginocchia, che massaggiai lentamente con il palmo della mano finché non avvertii il loro respiro ritornare alla normalità. Poi afferrai con decisione le loro gonne e le sollevai contemporaneamente verso l’alto. Marta chiuse istintivamente le ginocchia, mentre Luisa, anche se impercettibilmente, si comportò esattamente al contrario. Riportai le mie mani sulle loro ginocchia e con una leggera pressione, costrinsi ambedue ad allargare le gambe al massimo.

All’inizio quelle della ragazza mora fecero resistenza, poi si arresero e mi trovai di fronte a due corolle bianche, formate dalle loro gonne sollevate da cui spuntavano quattro cosce abbronzate, schiuse e cariche di promesse. Risalii con calma l’interno delle cosce fermandomi a un paio di centimetri dal loro inguine. Il respiro delle ragazze era inesistente. Con i pollici scostai entrambi gli orli delle mutandine, osservando con calma il loro sesso completamente esposto, indifeso al mio sguardo e alle mie voglie. Le mani delle ragazze erano nuovamente allacciate saldamente. Notai che le grandi labbra di Luisa erano leggermente aperte e luccicanti, mentre il sesso di Marta era invece ancora completamente nascosto. Infilai con decisione l’indice e il medio della mano destra dentro Luisa. Un rantolo le sfuggì dalla gola tesa e alzò il bacino per venirmi incontro. Quasi nel medesimo istante anche Marta sollevò il bacino e lo protese per qualche secondo nel vuoto, mentre dalla sua gola usciva un gemito di disappunto. Appoggiai allora anche le dita della mia mano sinistra sul suo sesso, ma non ebbi bisogno di spingere, furono le sue anche a fare tutto, accompagnate da un lieve mugugno subito soffocato. Improvvisamente saltarono tutti gli schemi e attorno alle mie dita impazzite, le ragazze diedero il via a una danza selvaggia. Le loro mani legate si stavano stringendo allo spasimo nel tentativo di comunicarsi a vicenda sensazioni sempre più violente, mentre ambedue, con l’altra mano artigliata sul lenzuolo stropicciato, sembravano voler afferrare l’ultimo contatto con la realtà. Ero troppo coinvolto in quell’incredibile unione che ci legava indissolubilmente tutti e tre, per accorgermi che alle mie spalle la ragazza drago si stava nuovamente cullando, sorridente, sulla sedia a dondolo.

Capitolo 15°

Mi svegliai al buio e lasciai che i miei occhi si abituassero alla luce della luna che, entrando dalla finestra aperta, illuminava le dolci forme delle ragazze abbracciate al mio fianco. Allungai una mano ad accarezzare lievemente la morbida coscia di Marta e un leggero cigolio del letto mi fece intuire il movimento che la ragazza compiva per aderire meglio al corpo dell’amica. Mi alzai con precauzione, non volendo svegliarle, anche se poi rimasi a lungo a osservarle nell’abbandono del sonno. Erano stupende. Mi sentivo rilassato e stranamente felice, colmo di una gioia serena e completa. Quello che doveva essere solo un’esperienza sessuale fuori dalla norma si era trasformata lentamente in qualche cosa di molto più coinvolgente e profondo. Era come se in quelle ore ognuno di noi avesse lentamente abbandonato le proprie paure più segrete e a mano a mano che i nostri corpi si andavano scoprendo, anche le nostre personalità si fossero amalgamate assieme. Avevo inizialmente osservato Luisa giocare con i nostri corpi, esaltata dal fatto di poter forzare la sua amante, rigorosamente lesbica, a gettarsi tra le braccia di un uomo. E se poi quell’uomo per lei maturo riversava apionato su di loro tutta la sua attenzione, l’eccitazione la travolgeva prepotentemente. L’avevo però vista mutare espressione a mano a mano che intuiva che Marta lo faceva solo per amore nei suoi confronti e nel momento in cui arrivò a comprendere a fondo il regalo che le stava facendo la sua compagna, cercò di fermarmi; offrendomi in cambio incondizionatamente tutta se stessa, purché

rispettassi l’amica che in quel momento aveva scoperto di amare con altrettanta sincerità. Ma anche Marta era nel frattempo mutata e la progressiva consapevolezza che la donna di cui era innamorata aveva smesso di considerarla solamente una conturbante esperienza trasgressiva, ma che l’accettava come un amore vero, aveva provocato in lei un singolare cambiamento anche nei miei confronti. Forse si era sentita più sicura e quella forza le dava lo stimolo per accettare le mie attenzioni di maschio, per verificare sensazioni che sino ad allora aveva allontanato dalla sua vita, liberando l’innata curiosità femminile nello sperimentare e nel provocare. Non avrebbe certamente mai abbandonato il suo modo di essere e di vivere la propria sessualità, ma sentiva che sarebbe stata da quel momento maggiormente libera da paure e da condizionamenti psicologici. Da parte mia ero al settimo cielo. Il mio orgoglio di maschio era esaltato dal fatto di essere stato accettato da una lesbica; ma nel medesimo tempo ero anche cosciente che solo se l’avessi veramente rispettata, quella stupenda donna mi avrebbe donato, anche solo per quel giorno, il suo corpo e la sua fiducia. Non ci furono pause, ma non si trattò solo di un’esibizione di tecniche amatorie, fu una costante ricerca di dare il piacere a chi avevamo accanto e più ci sforzavamo in questo senso più ricevevamo in cambio attenzioni straordinarie. Mi rivestii in silenzio e aperta la porta mi voltai ancora una volta a guardare quei corpi stupendi. La tentazione di tornare in mezzo a loro era forte, ma avvertii anche il bisogno di rimanere da solo, per valutare con serenità quello che mi era successo. Uscii e trovai Emy seduta sui gradini dell’ingresso, la schiena appoggiata alla grande porta di vetro. «Emy? Ma cosa…» Mi fermai di colpo, il suo viso era una maschera di pietra.

Mi squadrò a lungo, senza quasi battere le ciglia, poi si guardò attorno con evidente timore sussurrandomi: «Dobbiamo parlare! Subito!» Incominciai a preoccuparmi seriamente. «Ho la macchina all’angolo, vieni!» La sua voce non ammetteva repliche. Se mi stupii nell’apprendere che possedeva un’auto, quando aprì le portiere di una Porsche Carrera 4S, nera come la pece, il mio sbalordimento fu completo. Partì sgommando sulle quattro ruote motrici e il rumore del boxer sei cilindri fu pura musica. Forse per questo nessuno dei due notò una figura nera entrare velocemente oltre la grande porta di vetro. «Sappiamo chi è!» «Chi è chi?» «“Lui”! L’essere che ti ha seguito fin qui!» Mi ritornarono i crampi allo stomaco e tutto quello che di bello avevo avuto nelle ultime ore venne travolto in un istante. «Lui… chi è?» La mia voce risuonò fastidiosamente tremolante. Emy mi guardò un attimo, prima di tornare a concentrarsi sulla strada davanti a lei. «Cosa sai dei sette cieli?» Ora era la sua voce a tremare leggermente. «I sette cieli?… Se parli di quelli che ci insegnavano a Catechismo poco o

niente. Mi sembra che nel libro della Genesi si parli di un sogno di Giacobbe riguardo a una scala poggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo e gli angeli di Jahvè che salivano e scendevano per essa.» «E del Diavolo?» «Il Diavolo?… E’ un angelo decaduto, è il male!» Non riuscivo a capire dove volesse arrivare o forse non volevo capire. La ragazza inchiodò la macchina un secondo prima che la strada asfaltata si tramutasse in sabbia. Mi guardai attorno e alla luce dei fari vidi solo dune e sterpaglia. Mi ci volle qualche secondo per comprendere che eravamo al margine della spiaggia di S. Nicolò. Guardai l’ora e il quadrante fosforescente del mio Swatch segnava le tre e dodici, nulla da stupirsi che non ci fosse anima viva attorno. «Dov’è il tuo Rolex?» La domanda mi arrivò a bruciapelo. «D’estate preferisco portare questo… è più pratico.» Avevo la gola secca. Emy spense tutte le luci della macchina e per un istante il buio fu totale, poi i miei occhi si abituarono al chiarore della luna. «È il Diavolo! È lui che ha attraversato con te la porta.» La sua voce era solo un sussurro. «È lui che ha ucciso Vanessa e sicuramente vuole distruggere anche te!» Feci per uscire dalla macchina, ma il buio attorno mi sembrò improvvisamente pauroso e istintivamente azionai la sicurezza delle portiere.

Il tempo di vedere un lampo ironico negli occhi della ragazza e mi resi conto che avevamo i finestrini completamente abbassati. «Lascia che ti spieghi prima alcune cose.» Emy parlava con calma, scegliendo le parole, mentre faceva riscattare il blocco di sicurezza e scendeva dall’auto. La seguii titubante, sentendomi notevolmente stupido, mentre più avanti si incominciava a intravedere una grande struttura scura. Sapevo che si trattava di un ristorante che aveva i tavolini sistemati all’aperto dalla parte della spiaggia e che vista l’ora era ovviamente chiuso, illuminato solo a tratti dalla luce azzurra della luna. Emy mi ò accanto, dirigendosi verso la spiaggia. La seguii sino a uno dei tavoli più esterni. Davanti a noi solo la sabbia buia e il mare calmo e profondo; mentre la luna, perfettamente tonda, sembrava irrealmente incollata nel cielo stellato. «Il mondo non è come pensi tu e l’aldilà non è esattamente come lo spiegano a Catechismo. Noi viviamo in una dimensione e in una realtà che tutti vediamo e che in parte conosciamo, ma non è l’unica. Ognuno di noi fa parte anche di un’altra dimensione molto più grande e più potente che non sto qui a spiegarti. Non è il momento e poi forse non capiresti neppure.» Spostò una sedia e mi fece cenno di sedermi. Obbedii. La vidi allontanarsi nel buio solo per ricomparire solo alcuni secondi dopo, sorreggendo un piccolo scatolone che appoggiò sul tavolo. Era pieno di coni di cialda utilizzati per i gelati.

«Scusa, non voglio essere presuntuosa, ma veramente il tempo è pochissimo e il pericolo molto reale, quindi ascolta attentamente. Solo se riesci a comprendere quello che sto per dirti potrai salvarti e forse non salverai solo te stesso!» L’aria era calda, ma una lama di ghiaccio mi scivolò ugualmente lungo la schiena. Emy poteva essere strana e le cose che diceva incomprensibili, ma in quel momento non scherzava, non scherzava affatto! La osservai appoggiare delicatamente un cono sul tavolo, con la punta rivolta verso di me. «Ipotizza di essere un puntino alla base del cono e cerca di immaginarti a guardarci dentro. L’impressione che avresti è di uno spazio circolare. Ora quello spazio è una “dimensione” e quello che riuscirai a fare all’interno di quel cerchio, in quella dimensione, fa parte della tua crescita interiore.» Facevo fatica a seguire il suo ragionamento. «Questa è anche la rappresentazione di un cielo, di un tuo cielo!» Emy mi guardò sospirando, poi estrasse dalla scatola altri cinque coni e li pose a raggiera vicino al primo. «In realtà di cieli ce ne sono sei. Non stare a chiedere il perché, per ora accettalo e basta!» Notai che era estremamente concentrata. «Queste sono le dimensioni che abbiamo a disposizione e secondo le scelte che facciamo o dei condizionamenti che subiamo, possiamo are da una all’altra. Fatta la scelta, quella dimensione diventa la nostra realtà quotidiana. Il primo cielo è quello in cui tu percepisci di essere un uomo, un individuo. È quando dici “io sono”, “io voglio”, è il mondo in cui vivi normalmente tutti i giorni, dove hai i tuoi ideali e le tue speranze. Il secondo cielo è quando esci dal tuo guscio e ti senti parte di un insieme di persone, come in un partito o membro di una religione. È quando dici la parola

“noi” per esprimere un tuo concetto personale.» La ragazza mi guardava sorridendo. «Hai mai detto: “Noi abbiamo vinto!” Parlando della tua squadra preferita?» Leggera pausa. «Il terzo invece, è quello che intravedi quando incominci a renderti conto che dentro di te esiste qualcosa di più profondo e di più grande. Qualcosa che non vedi ma di cui ne intuisci l’esistenza. È quando parli di inconscio, di anima, di magia, di premonizioni, rendendoti conto di avere potenzialità e sentimenti sconosciuti e non utilizzati. Mi segui?» Annuii incerto. «Il quarto cielo è la magia dell’amore vero, è il momento in cui ciò che “non sai” di te stesso, lo metti a disposizione e lo unisci a quello che un’altra persona “non sa” di se stessa. E’ un Amore con la A maiuscola, disinteressato e senza limiti. È il mettere a disposizione di un altro essere umano non solo quello che “vuoi” fargli vedere o quello che sei disposto a concedere, ma tutto te stesso, senza più riserve. E quando due persone lo fanno contemporaneamente è la realtà dei grandi amori, delle grandi ioni che travolgono e travalicano ogni cosa.» I suoi occhi luccicavano e avevo l’impressione che stesse guardando in un territorio a me totalmente sconosciuto. Quando ritornò a fissarmi il suo sguardo era dolce e caldo. «Poi c’è quello della tua più profonda dimensione interiore. Quando cominci a intuire che in te c’è un mondo immenso, tanto grande da risultare incomprensibile, ma anche estremamente potente. Questo mondo si manifesta quando incominci a pensare che quello che ti succede nella vita è solo quello che tu vuoi che succeda. Che sei tu il vero artefice della tua vita, che tu sei e che sarai solo quello che costruisci giorno per giorno. Il sesto infine è quando trovi un altro che ha incominciato anche lui a fare le tua stessa strada e incominci a comunicare con lui. E questo è forse il più alto grado di felicità!»

Si fermò notando la mia espressione perplessa, poi si alzò voltandomi le spalle e rimase in piedi a fissare la grande luna. «Mi hai seguito?» «Insomma! Mica tanto! Alcuni concetti sono difficili da assimilare e poi pensavo in tutta onestà che tu volessi parlarmi di diavoli o roba simile, invece mi hai fatto vedere universi bellissimi, ma scusami la franchezza, molto filosofici. Cosa c’entrano con i nostri problemi o con… “Lui”?» «Sapevo che non avresti capito! Comunque ascolta ancora una cosa.» Stranamente era più rassegnata che arrabbiata. «Tra un cielo e l’altro c’è uno spazio di confine e in questo spazio c’è quello che tu comunemente chiami Diavolo.» Ora l’avevo persa! «Il Diavolo? Ma se è l’impersonificazione del male, cosa c’entra con i cieli?» «C’entra, eccome se c’entra! Ogni volta che si tenta di are da un cielo all’altro si prova paura. Paura dell’ignoto, paura di perdere quello che ci lasciamo indietro, paura di quello che le nostre scoperte potrebbero modificare di noi stessi. E più si a da un cielo inferiore a un cielo superiore maggiormente queste paure si trasformano in terrore, in autentico panico.» «Vuoi dire che il diavolo è solo l’immagine della nostra paura?» Ero allibito. «Assolutamente no! “Lui” è la paura, quella autentica, quella tangibile! Non pensare che sia solo l’immagine di qualcosa, è terribilmente reale!» «Non riesco a capire dove vuoi arrivare!» Stavo perdendo la pazienza, ma lei non si scompose. «Insomma, sto dicendo che tu quando hai fatto il viaggio nel tempo, attraverso le porte attivate dal quadro di Caravaggio, hai anche attraversato alcuni cieli e in

particolare sei andato vicino al sesto.» «Quello con il più alto grado di felicità?» «Quello, solo che non potevi entrarci, non eri pronto e ne sei rimasto bloccato fuori, nel “suo” territorio.» Incominciai ad avere la pelle d’oca. Emy fece una breve pausa, prima di continuare: «E quello che blocca l’accesso al sesto cielo è la Lussuria!» Con un gesto rapido bloccò la mia istintiva reazione. «Aspetta! Quello che si intende normalmente per lussuria è che sia il desiderio esagerato e senza freni di un altro corpo di cui poter godere o chi si lascia continuamente condizionare da sfrenate fantasie sensuali. Le definizioni sono molte e variano da cultura a cultura.» Mi guardò dritto negli occhi. «Invece la lussuria è solamente il convincersi che se non si ha un altro corpo da utilizzare per godere, si rimanga rinchiusi in se stessi in una angosciosa solitudine. Non ci si rende conto che desiderare un altro è solo l’aspirazione a congiungerci con una dimensione più grande di noi stessi; è trovare una persona che sta facendo la nostra strada e camminare assieme a lui, condividendone l’esperienza. Quindi cerchiamo erroneamente, fondamentalmente per insicurezza e comodità, solo l’immagine riflessa di questo altro essere, concentrandoci solamente sul suo corpo fisico o comunque su qualsiasi altro corpo su cui possiamo avere un potere.» Dovetti ammettere che era un aspetto che non avevo mai preso in considerazione, dal momento che è una definizione che normalmente attribuiamo sempre a qualcun altro, difficilmente uno dice “sono un lussurioso”. Rimasi ad ascoltarla incuriosito. «Ma se rimani bloccato fuori da un cielo, nel “suo” territorio, tutte le tue fantasie, le tue angosce e i tuoi desideri prendono corpo e ingrandiscono a

dismisura, diventano reali. E’ la tua stessa paura che li rende concreti, come questo diavolo che ti ha seguito attraverso la porta, reale quanto sono reali le tue paure e i tuoi desideri!» Ero allibito! Nonostante l’enormità di quello che avevo sentito, mi resi però conto della profonda verità contenuta in quelle parole. «Ma allora… “Lui”… il Diavolo.» Non riuscii a terminare la frase e mi tremarono le labbra mentre venivo trascinato in un folle abisso di terrore. Lei continuò la frase per me. «Sì! In un certo senso tu sei quel demone! È la tua paura che si è incarnata! E “Lui” è qui, libero di agire!»

Capitolo 16°

Ero paralizzato, il vuoto assoluto nella testa. Mi accorsi che Emy mi stava scrutando con un’espressione ansiosa e feci uno sforzo per recuperare almeno la voce. «Fammi capire bene, vuoi dire che l’essere che mi ha quasi ucciso è il Diavolo, frutto delle mie paure, ma nel contempo quel diavolo sono io?» «È molto più complicato e più semplice nel medesimo tempo.» Notai che poneva attenzione alle parole che pronunciava. «Quell’essere è il “Male” e in realtà non ha importanza la forma che ha. In questo universo lo chiamiamo Diavolo e gli diamo un’immagine per meglio identificarlo, quindi quando ha ato le porte ha acquistato la forma fisica che noi in questo universo ci aspettavamo che avesse.» «In questo senso hai detto che siamo la stessa persona?» Un filo di speranza si mosse nel mio profondo. Se era solo una questione filosofica la situazione non poteva essere così tragica. «Sbagli e sbagli di grosso!» Mi ricordai improvvisamente della sua capacità di leggere nel pensiero. «Quell’essere uccide!» Non riuscivo ad accettarlo. «Devi accettarlo! Solo se guardi in faccia la verità puoi salvarti!» Raccolsi tutte le mie forze e sparai la domanda che più mi terrorizzava:

«Se quel diavolo sono io, allora sono io che… uccido!» Non avevo bisogno di aspettare la risposta, la verità la potevo leggere nel verde dei suoi occhi, senza appello, pesante come un macigno. Un altro dubbio mi assalì. «Ma se sono io che uccido, come mai tu non hai paura? Perché sei qui da sola?» Emy, che nel frattempo si era alzata in piedi a scrutare il mare, si voltò a guardarmi. Attorno al suo capo la luna creava un’irreale aureola di luce e tutto il suo corpo sembrava in quel momento circondato da un’aura luminescente. «Non ti preoccupare. Io sono al sicuro, protetta da una forza ben più potente e antica del tuo diavolo.» I suoi occhi verdi sembravano gemme. «Ma questo non minimizza il pericolo. Carlotta stessa, nonostante tutta la sua esperienza e la sua forza è quasi morta.» Notai che evitava di guardarmi negli occhi. «Ma non poteva difendersi?»Esclamai irritato, «ho visto chiaramente Lilith che lo affrontava…» «Se si fosse difesa veramente con tutta probabilità ti avrebbe ucciso! Il tuo attacco è stato feroce, ma ha preferito rischiare e ha cercato solo di proteggersi… e di proteggere te. Comunque, se non fosse intervenuta la forza dell’amore di sua sorella, ne sarebbe stata distrutta.» «Il mio attacco? Io non l’ho attaccata!» Urlai sconvolto. Emy mi venne vicino e appoggiò con cautela il palmo della mano destra sulla mia fronte. I tavolini incominciarono improvvisamente a vorticare e la sabbia sembrò

spazzata via da un tornado, mentre luci e immagini si materializzarono dolorosamente nel mio cervello. Inaspettatamente vidi Carlotta distesa sul divano, il kimono bianco leggermente aperto sui suoi seni abbronzati. Era giovane, la pelle liscia. Rideva. Mi sentivo eccitato e risi anch’io. Ero seduto vicino a lei e vidi la mia mano scivolare sulla sua coscia, mentre il kimono si apriva in un fruscio di seta. I suoi occhi mi guardavano stupiti e la vidi ridere nuovamente, solo che questa volta rideva di me. Avvertii chiaramente il suo rifiuto e l’ironia del gesto con cui richiudeva l’indumento. Dentro di me l’eccitazione si trasformò in furia. Non poteva rifiutarmi! Non poteva prendersi gioco di me. Quella stupida puttana non poteva negarsi alla mia ione. Il suo viso si piegò di scatto sotto l’azione violenta del mio schiaffo e quello che un attimo dopo lessi nei suoi occhi distrusse ogni mia assurda speranza. Improvvisamente ebbi paura della mia solitudine e il mio “Io” mi apparve estremamente insignificante e ridicolo. Allora cercai aiuto. Mi caricai della forza violenta e selvaggia che si sprigiona da chi ha superato la soglia, da chi ha avuto il coraggio di andare oltre, dei tanti che hanno fatto della forza e della violenza la fonte e il coronamento del loro piacere.

E fu con la complicità e la forza del “Noi” che ricominciai a colpirla, che le strappai di dosso quell’indumento fastidioso, che finalmente vidi la sua pelle nuda divenire disponibile sotto le mie dita. Quello che non riuscivo a comprendere era il suo difendersi, l’ostinazione del suo negarsi, non capivo… “Noi” non volevamo altro che quello che ci apparteneva per naturale diritto di forza. Poi il suo volto si trasformò, sembrava elastico e io lo colpii ancora ripetutamente. Inspiegabilmente era diventato il volto di Vanessa, era il suo viso quello che ora subiva la mia violenza ed erano le sue ginocchia quelle che mi colpivano con forza il petto. Continuavo a non comprendere il suo odio e la forza con cui si ostinava a negarmi il suo corpo. Era sempre stato disponibile, consenziente, morbido alle mie esplorazioni, perché ora lo sentivo così ostile, contratto? I suoi lineamenti erano diventati una maschera di pietra e non mi piacevano. In mano avevo un rasoio affilato e lo usai per aprirvi a forza un sorriso, ma anche questo aveva qualche cosa che non andava, era situato troppo basso ed era diventato rosso. Allora la girai con la pancia contro il pavimento. Non volevo più vederlo quel ghigno malefico, ma lui ugualmente mi derideva e si allargava beffardo sulle piastrelle di marmo. Urlai disperato. Avrei voluto rinunciare, ma proprio in quel momento la sentii rilassarsi, avvertii il cedimento del suo corpo e fu con gioia che entrai dentro di lei, che l’inchiodai al suolo, finalmente mia.

Ma i suoi fianchi inaspettatamente ripresero a muoversi e mi colpirono con forza, seguendo un ritmo ancestrale. Avvertii la morbida elasticità delle sue natiche colpire il mio ventre, mentre un suono gutturale le usciva dalla gola. Le afferrai i capelli! Solo che tra le dita non avevo più i suoi morbidi capelli biondi, ma folti riccioli neri, crespi e ruvidi. Con forza le voltai la testa trovandomi di fronte a un viso sconosciuto, a lineamenti che non conoscevo, contratti in un orgasmo che non era il mio e che non mi apparteneva. Avvertii i muscoli dei suoi glutei stringersi attorno al mio sesso, mentre guardavo le mie mani contrarsi attorno al suo collo indifeso. Mi osservai, distaccato, mentre spingevo con forza quel volto insignificante nella sabbia tiepida, nel tentativo ultimo di impedirgli un piacere a me negato. Sentii scrollarmi violentemente per le spalle, mentre qualcuno chiamava il mio nome. Il buio mi avvolgeva. Poi inaspettatamente il chiarore della luna si fece spazio nella mia mente, penetrando poi rapidamente in ogni fibra del mio corpo. E a mano a mano che la tenue luce avanzava, le ombre fuggivano, si ritiravano, scomparivano. Aprii con fatica le palpebre ed il verde degli occhi di Emy era a pochi centimetri dal mio viso. «Tutto bene?» La sua voce era strozzata, mentre io mi accorsi di essere in un bagno di sudore, la camicia completamente impregnata.

Lentamente misi a fuoco i lineamenti contratti della ragazza, vedendo ciocche di capelli bagnati appiccicati alla sua fronte, sopra a un respiro affannoso. Cercai di parlare, ma intuii con raccapriccio che la ragazza aveva vissuto con me quell’orrore. Balzai in piedi, cercando di allontanarmi da lei e dalla mia vergogna. Ma Emy fu più veloce di me, afferrò i miei polsi e mi trattenne con una forza inaspettata, poi si avvicinò, posando le sue labbra sulle mie. Delicatamente. Una fragranza di spezie sconosciute invase travolgente tutti i miei sensi e un senso di pace, di perdono, di calore, mi pervase completamente. Cademmo in ginocchio sulla sabbia senza staccare le labbra. Poi inarrestabili, arrivarono nei nostri occhi le lacrime. Era l’alba quando ritornammo silenziosi verso la macchina. In mano tenevo uno dei coni gelato della sera precedente e lo stavo rigirando tra le dita, inquieto. Qualche cosa mi sfuggiva, avvertivo la mancanza di un tassello che sembrava essersi perso negli incubi della notte. Mi sedetti in macchina e improvvisamente lo trovai. Un urlo scaturì dalla mia gola ed Emy si voltò sbalordita. Mi fissò per un istante, poi “vide” anche lei. Sconvolta, obbligò la Porsche a un testacoda impossibile e dopo qualche secondo la lancetta del contachilometri sorava abbondantemente i cento chilometri orari. Aggrappato al cruscotto rividi gli ultimi istanti del mio incubo. La testa di riccioli neri che sprofondava nella sabbia e il buio sempre più profondo; un buio solcato all’improvviso da un lampo di luce rossa, un rapido flash che illuminò per un centesimo di secondo due morbidi corpi nudi,

abbracciati in un letto disfatto.

Capitolo 17°

Eravamo fermi a un centinaio di metri dalla casa di Marta, davanti a noi i lampeggianti fastidiosi di una macchina della polizia. C’erano tutti, polizia, carabinieri, vigili urbani, ambulanza. Una vigilessa si avvicinò a i rapidi, con la lunga coda di cavallo che dondolava convinta da sotto il cappello. Giunta a pochi i dall’auto, con grandi gesti, ci indicò di voltare in una via trasversale. La Porsche si mise in movimento lentamente, mentre i sei cilindri ronfavano sornioni. Dopo cento metri Emy accostò accanto al marciapiede, appoggiò la testa sul volante e scoppiò a piangere disperata, in perfetto silenzio, con la bocca spalancata. Io ero annichilito, lo sguardo fisso di fronte a me, perso nel vuoto. Il tempo trascorse senza importanza e restammo immobili nonostante che attorno a noi, lentamente, fosse incominciata la vita quotidiana delle altre persone. Un bar alzò la saracinesca, i pedoni si facevano sempre più numerosi, poi il suono improvviso di un clacson ci fece sobbalzare. Dietro di noi si era fermato il camion della nettezza urbana e l’autista si era sporto dal finestrino, lo sguardo tra il seccato per l’intralcio che provocavamo e l’interesse che la splendida auto suscitava in lui. Emy si riscosse con un brivido, mise in moto e si allontanò velocemente.

Orietta Cavallari era iscritta regolarmente all’ultimo anno di Lingue Orientali a Ca’ Foscari, ma ultimamente era molto più interessata alle discoteche di Jesolo che al programma di studi, soprattutto da quando aveva conosciuto Luca. Anche quella sera era andata a ballare, ma del ragazzo nemmeno l’ombra, e dopo inutili tentativi di rintracciarlo col cellulare, aveva “tirato tardi” nella speranza di vederlo ugualmente comparire, poi rassegnata era tornata a casa. Erano quasi le quattro del mattino quando finalmente aveva raggiunto il suo appartamento al Lido di Venezia e il suo umore non era dei più socievoli. Aveva sonno e inoltre odiava i suoi fianchi troppo larghi a cui dava la colpa maggiore per la “fuga” del ragazzo. Quindi l’udire l’allegra musica che rotolava dall’appartamento di sopra non era proprio per lei, in quel momento, la cosa ideale. Irritata salì velocemente le scale, anche se Marta le era simpatica, aveva voglia di sfogarsi e quello era decisamente il momento giusto. La porta era socchiusa, ma la cosa non la stupì più di tanto, era una cosa normale quando si organizzavano festicciole, impossibile andare ad aprire tutte le volte che arrivava un ritardatario. Per questo entrò sparata nell’ampio soggiorno; ma le recriminazioni che aveva pronte le rimasero bloccate in gola dallo stupore. Non c’era nessuno! Il solito disordine, ma nessuna traccia di feste, solo un forte odore di hashish. La musica proveniva dalla stanza da letto, forte, nonostante la porta chiusa. Si bloccò imbarazzata. Ma la serata mancata e il lungo viaggio fatto a vuoto tramutarono la sua irritazione in una pungente invidia verso la sua amica al di là della porta e con un lampo di divertita perfidia spalancò la porta urlando: «Polizia! Fermi tutti!»

La stanza era al buio, ma dalla finestra aperta la luna rischiarava sul letto due corpi femminili, nudi. Aveva da tempo intuito che la sua vicina aveva particolari tendenze sessuali, ma non si aspettava certo di trovarsi di fronte a uno spettacolino saffico. Imbarazzata, fece un o indietro per uscire velocemente da quella situazione, ma la strana immobilità dei corpi la trattenne. Senza staccare gli occhi dal letto allungò il braccio, a tatto trovò l’interruttore della luce e lo fece scattare. Il corpo di Marta era allacciato con estrema morbidezza a quello di una ragazza bionda e, alla luce improvvisa di una grande lampada a stelo, le loro carnagioni chiare spiccarono nitide sul lenzuolo rosso. Nell’istante stesso in cui si rese conto che quell’enorme macchia scarlatta era sangue, il suo urlo sorò il volume della musica; e urlava ancora terrorizzata quando, alcuni minuti dopo, piombò ansante l’inquilino del piano di sopra. Presi entrambi dal panico avevano poi telefonato a tutti i numeri di soccorso che veniva loro in mente e in breve tempo l’appartamento era stato invaso non solo dalle forze dell’ordine e dai vigili del fuoco, ma anche da diversi giornalisti. Prima che i poliziotti riuscissero a bloccarli, sulla fotocamera digitale di un reporter del Gazzettino, era rimasta registrata l’immagine di due macchie bianche poste al centro di un letto imbevuto di sangue, ma soprattutto a terra, in primo piano, una grande stampa lacerata de “Il sonno” di Courbet.

Il colonnello Medini era furioso. L’accuratezza e la riservatezza che avevano impiegato nel portare avanti l’intera indagine erano saltate in pochi minuti e mentre guardava pensoso fuori dalla finestra del suo ufficio, il suo cervello era in ebollizione. La certezza che esisteva un pesante collegamento tra gli ultimi omicidi sarebbe stata presto palese a tutti e la stampa locale, che già in precedenza si era buttata a pesce sull’omicidio di Vanessa della Vigna e quello successivo dell’impiegata

uccisa sulla spiaggia, ci sarebbe andata a nozze. Un altro omicidio da addebitare a quello che veniva già soprannominato “il Killer dei quadri” o più semplicemente “Il pittore”. E non avrebbe coinvolto solo i giornali locali. Sapeva che le pressioni che avrebbe ricevuto sarebbero state pesantissime, ma quello che lo assillava maggiormente era il pericolo che costituiva quel folle in una città come Venezia. Sentì bussare e senza voltarsi intuì che era entrato Redaelli. «Dimmi Marco.» «Questa volta è diverso! Ha lasciato tracce evidenti.» Il tono era eccitato. «Dai primi accertamenti il medico ha appurato che le ragazze hanno ato un pomeriggio “movimentato” in compagnia maschile. Ci sono tracce evidenti di sperma e impronte dappertutto!» Un lampo glaciale ò negli occhi del colonnello. «Bisogna inchiodarlo quel bastardo! E inchiodarlo subito!»

Capitolo 18°

Le quattro ruote motrici erano tenacemente ancorate all’asfalto, nonostante il fatto che il contachilometri, anche nelle ultime curve che ci separavano dagli Alberoni, non fosse mai sceso sotto i centoventi. Ascoltai entrare velocemente “la seconda” un attimo prima del curvone che voltando a sinistra ci allontanava dalla laguna, un breve rettilineo e le ruote urlarono nuovamente in una stretta curva a destra. Costeggiato il campo da golf, l’auto superò un ennesimo ponte prima che Emy la obbligasse a una brusca inchiodata in una minuscola piazzola. Scese senza guardarmi, dirigendosi rapidamente verso una piccola darsena. Istintivamente la seguii e rimasi a fissarla mentre saltava agilmente su un grande gommone bianco, dotato di due grossi motori. Contemporaneamente al rombo provocato dalla messa in moto dei fuoribordo, vidi il suo gesto imperioso che m’incitava a sbrigarmi. «Tutti gli imbarcaderi del Lido saranno ormai controllati, ma se tagliamo per le “barene” dovremmo farcela!» La guardai incredulo. A parte il fatto che era la prima volta che sentivo la sua voce da quando avevamo lasciato il ristorante sulla spiaggia, are attraverso le “barene” era cosa da pescatori esperti. Le insidie dei fondali bassissimi presumevano una dettagliata conoscenza anche dei più piccoli canali e provarci inoltre con il pescaggio di quei due potenti fuoribordo era più da contrabbandieri che da ragazzina in scarpe da ginnastica. Ero sul punto di dirglielo, ma poi il mio stomaco mi ricordò la perizia con cui aveva appena guidato quel bolide nero da 3500 cc. di cilindrata.

Rimasi però ancora più sorpreso quando, invece di addentrarsi nella laguna, Emy puntò sicura verso la bocca di porto. «Non avevi detto che attraversavi le barene?» Domandai incerto. «Ho una piccola casa a Burano, è il posto migliore dove puoi nasconderti in questo momento.» La sua voce incominciava a essere portata via dal vento. «Ho pensato che è meglio entrare per la diga di Punta Sabbioni e girare poi attorno all’isola di S. Erasmo. Non faranno caso a un gommone che giunge dal mare e anche se ci notano penseranno che arriviamo dal litorale di Jesolo. Taglieremo dopo per le barene.» Il mare calmissimo favorì la planata della pesante carena e i piedi dei motori spinti al massimo, erano gli unici praticamente a toccare il pelo dell’acqua. Emy sembrava tranquilla, anche se i suoi occhi scrutavano in continuazione lo specchio di mare che avevamo di fronte. Tenacemente aggrappato a una cima ripensai a quello che era successo, ma soprattutto a quello che mi aspettava nell’immediato futuro. Se i carabinieri già coltivavano pesanti sospetti su di me, ora non avrebbero avuto più dubbi; non solo questa volta ero stato presente sul luogo del delitto, ma anche le mie tracce dovevano essere evidentissime. Se mi arrestavano finivo diritto in una cella ed ero altrettanto sicuro che avrebbero buttato via la chiave. Scossi la testa per togliere dai miei occhi schizzi salmastri misti a lacrime amare e per un attimo mi vidi dal di fuori. Avrei voluto piangere sulle mie disgrazie, ma paradossalmente mi venne invece da ridere. Ero lì, aggrappato a una sottile cima fradicia, inginocchiato su un gommone

impazzito in mezzo al mare aperto, ricercato da tutte le forze dell’ordine di Venezia, che affidavo la mia vita… a una strega! Emy sentendomi ridere abbassò lo sguardo preoccupata, un istante dopo evidentemente mi lesse nella mente e dalla sua gola scaturì una risata selvaggia. Rimasi a guardarla incredulo. In piedi a gambe spalancate, le mani saldamente ancorate alla ruota del timone, i lunghi capelli sconvolti dal vento e gli occhi verdi che mandavano bagliori pericolosi. Era meravigliosa. Non mi sarei stupito per nulla se da un momento all’altro l’avessi sorpresa veramente a cavalcare nuda un manico di scopa. Lei volse ancora una volta lo sguardo nella mia direzione e per la prima volta in quella giornata vidi disegnarsi sul suo volto uno splendido sorriso. Con una stretta virata doppiammo il faro situato in cima alla diga ed Emy lasciò calmare i motori. Più avanti si dondolava sorniona una motovedetta della Guardia Costiera. «Togliti le scarpe e la camicia, poi vieni al timone!» Ubbidii terrorizzato. Il tempo di sistemarmi al posto di guida, che lei era già sdraiata a prua, con addosso solamente un tanga nero, inesistente. Lo shock fu sufficiente a farmi arrivare nei pressi della motovedetta senza combinare danni. Sudavo freddo, mentre dalla prua dell’altra imbarcazione alcuni potenti binocoli venivano puntati su di noi. Emy si sollevò a sedere, poi con aria stupita, alzò imbarazzata un braccio a coprirsi inutilmente il petto, mentre allungava l’altro per recuperare la camicetta.

Con una fretta impacciata cercò d’infilare l’indumento, ma s’impigliò in una manica e per parecchi secondi i suoi seni rimasero a ballonzolare indifesi. Quando riuscì finalmente a richiudere i lembi della camicia, eravamo ormai sottobordo. Cercai di mostrare il meno possibile il mio volto ai militari, ma avrei potuto essere Bin Laden con tanto di caftano, tutti gli occhi erano puntati a prua. Frenando l’impulso di accelerare, lasciai che il gommone proseguisse tranquillo, portato dalla corrente. Emy fece un timido gesto di saluto verso la motovedetta, prima di voltarsi a pancia in giù. Pensai che se qualcuno sulla plancia era ancora in grado di respirare, alla vista di quello che era emerso spudoratamente da sotto la camicetta, si sarebbe ritrovato con un debito d’ossigeno decisamente rilevante.

Capitolo 19°

Luca Carrisi era stanco, mancavano ancora due ore prima del cambio di turno e non vedeva l’ora di scendere dalla barca. Mezz’ora prima si era schiacciato un pollice mentre stava controllando i due motori Isotta Fraschini della motovedetta, ma cercava di ignorare stoicamente il dolore. L’efficienza dei motori era sotto la sua diretta responsabilità e il comandante sapeva benissimo che poteva contare su di lui per portare quello splendido scafo da 15 metri in mogano del 255 alla considerevole velocità di 30 nodi. Era appena salito sul ponte a prendere una boccata d’aria fresca, quando avvertì l’agitazione serpeggiare tra i suoi compagni e vedendoli puntare i binocoli, allungò il collo oltre la battagliola. Un gommone bianco di circa sette metri stava per transitare sulla dritta con a bordo una coppietta. Guardò meglio. La ragazza, evidentemente sorpresa dall’improvvisa apparizione della motovedetta tentava inutilmente di coprirsi, ma riusciva solamente ad alimentare le battutacce sussurrate sottovoce dai suoi colleghi. Il compagno della ragazza invece era più interessante e anche se non aveva i pettorali del suo ultimo amico, non era per nulla da scartare, peccato che fosse anche lui così interessato a quegli inutili e antiestetici palloncini oscillanti. Doveva aver noleggiato il gommone a Jesolo, visto l’abbigliamento non proprio da barca e soprattutto vista la sua notevole imperizia ai comandi. Particolari che il suo occhio esperto avevano prontamente colto, assieme alla certezza che l’uomo non doveva veder l’ora di buttare l’ancora in qualche ansa

deserta della laguna. Peccato, in un altro momento sarebbe stato ben lieto di fornirgli lui qualche lezione su come si governava una barca. Fu per questo che un’ora dopo, tra lo stupore generale, non ebbe nessuna difficoltà a riconoscerlo nella foto segnaletica che il comandante aveva appena ricevuto.

Marco teneva fisso lo sguardo sulla cartellina chiusa, appoggiata al freddo ripiano della sua scrivania. Il rapporto che conteneva sembrava invece lava liquida. Due ore prima aveva firmato l’autorizzazione a diramare i dati e la fotografia di Michele. Fin dai primi accertamenti sull’ultimo delitto accaduto al Lido, era emerso che il professore era stato visto in compagnia di una delle ragazze assassinate. Prima in un ristorante, poi mentre entravano abbracciati oltre la grande porta a vetri del caseggiato dov’era avvenuto il duplice omicidio. Il resoconto dei rilievi effettuati nell’appartamento gli riportarono alla mente lo spietato contrasto tra i corpi morbidi delle ragazze e l’enorme e agghiacciante macchia di sangue in cui erano immerse. Questa volta l’assassino non aveva avuto bisogno di violentare, aveva già goduto abbondantemente dei loro corpi ed evidentemente aveva dovuto solo aspettare che si fossero addormentate per pugnalarle ripetutamente al cuore. Preciso e letale. Inoltre le forme inequivocabili delle ferite riconducevano alla lama triangolare che aveva stroncato il carabiniere in piazza San Marco. Marco aveva quindi voluto partecipare di persona alla perquisizione dell’appartamento di Michele e il mondo gli era crollato addosso quando un appuntato aveva sollevato il coperchio di un grosso baule posto in un angolo

della camera da letto. Da sotto alcune coperte era emerso uno strano vestito giallo-ocra, forse un abito di carnevale appartenuto a Vanessa; ma sotto a esso, avvolti in un grande asciugamano da spiaggia di un giallo intenso, trovarono incrostati di sangue, un Rolex in acciaio e uno stiletto medioevale dalla lunga lama triangolare. Ora il capitano era immobile a fissare allibito la cartella nera che racchiudeva il macabro resoconto della morte di tante persone innocenti e dove purtroppo rimaneva ancora spazio per un ultimo rapporto. Sicuramente il più difficile da redigere di tutta la sua vita. Dieci minuti prima era arrivata una comunicazione dalla Guardia Costiera: Michele Barovier era stato avvistato all’imboccatura di porto di Punta Sabbioni, in compagnia di un’avvenente ragazza che, dalla descrizione fatta, poteva essere la stessa che aveva già precedentemente incontrato al “Doge Scarlatto”. Dovevano catturarlo prima che fe un’ulteriore vittima. Bisognava fermarlo, e subito! Lentamente Marco aprì un cassetto ed estrasse la sua Beretta d’ordinanza, la fissò per un istante interminabile, poi con cura la infilò in un marsupio nero che, uscendo dalla stanza, agganciò con calma sopra i jeans scoloriti.

Capitolo 20°

L’intonaco era dipinto di un azzurro intenso che risaltava nitido su quello giallo carico della casa accanto, mentre il tranquillo canale che li sfiorava entrambi sembrava voler riflettere invece tutti i colori dell’arcobaleno. Burano era stupenda. Subito dopo l’incontro con la motovedetta della Guardia Costiera, Emy aveva ripreso i comandi del gommone e con una naturale perizia si addentrò nelle barene seguendo “sentieri” visibili solo ai suoi occhi, ma si rimise i jeans solo quando arrivammo in prossimità di un piccolo pontile affollato di turisti. Ormeggiò con cura accanto a una barca da pesca e subito dopo mi fece strada in un dedalo di callette sino a una tipica casetta di pescatori a due piani, fresca e accogliente. A piano terra c’era un’unica grande stanza, dominata da un enorme tavolo di legno di quercia, con a lato due robuste panche scure. A destra, un’attrezzata cucina in ceramica bianca e azzurra, lasciava intuire piacevoli ore da are in compagnia delle prelibatezze locali. Al piano di sopra solo due piccole camere da letto e un minuscolo bagno. Emy entrò in una delle stanze e da un vecchio armadio estrasse alcuni asciugamani, poi mi lanciò un’occhiata veloce e subito dopo spuntarono anche un paio di sbiaditi pantaloncini e una camicia coreana di cotone grezzo. «Questa è la tua stanza, riposati pure, io intanto vado a preparare qualche cosa da mangiare.» Solo in quel momento mi resi conto che non ingurgitavo nulla dal mezzogiorno precedente. Mi feci una rapida doccia, poi indossai i comodi indumenti e scesi affamato.

Sul tavolo c’era una caraffa di vino rosso e sui fornelli una grande padella da cui proveniva un aroma esaltante. «La polenta è di quelle precotte, scusa, ma la dispensa è vuota.» Emy parlava senza guardarmi. «E’ un pezzo che non vengo più qui!» Si voltò per mettermi con cura nel piatto alcune salsicce fumanti. «È meglio se rimani in casa per qualche giorno.» Disse mentre mi guardava negli occhi pensierosa. «Ci penserò io a portarti la spesa.» Quella frase presumeva che sarei rimasto solo ed ebbi una vaga sensazione di panico. «Non ti preoccupare, sei al sicuro qui!» Il suo tono era rassicurante e finimmo di mangiare in silenzio, poi Emy si alzò, improvvisamente inquieta. «Devo organizzare alcune cose, ma non starò via molto.» Staccò da un gancio vicino alla porta una grande borsa di tela rossa e mi guardò sorridendo. «Chiudo io la porta, tu vedi se riesci a dormire un poco.» Rimasi a fissare in silenzio l’uscio che si richiudeva, poi mi alzai e portai i piatti nel lavello di marmo. Lasciai invece la caraffa con il vino sul tavolo e mi avvicinai alla finestra. Una coppia di turisti ciondolava vicino al canale e il bianco “panama” dell’uomo spiccava abbagliante sui colori intensi delle case. Tornai a sedermi sulla panca, la testa tra le mani e il bicchiere di vino di fronte.

L’incubo della notte precedente continuava a tormentarmi e l’angoscia per la morte delle due ragazze era insopportabile. Non sapevo più cosa pensare. Ero sicuro di non aver mai aggredito, né tanto meno ucciso nessuno in vita mia, ma nel medesimo tempo “sentivo” che potevo aver veramente compiuto quegli orrori. Le spiegazioni di Emy riguardanti i cieli, la paura e il Diavolo mi turbinavano nel cervello. Era mai possibile che fossero effettivamente vere? E se invece si trattava solamente di quello che gli psichiatri chiamano “sdoppiamento di personalità”? In quel caso non avrei avuto colpe, sarebbe stata tutta causa di una malattia! Potevo costituirmi! Mi avrebbero sicuramente curato, sarebbe finito tutto e nessun altro avrebbe più corso pericoli. Certamente mi avrebbero imbottito di farmaci, ma in una clinica tranquilla dove potevo vivere sereno e con il tempo io sarei riuscito a capire e gli altri a dimenticare. Il tempo sarebbe ato pietoso e sarebbe tornata lentamente anche la “normalità”. Basta cazzate sulle streghe e sul demonio, su mondi paralleli e viaggi attraverso il tempo. Mi alzai, svuotai il bicchiere e mi diressi convinto verso la porta. Avrei fermato il primo poliziotto che incontravo e poi sicuramente Marco mi avrebbe aiutato. Avevo già la mano sulla maniglia quando un dubbio mi strinse lo stomaco.

E se Emy avesse avuto invece ragione? Se veramente c’era in giro un demone, questo non si sarebbe certamente fermato con il mio arresto, anzi, avrebbe continuato a uccidere! I poliziotti avrebbero pensato a un caso di emulazione da parte di qualche squilibrato e nessuno avrebbe mai creduto alle mie spiegazioni. Io correvo il rischio di finire lobotomizzato in qualche manicomio criminale, mentre “Lui”, invece, sarebbe rimasto libero di muoversi indisturbato. Tornai indietro e mi versai un altro bicchiere di rosso. Da qualunque punto di vista affrontassi il problema, il risultato era lo stesso: ero nella merda! «Ragiona!» La voce di Carlotta mi fece sobbalzare. Mi voltai di scatto ma non c’era nessuno! «Rifletti su quello che sai!» Mi resi conto che la voce era dentro la mia testa, così la presi tra le mani, i gomiti nuovamente appoggiati sul tavolo. Improvvisamente la porta si spalancò con uno schianto sinistro e la luce del primo pomeriggio mi accecò. In controluce, inconfondibile, la sagoma scura di un militare. «Fermo! Carabinieri!» La voce era potente, anche se stranamente ironica. «Non muoverti! Le mani sul tavolo!» Fissai la grossa pistola puntata sul mio volto, poi la sagoma indistinta che c’era dietro, immobile nel pulviscolo dorato che la circondava.

Il militare si spostò lentamente e con calma fece il giro del tavolo mettendosi di fronte. Ora potevo vederlo in viso e non riuscii a trattenere un gemito. Ero io! Era il mio viso quello che vedevo sotto il cappello d’ordinanza, su cui spiccava la consueta fiamma argentata. I suoi occhi sorrisero e una saetta gialla attraversò le sue pupille. In quel momento capii. Stavo per morire. “Lui” mi aveva trovato. Distinsi la nocca dell’indice destro sbiancarsi mentre il dito premeva con forza sul grilletto. Chiusi gli occhi. «Fermo!!» Avvertii un calore improvviso invadere totalmente la stanza. Stranamente mi riportò alla memoria la nenia che Lilith aveva mormorato quando aveva affrontato il demone. Aprii lentamente gli occhi, la pistola era ancora puntata sul mio cuore, ma con stupore vidi il carabiniere sbattere gli occhi mentre anche la sua fisionomia sembrava mutare. Aveva ancora i miei stessi tratti somatici, ma era molto diverso da me e forse si sarebbe potuto pensare a un grado di parentela, ma nulla più. Vidi la canna della pistola tremare leggermente. «Metta giù quella pistola! Subito!!»

L’ordine era secco, perentorio. Mi voltai, Marco era immobile sulla soglia, anche lui con una pistola in pugno.

Capitolo 21°

Ero solo, finalmente solo con me stesso. Nella stanza solo un tavolo e due sedie, niente specchi né finestre. Nuovamente ero seduto con la testa tra le mani e i gomiti sul tavolo, solo che quest’ultimo non era di solido legno di quercia. Risentii la voce furibonda di Marco. «Avevo dato l’ordine di entrare tutti assieme! Perché non hai ubbidito agli ordini? La ragazza era uscita e non correva più alcun pericolo! Perché volevi sparargli?» Il balbettio di risposta dell’appuntato era stato quasi impercettibile. «Non so… capitano… sono confuso… era come se dovessi!... non capisco cosa mi ha preso…» Ricordai vagamente altri militari muoversi rapidi nella stanza e risentii ancora i polsi stretti nella morsa fredda delle manette. Io sì che lo sapevo! Avevo ancora davanti agli occhi il mio viso indurito da quel sorriso glaciale. Rivedevo come in un film il volto sconvolto del mio amico, prima che il sole mi accecasse pietosamente gli occhi e che le mani brusche dei militari mi strattonassero nei pochi metri che ci separavano dal canale. Mani che mi obbligarono a salire su un grosso motoscafo e che poi continuarono a bloccarmi saldamente anche una volta partiti. L’arrivo a S. Zaccaria fu un incubo.

Sembrava che tutti mi guardassero. Avevo attraversato la riva scortato da un numero impressionante di carabinieri, mentre un gruppo di turisti asiatici scattava fotografie a raffica. Nel tratto tra il monumento a Vittorio Emanuele II e il sottoportego a fianco dell’hotel Savoia & Jolanda avevo contato almeno tre persone che potevo annoverare tra gli amici e un’altra coppia di conoscenti l’avevo poi incrociata prima di entrare nel portone della caserma dei Carabinieri. Venezia è fatta così, non ti puoi permettere riservatezze, cerca di fare qualcosa di nascosto e regolarmente incroci qualcuno che ti saluta. Poi domande, tante, di ogni genere. Persone, varie, di ogni tipo. Io muto! Li guardavo negli occhi e sapevo che non potevo dire nulla, che qualunque cosa avessi risposto non sarebbe stato creduto né tanto meno capito. Poi mi avevano lasciato solo. Con i miei orrori! Sul tavolo di fronte a me le copie dei quadri che avevano accompagnato gli omicidi e le tantissime fotografie scattate a documentazione. Ora sapevo con sicurezza che “Lui” era là fuori indisturbato, forse irritato per non essere ancora riuscito a uccidermi, ma libero di agire e di uccidere ancora. Io invece sarei stato per sempre “dentro”, privato di qualsiasi libertà, forse anche mentale. Disperato chiusi con rabbia gli occhi, per poi riaprirli sulle riproduzioni dei dipinti sparse sul tavolo. Inconsciamente li misi in ordine. Prima “La morte di Marat” di Jacques-Louis David, poi “L’origine del Mondo”

di Gustave Courbet e per ultimo “Pigrizia e lussuria” o “Il sonno” come veniva anche chiamato, sempre di Courbet. Non riuscivo a capire. Il quadro di David è quello che forse in assoluto rappresenta il dramma della rivoluzione se, esprime l’eroismo, il sacrificio della propria vita. Nel quadro, Marat viene ucciso mentre scrive o subito dopo che ha firmato un assegno alla donna che gli chiedeva aiuto. Cosa c’entrava con Vanessa, con me o con un demone? Se poi il demone era veramente l’incarnazione della mia lussuria, perché uccidere Vanessa? Come Carlotta Corday uccideva il simbolo della rivoluzione se, io uccidevo Vanessa? Non aveva senso! Facevo ancora fatica a rendermene conto, ma la mia fidanzata poteva al massimo rappresentare la tranquillità borghese, non certamente uno spirito rivoluzionario. E Courbet? “L’apostolo del brutto”? L’uomo che si proclamava “senza ideale né religione” ma, innanzitutto, “pittore”? Lo stesso artista che affermava: “Io dipingo come un dio”? “L’origine del mondo”, se non ricordavo male, era stato acquistato all’epoca dall’ex ambasciatore turco a San Pietroburgo, che lo teneva nascosto dietro un altro quadro raffigurante il portale di una roccaforte sotto la neve. Ma anche in questo caso, che nesso poteva avere con l’assassino? Avevo appreso i particolari dei vari omicidi proprio dai miei accusatori e vedermi sbattere sotto gli occhi le fotografie delle vittime, soprattutto quella con il volto della donna uccisa sulla spiaggia, di cui conoscevo i lineamenti

solamente per averli intravisti per brevissimi istanti nei miei incubi, fu uno shock evidentissimo. Reazione che indubbiamente aveva dato a loro una prova in più della mia colpevolezza. Era però l’omicidio delle due ragazze quello che più mi lasciava esterrefatto. Ricordavo bene quel soggetto, l’avevo portato a un esame all’ultimo anno di Accademia. Il dipinto era stato eseguito nel 1866 per Khalil-Bey, che in quegli anni teneva salotto all’angolo del boulevard des Italiens a Parigi. L’ambasciatore turco, entusiasta della Venere e Psiche, aveva chiesto a Courbet di eseguirne una copia. Ma anche qui, perché uccidere? Perché le prime due donne erano state violentate mentre invece le ragazze sembravano essere state uccise freddamente, quasi con distacco? Anche dando per scontato che le prime due donne potessero rappresentare per me, o meglio per la mia sfrenata lussuria, qualcosa da violentare e da distruggere, le ragazze si erano rivelate al contrario un momento magico, un connubio di ione e sentimenti, dove il sesso era parte di quella forza primordiale e arcaica che… Mi bloccai allibito. Arcaico… primordiale… Improvvisamente capii. L’incontro con le ragazze e il sottile erotismo del gioco lesbico, il possedere contemporaneamente i loro corpi disponibili e il godere delle loro attenzioni congiunte, aveva sì stimolato all’inizio la mia lussuria, ma poi era avvenuta una trasformazione. Le ragazze avevano scoperto ognuna l’amore dell’altra, e avevano compreso di

essere disposte a sacrificare il loro corpo per non dare un dispiacere a chi amavano, ma soprattutto avevano abbandonato le loro… paure. Marta, la sua paura degli uomini. Luisa, la sua paura di scegliere un amore omosessuale; non più solo un gioco eccitante e trasgressivo, ma un amore vero e autentico. Io invece avevo perso la paura di dover a forza dimostrare quanto valevo, di dover difendere la mia virilità e la mia superiorità di maschio. Avevamo raggiunto per qualche ora la naturalezza delle ioni esenti da limitazioni morali o religiose, eravamo stati solo tre persone che si amavano e cercavano di dare ad altri il maggior piacere possibile. Avevamo toccato per un istante, senza volerlo, la base di quello che per tanti movimenti spiritualistici è l’energia creativa, quell’energia che vede anche nel sesso un simbolo e un’espressione della vita. Uno dei simboli della Madre Natura, della Grande Madre. E un’altra intuizione si aggiunse prepotente. Quale era uno dei principali simboli che più ha rappresentato nei secoli l’arcaico? La potenza primordiale? Il Drago!! Senza saperlo avevo trovato i draghi, ero arrivato nel luogo che Carlotta mi aveva implorato di raggiungere. Non il mondo fantasy a cui avevo stupidamente pensato io e nemmeno quello dell’ideologia cattolica che lo vede come la rappresentazione del male, quello che deve essere sconfitto per forza da un San Giorgio. Ma quell’essere positivo e di grande saggezza che rappresenta per i cinesi il trono e il volto stesso dei loro imperatori.

Il Drago come forza vitale, uno degli elementi stessi della natura. Il potente simbolo amato e rispettato da tante culture sparse in tutto il mondo. Il suggerimento di Carlotta era semplicissimo. Dove ci sono i draghi non c’è paura e dove non c’è paura non c’è il Diavolo! Ora lo sapevo! Non avevo ucciso io Marta e Luisa, non era stata la mia libidine portata all’eccesso a massacrarle, ma era stato “Lui”, era “Lui” che aveva avuto paura! Sapeva che nel momento stesso in cui io non avessi più temuto la mia sessualità, che avessi smesso di considerare come peccato i miei desideri, non avrei avuto più bisogno di “Lui”, anzi non sarebbe proprio più esistita la sua figura. Per questo le aveva uccise, autonomamente, come voleva uccidere me. Per rimanere in vita! Lui voleva continuare a esistere! Ma ora io sapevo, io avevo trovato i Draghi! Lentamente mi guardai attorno e osservai tranquillo quella stanza spoglia, sentendo di non aver più paura del lato oscuro della mia anima. Avvertii un brivido repentino e qualcosa di malvagio sembrò srotolarsi dalle mie spalle, lo avvertii fluttuare per qualche attimo attorno al mio corpo, poi rapidamente si stemperò nel nulla. Ero libero, “Lui” non esisteva più. Mi alzai in piedi e aspettai che qualcuno entrasse nella stanza.

Capitolo 22°

Questa volta Marco era sempre presente e anche se non partecipava attivamente agli interrogatori non abbandonava mai la stanza. Vedevo nei suoi occhi una tristezza profonda e il fatto di non avere la possibilità di spiegarmi privatamente con lui, di fargli capire cosa fosse veramente successo, era la cosa che mi tormentava maggiormente. Continuavo a tacere, chiuso in me stesso. Lentamente però, il sollievo per la scoperta di non essere in qualche modo coinvolto nell’assassinio delle due ragazze, si stava inevitabilmente trasformando in un’angoscia crescente. La consapevolezza che per tutti ero un pazzo omicida e che, con le prove che avevano a mio carico, il minimo che potevo aspettarmi era un manicomio criminale a vita, la stava tramutando in autentico panico. Marco intuiva la mia disperazione, ma chiaramente non poteva comprendere il vero motivo che l’alimentava. Lo fissai disperato. Se inconsapevolmente, con la forza della sua amicizia e del suo affetto, aveva bloccato il demone che aveva tentato di uccidermi a Burano, esattamente come doveva essere accaduto con la potenza dell’amore di Lilith verso la sorella, salvandomi in questo modo la vita, questa volta non poteva far nulla per aiutarmi e la macchina della giustizia mi avrebbe stritolato senza pietà. Invece fu ancora lui che mi salvò! Gli interrogatori erano finiti, lo avevo intuito chiaramente dalle loro espressioni amareggiate e stanche. L’esasperazione che avevano sopportato a causa del mio costante mutismo, si era

trasformata in un primo tempo in una autentica rabbia, non riuscendo a comprendere perché non fornissi loro una spiegazione plausibile e convincente sulle motivazioni che mi avevano spinto a quell’orrore. Poi vidi che ognuno di loro aveva dato inconsciamente una personale interpretazione ai fatti accaduti. Potevo leggerglielo negli occhi. Avevano tutti sentito il bisogno di rassicurarsi dietro a una soluzione logica, per poter nascondere in fondo al cuore la remota e terrorizzante paura che anche nelle pieghe della loro anima si potesse annidare il malefico demone che mi aveva ghermito. Vidi chiudersi le cartelline con dentro la mia vita e il rumore delle sedie smosse scricchiolò fastidioso nelle mie orecchie. Marco mi guardava intensamente, poi distolse quasi con rabbia lo sguardo estraendo il cellulare. Con terrore pensai che forse era l’ultima volta che avevo la possibilità di guardarlo negli occhi. «Avverta il tenente Poitieri che lo aspetto fuori dal Comando, davanti al sottoportego… come quale sottoportego? Quello di San Zaccaria! Tra l’Hotel Savoia & Jolanda e l’albergo Luini!» Il tono era seccato. «Paganelli!» Mi venne istintivo correggerlo. Si voltarono tutti di scatto! Erano le prime parole che pronunciavo da quando mi avevano arrestato. Li guardai a mia volta stupito.

«È il Paganelli, il sottoportego è tra l’Hotel Savoia & Jolanda e il Paganelli!» Marco mi fissava esterrefatto mentre il colonnello Medini inarcando le sopracciglia disse lentamente: «Non esiste nessun albergo Paganelli… è il Luini, da sempre!» Il suo tono era pacato e controllato. Lo fissai allibito. La famiglia Paganelli possedeva quell’albergo da generazioni e lo conoscevo bene. Alcune stanze erano state ricavate dal vecchio convento di San Zaccaria e ne conservavano, perfettamente restaurati, i soffitti originali. Più volte mi era capitato di essere andato a vederli per documentare qualche ricerca storica. Inaspettatamente sentii sul palato il sapore del cabernet del “Doge Scarlatto” e nella testa: “Una soluzione diversa è quella che fa riferimento alla teoria a “molti mondi” di Hugh Everett III. Utilizzando la meccanica quantistica, Everett pensa che esistano tante copie di universi per quanti siano gli stati quantistici associati a certi eventi... secondo questa teoria esisterebbero tanti universi quanti sono gli “istanti fondamentali” i “crononi”, in cui il protone decade. Quindi in ogni universo ci sarebbe un “istante” in cui il neutrone decade… universi che potrebbero essere differentissimi tra di loro o anche identici, tranne un piccolo particolare…”. Scoppiai a ridere, non poteva essere così semplice! Ora tutti gli occhi erano puntati su di me. Mi guardai attorno con la mia paura che tornava improvvisamente a livelli paradossali. Doveva essercene uno! Doveva per forza esisterne uno, in quella stanza!

Ero sconvolto e Marco mi venne vicino, spaventato. «Marco! Nella tua documentazione, hai ancora qualche cosa riguardante la mostra di Caravaggio?» Urlai. Lessi sul suo volto la perplessità più assoluta, poi annuì, mentre lanciava un’occhiata al suo superiore. Ottenuto un tacito consenso, lentamente aprì una cartellina ed estrasse il mio biglietto d’ingresso al museo, che dovevano aver conservato assieme alle tante prove raccolte. L’avevo trovato! Avevo trovato un simbolo! «Posso prenderlo?» Ero a un o dalla salvezza. Il colonnello Medini scrollò le spalle e Marco allungò il braccio. Afferrai delicatamente quel piccolo pezzo di carta e sentii concentrarsi sulla punta delle mie dita tutta la tensione accumulata, tutte le paure, le gioie e le ansie di quei giorni. Chiusi gli occhi e… funzionò! Sentii un’enorme energia scaricarsi in un attimo su quel piccolo pezzetto di carta e tutto divenne buio, poi una luce accecante! La consapevolezza della verità era enorme, sconvolgente nella sua semplicità. Quando ero rientrato dal viaggio nel quadro di Caravaggio, dove mi aveva spedito Carlotta, non ero rientrato nella mia dimensione, ma in una dimensione parallela, identica alla mia; ma dove evidentemente la magia, o perlomeno una forma di spiritualità molto accentuata, era normale, dove potevano tranquillamente convivere carabinieri e demoni, ma anche dove i proprietari di un certo albergo in pieno centro storico di Venezia erano i “Luini” e non i “Paganelli”.

La luce accecante si attenuò lentamente e altrettanto gradualmente la figura di Carlotta divenne più nitida. I colori dei suoi vestiti erano pura musica e anche i gialli stivali da barca erano stupendi. Sentii la pressione del palmo della sua mano sullo stomaco. Misi a fuoco piccole vene azzurre mentre mi si bloccava il respiro, poi la sua mano scattò rapida come un serpente e si serrò con forza attorno alla mia cintura. «Sia ringraziata la Grande Dea!! Ti ho ripreso!!» Gli stupendi occhi nocciola erano pieni di lacrime. Il sindaco ci stava osservando perplesso, va bene essere apionati d’arte e avere gli occhi lucidi di fronte a un quadro, soprattutto se realizzato da un pittore del calibro di Caravaggio, ma la mano di Carlotta pericolosamente vicina alla cerniera lampo dei miei jeans non la capiva proprio. Gli rivolsi un sorriso disarmante e presa la mia collega sotto il braccio, la trascinai via. «Ti dovrei uccidere!» Le mormorai sottovoce. «Veramente l’hai quasi fatto!» Rispose lei con un sorriso. Eravamo entrati in una sala deserta e, dopo aver lanciato un rapido sguardo circospetto tutto attorno, ci abbracciammo ferocemente. «Mi soffochi!» Riuscì infine a bisbigliare mentre mi allontanava con gentilezza, trattenendomi però contemporaneamente per il bavero della giacca. «Andiamo a casa mia, dobbiamo parlare di un mucchio di cose, devi raccontarmi tutto!»

Era eccitata come una scolaretta. La guardai dubbioso. «Non ti preoccupare, “Lui” non esiste più! E comunque eviterò con cura di indossare kimoni bianchi!» I suoi occhi erano tornati limpidi, pieni di ironia contenuta. Le misi una mano attorno alla vita e infischiandomene altamente degli sguardi che dopo pochi i ci inseguirono maligni, la condussi impaziente verso l’uscita. Eravamo ormai sugli ultimi gradini dell’ampio scalone che collegava il “Correr” con Piazza San Marco quando incrociammo due carabinieri che salivano. Uno dei due mi squadrò attento e i suoi occhi azzurri mi gelarono. «Barovier Michele?... Il professor Michele Barovier?» Fui preso dal panico e vidi che anche Carlotta si era trasformata in una statua di sale. «Mi scusi professore, ma ho una brutta notizia per lei!» I suoi occhi non si staccavano un attimo dai miei ed ero certo che stesse registrando ogni mio più piccolo movimento. «Riguarda la Signorina Vanessa della Vigna, la sua fidanzata… purtroppo è morta!» Il mondo mi crollò addosso. Non era possibile! L’incubo ricominciava.

Capitolo 23°

Seguimmo i militari fino in Bacino Orseolo, dove ci fecero gentilmente salire su uno dei loro motoscafi. Dieci minuti dopo ero nuovamente alla Caserma dei Carabinieri di S. Zaccaria. Decisamente quel posto incominciava a darmi sui nervi. Prima di imboccare il sottoportego lanciai un’occhiata veloce alla mia destra, ma per fortuna l’Hotel Paganelli era al suo posto. Carlotta mi prese per mano, rassicurante. Appena entrati, un giovane appuntato ci scortò immediatamente nell’ufficio del comandante, facendoci accomodare su un piccolo divano. «Il colonnello arriva subito! Desiderate un caffè?» Scossi la testa in silenzio mentre Carlotta rispondeva con uno splendido sorriso. Il colonnello Medini entrò accigliato. Mi trattenni a stento dal salutarlo, mentre lui, dopo averci lanciato una lunga occhiata, si sedeva composto dietro la sua ampia scrivania. «Professoressa Jimbutas…» Con la testa le fece un rapido cenno e i suoi occhi per un attimo si ammorbidirono, poi li volse verso di me. «Professor Barovier… mi dispiace profondamente per la sua fidanzata e comprendo il suo stato d’animo, ma purtroppo il dovere mi impone di rivolgerle alcune domande. Spero nella sua comprensione e nella sua collaborazione.» Annuii in silenzio, cercando di essere il più possibile credibile, ma mi trovavo

nella situazione innaturale di sapere già quello che era successo e di doverlo mantenere accuratamente nascosto. Quello di cui non riuscivo a capacitarmi, era che l’incubo degli omicidi che mi aveva finora perseguitato doveva essere finito per sempre, relegato in quell’altro mondo pazzesco, perché allora mi ritrovavo a dover affrontare nuovamente tutto? Non sarebbe finita mai? «Professore… cosa sa del quadro di David “La morte di Marat?” Il tono del colonnello era neutro. Trattenni a stento le lacrime, ogni parola che veniva detta era un macigno sul mio petto. Tutto si ripeteva. -No! Non tutto!La voce di Carlotta mi esplose nel cervello e mi voltai a guardare sorpreso la sua espressione tranquilla, anche se ingessata in un’austerità di circostanza. Mi guardò leggermente adombrata, le labbra socchiuse in una strana smorfia. Questa volta lasciai il suo pensiero fluire dolcemente nella mia mente. -Rilassati!! Non è come l’altra volta, ne sono sicura! Lui non esiste più e non c’entrano neppure Altri come Lui«Marat?» Tornai a rivolgermi all’ufficiale. «Cosa c’entra Marat?» Avevo recuperato un po’ di sangue freddo. «Nulla professore… mi scusi!»

Il colonnello aveva appoggiato il palmo aperto di entrambe le mani sul ripiano pulitissimo della scrivania. «Il fatto è che la sua fidanzata, la Signorina Della Vigna… è stata uccisa in un modo… singolare!» Se voleva vedere una faccia sconvolta fu accontentato. L’incubo della notte in spiaggia in compagnia di Emy ritornò inatteso e selvaggio e rividi chiaramente la mia mano che tagliava la gola di Vanessa, il calore del suo corpo nudo, il sangue… «Michele!!» La voce preoccupata di Carlotta mi riportò alla realtà. Poi nel mio cervello entrò nuovamente la sua voce dolce. -Resisti! Non permettere alla tua paura di riprendere il sopravvento! Tu sai! Sei andato oltre! Fidati di te stesso!«Basta così… professore, mi scusi ancora!» Medini si era intanto alzato in piedi. «Se volete vi faccio riaccompagnare a casa dai miei uomini.» Avevo vagamente intuito che doveva avermi informato per sommi capi su quello che era successo a Vanessa, ma io ero stato troppo preso dai ricordi per seguire il suo discorso e ora la mia paura era quella di lasciarmi sfuggire particolari a cui lui non aveva accennato e che io, in teoria, non dovevo poter conoscere. Quindi mi limitai a scuotere la testa e uscii appoggiandomi leggermente a Carlotta.

Il colonnello era in piedi davanti alla finestra e osservava con distacco la professoressa Jimbutas che bagnava un fazzoletto a una piccola fontana per arlo poi amorevolmente sulla fronte di Michele Barovier.

L’ufficiale lanciò un mezzo ululato e subito un giovane appuntato comparve sulla porta. «Nella cartella sul tavolo c’è la fotografia di un quadro, la i sullo scanner e la mandi immediatamente via e-mail a Roma, al Comando Tutela Patrimonio Culturale e si ricordi di mettere bene in evidenza “all’attenzione del Capitano Marco Redaelli, Urgente”.» Poi tornò a guardare il campo assolato, ma vicino alla fontana, c’era rimasto solo un cane assetato.

Camminavo senza vedere dove andavo. Avvertivo la presenza discreta di Carlotta al mio fianco, ma ci volle un bel po’ di tempo prima che il mio cervello riprendesse a funzionare. Vanessa uccisa! Qui! Non potevo essere stato io e nemmeno quell’assurda proiezione demoniaca delle mie paure, quindi la domanda era: Se c’era qualcun altro che uccideva e se questo qualcuno aveva ucciso Vanessa con le stesse modalità che conoscevo fin troppo bene, avrebbe ucciso anche le altre donne? Il dolore per la morte di Vanessa tornò acuto, mescolato alla paura dell’ignoto. Strinsi la mano di Carlotta. «Non lasciarmi da solo, ti prego!» Avevo un nodo alla gola. «Lasciala andare.» La voce di Carlotta era dolcissima. «Lasciala andare, non trattenerla, sta seguendo il suo destino!»

Ci misi alcuni secondi a capire che parlava di Vanessa.

Capitolo 24°

Erano trascorsi cinque giorni da quel maledetto evento, cinque interminabili giornate rinchiuso in casa. Ero ato da profondi e ivi sensi di colpa, alla voglia spropositata di reagire e di combattere a oltranza, nel tentativo di scoprire la verità. La telefonata di Carlotta, con l’invito a recarmi a casa sua, arrivò a strapparmi dal giro vizioso in cui mi ero lasciato sprofondare. Erano quasi le otto di sera e comodamente adagiato su uno dei divani di pelle nera di casa Jimbutas, osservavo affascinato il disegno dello stupendo mosaico blu che ornava il basso tavolino di pietra; sopra il quale non stonavano affatto né la bottiglia di Jack Daniels, né tanto meno i tre grossi bicchieri di cristallo sfaccettato. Osservavo Carlotta e se quella stanza suscitava in lei ricordi della nostra recente avventura, non trapelava assolutamente nulla dalla sua espressione concentrata e attenta. Lilith invece non riusciva a stare ferma. «Volete raccontarmi i particolari, per Iside! Sto letteralmente morendo dalla curiosità!» La voce era quella di una bambina la notte di Natale. Vedendo il mio imbarazzo, la sorella intervenne in modo deciso. «Calma tesoro, non è stato facile per lui e poi… deve ancora comprendere a fondo cos’è successo.» «Capire, capire, sempre capire! Uffa! Uno a furia di cercare di capire si perde tutto il divertimento!»

Lilith sbuffò vistosamente, prima di lanciarmi un’occhiata obliqua. «Ho sentito di un certo pomeriggio con una certa modella…» «Lilith!!» Il tono aspro della sorella troncò la domanda a metà. «Uh… quante storie, anch’io quando sono uscita per sbaglio dalla specchiera della camera da letto della Borgia…» «Ho detto basta! Non confonderlo maggiormente!» La voce di Carlotta era veramente seccata. «Lucrezia Borgia? Mi sono persa qualche cosa d’interessante?» Una voce conosciuta e allegra piovve dall’alto. Balzai in piedi stupefatto. «Emy?» Appoggiata alla balaustra della balconata che circondava la stanza, la ragazza era ancora più bella di come la ricordavo. Più che una minigonna indossava una larga cintura di pelle rossa e le sue lunghe gambe perfette, soprattutto viste dal basso, erano un autentico incubo. Scomparve all’improvviso per riapparire qualche istante dopo nel salone e me la ritrovai tra le braccia sorridente. Sentii il suo corpo aderire con slancio, mentre le sue labbra si posavano delicatamente sulle mie. «Ce l’hai fatta! Sei riuscito a tornare! Non sai quanto sono felice!» I suoi occhi erano due smeraldi lampeggianti. Ero frastornato e facevo fatica a raccapezzarmi.

«È meglio se facciamo un po’ di ordine! Altrimenti Michele finirà per impazzire veramente!» La voce di Carlotta era divertita, ma gli occhi avevano una serietà che tradiva il tono disinvolto. Emy andò a sedersi accanto a Lilith, la quale incominciò subito a parlarle silenziosamente in un orecchio. Vidi Carlotta scuotere leggermente la testa, prima di guardarmi seria. «Quando mi sono accorta che c’era stata una distorsione nel tuo spazio temporale e che al posto di ritornare dalla porta costituita dalla “Giuditta” eri finito in chissà quale altro universo, chiesi subito a Emy di venirti a cercare. Lei è brava in queste cose.» Sentendosi nominare, la ragazza staccò l’orecchio dalle labbra di Lilith e prese parte al dialogo. «Non è stato difficile, eri così spaventato che le tue vibrazioni si percepivano facilmente. Vedi, i mondi e gli universi sono formati, per semplificare il concetto, come da onde elettromagnetiche e ognuno di loro ha una sua frequenza ben definita; se qualcosa disturba questa frequenza o non fa parte di certe ampiezze d’onda, viene subito notato. E’ in questo modo che ti ho trovato. Inoltre “Lui” era così carico di energia, che moltissimi altri universi ne sono stati coinvolti e così ho potuto contare su una miriade di informazioni utilissime per raggiungerti.» Non mi perdevo una sillaba. «Il problema» continuò Carlotta, «era che Emy non poteva riportarti indietro, solo tu autonomamente, con la forza della tua volontà potevi decidere di ritornare. Tu dovevi trovare il modo e le motivazioni sufficienti per riaprire la porta.» «Vuoi dire che potevo rimanere là?» Ero incredulo.

«Veramente potevo rischiare di finire in un manicomio criminale per tutta la vita?» «Certo! Eri nella realtà di quell’universo esattamente come lo sei ora in questo. Solo che in quel mondo le “forze spirituali” sono molto più potenti che da noi, la gente ci crede maggiormente e quindi in maggior misura fanno parte del loro “quotidiano”. Forse per questo “LUI” ti ha deviato là, aveva molte più possibilità di esistere e di essere autonomo.» Lanciai alla ragazza uno sguardo infuocato. «Ma allora Emy sapeva che ero in un universo sbagliato!» Per tutta risposta lei si stese sul divano, la testa appoggiata in grembo a Lilith. «Certo, ma il confine tra quello che poteva fare e quello che poteva rivelarti era sottilissimo; se sbagliava, non ci sarebbe più stata una tua scelta autonoma e saresti rimasto in quel luogo per sempre.» La voce di Carlotta era paziente e dolce. Non mi diedi per vinto e replicai: «Ma avremmo potuto evitare gli omicidi, perlomeno quello delle ragazze!» Il senso di colpa non mi abbandonava e lo sentivo pesare sul cuore. «No! Ricorda che eravate realmente in un’altra dimensione. Neanche Emy poteva prevedere cosa sarebbe successo e la consapevolezza di essere in un altro mondo non la poneva assolutamente in una condizione privilegiata, poteva come chiunque altro avere incidenti, ammalarsi, morire! Il futuro è un’incognita che vale in tutti gli universi.» Guardai direttamente la ragazza. «Mi hai portato in quella casa di Burano perché volevi che mi arrestassero?» Lei si distese meglio sulla morbida pelle nera del divano dove le sue lunghe gambe, pur con tutta la loro abbronzatura, crearono un contrasto imbarazzante.

«No! La casa doveva essere sicura! È stato il tuo amico Marco che ha dimostrato una notevole bravura nel rintracciarti.» Voltò poi la testa verso di me. «Ero appena uscita che fui bloccata dai carabinieri del ROS, poveretti!» «Poveretti?» «Certo, loro pensavano che fossi una tua nuova vittima e mi misero subito al sicuro su una delle loro imbarcazioni. Chissà che faccia avranno fatto quando si sono accorti che ero sparita nel nulla.» «È molto strano.» Carlotta sembrava parlare più con se stessa che con noi. «Là, in quel mondo, sono state le tue voglie represse e le tue paure a causare la morte di Vanessa, ma qui non ha senso. Senza dubbio deve esserci un legame, ho sempre notato che tra i mondi esiste sempre un filo sottile che unisce le cose, ma in questo caso non capisco proprio quale possa essere.» Guardò la sorella negli occhi. «Dobbiamo stare attente, se non ci sono forze magiche in gioco, noi siamo esattamente vulnerabili come chiunque altro, non abbiamo modo di proteggerci.» Questa scrollò le spalle con noncuranza. «Ho visto e affrontato pericoli ben peggiori per preoccuparmi troppo, ti ricordi che durante il processo alle streghe di …» «Lilith! Basta con questa storia, sono stufa di sentirla!» Carlotta si era seriamente arrabbiata. La sorella balzò in piedi di scatto, gli occhi lampeggianti ed Emy che aveva ancora la testa appoggiata sulle sue ginocchia rotolò clamorosamente sul tappeto.

Carlotta la guardò perplessa, poi avvertii la sua tensione scaricarsi in una risata cristallina. «E se andassimo a cena?» Sussurrò. Gli occhi di Lilith virarono di colore, poi con serietà chiese: «Carne o pesce?»

Capitolo 25°

Se mai in vita mia mi era capitato di prendere in considerazione le streghe, da quella sera diventai il loro più strenuo difensore. Sicuramente fu la cena più pazzesca, più raffinata e stupenda a cui avessi mai partecipato. Emy e le sorelle Jimbutas mi avevano riaccompagnato a casa, dove con sollievo ero riuscito a farmi una doccia memorabile e a indossare abiti puliti, poi le avevo seguite in alcune calli nascoste, alle spalle del teatro La Fenice. Ci infilammo in un piccolo sottoportego per sbucare dopo solo qualche o in un minuscolo campiello dominato da un grande portone chiuso. Lilith bussò impaziente e dopo qualche secondo apparve una massa di riccioli bianchi posta sopra un minuscolo grembiule altrettanto candido. Rimasi impressionato dalla dolcezza negli occhi della donna, sembrava contenere lo sguardo di tutte le nonne del mondo. Ci fece entrare con un sorriso e mi ritrovai in un’ampia stanza che conteneva una decina di tavoli rettangolari perfettamente apparecchiati. Sulla destra alcuni gradini portavano a un’altra stanza più piccola, dove potevo intravedere un lungo tavolo di quercia e un pianoforte. Sulla sinistra invece, un basso muretto separava la stanza da una cucina all’apparenza antiquata, ma dall’aria estremamente efficiente. Sparse per il locale alcune credenze cariche di ciotole, vassoi e di vasi che contenevano un incredibile assortimento di biscotti, di spezie e di fiori. «Teresa! Tesoro! Questa sera abbiamo un ospite nuovo, mi raccomando di non avvelenarlo subito come hai fatto con l’ultimo che ti abbiamo portato.»

La voce di Carlotta era quella di una cospiratrice collaudata. «È stato lui che ha voluto ostinatamente provare la grappa alla vipera, l’avevo avvisato di non berne troppa!» Il tono offeso della donna non convinceva nessuno. Emy stava già chiacchierando con un paio di donne sedute a un tavolino nell’angolo e le risatine e gli sguardi per nulla discreti, indirizzati nei miei confronti, mi misero in imbarazzo. Lilith mi trascinò a un tavolo. «Dai! Siediti e goditi la serata. Spero che tu sappia apprezzare la buona cucina! Teresa non è “una strega” in cucina, è “La strega” della cucina.» «Ma che posto è questo?» Domandai incuriosito. «Non ne ho mai sentito parlare.» «È una specie di club privato e normalmente ci vengono solo donne. Le proprietarie non fanno troppa pubblicità, preferendo lavorare con una clientela abituale e selezionata.» Lanciò un’occhiata attorno, poi sottovoce mi sussurrò: «Corre voce che sia un covo di lesbiche!» I suoi occhi erano l’apoteosi dell’ironia. Carlotta ed Emy ci raggiunsero e dopo alcuni minuti ero completamente assorto nella contemplazione di un’enorme plateau contenente una varietà impressionante di funghi tagliati a fettine sottilissime, uniti ad altrettanto sottili listarelle di salmone, cubetti di peperoni e di cetriolini coloravano il tutto. Fu sostituito rapidamente da uno più piccolo, ricolmo di stuzzicanti acciughe gratinate, subito ammorbidite da un ennesimo vassoio contenente del tonno in gelatina, avvolto in ampie fette di prosciutto crudo.

Scoprii che le streghe a tavola mangiano parlando di vestiti e di scarpe, di tisane e di lavatrici esattamente come tutte le donne del mondo. Se sorvolarono sugli uomini, sospetto che fu solo per rispetto del loro ospite. In compenso scoprii che se Carlotta mi aveva sempre stupito per la sua cultura, Lilith era una vera enciclopedia vivente; anche se era estenuante seguirla nei salti apparentemente senza senso che compiva tra un argomento e l’altro. Emy da parte sua, fu una vera rivelazione, riusciva a inserirsi nei discorsi palesando una sensibilità e una preparazione che lasciava stupiti. Sicuramente era anni luce avanti alle sue coetanee. Aveva un bel portare jeans strappati o minigonne mozzafiato, quando apriva bocca meritava tutta l’attenzione che uno potesse accordarle. Se pensai che il risotto alla sogliola e radicchio fosse il massimo, dovetti ricredermi quando Teresa si avvicinò spingendo un carrello su cui era appoggiato un lungo tegame in coccio, contenente medaglioni di aragosta, cosparsi con una delicata crema di peperoni. Concluse la cena una pirofila di caldissimi cubetti di frutta gratinata con lo zabaione. Dei vini preferisco non parlarne, non ne conoscevo uno di quelli che furono serviti, ma sicuramente quel locale doveva avere Bacco in persona come fornitore. «Allora? Cosa ne pensi di questo covo di degenerate?» La voce allegra di Emy era meravigliosa. Raramente in vita mia ero stato meglio e sicuramente riguardava momenti felici dell’infanzia; da adulto non avevo mai provato un così perfetto equilibrio tra atmosfera, cucina e commensali. Quindi mi offrii senza nessuna esitazione. «Hanno bisogno di un lavapiatti in questo locale?»

«Il caffè ve lo porto al “tavolone”, starete più tranquilli.» Annunciò Teresa strizzando l’occhio. Guardai incuriosito Emy. «È il grande tavolo nell’altra stanza.» Mi spiegò la ragazza mentre io, facendo circolare lo sguardo per il locale, mi accorgevo con stupore che nel frattempo si era riempito completamente. Ero rimasto così attratto dai cibi e dalla conversazione che non mi ero accorto dell’arrivo di altre persone. Mi alzai per seguire le mie amiche e praticamente attirai gli sguardi di tutte le commensali. Con un certo imbarazzo mi resi conto di essere l’unico maschio in tutto il locale, se si escludeva un cucciolo di cocker che mi osservava incuriosito, con il muso piegato da un lato. Prendemmo posto sulle lunghe panche che affiancavano un tavolo massiccio e avevo appena appoggiato la tazzina del caffè alle labbra quando rischiai di morire soffocato. Di fronte a me il pianoforte aveva incominciato a suonare da solo. I tasti si muovevano autonomi e veloci sulle note di un motivetto “ragtime” e Carlotta quasi rovesciò il caffè dalla tazzina nel tentativo di trattenere le risate. «È un inganno! Ha un motorino nascosto all’interno.» Emy si stava asciugando un occhio dalla lacrima che rischiava di rovinarle il trucco. «Teresa l’ha trovato da un rigattiere e ha pensato che fosse perfetto per un locale da “streghe”.» Evitai di guardare verso gli altri tavoli, mi era più che sufficiente lo sguardo delle tre donne che avevo di fronte.

Lilith si alzò e da una piccola credenza prese con una mano un vassoio di legno con sopra alcuni piccoli bicchieri di cristallo e con l’altra una piccola bottiglia di grappa bianca. Appoggiò il tutto al centro del grande tavolo, poi si sedette con un sospiro soddisfatto al fianco di Emy. Ora le avevo tutte e tre di fronte, con Emy in mezzo. Carlotta riempì i bicchieri e me ne porse uno, poi mi guardò dritto negli occhi. «Adesso puoi chiedere! Quello che vuoi!»

Capitolo 26°

Vuotai il bicchiere, ma me lo feci riempire nuovamente prima di domandare impacciato: «Chi siete veramente?» «Te l’ho detto» disse Emy, «siamo streghe!» «O Wiccan, se preferisci.» Precisò Carlotta. «Wiccan?» Non capivo. «La Wicca è un’antica religione» proseguì Carlotta, «e sebbene non sia nata con questo nome è la prima religione che sia stata mai praticata sulla Terra… più di 30.000 anni fa.» Fece una leggera pausa, prima di continuare tranquilla: «I wiccan credono in due semplici forme di divinità: un principio maschile, che puoi rappresentare come l’antico dio cacciatore e uno femminile, la Dea Madre. Ma attento, a differenza di altre religioni questi dei non hanno creato l’universo, “sono l’universo” e quindi sono presenti in tutte le manifestazioni della natura, mi segui?» Annuii, poi arrischiai a chiedere: «Ma perché chiamarvi streghe? La stregoneria ha un significato ben preciso e nefasto.» Carlotta scosse la testa. «La parola “wicca” deriva dall’abbreviazione di WitchCraft, ovvero “strega” ma una volta il termine indicava una persona saggia. Queste donne erano tenute in

grande considerazione prima che il cristianesimo tentasse, purtroppo con successo e con ferocia, di cancellare la religione pagana. Sovrappose con astuzia feste cristiane a quelle pagane e quando non riusciva a soffocare riti e tradizioni, ci pensavano i roghi a eliminare quelle donne che avevano come unica colpa quella di “sapere” e di avere conoscenze proibite. Donne che oltretutto il più delle volte erano indispensabili per l’aiuto che sapevano dare alle partorienti e agli ammalati.» Si fermò per bere un sorso dal suo bicchiere e mi sembrò incredibilmente di vedere riflessi nei suoi occhi nocciola i bagliori di quei roghi. «Per cui è un onore chiamarci come loro!» Continuò Lilith sottovoce. «La vera strega è una persona che crede nel divino che si manifesta nella natura, che ne percepisce la forza, l’amore, e che tenta di mantenersi in armonia con esso. È una persona in continua ricerca, sincera, responsabile delle proprie azioni e che cerca di proteggere tutte le cose viventi. Ma credimi, essere eredi dell’Antica Religione è difficile, specialmente in un mondo come quello attuale, nel quale l’uomo sembra aver dimenticato il suo profondo legame con la Terra.» «Quindi non avete nulla a che fare con la magia?» «Al contrario, noi operiamo in continuazione magie. Certo non ci trasformiamo in animali, non voliamo sulle scope e non lanciamo maledizioni. Quella che normalmente viene confusa con la magia è per noi una “preghiera”, un modo di utilizzare i poteri della natura a fin di bene.» Guardò per un istante le altre due donne. «Chiaramente se per religione e per scelta sei portato a non avere pregiudizi e a osservare la natura nelle sue varie potenzialità, finisci per ottenere conoscenze che tramandate da generazione in generazione, ti pongono in una situazione privilegiata rispetto alle altre persone, ma non c’è nulla di demoniaco in questo, è solo conoscenza.» «Eppure il diavolo l’abbiamo incontrato veramente e ne avevamo tutti quanti terrore!»

L’esperienza ata era ancora viva e palpitante sulla mia pelle. «Non confondiamo le cose!» Lilith riprese la parola con autorità. «Il diavolo che abbiamo affrontato non c’entra nulla con il mondo magico, non è il diavolo del catechismo. Quando parli dei sette cieli e dei loro confini, non parli di religione ma di un modo diverso di vedere il cosmo e l’intero creato; è un mezzo per cercare di capire meglio noi stessi e quello che ci circonda. La parola diavolo, come d’altronde la sua immagine, è stata creata da noi per capire meglio di cosa parliamo.» Mi guardò fisso negli occhi e abbassò la voce. «Se vuoi un mio parere personale, il Diavolo, quel Lucifero della Bibbia e dei Vangeli, quella figura che tanto terrorizza è invece la vera forza che ci fa crescere, è “il portatore di luce”, luce intesa come verità, novità, conoscenza. Solo che queste conoscenze fanno paura perché ci obbligano a cambiare e a sperimentare, a provare cose nuove; con la conseguenza che corriamo il pericolo di perdere le certezze acquisite e sicure. Ed è proprio la paura dell’ignoto che ci fa riversare su chi lo porta le nostre angosce più profonde…» Il silenzio attorno a me era palpabile. «Quello che nell’altro universo abbiamo chiamato demone era la tua paura che a sua volta si è alimentata di altre tue paure. Non può esistere l’amore senza il suo contrario, come non può esistere la dolcezza senza il suo opposto. Quando possiedi una donna, sai che può essere tua perché essa ti concede totalmente il suo corpo in un dono d’amore o semplicemente di ione, o può benissimo essere perché tu, con la forza e con la violenza, obblighi quel corpo a essere tuo. È una tua scelta, o meglio è nelle tue possibilità di scelta. Sta a te decidere come comportarti, ma avere paura di una delle due possibilità porta solo ad alimentarla e il fatto di non accettare di avere sentimenti e voglie contrapposte ti porta solo a viverle male.» «E guarda»continuò Emy, «che vale in tutti e due i casi: un buono che ha paura del suo lato oscuro corre il rischio di diventare un bigotto o un fondamentalista pericolosissimo, come un cattivo che ha paura del suo lato buono e della dolcezza che sente in lui continua solo a indurirsi e a persistere nel male e nella cattiveria. È solo questione di paura!»

Si fermò un secondo per lanciare un rapido sguardo nel locale, poi continuò: «Quando bruciavano le streghe e gli stregoni perché adoratori del diavolo, in un certo senso avevano ragione, non perché quelle povere donne erano le amanti o le concubine di un essere malefico, ma perché effettivamente credevano nel “portatore della luce”, in quella forza che apriva le porte sull’ignoto e che donava la conoscenza. Il Dio e la Dea “erano l’universo”, tutto quello che le streghe nel loro piccolo potevano imparare era qualcosa che le avvicinasse alla fonte di tutto e che le rendesse felici. Ma questo era l’opposto di quello che voleva la Chiesa. Soprattutto nel medioevo.» Per fortuna che aveva poco più di diciotto anni!! Teresa sostituì la bottiglia di grappa sul tavolo. «Fai attenzione giovanotto, dopo la prima bottiglia queste tre diventano pericolosissime, io ti ho avvertito!» «Bella amica, ce ne vorrebbero di più come te!» Lilith cercava di fare l’offesa, ma l’occhiata che aveva lanciato a Teresa andava chiaramente oltre l’amicizia. Le osservai un istante, indubbiamente da giovani dovevano essere state una coppia strepitosa. «Ehi!! Migliora!!» Teresa si era girata a guardarmi negli occhi. Improvvisamente compresi che Emy non era l’unica ad avere la fastidiosa capacità di leggere nel pensiero. Avvertii le orecchie bruciare e mi rituffai nella grappa.

Capitolo 27°

L’uomo era molto arrabbiato e tutta la sua frustrazione la stava scaricando sul corpo della giovane donna di colore a cui ormai da troppo tempo concedeva di dividere il suo letto. Aveva programmato tutto alla perfezione, ma quell’imbecille di professore aveva deciso all’ultimo momento di partecipare a un’insulsa mostra e così si era trovato a disporre di un alibi solidissimo. Era seduto sul bordo del letto e osservava con ironia la stanchezza della donna inginocchiata tra le sue gambe; erano forse una decina di minuti che era alle prese con il suo sesso, ma lui si ostinava a non concedersi l’orgasmo. Aiutato dalla cocaina, il suo membro era nonostante l’erezione, insensibile alle attenzioni dell’amante. Un tempo quella bocca l’aveva fatto impazzire, ma ora vedeva solo un susseguirsi di tecniche sfruttate troppo a lungo e i languidi sguardi che la donna gli rivolgeva di tanto in tanto non avevano altro effetto che aumentare la sua voglia di umiliarla sempre più a lungo, di impedirle di smettere nonostante l’evidente stanchezza. Doveva trovare un’altra soluzione. Doveva incastrare Barovier una volta per tutte e forse stato obbligato ad uccidere ancora. Con quella puttana di Vanessa della Vigna l’esperienza era stata esaltante, non avrebbe mai pensato che potesse essere così eccitante, la sua morte era ormai inevitabile. La donna se l’era cercata, con tutta la sua superbia e il suo perbenismo, il suo senso del dovere e la sua mentalità del cazzo.

Ma non avrebbe mai immaginato che sorprenderla praticamente nuda, mentre si preparava a farsi un bagno, avrebbe scatenato in lui quella meravigliosa furia. Era bella e nonostante lui avesse avuto nella sua vita donne altrettanto appariscenti, nessuna aveva “quella” bellezza. Le donne come Vanessa non “la davano” a quelli come lui, erano troppo raffinate, troppo superiori. L’aveva vista tremare dopo i primi colpi. Nessuno doveva mai averla veramente picchiata prima d’allora e aveva intuito che se all’inizio era maggiore la sorpresa sul dolore, a mano a mano che lui continuava a colpirla, il dolore si era fatto preponderante, era divenuto il “tutto”. E quando l’aveva posseduta, all’inizio lei l’aveva lasciato fare, forse nell’inconscia speranza che il dolore finisse, che lui smettesse di colpirla. Aveva poi sentito esplodere nuovamente il terrore nella donna quando questa si era accorta che non sarebbe stato come lei aveva stupidamente sperato, quando aveva compreso che lui avrebbe finito per distruggerla. Allora si era ribellata veramente. Aveva rifiutato di essere annientata, di vedere il suo corpo ridotto a carne calda da usare a piacimento e aveva incominciato a difendersi disperata. Ed era stato sicuramente quello il momento più esaltante. Sentire la sua forza fisica soverchiare quella di lei e continuare a possederla nonostante gli strenui sforzi della sua vittima. Poi, una volta che le resistenze della ragazza si furono affievolite, sostituite da una sorta di apatica rassegnazione, aveva obbligato nuovamente ogni parte di quel corpo a soddisfare le sue voglie più assurde, nel tentativo di frantumare anche l’ultimo granello della superbia che la donna aveva avuto nei suoi confronti. Solo quando aveva avuto tra le braccia una bambola inerte, solo allora, le aveva tagliato la gola.

Con calma. Senza emozioni. Abbassò lo sguardo sulla testa della donna che aveva tra le gambe. Allungò una mano, la prese per i capelli e la staccò con brutalità, facendole perdere l’equilibrio, poi si alzò dirigendosi verso la cucina. Dal frigorifero prese una nuova bottiglia di vodka, l’aprì e prese a bere direttamente dalla bottiglia. «Amore! Cosa succede? Non ti piaccio più?» La ragazza era apparsa sulla porta. «Torna a letto! Arrivo subito!» Le urlò dietro. Poi rimase a osservarla mentre spariva dondolando, nuda, sui tacchi altissimi. Pensò che se quella che aveva in mano non fosse stata l’ultima bottiglia, l’avrebbe spaccata volentieri sulla testa della donna. Bevve un altro sorso e il liquore ghiacciato scese a bruciargli lo stomaco, rilassandolo. Ripensò a Vanessa, all’attenzione che aveva messo nel sistemare sul suo corpo le tracce che avrebbero portato gli investigatori a Michele Barovier. Sorrise al ricordo del colpo di genio che aveva avuto vedendo quel libro aperto sul divano, con la grande immagine di un uomo morto in una vasca da bagno. Si era divertito a ricreare la scena nei minimi particolari, cercando per tutta la casa gli oggetti che potevano servirgli. I poliziotti sarebbero impazziti nel cercare un significato e sicuramente si sarebbero indirizzati su un uomo di cultura, un bel chiodo in più nella bara del caro professor Barovier.

Mentre per lui sarebbe stato di aiuto, nel caso di un’improbabile indagine sul suo conto, la sua quinta elementare. «Amore?» La voce che arrivava da oltre la porta era fastidiosamente roca. Doveva inchiodare il professore! Doveva pensare a qualcosa di definitivo. «Amore, non vieni?» Lanciò un’occhiataccia in direzione della voce. Ancora poco, poi avrebbe potuto permettersi qualcosa di molto meglio. «Arrivo!» Urlò. Bevve un altro lungo sorso, poi, massaggiandosi lentamente il pene, ritornò nella stanza da letto.

capitolo 28°

«Michele? Sono Marco!» La sua voce, anche se al telefono, fu un tuffo al cuore. Da giorni ero tormentato sul suo conto. Da un lato, se non lo avessi sentito potevo pensare che l’omicidio di Vanessa fosse una casualità e che tutto potesse finire lì, dall’altro, la sua eventuale chiamata in causa poteva solo significare che quello che era successo nell’altro universo stava veramente ripetendosi analogamente nel mio. «Mi dispiace per Vanessa, è una cosa terribile.» La sua voce era rotta dall’emozione. Nella mia voce avvertii invece un’angoscia crescente. «a a casa mia nel pomeriggio, ho appena comprato una bottiglia di Jack Daniels.» «Come fai a sapere che sono a Venezia?» Il carabiniere che era in lui aveva fatto capolino. «Intuito!» Fu la mia risposta lapidaria, mentre fissavo la bottiglia di whisky ancora sigillata. Mi affacciai alla finestra e lasciai vagare il mio sguardo sui tetti della città. In quell’altro mondo, Marta e Luisa erano state uccise perché il demone aveva avuto paura, ma nel mio universo lui non esisteva e non c’era alcun motivo che potesse giustificare il ripetersi della situazione, quindi potevo considerare al

sicuro sia la mia allieva che la sua amica. Diversa invece era la posizione dell’altra donna. Poteva sussistere la possibilità che l’impiegata della ditta di spedizioni di Mestre, quella che viveva nel mio universo, corresse veramente reali pericoli? Se, come sosteneva Carlotta, esisteva un filo che legava i diversi mondi, poteva essere quindi plausibile che in qualche modo la ragazza corresse realmente il pericolo di venire uccisa sulla spiaggia? Questo, dovevo assolutamente evitarlo!

Due settimane prima ero ritornato al lavoro per gli esami di maturità e come riguardando una vecchia pellicola, avevo rivisto sguardi sfuggenti e avvertito atmosfere imbarazzate. Il momento peggiore era stato quando avevo sentito chiamare dal bidello: «Signorina Luisa Ballarin! Tocca a lei, svelta!» Per fortuna i miei colleghi avevano deciso di disinteressarsi del sottoscritto e il mio evidente imbarazzo era ato inosservato. Luisa invece era stata sorpresa dalla semplicità delle mie domande, anche lei troppo presa dall’emozione dell’esame per soffermarsi troppo a lungo sul mio stato d’animo. Avevo visto i suoi capelli biondi ondeggiare nella foga delle sue esposizioni e inevitabilmente mi erano tornati alla mente gli stessi riccioli sul cuscino stropicciato, mescolati ai neri capelli di Marta. Avevo soffocato con uno sforzo le immagini della loro morte. Perlomeno in questa vita, in questo universo, nessuno avrebbe impedito al loro amore di crescere e svilupparsi. Poi per fortuna si erano alternati altri allievi e finalmente era arrivato anche

l’ultimo giorno di esami. Ma era anche vicinissimo il momento in cui, nell’altra realtà, era stata uccisa la donna sulla spiaggia.

Ora che Marco era a Venezia e stava lavorando al caso di Vanessa, cosa dovevo fare? Coinvolgerlo e cercare il suo aiuto per salvare ipoteticamente quella seconda donna o mentire con lui, sperando di riuscire in qualche modo a risolvere da solo la situazione? Sicuramente non mi avrebbe creduto e anche se lo avesse fatto, prima di riuscire a spiegargli tutto e a dargli il tempo di assimilarlo, l’omicidio poteva già essere compiuto. Mi sedetti di fronte al computer e accesi il monitor. Due ore dopo ero fuori di casa. Infilato nella cintura dei pantaloni avvertivo distintamente la forma del mio vecchio coltello da “scout”, l’unica arma che avessi in casa.

Capitolo 29

Il camlo suonava a vuoto e Marco scosse la testa. «L’imbecille è capace di essersi ubriacato da solo!» Mormorò tra sé, mentre tra le sue braccia un’enorme pizza rischiava di raffreddarsi. La posò delicatamente per terra, poi si avvicinò alla batteria di contatori del gas posizionati sul muro di fronte, tastò con delicatezza dietro a quello contrassegnato “Barovier” e, agganciata a un piccolo chiodo, trovò la chiave di riserva dell’appartamento di Michele. Fu sorpreso, entrando, di trovarlo vuoto. Michele lo aveva espressamente invitato e non era da lui non farsi trovare. Appoggiò la pizza sul tavolo della cucina e fece un rapido giro dell’appartamento. Tutto era in ordine. Nello studio, accanto al computer, una bottiglia sigillata di whisky. La prese in mano perplesso e il quel momento vide la spia verde del monitor accesa. Pensò che forse il suo amico gli aveva lasciato un messaggio e mosse il mouse. Lo schermo prese immediatamente vita e apparve una bianca pagina di Word, con in mezzo a caratteri cubitali rossi il suo nome:

Per Marco

Marco, ti prego di leggere tutto quello che ho scritto, non importa se ti sembrerà pazzesco e incredibile, ma, in nome della nostra amicizia, arriva fino in fondo! È l’unico modo che ho trovato per raccontarti un’esperienza incredibile, a cui anch’io faccio fatica a credere. Un paio di giorni prima dell’omicidio di Vanessa, ricevetti l’invito a partecipare all’inaugurazione della mostra su Caravaggio al museo Correr… A mano a mano che il capitano leggeva, le espressioni sul suo volto mutavano con rapidità, ando dallo stupito all’incredulo, per arrivare poi allo sconcerto più assoluto. Quando arrivò infine alle prove trovate sul corpo di Vanessa ormai aveva un sudore freddo su tutto il corpo. Effettivamente, nonostante fosse arrivato a Venezia da molti giorni, aveva dovuto aspettare parecchio prima di poter contattare Michele, proprio perché le indagini sul conto del suo amico erano in pieno svolgimento. Dai capelli ritrovati sul pube di Vanessa, grazie al carattere di assoluta priorità che il caso aveva immediatamente avuto, era stato possibile effettuare un test del DNA in tempi record e dal momento che erano risultati senza ombra di dubbio appartenere al professor Barovier, l’attenzione degli investigatori era schizzata alle stelle. Senza la solidità dell’alibi fornito dal sindaco e dalla fotografia sul Gazzettino, Michele sarebbe già stato arrestato. Ma i dubbi rimanevano e aveva dovuto aspettare con impazienza il permesso di contattarlo, per poter parlare con lui da uomo a uomo, per leggere personalmente la verità nei suoi occhi. E ora aveva in mano le prove che il suo migliore amico conosceva nel dettaglio elementi non divulgati della scena del delitto, particolari che erano a disposizione solo di una ristretta cerchia di investigatori, minuzie che potevano sapere solo loro e… l’assassino.

Spostò lentamente il mouse e lo posizionò sull’icona relativa alla stampa. Rimase un attimo con il fiato sospeso, indeciso, poi cliccò con decisione il tasto relativo. Il leggero ronzio della stampante accompagnò la condanna del professor Barovier. … in nome della nostra amicizia arriva in fondo… Con uno sforzo il carabiniere fece comparire sul monitor anche le pagine successive. Un'ora dopo la stampante aveva terminato da un pezzo il suo lavoro, ma lo sguardo di Marco era ancora fisso sullo schermo, immobile. … non ho altra soluzione, devo fermare l’assassino! Improvvisamente ho la consapevolezza che è per questa notte, lo sento! E solo io posso sperare di ritrovare il posto, io so dove l’ha uccisa. Perché l’altra volta, io… c’ero! Era pazzesco e Marco non sapeva più cosa pensare. Streghe, mondi e universi paralleli, demoni… Chiuse gli occhi e cercò di svuotare il cervello. Rimase immobile fino a quando il vuoto assoluto riempì tutto il suo essere, fino a quando rimase solo il battito del suo cuore. Poi anche quello si attenuò fino a scomparire del tutto e per un attimo rimase il nulla. Lentamente, dal buio prese forma la fisionomia di un ragazzo terrorizzato al finestrino di una vecchia Land Rover e Marco ne cercò gli occhi.

«Sono il Capitano Redaelli! Voglio subito una lancia veloce e allertate immediatamente i colleghi del Lido che mandino tutte le loro auto agli Alberoni. Vi darò ulteriori dettagli in seguito!» La sua voce non era mai stata così ferma e autoritaria. Un’ora dopo era in piedi, immobile sulla sabbia spazzata da un vento caldo. Negli occhi la luce fastidiosa delle fotoelettriche. Di fronte a lui il corpo nudo di una donna avvolto parzialmente in un grande asciugamano bianco, su cui era stata appoggiata una rozza cornice di rami secchi. «Capitano?» Un giovane appuntato lo chiamava imbarazzato. «Qui il fotografo ha finito, cosa facciamo?» Marco sollevò la testa, mentre grosse lacrime scendevano sul suo volto. Guardò verso il giovane militare e verso i nastri colorati che sventolavano seminascosti da una piccola duna. Con calma la salì, incurante della sabbia che gli entrava inesorabile nelle scarpe, quindi si asciugò le lacrime e si sporse a guardare nel piccolo avvallamento che aveva ai suoi piedi. Michele Barovier era sdraiato a braccia spalancate, il volto illuminato dolcemente dalla luna. Dalla sua gola spuntava, assurdo, il manico d’osso di un vecchio coltello da scout.

Parte seconda

“L’ombra dell’assassino”

Capitolo 30°

L’uomo si muoveva veloce nel buio. Stava attraversando i vasti campi da golf, ma li conosceva bene e non correva sicuramente il rischio di perdersi. Sentì un rumore sopra la sua testa e si accucciò al riparo di un piccolo albero, alcuni secondi dopo la luce accecante di un faro ò sopra di lui. Rimase assolutamente immobile finché non la vide sparire in lontananza. Dall’elicottero non potevano aver scorto nulla. Raggiunta la sua auto controllò che in cielo non ci fossero altri pericoli, poi accese il motore e lentamente percorse al buio la stradina sterrata che gli avrebbe permesso di immettersi, dopo una stretta curva, sulla strada principale. Il bar all’angolo era ancora aperto, perfetto! Parcheggiò a lato di una monovolume nera, spense con calma il motore e scese facendo scattare la chiusura automatica. Nel locale c’era parecchia gente. Sorrise. Anche se qualcuno fosse ato in seguito a far domande, nessuno si sarebbe ricordato di lui. Ordinò da bere direttamente al banco. Pagò subito e si mise con cura lo scontrino in tasca prima di guardarsi attorno con attenzione. Gli bastarono un paio di minuti per individuare quello che cercava.

Erano in due, bruttine, parlavano un cattivo inglese e soprattutto erano già ubriache. Lanciò un’occhiata ai loro bicchieri, Coca-Cola e rum. Ridevano forzatamente appoggiate al bancone, mentre i due ragazzi che erano con loro lanciavano sempre più sovente occhiate nervose ai loro orologi. Dalle loro facce lunghe si intuiva che la serata non era andata come avevano sperato e che non vedevano l’ora di sganciarsi. Si avvicinò al gruppo con il bicchiere in mano e in perfetto inglese incominciò a parlare con la ragazza più vicina. I ragazzi lo guardarono infastiditi, poi uno di loro in un inglese sgrammaticato, gli chiese cosa volesse. L’uomo fece scivolare di nascosto nella mano del ragazzo un biglietto da cinquanta euro e strizzandogli l’occhio ordinò un altro giro di liquori, poi con esagerata cortesia si voltò a baciare la mano alla ragazza che aveva accanto. I ragazzi si scambiarono un’occhiata veloce e due minuti dopo erano sulle loro moto a correre veloci verso qualche altro appuntamento, a spese di uno stupido inglese cinquantenne con voglia di carne giovane. Dieci minuti dopo usciva anche lui abbracciato alle due dondolanti ragazze, le fece salire in macchina e con molta calma si diresse verso il centro del Lido. Dopo nemmeno un chilometro, i carabinieri di un posto di blocco controllarono un attempato signore in compagnia di due straniere ventenni e ubriache che esibì stupito una manciata di scontrini di un bar della zona. Una volta accertato che fosse sufficientemente sobrio per poter guidare, lo lasciarono are. L’uomo scaricò le ragazze davanti a una discoteca sul lungomare e mettendo nelle loro mani una manciata di banconote le convinse, con la scusa di trovare un parcheggio, ad aspettarlo all’interno. Alcuni minuti più tardi entrava invece con l’ auto nel vialetto del piccolo

giardino di casa sua, spegneva il motore e scendeva per togliere dal baule un grande telo. Ricoprì con cura la macchina, prestando attenzione a nascondere perfettamente targa e colore. Chiuse il cancello e si diresse con calma verso la villetta. Da una delle finestre del piano terra proveniva una musica cubana che, a mano a mano che si avvicinava, contribuì in modo esponenziale ad aumentare la sua irritazione. Entrò sbattendo la porta. «Amore? Sei tu? Dove sei stato finora?» La voce femminile che arrivò da un’altra stanza era pesantemente impastata dall’alcol. Non si degnò di rispondere e si diresse direttamente verso il frigorifero. Dopo un lungo sorso di vodka ghiacciata, s’appoggiò al tavolo, sfinito, mentre ripensava alla giornata trascorsa. Com’era potuto succedere? Anche questa volta aveva programmato tutto nei minimi particolari, perfino l’asciugamano bianco da spiaggia. Attaccare bottone con la ragazza mora non era stato difficile, raramente le donne che nella sua vita aveva avvicinato non erano rimaste colpite dal suo fascino e dall’evidente opulenza economica che ostentava. Da giovane aveva fatto strage di turiste, visto che il suo fisico prestante e la faccia tosta erano proprio quello che esse sembravano cercare. Inoltre, il fatto che fosse il proprietario di una prestigiosa gioielleria a Venezia aumentava di molto le sue possibilità di conquista. A cinquant’anni suonati aveva un fisico di tutto rispetto e il o elastico,

abbinato ad addominali ancora ben evidenziati che rivelavano le ore di palestra trascorse in estenuanti allenamenti nelle arti marziali. ione che fin da ragazzo l’aveva conquistato. Ripensò allo sguardo della donna che si era posato interessato sul suo corpo abbronzato e l’istante in cui esso si soffermò sul suo grosso cronometro d’oro e si rivide mentre si tuffava perfidamente nel sorriso che si era aperto invitante su quel viso scialbo. Avevano chiacchierato per una ventina di minuti, poi lui aveva accampato un impegno di lavoro. Non voleva che lo ricordassero troppo in compagnia della donna, ma era comunque riuscito a strapparle un sicuro appuntamento per la serata. Una romantica cenetta sulla tranquilla spiaggia degli Alberoni, stelle e champagne! Lucia, o perlomeno quello doveva essere il suo nome, doveva essere stata in astinenza sessuale da molto tempo, perché era bastata una bottiglia di Moët & Chandon e un po’ di cocaina, per trasformarla in una furia sessuale. Anche se il suo corpo non era per nulla di suo gusto, la carica erotica che sapeva trasmettere l’aveva eccitato oltre misura e solo con molta fatica era riuscito a trattenere il suo godimento. Nell’istante in cui aveva avvertito i muscoli della donna contrarsi nella tensione dell’orgasmo, tutta la sua eccitazione si era quindi scaricata nella pressione che le sue mani robuste avevano iniziato ad esercitare sopra la testa riccioluta di Lucia, premendola violentemente dentro la sabbia. Qualche minuto più tardi, mentre stava dando gli ultimi ritocchi alla sua “natura morta” come ironicamente aveva incominciato a chiamarla, un urlo l’aveva fatto voltare di scatto. Solo l’istinto dovuto a innumerevoli combattimenti gli aveva permesso di reagire allo choc, Michele Barovier gli stava correndo incontro con un ridicolo coltello in mano.

Aveva bloccato, con una rapida presa al polso, il braccio del professore e con una decisa torsione lo aveva catapultato nella sabbia, spinto dal suo stesso slancio. Poi ignorando disgustato gli occhi sconvolti dell’uomo, gli aveva conficcato il coltello nella carotide. Portandosi dietro la bottiglia andò a sdraiarsi sul divano. Come diavolo era arrivato lì il professore? Cos’aveva trascurato? E come mai dopo pochi secondi erano arrivati anche i carabinieri? E se erano sulle sue tracce dopo l’omicidio di quella rompiscatole di Vanessa, perchè non l’avevano già arrestato? L’unica spiegazione era che stessero seguendo Barovier. L’idea di incolparlo gli era venuta quando aveva scoperto che quel giovanotto, che vedeva saltuariamente in piscina a Sacca Fisola, era il fidanzato di quell’altezzosa impiegata di banca che si stava rivelando il suo incubo più grande. Nel grande spogliatoio comune, non era stato difficile sottrargli alcuni capelli dal pettine ed era stato poi divertente posizionarli, al momento giusto, tra i morbidi peli pubici della ragazza morta. E anche questa volta aveva pronta una penna biro, rubata al professore in un altro momento di distrazione, da lasciare sulla spiaggia come ulteriore indizio. Ma quel rompiballe gli era piombato addosso all’improvviso, sbucando dal nulla e ora doveva per forza ricominciare tutto da capo. Con la morte di Barovier, la polizia avrebbe incominciato a indagare a tutto campo e lui correva il serio pericolo d’essere individuato.

Capitolo 31°

Erano ati più di due mesi dai funerali di Michele e Marco era ritornato a Roma solo da pochi giorni. A Venezia le indagini si erano arenate. Il mistero sull’uccisione del professor Barovier, trovato accanto al corpo nudo di una donna soffocata nella sabbia, ampliato dalle illazioni, dalle ipotesi e dai collegamenti con l’omicidio di Vanessa Della Vigna, aveva riempito per giorni le cronache locali. Poi come succede sempre, la città aveva velocemente dimenticato e anche i suoi superiori si erano convinti che con la morte di Barovier fosse tutto terminato. Non riuscendo a dare una spiegazione razionale e convincente al suo coinvolgimento, avevano accantonato il caso, sperando che prima o poi qualche elemento sarebbe emerso a far chiarezza su tutta la vicenda. L’importante era che gli omicidi fossero cessati. Avevano quindi richiamato il capitano Redaelli a Roma, dove altri casi più urgenti reclamavano la sua presenza.

Marco stava guardando la grossa busta gialla che aveva sulla scrivania. Pochi minuti prima un appuntato l’aveva recapitata assieme alla posta giornaliera e lui stava fissando perplesso il suo nome scritto bene in evidenza in un riquadro bianco. Il mittente, un noto studio notarile di Venezia. L’aprì con un leggero tremore alle mani, guardò all’interno e ne estrasse un sottile foglio dattiloscritto:

Egregio Capitano Marco Redaelli, Ci pregiamo d’informarla che su espresse volontà del Signor Barovier Michele, regolarmente depositate presso il nostro studio, il suddetto sig. Barovier le lascia in eredità, senza alcun vincolo di sorta, l’immobile sito in Venezia, San Marco 515, di sua esclusiva proprietà. In allegato troverà copia degli atti notarili relativi alla pratica… Marco depose lentamente il foglio, le mani che tremavano. Per settimane, dopo la morte di Michele, si era attivato giorno e notte nella speranza di mettere le mani su qualche traccia che potesse portarlo all’assassino, ma a nulla erano valsi i suoi sforzi e quelli dei suoi uomini. Ancora pochi giorni prima, quando aveva ricevuto l’ordine di rientrare in sede, aveva inoltrato esplicita domanda per poter proseguire con ulteriori indagini; ma di fronte alla pretesa dei suoi superiori di un qualunque indizio concreto su cui basare la richiesta, non aveva potuto far altro che abbassare il capo e preparare le valigie. E ora era lì, con la sensazione di aver tradito il suo migliore amico, un amico che si era rifatto vivo in un modo impensabile e inatteso. Aprì l’ultimo cassetto e da una sottile cartellina rossa estrasse la copia della lunga lettera che aveva trovato sul computer di Michele e la rilesse tutta, con attenzione, fino all’ultima riga. Con la morte nel cuore aveva stampato quelle prove che, se pur assurde, coinvolgevano Barovier nel delitto di Vanessa. Ma poi, dopo la sua morte, aveva pensato che non aveva più alcun senso allegarle agli atti. Nonostante contenessero dettagli precisi sull’omicidio, erano troppo intrise di magia e di fantasticherie varie per essere di qualsiasi attendibilità per le indagini, senza contare il mistero sui dettagli di un omicidio che ancora non era stato compiuto. Era anche vero che il professore avrebbe avuto la possibilità di uccidere la donna

sulla spiaggia secondo le modalità che aveva in precedenza descritto, per venire poi a sua volta assassinato misteriosamente da una terza persona, ma Marco non lo pensava. Si era invece convinto che Michele fosse stato ucciso proprio perché quell’omicidio cercava di evitarlo. Se da una prima lettura, aveva pensato che Michele fosse veramente il colpevole, nascondendosi forse anche inconsciamente dietro lo scudo di un mondo immaginario e fantasioso, ora era molto più propenso a dare credito al suo racconto. Anche perché nel cassetto c’era un’altra cartellina, più sottile. Con un sospiro trattenuto la prese. Sulla copertina, con un sottile pennarello nero c’era scritto: TRIORA – 1587 La aprì e incominciò a leggere per l’ennesima volta: Verso la fine dell’estate, durante una carestia che aveva duramente provato la popolazione triorese e che durava da oltre due anni, gli abitanti iniziarono a sospettare che a provocare la carestia che stava flagellando le campagne del paese sarebbero state delle streghe locali, dimoranti nel quartiere detto della Cabotina. Dopo essere state individuate, le streghe trioresi vennero subito additate alla giustizia. Il Parlamento generale, dopo essersi riunito, affidò al podestà del paese Stefano Carrega l’incarico di fare in modo che le streghe venissero sottoposte a un regolare processo e stabilì anche la somma di denaro occorrente per lo svolgimento del processo. Carrega chiamò inoltre il sacerdote Girolamo Del Pozzo, in qualità di vicario del vescovo di Albenga, dalla cui curia dipendeva Triora, e un vicario dell’Inquisitore di Genova. I due vicari, giunti a Triora ai primi di ottobre, iniziarono il processo dopo che Del Pozzo, con una infuocata predica nella chiesa della Collegiata, aveva denunciato le diaboliche “malefatte” operate dalle streghe, eccitando in tal modo la collera del popolo verso di loro. … I due vicari fecero allora arrestare una ventina di streghe, che vennero subito

rinchiuse in alcune case private, adattate a carcere, dichiarandone subito colpevoli tredici, più quattro ragazze e un fanciullo. … Dal momento però che tali streghe, sottoposte ad atroci torture per estorcere loro la confessione delle loro “malefatte”, avevano denunciato diverse “complici”, tra cui non poche appartenenti alla nobiltà locale, la popolazione triorese iniziò a intimorirsi e a nutrire dei dubbi sulla corretta condotta dei due vicari. Tanto da indurre il Consiglio degli Anziani, un organismo che rappresentava le famiglie più altolocate e benestanti, a intervenire presso il governo di Genova affinché questo fe interrompere un processo che non dava più alcuna garanzia. Soprattutto in merito all’incolumità fisica delle streghe, tra le quali una, Isotta Stella, era morta in seguito alle torture subite, e un’altra era deceduta per le ferite riportate nel gettarsi da una finestra per sfuggire ai suoi aguzzini…

Sua nonna, durante gli anni dell’infanzia, gli aveva letto molte volte quella storia e asseriva con orgoglio che una di quelle donne era stata una loro ava e che lo spirito di libertà e di conoscenza che aveva difeso con la propria vita avrebbe albergato per sempre nella loro famiglia. Non ne aveva mai parlato con nessuno e crescendo aveva accantonato quei ricordi relegandoli in una polverosa scatola assieme alle fotografie sbiadite della sua bellissima nonna. Conoscenza e libertà… Ripose ambedue le cartelline nel cassetto e lo chiuse con cura a chiave. Aveva incominciato a pensare alla cosa due settimane prima. All’inizio confusamente, poi con sempre maggior lucidità. Si era reso conto che erano anni ormai che la sua decisione covava sotto la cenere, ma che c’era voluto il vento di tempesta di Venezia perché se ne accorgesse. Guardò la fotografia appoggiata sulla sua scrivania, lui e Michele su una spiaggia spagnola in compagnia di due “bellezze locali” decisamente suggestive.

Un’estate memorabile! Prese la fotografia e la tolse dalla cornice, fissandola ancora per un istante. «Lo devo a te e lo devo a me stesso.» Mormorò, poi la ripose con cura nella sua valigetta di pelle, accanto alla lettera con cui comunicava ai propri superiori la sua irrevocabile scelta di abbandonare l’Arma dei Carabinieri.

Capitolo 32°

Con le spalle rivolte alla chiesa di S.Ignazio, Marco Redaelli guardava la singolarissima facciata concava del palazzetto che ospitava il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. Senza fatica individuò tra i tanti balconcini di ferro battuto quello del suo ormai ex ufficio. Forse era l’ultima volta che lo vedeva. Le resistenze e le pressioni che aveva dovuto affrontare perché cambiasse idea erano state notevoli, e molte doveva riconoscerlo, dettate da motivi di autentica stima e amicizia. Marco Lasciava tra quelle mura una parte fondamentale della sua vita, una carriera ricca di promesse, alcuni amici sinceri, ma soprattutto lasciava la sicurezza di avere le spalle coperte. L’Arma, nonostante tutti i suoi difetti, lo aveva protetto e rassicurato; oltre ad avergli offerto la possibilità di approfondire la sua istruzione e dargli un mestiere che lo aveva fatto sentire importante e utile. Partecipe di un insieme più grande, di un mondo dove i valori se volevi, potevano essere realtà. Ora, tutto quello che possedeva era rinchiuso in un paio di bauli già spediti a Venezia e aveva sostituito la valigetta che era stata la sua compagna per tanti anni, con una comune borsa a tracolla di tela nera. Dentro, il computer portatile, un paio di libri e la foto con Michele sulla spiaggia spagnola di Tossa de Mar. Quando si voltò, una leggera paura gli chiudeva lo stomaco, di fronte a lui solo il futuro ignoto.

-Ogni lungo viaggio incomincia sempre con un primo o.La frase ò rapidamente dentro il suo cervello. Doveva averla letta da qualche parte, anche se non rammentava dove; curioso che fosse affiorata in quel momento dalla sua memoria. Si guardò i piedi e fece un o, non successe nulla. Ne fece un altro e poi un altro ancora, sollevò quindi la testa e con un grosso sospiro si avviò verso il più vicino posteggio di taxi. Naturalmente era vuoto. A Roma circolano migliaia di taxi e quando non ti servono sono tutti lì, fermi in colonna con i conducenti appoggiati alle portiere. Quando invece ne hai bisogno… Istintivamente prese il cellulare per chiamare un’auto di servizio, poi sorrise del suo gesto; ora non era più il capitano dei carabinieri Marco Redaelli o perlomeno non era più quello che si diceva un “effettivo”. Esisteva sempre il radiotaxi. Aveva composto i primi due numeri quando una Honda Gold Wing nera, inchiodò praticamente sui suoi piedi. Il tempo di fare un veloce o indietro e formulare un’imprecazione che il centauro si tolse il casco. «Sbaglio o hai bisogno di aiuto?» La voce era una coltellata di sensualità e il lampo verde, scaturito dagli occhi di smeraldo, il colpo di grazia. «Allora?» Un sorriso contagioso illuminava il viso allegro e sincero di una giovane ragazza.

Marco rimase per alcuni secondi perplesso, poi un lampo nella sua memoria e l’immediata certezza della sua intuizione. «Emy?» «E bravo il nostro capitano… ti hanno mai detto che da vicino sei decisamente uno schianto?» Lo sguardo limpido esprimeva un sincero apprezzamento. Marco la guardò con fare interrogativo. «Niente magie! Lo giuro!» Disse ridendo la ragazza,«ho un amico lì dentro.» E con la testa indicò il Comando. «Mi ha avvertito che te ne andavi oggi e sono due ore che ti aspetto gironzolando qui attorno!» «Perché?» Il tono di Marco era pericolosamente neutro. «Perché abbiamo una faccenda in comune da risolvere a Venezia.» La voce della ragazza era diventata tagliente e il verde dei suoi occhi era freddo come il ghiaccio. «Ho un casco e una tuta da motociclista che ti dovrebbero andare bene.» Il tono era tornato normale. «O vuoi andare a Venezia in treno?» Senza aspettare la risposta era smontata dalla potente motocicletta e aveva sganciato un casco integrale dal seggiolino posteriore. «Guida tu, io veramente sarei un po’ stanca.» L’ex capitano guardò prima la moto poi la ragazza.

«Non male per la mia prima giornata di libertà.» Mormorò sottovoce. Un’ora dopo avevano già lasciato Roma alle loro spalle. La potenza erogata dai sei cilindri della grossa moto provocava in Marco regolari scariche di adrenalina, ma non erano nulla a confronto di quelle provocate dal delicato e costante contatto che avvertiva sulla sua schiena.

«Stanno arrivando.» Lilith sospese la lettura di un nuovo manuale sui fiori di Bach. «Pensi veramente che possa essere lui?» «Vedremo.» Rispose Carlotta, rannicchiata sul divano con una grande tazza fumante in mano.

Imboccarono il Ponte della Libertà sfiorando il limite di velocità, di fronte a loro, i tetti di Venezia riflettevano i colori dorati del tramonto. Lo spettacolo mozzava il fiato. Improvvisamente nella mente di Marco si fece strada il pensiero doloroso di Michele, seguito da uno più rabbioso che riguardava un misterioso assassino che si nascondeva beffardo in tutta quella bellezza e lasciò andare la manopola del gas, concedendo al potente motore di decelerare in tutta tranquillità. Parcheggiarono la moto al quarto piano del Garage Comunale, prima di attraversare Piazzale Roma e salire sul primo battello diretto a Rialto. Il leggero dondolio del vaporetto diede loro il benvenuto nella calma e sonnolenta atmosfera veneziana. Marco aveva spedito tutte le sue cose in un deposito, in attesa di trasferirle successivamente nell’appartamento di Michele o meglio, in quello che ora era

diventato il suo appartamento. Ancora non riusciva a credere che l’amico glielo avesse regalato. Fu preso da un senso di angoscia e chiese a Emy se non le dispie se prima di cercare un Hotel, ava a dare un’occhiata alla casa. La ragazza scrollò le spalle indifferente. Marco aprì la porta con un nodo alla gola. Era la prima volta che lo faceva da quella sera maledetta e una strana emozione gli bloccava il cuore. Fece scattare l’interruttore della luce e rimase di stucco. L’appartamento era completamente vuoto, non un solo mobile e i muri riverniciati di fresco erano di un bianco abbagliante. Entrò perplesso, voltandosi poi a guardare Emy ferma sulla soglia. «Ha voluto lui così! Era scritto sul testamento, lo aveva depositato dopo la morte di Vanessa o perlomeno è quello che ha asserito il notaio.» Dalla porta aperta intravide qualcosa nella stanza da letto, incuriosito entrò accendendo la luce. Al centro della camera, un materasso matrimoniale era appoggiato su una grande stuoia grezza, ancora perfettamente avvolto nel suo imballaggio originale, a fianco, una bottiglia sigillata di Jack Daniels. Tornò da Emy scuotendo la testa, gli sarebbe mancato quel pazzo, gli sarebbe mancato terribilmente. La guardò negli occhi, con nella memoria il racconto di Michele sulla notte ata in spiaggia in compagnia della ragazza. «Emy…» Sentiva la sua voce imbarazzata.

«Tra te e Michele…» La ragazza sorrise dolcemente scuotendo la testa. Senza staccare gli occhi dall’abisso verde che aveva di fronte, Marco si piegò leggermente per appoggiare le proprie labbra su quelle di lei, sentendole schiudersi impercettibilmente. Senza staccarsi da lei allungò un braccio e chiuse la porta, un secondo dopo intravide la mano della ragazza che faceva scattare il chiavistello.

«Sono preoccupata per Emy.» La voce di Lilith era sinceramente ansiosa. «È così giovane!» «Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi quando si segue il proprio cuore.» Carlotta si avvicinò alla sorella circondandole le spalle con un braccio, poi si scostò leggermente, guardando Lilith con aria strana. «Se però non ricordo male, anche tu…» Non riuscì a finire la frase che la sorella era già uscita ridendo dalla stanza.

Capitolo 33°

Era quasi mezzogiorno quando si svegliò. O perlomeno era quello che indicava il cronometro d’acciaio appoggiato sul pavimento a pochi centimetri dal suo naso. Agganciato al cinturino metallico un minuscolo tanga rosso fuoco. Sorrise al ricordo del momento di divertente imbarazzo quando, la sera prima, era rimasto incastrato con l’orologio in quell’irrisorio capo di biancheria. Aveva in un primo tempo cercato di liberarlo delicatamente, nel timore di rovinare il tessuto, ma nel farlo aveva trascurato Emy, scoprendo immediatamente a sue spese che era una cosa che la ragazza non permetteva. Le unghie della sua mano sinistra gli erano penetrate dolorosamente nel cuoio capelluto, riportando con autorità la sua concentrazione sul delicato movimento che le sue labbra avevano sospeso; mentre le dita di quella destra, con l’abilità di una borseggiatrice professionista, gli sganciavano direttamente il cinturino dal polso. Voltò adagio la testa a osservare il corpo addormentato accanto a lui, raggomitolato in posizione fetale. L’innocenza della posizione e la giovinezza della ragazza lo spaventarono per qualche secondo, prima che i ricordi della notte riprendessero il sopravvento. Mai si era trovato con una simile donna a letto. Fin da ragazzo si era accorto che le ragazze si lasciavano corteggiare da lui con una certa facilità e più di una volta, entrando in un locale o partecipando a qualche festa, aveva mirato con decisione alle più carine con risultati decisamente positivi. Sapeva anche che solo la sua innata riservatezza unita ad uno strano senso del

pudore, avevano evitato che diventasse crescendo, un donnaiolo impenitente. In verità non si era mai tirato indietro, ma fondamentalmente non era mai stata la conquista fine a se stessa che lo attraeva e al numero preferiva di gran lunga la qualità. A lui non interessava solo “scoparle”, lui amava le donne che si nascondevano “dentro” a quei corpi meravigliosi. Certo doveva ammettere che a volte aveva goduto di corpi disponibili per il solo fatto che si erano offerti, ma non ne andava particolarmente fiero, il fatto di “usare” in quel modo una donna gli dava fastidio. E questo le donne lo sentivano. Quindi non c’era da stupirsi dei suoi successi, soprattutto se si aggiungeva il suo metro e novanta, il fisico allenato e scattante e occhi neri e insondabili sopra un sorriso da corsaro. Unico neo, la sua completa incapacità di un rapporto duraturo. I suoi amici dicevano ridendo che aveva sposato “l’Arma dei Carabinieri” e in un certo senso era vero. Il lavoro era l’unica cosa che lo assorbiva completamente, appagando la parte più profonda del suo animo. Una donna al suo fianco avrebbe avuto delle innegabili e giuste esigenze che lui non si sentiva di garantire; e quelle poche che avevano tentato ugualmente l’avventura si erano dovute arrendere di fronte a un’amante virtuale incontrastabile e affamata, che assorbiva completamente tutta l’attenzione di quello che esse pretendevano giustamente come “il loro uomo”. Si alzò silenziosamente e socchiuse la finestra, pioveva forte e nonostante l’aria tiepida avvertì un brivido sulla pelle nuda. Emy l’aveva spiazzato. La sera prima l’aveva cercata principalmente per riempire il vuoto che il ricordo di Michele aveva scavato nel suo animo, ma poi lentamente si era reso conto di

avere tra le braccia qualcosa di meraviglioso e non era solo il corpo da favola che aveva immediatamente percepito sotto la tuta da motociclista, era qualcosa di molto più profondo. Quella ragazza era una vera figlia della natura, sembrava non avere né pudori né reticenze, utilizzava il suo corpo e quello del suo partner per ottenere e dare il massimo del piacere e della gioia. Sapeva concedersi o pretendere con una naturalezza sconcertante; ma soprattutto amava, ogni sua carezza e ogni suo gesto, anche il più audace, era permeato di sentimento e di amore. Avvertì l’elasticità dei suoi seni sulla schiena senza che l’avesse sentita alzarsi, poi le braccia della ragazza gli circondarono la vita e le sue dita salirono a giocherellare con i peli del suo petto. «Piove!» Mormorò Marco. «Sai cosa si fa a Venezia quando piove?» La voce di lei era fresca e limpida. Lui scosse adagio la testa. Sentì le labbra della ragazza scorrere sulla sua colonna vertebrale, una serie di baci veloci, cadenzati. Avvertì la morbidezza delle labbra scendere adagio e arrivare ai reni. Quando si rese conto che non si sarebbero fermate si voltò di scatto, afferrandola per le spalle e catapultandola letteralmente sul materasso. Emy si lasciò cadere con un finto urlo di protesta, rimanendo immobile, braccia e gambe spalancate, gli occhi verdi colmi di bagliori irresistibili. Riprovarono a svegliarsi nuovamente che era già buio. Continuava a piovere.

«Dovresti pensare seriamente a un paio di lenzuola.» Emy parlava con la bocca appoggiata alla sua pancia e il movimento delle labbra gli provocavano un delizioso solletico. «E anche un paio di cuscini non sarebbero male!» Mezz’ora dopo stavano letteralmente saccheggiando il bancone di un baccaro a Rialto. Poi presero a camminare senza una meta. Era quasi mezzanotte quando, appoggiati al parapetto di pietra in cima al ponte di Rialto, guardarono scivolare sotto di loro un grande vaporetto. Lo videro attraccare lentamente all’imbarcadero e osservarono il marinaio che lanciava con abile consuetudine la cima d’ormeggio. Rimasero a fissare silenziosi le poche persone che scendevano. «Devo andare!» La voce di Emy tradiva un nervosismo che Marco non aveva mai avvertito. «Fermati ancora questa notte.» L’idea di rimanere senza di lei era dolorosa. «Non posso, ho delle cose da fare!» Poi si avvicinò stringendosi con forza al suo braccio. «Ti chiamo domani!» Posò un leggero bacio sulle sue labbra e si allontanò di corsa verso la Pescheria. Marco rimase immobile a sentire i suoi i veloci e infine, con tristezza, s’incamminò nella direzione opposta. Attraversando il campo S. Bartolomeo fu urtato lievemente da una bella donna di colore, forse cubana, pericolosamente barcollante sui tacchi altissimi.

«Guarda dove vai! Cretina!» La voce sgradevole veniva dall’uomo che la seguiva. La donna alzò distrattamente la testa e lanciò a Marco uno sguardo offuscato, ma evidentemente quello che vide dovette sembrarle interessante, dal momento che si voltò a sorridergli. L’uomo la prese rudemente per un braccio, incrociando per un istante gli occhi di Marco, poi la trascinò letteralmente verso le Mercerie sibilando: «Ti basta un bicchiere e subito allarghi le gambe! Troia!» Marco scosse la testa e riprese la strada di casa. Lui avrebbe dato chissà che cosa per avere accanto Emy e quella coppia invece, che aveva la possibilità di stare assieme serenamente, buttava via con indifferenza quel dono meraviglioso. Ma se solo si fosse voltato, avrebbe visto che l’uomo s’era fermato all’angolo del campo e lo stava fissando con occhi pieni di rabbia repressa. «Mi fai male!» La cubana cercava di liberare il braccio ancora imprigionato in una morsa ferrea. Lui si voltò a guardarla, poi la sua mano libera scivolò sotto la gonna cortissima, seguì la curvatura di una natica muscolosa e la strinse con forza, senza nessuna delicatezza. «Andiamo a casa e non togliere i tacchi!» Gli occhi di lei erano pieni di lacrime, ma dalle sue labbra uscì un sussurro: «Amore… tutto quello che vuoi!»

Capitolo 34

Dopo due giorni Emy non aveva ancora telefonato e lui era tornato al Garage Comunale. Da un giovane impiegato aveva saputo che la ragazza era ata a ritirare la grossa moto il giorno prima, ma nessuno sapeva dove potesse essere andata. arono lentamente altre due settimane. Marco aveva accantonato quasi immediatamente l’idea di chiedere aiuto a qualche amico dell’Arma per farla rintracciare. A un veloce esame di coscienza aveva dovuto confessare a se stesso che più di una volta si era comportato anche lui in modo analogo e la cosa gli “bruciava”. ò i primi giorni a girovagare tra mobilifici e negozi d’arredamento e quando ebbe terminato, il suo conto in banca aveva ricevuto un bello scossone. Non aveva particolari motivi per preoccuparsi, da anni viveva praticamente in caserma o in alloggi destinati agli ufficiali e il suo stipendio mensile era stato raramente intaccato. Si era reso conto che tra soldi risparmiati e un piccolo capitale che suo padre gli aveva lasciato, certamente non poteva vivere di rendita, ma almeno per qualche tempo aveva la possibilità di non essere assillato dall’angoscia di trovare una nuova fonte di sostentamento. ava quindi le giornate controllando e ricontrollando sul computer portatile tutto il materiale che aveva raccolto sul caso Barovier, ma era il racconto di Michele quello che più lo preoccupava. In realtà lui non era per nulla a digiuno del mondo esoterico. Anzi, quando seguendo un’indagine su alcuni oggetti rubati in una chiesa e ritrovati poi in possesso di una sedicente setta satanica, i suoi superiori

scoprirono che aveva dimestichezza di religioni e culti pagani, gli avevano fatto seguire corsi specializzati sulle varie branche dell’occultismo e dei vari movimenti religiosi. Ortodossi e non. Il suo reparto seguiva poi con particolare attenzione proprio il proliferare su internet dei siti esoterici e anche se le frequenti truffe di sedicenti maghi o fattucchiere erano di competenza di altre sezioni, non era infrequente che oggetti d’arte sacra transitassero illegalmente in quel mondo dove la correttezza delle informazioni e degli intenti si mescolavano inevitabilmente con un universo di menzogne e di raggiri. La cosa più sorprendente però, era che a spingerlo a diventare un disincantato e lucido osservatore del mondo spirituale fosse stata proprio una strega. Una bellissima vecchia strega: la nonna materna.

Marco aveva pochi anni quando in auto con sua madre stava ritornando da una festicciola. Ricordava la pioggia, l’urlo improvviso e la macchina che iniziava a vorticare impazzita, lo schianto e la mamma che rimaneva in silenzio, anche se lui la chiamava forte. Suo padre lavorava per una grossa multinazionale e se già prima lo vedeva di rado, da quel giorno lo aveva seguito solo sul mappamondo della nonna, dove aveva imparato a leggere parole come New York, Dubai, Parigi, Barcellona. E se la nonna era magica e faceva comparire dal nulla enormi lecca lecca colorati, se sapeva parlare con Babbo Natale o volare sulla scopa con la Befana, di cui asseriva di essere una grande amica, erano i suoi libri che avevano esercitato su di lui il fascino più grande. Enormi libri colorati, pieni di figure, di personaggi, di paesaggi. Vi poteva trovare gnomi e fate, bellissime donne con abiti stravaganti, cavalieri e draghi, case perse in paesaggi innevati e laghetti pieni di fiori coloratissimi. Si era stupito molto quando, andando alle elementari, aveva scoperto che i suoi

compagni non conoscevano i nomi dei fiori e delle piante o che per loro le stelle erano solo dei lontani puntini luminosi. Aveva incominciato a frequentare collegi e scuole esclusive, dove insegnanti severi pretendevano sempre il massimo dalle sue capacità, ma era solo nelle vacanze ate con la nonna che la geografia si animava di mappe vecchie e coloratissime, piene zeppe di simboli e di animali strani. Ed era allora che gli stessi racconti dei libri di storia, che gli erano sembrati estremamente noiosi, si trasformavano per incanto in avventure straordinarie. A mano a mano che i suoi studi diventavano più seri e impegnativi, anche le vacanze con la nonna diventavano sempre più coinvolgenti. L’anziana signora gli insegnava a guardare le cose sotto altri punti di vista, a non credere di primo acchito a quello che leggeva, ma di cercare altre interpretazioni, altre fonti. A essere sempre curioso e insoddisfatto. Ma solo quando una luminosa mattina di dicembre si era ritrovato da solo dietro un carro funebre, si era reso conto che il dono più grande che aveva ricevuto da quella donna straordinaria era la capacità di amare, di amare la vita, la natura, la bellezza. Si era quindi arruolato nell’Arma dei Carabinieri perché voleva essere utile agli altri, per dare uno scopo alla sua vita. Chiaramente aveva fatto in fretta a disilludersi e a rendersi conto che, come in tutte le cose, anche in quell’ambiente l’egoismo, la stupidità o l’arrivismo erano una costante a tutti i livelli; ma almeno sapeva anche che, volendo, poteva compiere bene il suo lavoro, disponendo di mezzi e movimento per essere altamente efficiente. Possibilità che erano svanite nel nulla, ora che non aveva più alle spalle quella macchina formidabile e potente. Ma si era reso conto che non poteva più rimanere, che non sarebbe più riuscito a tener fede all’impegno solenne che aveva preso tanti anni prima, quando aveva “Giurato”.

Improvvisamente aveva capito che non avrebbe più potuto “Ubbidire”, eseguire un qualsiasi ordine della cui validità non ne fosse anche lui convinto. Si era reso conto che la sua vita era arrivata a una svolta e che doveva seguire la sua strada e vivere secondo la sua coscienza e i suoi metri di giudizio; che da quel momento in poi sarebbe stato lui il solo comandante di se stesso. Trasalì allo squillo del cellulare. «Pronto?» Aveva la voce roca. «Ciao.» Venti secondi dopo stava scendendo le scale a rompicollo, diretto all’imbarcadero di Fondamenta Nuove, lei era là.

Capitolo 35°

Emy in jeans e canottiera bianca si stava dondolando sul corrimano a lato della biglietteria, incurante degli sguardi tutt’altro che discreti dei marinai dell’ACTV. Mi bloccai a guardarla. A prima vista sembrava veramente una liceale in vacanza. Lei avvertì subito la mia presenza e voltandosi dalla mia parte con un balzo superò di slancio il tubo di metallo, correndomi incontro. «Sbrigati, la motonave per Burano sta per partire!» Mi afferrò per mano e ripartì di corsa. Riuscimmo a imbarcarci un secondo prima che il grande portellone si chiudesse con un rumore sordo. Non feci in tempo a recuperare il fiato che avevo le labbra di Emy incollate alle mie. «Mi sei mancato.» La sentii sussurrare un minuto dopo. Andammo a sederci a poppa. Non c’era nessuno e ci concedemmo l’illusione di avere la piccola nave solo per noi. Avevo paura di fare domande, non volendo correre il rischio di rovinare quel momento di felicità. «Dove andiamo?»

Mi arrischiai infine a chiedere. «Ho una piccola casa a Burano, ti piacerà vedrai!» Abbassò leggermente il tono della voce. «Sono stata lì… in questi giorni!» «Non mi devi spiegazioni!» Avvertii immediatamente la falsità nella mia affermazione. «Che cretino! Che dolce cretino che sei!» La guardai perplesso, avevo sentito perfettamente la frase, ma non le avevo visto muovere le labbra. Lei si sedette sulle mie ginocchia, guardandomi intensamente, poi udii la sua voce farsi seria e controllata. «Non è facile con te… non so se è perché hai più forza degli altri uomini che ho incontrato, ma faccio fatica a leggerti nel pensiero… o forse è solo perché sono io più debole, visto che sono innamorata.» Se mi avessero dato due coltellate improvvise mi sarei stupito di meno. La prima, riguardante il fatto che Emy stava affermando di poter leggere nel pensiero, cosa che era già emersa dal racconto di Michele e che mi lasciava alquanto scettico; la seconda… invece apriva il mio cuore a scenari inimmaginabili, dove la gioia si mescolava in ugual modo al timore. «Emy, io…» Lei mi mise un dito sulle labbra, dolcemente. -Rilassati… non fermarmi…Le sue labbra erano rimaste sigillate in un sorriso. Dal nulla mi arrivò un debole:

-Non pensare a nulla… guardami negli occhiIl verde delle sue pupille era magnetismo puro. Cercai di rilassarmi e improvvisamente la voce si fece più forte e più distinta. -Bravo… così! Non staccare gli occhi dai miei.Emy si alzò e con calma si spostò sul sedile più lontano, senza perdermi di vista. -Dimmi cosa vedi.Ero allibito. Fui tentato di alzarmi e di allontanarmi, ma una smorfia di delusione sul suo viso mi bloccò a metà del gesto. Mi lasciai ricadere sul sedile di plastica. Lentamente la figura della ragazza incominciò a vibrare, come un’immagine televisiva in uno schermo difettoso, trasformandosi prima in una figura indistinta, poi, a mano a mano che ridiventava più nitida, il mio cuore incominciò a battere precipitosamente. Iniziai a vedere la figura di un giovanotto alto, moro, con un paio di pantaloni blu e una camicia di lino bianca. L’espressione del viso esterrefatta. Ero sconvolto, mi stavo vedendo allo specchio! Alzai un braccio e vidi il braccio dell’immagine sollevarsi con una sincronia perfetta. Improvvisamente mi resi conto che non era un’immagine speculare quella che vedevo, io avevo sollevato il braccio destro e se fosse stata un’immagine riflessa avrei visto sollevarsi il suo braccio sinistro, invece era quello destro che vedevo alzato. Chiusi leggermente il pugno e nel momento in cui anche l’immagine fece istantaneamente lo stesso movimento mi resi conto che mi stavo vedendo in

tempo reale attraverso gli occhi di Emy. Mi alzai di scatto, la figura scomparve improvvisamente e il corpo armonioso della ragazza ritornò al suo posto. «Grande!!... e al primo colpo poi!» L’espressione della ragazza era estasiata. «Veramente hai forza! E da vendere!» Mi venne vicino con calma, mi prese le mani e se le mise attorno alla vita, poi mi baciò a lungo con dolcezza. «Abbiamo ospiti a cena! Ti piaceranno!» Mi sedetti di schianto, pensando che per quel giorno nulla mi avrebbe più potuto stupire. Mi sbagliavo. Arrivati a Burano ci addentrammo in un dedalo di callette dove persi subito l’orientamento, sorammo una casa dipinta di giallo e ci fermammo sulla porta di quella adiacente, dipinta invece di un azzurro intenso. Alcune piccole barche da pesca dondolavano pigramente nel canale, a pochi metri di distanza. Entrai in una stanza ampia e fresca, guardandomi attorno con curiosità. In un angolo una grande cucina in ceramica bianca e azzurra attirò la mia attenzione ed ebbi l’impressione di essere già stato in quella stanza. Emy mi guardò misteriosa e sorridendo mi indicò le scale: «Sopra ci sono le camere da letto!» Quando ridiscesi era ormai sera. Al centro della stanza un grande tavolone di quercia era stato apparecchiato per quattro persone.

Emy, con solo la mia camicia addosso, stava effettuando autentici numeri di acrobazia con una mezza dozzina di tegami da cui provenivano aromi deliziosi. «Sei capace di impedire a un arrosto di bruciare? Solo per cinque minuti, il tempo di vestirmi.» Non mi diede il tempo di rispondere e mi ritrovai con un lungo cucchiaio di legno in mano e un bacio stampato sulle labbra, non ricordo esattamente in che ordine. Dopo aver individuato in quale tegame si nascondesse la carne da salvare, mi guardai attorno con calma. La stanza, illuminata esclusivamente da decine di candele appoggiate su un varietà incredibile di i, emanava un fascino irreale. La porta si spalancò di colpo, lasciando entrare due anziane signore che nel vedermi si bloccarono di colpo. Effettivamente, scalzo, a torso nudo, con i capelli arruffati e un mestolo in mano, dovevo fare una certa impressione. «Posso averlo anch’io un cuoco così?» Chiese ad alta voce una delle due. «Spiacente, Lilith! È già impegnato!» L’allegra voce rotolò dalle scale, subito seguita da un’apparizione deliziosa. Emy aveva indossato un lungo abito nero, leggerissimo, con una profonda scollatura che arrivava a un paio di centimetri sotto l’ombelico, e quando ruotò su se stessa vidi che anche la schiena abbronzata era completamente esposta. Era la prima volta che la vedevo indossare un abito elegante… per non parlare dei tacchi alti. «Chiudi la bocca e vai a renderti un po’ più presentabile, mio caro giovanotto.» Disse l’altra donna, strappandomi il mestolo di mano.

«Ancora qualche istante e bruci tutto, vai, vai!» Mi catapultai su per le scale, sentendo alle mie spalle la voce divertita di quella che Emy aveva chiamato Lilith. «Per me puoi anche restare così, tesoro!» Recuperai la camicia e mi diedi velocemente una sistemata. Quando ridiscesi le scale le tre donne erano già sedute a tavola. Emy si alzò in piedi e indicò la donna che era entrata per prima. «Come avrai già capito la maniaca sessuale è Lilith, mentre quest’altra stupenda donna è invece sua sorella Carlotta.» Esitò un istante. «Lui è… Marco Redaelli.» Sapevo già chi erano, appena entrate dalla porta le avevo immediatamente riconosciute. Decine di volte avevo osservato i loro volti nelle fotografie incluse nel dossier di Michele e infinite volte avevo letto e riletto le loro deposizioni e i loro interrogatori. Ci fu un istante di assoluto silenzio, mentre gli occhi delle donne sembravano perforarmi. Poi anche Carlotta si alzò, riempì due bicchieri di vino rosso e me ne porse uno con calma. «Brindo a te, Marco… questo potrebbe essere un gran giorno.» Improvvisamente mi assalì il ricordo di Michele. Quanto avrei voluto che fosse lì con noi. Una ruga si accentuò sulla fronte di Carlotta. «Non ti preoccupare, aiuteremo anche lui a trovare la sua pace.»

Capitolo 36°

Fu una lunga cena, in cui parlammo di tutto. Incominciammo da banali osservazioni meteorologiche e ci ritrovammo senza accorgerci a parlare di Anima, di Dio e dell’Universo. Quando ci infervorammo nelle varie rivisitazioni e interpretazioni dei vangeli apocrifi e del Santo Graal, inevitabilmente vennero tirati in ballo i Templari e le Logge Massoniche. «Come la leggenda del “pozzo del denaro” di Oak Island.» Affermai a un certo punto apionatamente. «Il Money Pit ha mandato sul lastrico decine di persone e causato molte vittime, ma nessuno a tutt’oggi è riuscito a scoprire cosa vi sia realmente sul suo fondo. Indubbiamente se i resoconti sono veritieri, chi ha costruito un simile enigma di ingegneria, con canali di allagamento, fibre di noci di cocco che fungono da spugne, piattaforme a livelli regolari, lastre di pietra con iscrizioni misteriose, doveva avere avuto le sue belle ragioni. Compresa l’ipotesi del tesoro dei Templari che, salpati con una flotta consistente dal porto di La Rochelle il 12 settembre del 1307, lo avessero trasportato, compreso il Santo Graal, fino all’isoletta della Nuova Scozia. E innegabilmente dobbiamo dare un significato al fatto che parecchi investitori, che si rovinarono finanziariamente per realizzare gli scavi, facevano parte della Massoneria. Mi sembra, se non ricordo male, che il fondatore della Oak Island Treasure Company, un certo Blair, fosse anche un importante membro della loggia di Amherst in Nuova Scozia e non dimentichiamo tra l’altro che lo stesso presidente Franklin Roosevelt, massone dichiarato, partecipò agli scavi durante l’estate del 1909.» Feci una pausa a effetto, poi ripresi: «Da un altro punto di vista sono diverse le relazioni scientifiche sulla formazione geologica dell’isola che potrebbe giustificare una naturale conformazione del

pozzo e non tutti i documenti e le prove sui vari reperti trovati nel pozzo sono stati accertati.» «Non riuscirai mai a sapere la verità in questo modo.» M’interruppe Carlotta. «Tutti i misteri della storia, a seconda di come li osservi, possono sembrare una cosa o il suo opposto. Guarda Merlino e Re Artù, nemmeno Carlo Magno e Alessandro il Grande della cui esistenza non si hanno dubbi possono rivaleggiare con la forza della leggenda Arturiana. Libri, leggende, tombe, chiese e monasteri, spade e tavole rotonde, ma anche film e cartoni animati sono a testimonianza che qualcosa dev’essere per forza esistito per creare un simile mito.» «Per quello che ne so io.» La interruppi, «gli studiosi hanno solo potuto appurare che nelle cronache continentali dell’epoca si parla di un re britannico che tra il 468 ed il 470 guidò un esercito sul continente e che in quella campagna ricevette una lettera di supplica inviatagli dal vescovo romano Sidonio dove veniva chiamato Riothamus, che, secondo una ricostruzione filologica sulla lingua celtica della Britannia, significa all’incirca “sua maestà suprema” o “reale supremo”.» «Quel periodo coincide con le leggende di una guerra intrapresa da Artù su suolo se.» Sentenziò Emy, mentre sbucciava con attenzione una mela. «E il titolo di “Maestà suprema” testimonierebbe che non si trattava semplicemente di un capo clan o di un governatore locale della Bretagna. Inoltre risulta anche che questo Riothamus subisce sconfitte e poi sparisce nel nulla mentre si ritira verso una città della Borgogna che si chiama Avalon.» Carlotta mi tese il suo bicchiere e mentre le versavo l’ultimo sorso di vino rimasto nella bottiglia, riprese in mano il discorso. «Quello che conta veramente è quello che questi misteri possono insegnarci. Il loro valore simbolico! Non è importante che esista realmente un tesoro sepolto o un re incredibile, l’importante è che la gente tragga da queste cose qualcosa che

l’aiuti a crescere e a vivere meglio.» «Vuoi dire che è meglio illudersi con una fiaba che cercare una verità comprovata e scientifica?» Chiesi perplesso. «Non essere stupido!» Lilith mi bloccò immediatamente. «Il fatto che tu per lavoro e per coscienza abbia dovuto distinguere quotidianamente tra truffa e sincera ricerca della verità, non significa che per ammettere un fenomeno o un semplice evento, che solo la nostra ignoranza in materia ritiene soprannaturale o inspiegabile, si debbano avere tutte le prove di questo mondo.» Mi guardava attenta negli occhi. «Quante cose sembravano impossibili? Se ai nostri nonni avessimo consegnato un cellulare e con tranquillità avessimo loro garantito non solo farli parlare con chiunque in tutto il mondo, ma anche di poter mandare o ricevere fotografie o addirittura filmati, quanti di quei vecchi meravigliosi ci avrebbero preso a bastonate, convinti di essere raggirati? Cosa direbbe tuo nonno se ti vedesse scrivere una lettera e sapere che dopo pochi istanti quella stessa lettera è stata letta in America o ha fatto il giro del mondo? Eppure per noi le e-mail sono una consuetudine a cui non facciamo ormai neppure caso.» Rimasi pensieroso e quella pausa ci riportò inevitabilmente ai nostri problemi irrisolti. «Cosa pensi veramente di noi?» La voce di Carlotta era misurata. Le guardai attentamente negli occhi, non potevo mentire e in fondo neppure lo volevo. «In un primo tempo ho avuto l’impressione che Michele fosse caduto in un imbroglio o perlomeno fosse stato in qualche modo plagiato. Tutte quelle storie

sulle streghe, sui viaggi tra mondi e universi paralleli. Non che lo ritenessi una persona facile da abbindolare, ma personalmente ho visto persone molto più scettiche di lui cadere in raggiri perfettamente organizzati.» Osservai attentamente le loro espressioni, soprattutto quella di Emy. Con sorpresa non vi trovai alcuna traccia di risentimento, così mi feci coraggio e continuai: «Ho fatto fare indagini su di voi nelle prime fasi dell’inchiesta, discretamente, dal momento che non avevo allegato agli atti il racconto di Michele.» Vidi la sorpresa dipingersi sui loro volti e capii che se si erano aspettate di essere indagate, non sapevano invece nulla dello scritto. «Michele» continuai, «la notte dell’omicidio mi lasciò una lunga lettera sul suo computer, in cui mi spiegava dettagliatamente tutto quello che gli era successo e le conclusioni a cui era giunto…» Abbassai il tono e cercai conforto nel mio bicchiere di rosso. «Devo ammettere che a una prima lettura pensai purtroppo che fosse veramente l’assassino di Vanessa… tutti quei dettagli… la conoscenza di fatti e movimenti che solo l’autore di quella macabra messinscena poteva conoscere.» Bevvi un altro sorso. «Tutto il contorno magico mi portavano a credere o a una forma di paranoia dietro alla quale Michele, forse anche inconsciamente si era nascosto o alla possibilità che fosse invece caduto in qualche pericoloso inganno.» Scossi leggermente la testa. «Solo in seguito incominciai a dare credito al suo racconto, per quanto fantascientifico fosse. Mi persuasi che non era il tipo da cadere in una simile forma di plagio e poi la sua morte mi convinse definitivamente che non poteva essere stato lui l’autore degli omicidi, soprattutto quello di Vanessa. Li conoscevo troppo bene tutt’e due per poter credere a lungo a una simile eventualità.» Rialzai lo sguardo sui loro visi.

«Mi spiace… comunque dalle indagini non è venuto fuori molto, le origini lituane delle sorelle Jimbutas rendono difficile le documentazioni. Di Carlotta ho appreso che si è laureata in Germania con una tesi sull’etnologia e la storia delle religioni e che poi a Roma ha convalidato la sua laurea per ottenere l’abilitazione all’insegnamento in Italia. Subito dopo si è trasferita a Venezia dove ha ininterrottamente insegnato Storia dell’Arte Liceo Artistico Statale. Per quanto riguarda Lilith, invece, praticamente non si sa nulla, è risultato che ha vissuto a lungo negli Stati Uniti, prima a Filadelfia e poi a Los Angeles, con vari incarichi presso molte università con il vago titolo di “ricercatrice”. Non sapevamo neppure che fosse in Italia.» Cercai gli occhi di Emy con una certa ansia. «Di te, so che sei inglese, di Glastonbury, che hai quasi vent’anni e sei l’ultima discendente di un’antica casata. Risulti inoltre iscritta all’Università di Urbino, anche se non hai ancora dato nessun esame.» Alzai il palmo delle mani. «Questo è tutto, a parte il fatto che tutte e tre disponete di un patrimonio personale notevole che vi permette un tenore di vita di tutto riguardo.» Svuotai il bicchiere e a mia volta rimasi in attesa. «Non male.» Concesse Lilith. «Se è tutto quello che hanno, questa volta non correrò certo il rischio di finire sul rogo!» «Lilith! Cerca di essere seria!» Carlotta era particolarmente seccata. Guardai di sfuggita Emy, ma la ragazza era intenta a sbocconcellare un dolce giallo, tipico di Burano e non sembrava assolutamente né stupita né infastidita. «Emy, per favore potresti fare un bel caffè per tutti? Ho la netta impressione che la serata sarà lunga!»

Poi Carlotta si rivolse a me. «Ora, se vuoi, puoi ascoltare quello che noi abbiamo da dire!»

Capitolo 37°

«Sono contenta che Michele ti abbia già informato con la sua lettera, su quello che è successo. Questo ci evita di perdere tempo a raccontarti nuovamente tutta la storia, ma soprattutto aspettare che tu possa assimilarla facendotene un’idea personale. Il fatto inoltre che tu sia o che tu sia stato fino a poco tempo fa, un rappresentante della legge, è dal nostro punto di vista fondamentale, soprattutto per quello che temiamo possa ancora succedere.» Poi Carlotta guardò le altre due donne. «Abbiamo affermato, come sicuramente Michele avrà scritto, che siamo streghe. E questo è vero! Seguiamo tutte e tre da molto tempo gli insegnamenti della Wicca e vista la tua preparazione professionale in materia è inutile che perda tempo a spiegarti la nostra filosofia di vita. Sappi però che siamo profondamente convinte dell’esistenza di mondi esterni all’uomo e di mondi interni a lui, mondi spirituali e d’inconscio collettivo. Crediamo che proprio l’interazione tra queste dimensioni sia alla base dei fenomeni paranormali o se preferisci “magici”. Non crediamo al Diavolo cristiano, né tanto meno lo adoriamo e le nostre feste o sabba non celebrano blasfemi matrimoni con entità malvagie, ma, come può essere per la festa di Beltane a maggio, festeggiamo solo il mistero del nuovo anno che si succede a quello vecchio. E se viene festeggiato anche l’amore e balliamo attorno ai fuochi…» Si fermò un attimo a guardare sorridendo Lilith. «E’ perché riteniamo la sessualità una gioia, il simbolo e l’espressione della vita stessa.» Ritornò seria. «Noi tre, però, facciamo parte di una cerchia più particolare, un piccolo gruppo di persone che hanno scoperto di possedere un qualcosa in più. È difficile spiegarlo, ma è come se il sapere di migliaia di donne fosse confluito nelle nostre coscienze, è come se il nostro DNA comprendesse una conoscenza

tramandata dalle nostre ave alle nostre nonne e che ando per le nostre madri è arrivata fino a noi. Abbiamo particolari facoltà che se vuoi puoi definire “paranormali” o “magiche”; noi pensiamo che siano solo antiche conoscenze che nelle altre persone si sono perse con il tempo, mentre in qualche modo a noi sono state consegnate intatte.» Emy era tornata con i caffè. -Con lo zucchero o senza?«Senza.» Risposi assorto, ma immediatamente mi accorsi che la domanda mi si era formata nel cervello, visto che la ragazza in realtà non aveva aperto bocca. Lilith sorrise divertita. «Una di queste conoscenze, forse la più sconcertante e pericolosa, è quella di riuscire a varcare la soglia tra mondi diversi, transitando realmente da un universo all’altro.» Il mio sguardo doveva essere l’epopea dell’incredulità. Per questo Carlotta affondò il colpo. «Non importa se ora non mi credi! Tanto per essere concreti e tornare ai nostri problemi, noi siamo arrivate alla conclusione che l’unico modo per trovare l’assassino che cerchiamo, sia quello di tornare nell’universo dov’era finito erroneamente Michele e tu sia quello che lo deve fare!» Ero allibito. «Quindi» riprese Lilith seria, «o ti alzi e consideri tutto quello che abbiamo detto sino a questo momento, solo come le chiacchiere senili di due svanite vecchiette, esci e continui le indagini per conto tuo; o rimani e ti prepari a entrare in un territorio dove la tua ragione avrà paura di andare. Un luogo dove non c’è posto per la logica e la sicurezza. Il regno della pura fantasia e dei desideri. Una terra che come avrai modo di scoprire, è molto più reale di quanto tu possa immaginare.»

Mi alzai di scatto, deciso ad andarmene. Ma non mi mossi. Vicino ai fornelli, con addosso un grande grembiule azzurro, la figura bella e altera della mia nonna materna mi stava guardando sorridente; in mano, il grande mestolo di legno della cui solidità portavo ancora il ricordo. Fu un istante, poi svanì, inaspettatamente com’era apparsa. Lentamente ritornai a sedermi sulla panca. «Vedi…» Carlotta continuò come se non fosse successo nulla. «Di solito iamo solo noi attraverso quelle particolari porte, ma abbiamo fatto uno sbaglio, un gravissimo errore.» Gli occhi nocciola le si riempirono di lacrime e riprese con una certa fatica. «Avevo visto in Michele una certa predisposizione alla forza interiore e una sua capacità potenziale ad aprirsi alla conoscenza.» Lanciò un’occhiata a Lilith che si era immersa nella sua tazzina di caffè, nonostante fosse ormai vuota. «Mi lasciai convincere, ma anch’io ero curiosa, a sperimentare le porte con qualcuno che non fosse uno di noi. Ma sbagliai.» Grosse lacrime scivolarono sul suo viso, mentre Lilith si guardava le unghie della mano destra ed Emy portava via le tazzine con un sinistro tintinnio di ceramiche urtate malamente. «Non avevo pensato alle debolezze che poteva avere Michele e non avevo valutato a fondo la potenza del simbolo utilizzato. Michele era meraviglioso ma aveva dentro delle paure sessuali latenti, era spaventato dai suoi impulsi, dalle sue fantasie e dai suoi desideri. Per questo aveva preferito rifugiarsi nella tranquilla routine con Vanessa. Quando si è trovato nel aggio tra le porte, le sue paure si sono moltiplicate e hanno trasformato le sue normalissime fantasie

in pura lussuria, che a sua volta ha dato vita a quel demone che sicuramente ti ha descritto. Inoltre la scelta di Caravaggio, come simbolo per attivare la porta, era stato determinato dalla mia stupida idea che Michele potesse essere la reincarnazione dell’artista stesso e quindi non ho valutato a fondo la potenza del “principe dei ribelli”. Dovevo sapere che un animo travagliato e potente come il suo avrebbe potuto essere pericoloso.» Non riuscì più ad andare avanti e si alzò per salire precipitosamente le scale e la udii, qualche secondo dopo, sbattere con violenza la porta del bagno. Lilith continuò per lei: «Esiste sempre un legame tra gli universi, a volte è un filo sottilissimo, a volte molto più intenso. Per questo pensiamo che quando Michele ha visto se stesso, sotto forma di demone uccidere le sue vittime, abbia anche notato particolari che si possano riferire anche all’assassino che nel nostro universo ha ucciso Vanessa, quella povera ragazza sulla spiaggia e… Michele stesso.» Si voltò a guardare Emy, tornando poi a fissarmi intensamente. «Per questo pensiamo che tu… dovresti ritornare là. Per vedere se riesci a trovare elementi che ci possano aiutare a scoprire la verità!». Guardai allibito la ragazza e vidi che mi stava fissando immobile. «Io… dovrei andare in un’altra dimensione?» La cosa non era assurda, era folle! «Guarda che può essere molto pericoloso, anche là puoi ferirti, ammalarti o essere ucciso, esattamente come in questo universo.» Carlotta era ritornata e appariva più controllata e pacata. «Inoltre esistono in quell’universo forze soprannaturali dotate di una potenza e capacità inimmaginabili nel nostro mondo. Il demone di Michele ha realmente violentato e ucciso e tieni presente che in ogni universo le regole della fisica sono diverse, dipendendo in gran parte da quello in cui la gente crede.» Un dubbio continuava a roteare nella mia mente: perché io!

«Se tu hai fatto indagini su di noi, anche noi ne abbiamo fatte su di te!» Era la volta di Emy ad essere imbarazzata. «Io ti ho notato quando sono andata ad aiutare Michele o meglio ho notato il tuo doppio in quell’universo. Incuriosita, quando sono tornata ne ho parlato con Carlotta che ti ha messo sotto controllo. Effettivamente avvertimmo in te un’energia simile alle nostre e allora ti studiammo meglio.» Ero allibito! «Per prima cosa sei la persona che più è stata vicina a Michele e la vostra amicizia è un legame ancora solidissimo. Per riuscire a fare il aggio devi essere seriamente motivato e l’affinità che c’è stata tra di voi ti farà da guida.» La voce di Lilith era dolce e delicata. «Inoltre, anche se tu non lo sai, la tua nonna era veramente una potente “strega” conosciuta e apprezzata e io stessa consulto spesso i libri che ha scritto. L’amore che hai ricevuto da lei, non solo ha contribuito a far nascere in te il profondo interesse che hai verso la natura, il bello e la giustizia, ma ti ha anche dotato di una sensibilità particolare. Non sappiamo ancora, evidentemente, la portata di queste tue doti e anche se sicuramente non hai il dono della “conoscenza”, che in noi sembra innata, ma non mi stupirei di trovare in te qualità sorprendenti.» Non sapevo più cosa pensare.

Capitolo 38°

Che diavolo ci faceva quell’impiccione nuovamente a Venezia? Proprio quando finalmente incominciava a intravedere un futuro libero e pieno di soddisfazioni. Erano giorni che il pensiero lo assillava. Dalla notte in cui Esther lo aveva urtato casualmente a Rialto, quel carabiniere era diventato una vera ossessione. Quando da informazioni riservate avute da alcuni amici che bazzicavano nell’ambito della Procura, aveva saputo che le indagini erano a un punto morto e che il capitano Redaelli era stato rimandato a Roma, aveva tirato un sospiro di sollievo. Poteva dormire tranquillo; non sarebbero mai arrivati fino a lui. Ma quel ficcanaso era tornato. Che cosa significava? L’improvvisa apparizione del professor Barovier sulla spiaggia l’aveva completamente spiazzato. Sicuramente era l’ultima persona che si sarebbe mai aspettato di veder compare e si era dispiaciuto di averlo ucciso così in fretta senza poterlo interrogare; ma quella notte aveva avuto paura che non fosse da solo ed effettivamente era riuscito a sottrarsi ai carabinieri per un soffio e per lunghi giorni si era aspettato di vedere uomini in divisa irrompere in casa sua. Ma evidentemente qualunque cosa avesse scoperto il professore doveva essersela portata nella tomba. Scosse la testa e si concentrò su un altro aspetto della vicenda, molto più

piacevole. Con l’eliminazione della cara signorina Della Vigna, aveva risolto gran parte dei suoi problemi, ma l’esperienza aveva lasciato in lui un inaspettato e piacevolissimo strascico. Si era introdotto a casa di Vanessa con l’intenzione di eliminarla in modo rapido e impersonale, non immaginando certamente di sorprenderla seminuda mentre si accingeva a riempire la vasca da bagno. La colluttazione che ne era seguita gli aveva dato una carica emotiva esaltante e l’esperienza lo aveva soddisfatto in modo impressionante. A Esther, la sua bella convivente cubana, piaceva il sesso violento ed era stata innegabilmente una delle cose che l’avevano maggiormente convinto a portarsela in Italia. Era la prima donna che avesse avuto che godeva come una pazza a farsi picchiare e insultare mentre facevano l’amore, ma alla lunga la cosa l’aveva stufato, diventando con il tempo una noiosa routine. Quando aveva ucciso Vanessa, aveva pensato che la soddisfazione che aveva provato derivasse dalla fine delle sue angosce e dei suoi problemi economici. Solo successivamente, quando aveva soffocato nella sabbia quella piccola oca insulsa di Luisa, proprio mentre la donna era in pieno orgasmo, aveva compreso quanto in realtà anche con Vanessa, la cosa stupenda era il momento in cui uccideva. Esther, all’inizio, era rimasta piacevolmente sorpresa dal suo nuovo entusiasmo verso le pratiche sadomaso e avevano saccheggiato letteralmente i siti specifici su internet alla ricerca di varianti e novità. Poi si era spaventata. Proprio perché per lei era solo una trasgressione che accentuava il suo erotismo naturale, aveva intuito in lui qualcosa di diverso, doveva aver intravisto le vette su cui si era spinto e ne era rimasta terrorizzata. E questo l’aveva fatta diventare un pericolo.

Non potendo eliminarla come aveva fatto con la dottoressa Della Vigna, doveva trovare un sistema alternativo per togliersela velocemente dai piedi e la soluzione l’aveva fornita paradossalmente proprio lei. Aveva incominciato a lamentarsi che sua madre stava male e che doveva tornare a Cuba per un breve periodo. Vera o falsa che fosse la scusa, era quello che gli serviva. Qualche dose di cocaina nel bagaglio, una veloce telefonata anonima e della cara Esther non si sarebbe sentito parlare per un bel pezzo. Se poi fossero venuti da lui a chiedere spiegazioni, avrebbe mostrato tutto il suo dispiacere e la sua impotenza per il vizio della compagna. Avrebbe giurato di aver fatto di tutto per allontanarla da quel giro, ma che evidentemente i suoi sforzi non erano bastati. Era finalmente sul punto di tornare libero di muoversi a piacimento, senza nessun controllo, quand’ecco riapparire all’improvviso quel fottuto capitano dei carabinieri a rompere le scatole.

arono lentamente dieci giorni. Marco, dopo la cena con le sorelle Jimbutas, era ato da casa e aveva riempito un borsone di vestiti, poi era ritornato a trascorrere le sue giornate a Burano con Emy. Avevano sperimentato i migliori ristorantini dell’isola, dove tutti sembravano conoscere bene la ragazza e la trattavano con una familiarità rassicurante. Dieci giorni a eggiare, leggere, fare l’amore e dormire. Dei discorsi intrapresi con le sorelle Jimbutas neanche una parola, come se da un tacito accordo avessero deciso di non parlare di quella sera. Quel giorno avevano fatto onore a una freschissima frittura di pesce in un piccolo ristorante nell’isoletta di Torcello, quando, tornando verso

l’imbarcadero, videro ormeggiata una lancia dei carabinieri. andogli accanto, un brigadiere si esibì in un perfetto saluto militare, mentre con una specie di barrito urlava: «Capitano Redaelli!» «Lascia perdere il capitano, Nicolò!» Marco aveva riconosciuto l’aiutante che lo aveva affiancato nel periodo delle indagini sull’omicidio di Vanessa. «Signor capitano, il colonnello Medini vorrebbe parlarle!» Il tono era sicuro. Marco cercò di individuare dietro le tendine socchiuse della cabina l’alta figura del colonnello, ma intravide solamente una sagoma immobile. Guardò Emy, poi scosse la testa e rivolgendosi al carabiniere rispose con voce ferma: «Mi spiace brigadiere, riferisca pure al suo superiore che sono fuori dai giochi e che voglio rimanerci!» Poi, stringendo la mano alla ragazza, si voltò per andarsene. «Marco!... Per favore!» Non era un ordine, era piuttosto una supplica e questo da parte del colonnello Medini era sbalorditivo. Marco si voltò incuriosito, il colonnello era uscito dalla cabina della barca e lo guardava serio. Ritornò indietro di qualche o, senza lasciare la mano di Emy. «Solo cinque minuti, ti devo far vedere una cosa! Venga anche lei signorina Wyfar.» Il tono era gentile, per questo all’orecchio allenato di Marco, ancor più

pericoloso. Lui saltò agilmente a bordo, mentre Emy invece, impacciata dai tacchi troppo alti s’appoggiò a Nicolò; con l’unico risultato di vederlo accendersi come un lampione. Medini si era nuovamente seduto sul divanetto della cabina, le gambe accavallate. «Marco… non dovrei essere qui a parlare con te, soprattutto di fronte alla signorina.» Rimase un istante in silenzio, poi urlò: «Nicolò, facciamo un giro!» Immediatamente il potente motore si fece sentire e il motoscafo s’immise rapidamente nel canale principale. «È successo nuovamente!» Il colonnello aveva parlato così sottovoce che Marco non ne afferrò immediatamente il significato, ma un istante dopo era teso, con la fronte imperlata di sudore e le unghie di Emy che gli penetravano nel polso. «Non è possibile! Non può essere!» Per tutta risposta il suo ex superiore estrasse dalla valigetta che aveva accanto, una cartellina gialla su cui c’era scritto: Pyke Kock, Extase. «Non si accontenta più di simulare un quadro, è arrivato a coglierne addirittura lo spirito!» Il colonnello era furente. «Ha lasciato una stampa con la copia del dipinto accanto al cadavere, voleva che non ci fossero dubbi.» Picchiò un pugno sulla valigetta che cadde rovesciando tutto il suo contenuto

sulla moquette azzurra, ma non sembrò nemmeno farci caso: «Quel figlio di puttana ci sta sfidando!»

Un altro colpo di genio! Era soddisfatto del lavoro della notte e poteva concedersi qualche giorno di riposo. Aveva avuto la conferma che cercava. Nel momento in cui aveva ucciso, l’orgasmo era giunto improvviso, travolgente, con una intensità che non aveva mai sperimentato prima. Aveva notato quella particolare illustrazione per caso, sfogliando alcuni libri su una bancarella e qualcosa in quel dipinto aveva fatto scattare la sua immaginazione. Immediatamente aveva sentito che sarebbe stato impossibile non farlo. L’atmosfera emanata dalle siepi, il mondo proibito che l’accenno delle gambe prometteva a chi avesse avuto il coraggio di andare a guardare… e lui avrebbe fatto ben di meglio che spiare! Al diavolo il carabiniere! Anzi, li avrebbe fatti impazzire tutti con quello specchietto per allodole che erano i dipinti. Lui era più furbo di quel bell’imbusto di militare, era molto più intelligente e guardando in controluce il preservativo con la prova tangibile del suo orgasmo, l’unico che si sarebbe sicuramente divertito. Si alzò e uscì nel giardino di casa avviandosi verso il canale che costeggiava la sua proprietà. Dopo aver controllato che nessuno lo osservasse, gettò tranquillamente in acqua il profilattico, seguendolo con lo sguardo mentre la forte corrente lo trascinava

verso la laguna. «Ci sarà una notevole bassa marea.» Constatò. Poi, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni, rientrò in casa.

Capitolo 39°

Tenevo la cartellina chiusa sulle ginocchia, abbandonato al ritmico beccheggio del motoscafo, cercando di scacciare la triste consapevolezza che la mia fuga dalla realtà era finita bruscamente e che i giorni ati con Emy sarebbero diventati presto solo un ricordo. Dentro quel cartoncino giallo, la descrizione di un altro omicidio. Stupido. Assurdo. Violentata… uccisa! Violentata… uccisa! Violentata… uccisa! Quante volte avevo letto quella frase racchiusa burocraticamente in tante analoghe cartelline anonime? Quante volte avevo ascoltato la televisione lanciare nello spazio quelle due parole come se nulla fosse? Come se, poiché succede dalla notte dei tempi, dovesse sempre essere così? Perché accettare quella logica? Forse era meglio ignorare tutto quanto e prendere per mano Emy, dimenticare Michele, fregarsene del mondo e rinchiudermi nel mio appartamento a fare l’amore. Aspettare in mutande che arrivasse un lavoro senza responsabilità, magari in qualche ufficio tranquillo e confortevole. Qualche anno di tirocinio, ma con la paga sicura a ogni fine mese.

E a casa, la mia donna e la mia macchina, fuori gli amici e qualche ristorantino grazioso. Qualche avventura ogni tanto, giusto per ravvivare la routine… la vita insomma, una vita comune senza tante rotture di palle. -Sei libero di farlo, nessuno te lo impedisceLa voce di Emy mi entrò ruvidamente nella mente. Mi voltai a scrutarla negli occhi. «Tanto lo sai che non lo farò mai.» Sussurrai rassegnato. Ritornai con lo sguardo sul mio ex comandante e rimasi sorpreso nel vedergli un leggero sorriso sulle labbra. «Questo non significa che possa o voglia aiutarla, colonnello!» Cercai di mettere più sincerità possibile nel tono della voce. «Cosa pensi di fare?» La voce di Emy era seria. «Non so, non lo so davvero!» Risposi sincero. «È successo tutto così in fretta e io sono troppo lento nel capire e a prendere decisioni… non so!» La ragazza mi fissava silenziosa. Continuai cercando di essere il più convincente possibile: «In giro da qualche parte c’è un pazzo criminale e non ci sono molte possibilità di scovarlo. Sai quanti omicidi vengono compiuti ogni anno e che rimangono impuniti? E lo sai quanti di quelli risolti lo sono solamente grazie a soffiate o

segnalazioni?» Avevo ben presente i tabulati con i dati ufficiali. «Quest’assassino non fa parte della malavita organizzata, non ha rivali che possano “venderlo” e non è nemmeno un “ionale” che commette mosse azzardate, quindi difficilmente troveremo tracce o indizi che ci possano condurre a lui. È freddo, lucido e ogni cosa che fa è perfettamente programmata. Sa di sfidarci e ne trae un sottile piacere, ma quello che è peggio, è che più i suoi crimini rimangono impuniti, più lui ci prende gusto e si sente sempre più bravo e invincibile. E se questo da un lato può portarlo a un errore fatale, dall’altro significa inevitabilmente nuove vittime.» «Purtroppo quello che dice Redaelli è vero.» Il colonnello si intromise interrompendo le mie considerazioni. «È per questo che ti ho cercato, Marco! Ho bisogno di un aiuto esterno, qualcuno che possa muoversi liberamente e che possa andare dove i miei uomini non possono agire.» Avvertivo una piccola stonatura nella sua voce. Il colonnello si fissava imbarazzato la punta delle scarpe e un camlo d’allarme prese a suonarmi assordante nel cervello. «Tutti sanno che sono un ex carabiniere, di quale autonomia d’indagine parla?» Cominciavo a preoccuparmi seriamente. «Ci sono ex carabinieri ed ex carabinieri…» Sussurrò. Non mi ero mai trovato di fronte a un grosso pitone, ma in quel momento seppi esattamente cosa doveva provare il topolino intrappolato. «Se… circolasse la voce» continuò, «che sei stato “invitato” a dimetterti perché coinvolto negli omicidi? Certo mancano prove concrete, ma “si potrebbe pensare con ragionevole dubbio” che tu abbia potuto aiutare Michele, “il tuo amico

carissimo” a crearsi un alibi inattaccabile proprio grazie alla tua esperienza di uomo di legge. Forse tra di voi non c’era solo “una forte amicizia” e l’eliminazione di una fidanzata ufficiale… con tutta quella messinscena.» «Andiamo colonnello! Per me tutta questa storia ha un risvolto personale che la rendono estremamente importante e dolorosa, ma per voi, in fin dei conti è solo una serie di omicidi irrisolti. Per quanto possano preoccupare o ledere l’immagine dell’efficienza dell’Arma, mi sembra che gettare alle ortiche la carriera e l’onore di un capitano sia eccessivo!» Guardai fuori dall’ampio finestrino, stavamo transitando lentamente a fianco dell’isola di San Michele e il lungo muro che circondava il grande cimitero mi fece venire un leggero brivido lungo la schiena. Medini mi guardò preoccupato. «Abbiamo delle pressioni su questo caso che nemmeno t’immagini, sai già che Vanessa aveva uno zio senatore, ma sembra che ci sia dell’altro. Non ho ancora avuto modo di appurare più approfonditamente, ma ti posso assicurare che addirittura alte cariche del governo sembrano direttamente interessate al caso. Potrei fregarmene, sono nella posizione di resistere a questo genere di pressioni, ma anch’io personalmente voglio vedere quel dannato figlio di buona donna dietro i cancelli di un manicomio criminale. Io non posso chiederti nulla, ma se lasciamo trapelare l’indiscrezione che tu possa essere stato uno degli artefici degli omicidi, il vero assassino potrebbe sentirsi in qualche modo defraudato e compiere un o falso.» «Questa è una cazzata!» Sbottai, «i casi sono due: o lui si rotola dalle risate sulla nostra stupidità e sparisce ancor più nel nulla, sentendosi completamente al sicuro o se la prende a morte con il sottoscritto per avergli rubato i riflettori della celebrità e in questo caso mi cerca per regolare i conti…» Non avevo finito la frase che nuovamente scoprii come si sentiva il famoso topolino, ma questa volta “dentro” le fauci del pitone. Guardai allibito il colonnello Medini. «Volete che io faccia da esca per quel pazzo?» Esclamai.

«No! Vorrei che l’esca… la fe lei!» I suoi occhi erano fissi sulle mie pupille ma non avevo dubbi che stesse guardando Emy. Ero paralizzato! Nel momento stesso in cui percepii la potenzialità vincente di quella scelta, se avessi avuto in mano la mia pistola d’ordinanza gli avrei sparato a bruciapelo. Tranquillamente. Mi voltai a guardare Emy che si era pacificamente appoggiata all’imbottitura dello schienale e fissava intensamente il volto di Medini. «Potrebbe funzionare.» Mormorò. «Certo che potrebbe funzionare ed è proprio per questo tu non farai assolutamente nulla del genere!!» Urlai, prima di alzarmi e uscire precipitosamente dalla cabina. «Nicolò, ormeggia al primo attracco che trovi, non importa dove siamo, subito!!» Poi mi voltai di scatto, pronto a colpire il colonnello se avesse tentato a sua volta di uscire. Invece lo vidi rilassato al suo posto e incredibilmente fece una cosa che non gli avevo mai visto compiere prima d’allora. Si slacciò la giacca e appoggiando i piedi sul sedile di fronte, estrasse un pacchetto di sigarette, offrendolo poi con eleganza a Emy. «A mia figlia non la offrirei certamente, ma ogni tanto uno strappo alle regole…» «No, grazie!»

La voce della ragazza era puro velluto. «Fumo solo spinelli!» Un sorriso illuminò il volto del militare, poi si accese con cura una sigaretta e si concentrò beato sulle leggere volute di fumo azzurrognolo. Ero furioso, non solo mi avevano ucciso un amico che consideravo come un fratello, ma dovevo anche rischiare di mettere in mano a un maniaco criminale una creatura speciale come Emy. Era semplice follia. La sola idea andava oltre la mia comprensione. Era inaccettabile. Il motoscafo si era avvicinato nel frattempo al pontile di S. Alvise e toccai bruscamente la spalla al brigadiere mentre gli ordinavo: «Accosta! Non ci sono battelli in vista, scendiamo al volo!» Misi la testa dentro la cabina e lanciai a Emy uno sguardo furioso. Lei si alzò e scavalcando le gambe del colonnello uscì silenziosa. Una volta sbarcati sul pontile dell’ACTV, m’incamminai veloce trascinandola letteralmente per un braccio. «Guarda che sono capace di camminare da sola!» Il tono era pericolosamente irritato. La lasciai andare e percorsi un buon tratto di strada senza di lei, poi mi bloccai, aspettando che mi raggiungesse. «Guai a te se solo pensi di fare una stronzata simile!» Sibilai. «Guarda che sono adulta e consapevole…»

Incominciò lei di rimando. Non la lasciai finire. «Adulta e consapevole? Guarda qui!» Le cacciai tra le mani la cartellina gialla. «Quella bestia l’ha legata a braccia aperte su una panchina dei giardini pubblici accanto alla Biennale, le ha messo un bavaglio e le ha strappato i vestiti, poi con calma l’ha violentata mentre la torturava con dei lunghi spilloni e alla fine l’ha uccisa conficcandogliene uno dentro l’orecchio destro!» Avevo la gola che sembrava carta vetrata. «Sei consapevole? Consapevole di cosa?» Vidi gli occhi di Emy riempirsi di lacrime e improvvisamente qualcosa dentro di me cedette e la abbracciai stretta, baciandola con forza. «Non puoi… io ti amo!» E per la prima volta in vita mia sentii che era la verità. Rimanemmo abbracciati in silenzio, poi lei mi mise un braccio attorno alla vita e appoggiandomi la testa sulla spalla sussurrò: «Portami a casa.»

Appoggiato al cancello di un piccolo parco, un uomo li stava osservando silenzioso. Era appena uscito dalla piscina comunale di S. Alvise, quando notando il capitano Redaelli si era bloccato spaventato. Aveva cambiato piscina proprio perché quella che aveva frequentato con il professor Barovier poteva rivelarsi pericolosa, qualcuno poteva sempre ricordarsi di averli visti assieme. Per un attimo aveva temuto di essere stato scoperto, ma poi aveva avuto il tempo di notare quanto il carabiniere fosse furioso.

Lo vide arrestarsi all’improvviso senza alcun motivo, ma poi alcuni secondi dopo, il motivo lo raggiunse. Uno splendido motivo. Lui di donne se ne intendeva e quella era super. A parte la giovinezza, quella ragazza aveva un fascino naturale, innestato su un corpo perfetto e armonioso. Li vide litigare e poi, come succede spesso, baciarsi. Li lasciò allontanare. Allora era quello il motivo del ritorno del capitano! Se era così l’aveva provocato per nulla e avrebbe potuto risparmiarsi la ridicola messinscena del dipinto. La donna no, con lei si era divertito sul serio. Proprio mentre lo pensava, si rese conto però che non era del tutto vero e che buona parte del suo piacere era derivato proprio dalla scenografia che aveva scelto. Possedere quel corpo su un qualunque letto non gli avrebbe dato la stessa scarica emotiva che lo aveva esaltato quella notte e capiva che il sottile e pericoloso gioco che aveva messo in piedi con quel carabiniere, era ormai una parte fondamentale del suo godimento. Ripensò al corpo scattante della donna del capitano, con lei sì che sarebbe stata una bella lotta, doveva essere una gatta di tutto rispetto quella, non come la patata lessa della notte precedente. Aveva dovuto “stuzzicarla” con quei lunghi e innocenti spilloni perché reagisse come voleva lui. Era talmente spaventata che si sarebbe lasciata violentare senza opporre la minima resistenza o forse voleva solo dargli qualche stupida lezione del tipo:

“Avrai il mio corpo ma non la mia anima!” O qualche altra insulsaggine del genere. Ma ci aveva pensato lui a tirargliela fuori, “l’anima”. Con tranquillità si mise a seguire la coppia. Rischiava grosso ad avvicinarsi a una persona così legata al capitano, ma quale esaltante sensazione doveva essere godere di quella donna sapendo che dopo il suo uomo avrebbe rivissuto tutto quanto leggendolo e rileggendolo sul rapporto del medico legale, particolare dopo particolare, all’infinito!

Capitolo 40°

Avevamo fatto la strada fino al mio appartamento in completo mutismo, persi nei nostri pensieri; ma nel medesimo tempo ci tenevamo stretti a vicenda, nel timore che l’altro si potesse allontanare. Finimmo subito a letto e facemmo l’amore a lungo in silenzio, quasi con rabbia, per cedere subito dopo a un sonno pesante. Mi svegliai con fatica e il mio cronometro mi informò che era quasi l’ora di cena; richiusi gli occhi, mentre avvertivo il corpo di Emy muoversi delicatamente accanto al mio. Poco dopo la sentii alzarsi e rimasi ad ascoltare lo scrosciare della doccia. Poi, mentre lei con il mio accappatoio addosso si dirigeva verso la cucina, mi alzai con infinita stanchezza e dopo essermi infilato i pantaloni la raggiunsi. «Siediti» mi disse gentilmente, «ho preparato delle uova.» Annuii silenzioso. Stappai una bottiglia di Merlot e riempii i bicchieri, lei arrivò subito dopo con un tegame di uova strapazzate. Rimasi a guardare il mio piatto fumante, sapevamo entrambi che eravamo giunti a un bivio e che inevitabilmente dovevamo prendere una decisione. «Vuoi andartene?» Riuscii finalmente a chiedere. «E tu?» Mi fece lei eco con voce leggermente roca. Scossi la testa, poi la guardai negli occhi:

«No!... Non saprei spiegartelo, ma non posso più immaginare di vivere senza di te.» Mi guardò a lungo, scrutando a fondo dentro i miei occhi. «Guarda che non sono semplice e la mia indipendenza è la fonte stessa della mia vita; non potrei mai rinunciarci, non sarei più me stessa.» Parlava seriamente, sottovoce. «Io non cerco una moglie, non saprei come comportarmi e soprattutto non sarei in grado di darle quello che desidera. Io voglio una compagna, una persona con cui percorrere assieme la strada della vita, in perfetta parità.» Facevo fatica a parlare. «Saresti veramente capace di considerarmi l’altro cinquanta percento?» Mi guardava dubbiosa. «Ci posso sempre provare!» Sentii la speranza galleggiare nelle mie parole. «Guarda che se pensi alla metà che lava e stira, che cucina con attorno tre o quattro marmocchi che si allenano alla terza guerra mondiale, che te la dà quando ne hai voglia e sta zitta quando “scarichi” le tue tensioni fuori casa, hai decisamente sbagliato persona!» Il tono era leggero, ma gli occhi esprimevano una serietà inconsueta. Sorrisi. «Veramente pensavo a una metà indipendente, che non andasse in crisi quando il mio lavoro e i miei interessi non convergono su di lei. Che abbia una sua attività e suoi interessi personali che la facciano sentire autonoma e viva, che si senta una persona completa e solo così possa decidere di dividere con me la sua vita.» «Stronzate!» La guardai allibito e lei avvicinò il suo viso al mio.

«Abbiamo detto ambedue un mucchio di stronzate… l’unica cosa che possiamo fare è vivere giorno per giorno, cercando di essere sinceri.» Ci si poteva perdere nel verde intenso dei suoi occhi. La guardai interdetto, poi annuii. Si alzò con calma e lasciando scivolare l’accappatoio sul pavimento rimase completamente nuda, poi prese con una mano il suo bicchiere e con l’altra la bottiglia. «Io avrei un’idea su come siglare l’accordo…» L’ultima parola si era persa sulla porta della camera da letto. Guardai i piatti con le uova ancora intatte. Non ci potevo credere! Fui sopraffatto da un senso di gioia, ma inaspettatamente s’infilò dentro di me, maligna, una sensazione ansiosa. Avevo nello stesso tempo sia la paura di perderla, sia la consapevolezza delle future responsabilità che mi sarebbero piombate addosso. Guardai il mio bicchiere. «Si vive solo una volta.» Mormorai pensando che nell’altra stanza c’era uno splendido motivo per viverla in pieno, quella vita. Afferrai delicatamente il bicchiere e con calma mi alzai per andare a siglare a mia volta, l’accordo più importante della mia vita.

Incominciava ad albeggiare e nudo alla finestra, osservavo la luce conquistare adagio i tetti di Venezia. M’infilai una tuta e andai a correre tra le calli deserte.

I numerosi ponti all’inizio m’infastidirono, ma poi lentamente incominciai ad abituarmi a quel percorso discontinuo e la mia andatura incominciò ad assumere un ritmo regolare. ai per il piccolo Campo della Guerra e arrivai a quello più ampio di S. Maria Formosa, lo attraversai velocemente e puntai verso l’ospedale civile di San Giovanni e Paolo, che costeggiai accelerando il o, sbucando poi finalmente a Fondamenta Nuove. Avevo finalmente di fronte tutta la laguna. Mi fermai a riprendere fiato, osservando quello spettacolo stupefacente. Lo specchio d’acqua si perdeva, perfettamente immobile, fino alla linea dell’orizzonte; per fondersi poi con la linea più scura creata dalla catena di montagne. Solo le nitide cime erano illuminate dal sole nascente. Rimasi seduto a lungo sui gradini di un ponte a godermi quel momento di serenità e di bellezza. Quella notte avevo scoperto l’incredibile significato di “fare l’amore”. Emy e io c’eravamo lasciati, “amare”. Era esattamente l’opposto di quello che avevo fatto sino ad allora. Avevo amato diverse donne, riversando sopra di loro il mio affetto e la mia tenerezza, avevo amato il loro corpo e la loro mente… ma ero io che amavo, ero io che davo un valore a quelle donne. Per la prima volta avevo permesso a una persona estranea di “amarmi”. A prima vista poteva sembrare un atto egoistico, ma fu proprio Emy che mi fece intuire la differenza. Mi resi conto a un certo punto che lei si era arresa totalmente, che potevo possederla completamente senza alcun limite e che proprio attraverso il suo corpo abbandonato avevo raggiunto la consapevolezza che mi aveva aperto

l’accesso anche alla sua anima, alla sua stessa essenza di donna. Nel momento che percepii il dono che mi aveva fatto, pensai a quanto di me stesso sarei stato disposto a concederle, quanto della mia anima sarei stato capace di mostrare, quanto l’avrei lasciata entrare in me. E nel preciso istante in cui abbandonai ogni reticenza, che permisi a Emy di disporre di me senza limiti, sentii arrivare il suo amore. Una forza immane mi riempì totalmente, saturando ogni cellula del mio corpo. Stavamo veramente facendo “l’amore”; avevamo permesso alla nostra reciproca capacità d’amare di fondersi senza barriere. La capacità di accettare dava la possibilità all’amore dell’altro di esprimere tutto il suo potenziale, senza alcun limite. Un barcone dei traslochi che attraccava mi riportò alla realtà, poco più in là un bar aveva appena aperto e un giovanotto stava sistemando dei piccoli tavolini bianchi sul plateatico. Entrai e ordinai un caffè a una banconiera ancora notevolmente assonnata. Non avrei mai permesso a Emy di fare il gioco di Medini, piuttosto avrei provato la strada indicata da Carlotta, per quanto assurda e incredibile che fosse. Mi feci incartare due croissant caldi e tornai di buon o verso casa. La svegliai con il profumo del caffè e rimasi a osservarla mentre divorava letteralmente la colazione, poi mi sdraiai al suo fianco e rimanemmo a letto a chiacchierare fin dopo mezzogiorno. «Ho bisogno di parlare con Carlotta.» Dissi all’improvviso. Mi guardò seria, poi scrollò le spalle. «Nessun problema, ci potremmo trovare da lei verso le cinque. Io invece avrei prima alcune spese da fare, sai dove abita, vero?»

Annuii e la guardai mentre si vestiva velocemente, contento che non mi avesse chiesto d’accompagnarla. Primo odiavo lo shopping, secondo, avevo bisogno di riflettere con calma prima di affrontare le care signore Jimbutas.

«È tutto pronto?» Dietro la sgargiante camicia hawaiana portata con disinvoltura sopra larghi pantaloni bianchi, il panama sgualcito e l’immancabile fotocamera digitale a tracolla, era difficile riconoscere il colonnello Medini. Era assorto nella contemplazione del dipinto di una vecchia, il cui volto, segnato da tante piccole rughe, aveva un’espressione mesta e raccolta. Con gli occhi supplichevoli rivolti verso lo spettatore, la figura appoggiata a un parapetto appariva scarmigliata e trascurata, povera, consapevole del suo invecchiare, con la schiena curva a testimonianza del peso degli anni. «È incredibile l’abilità e la minuzia con cui ha reso i particolari del volto! Chi è il pittore?» A parlare era stato un uomo comparso improvvisamente al suo fianco, leggermente più piccolo del colonnello, ma molto più massiccio e dalla pelle nerissima. «Giorgione.» Disse calmo il colonnello. «E sul cartiglio che tiene in mano c’è un motto: “Col tempo”.» «Curioso!» L’uomo sorrise divertito, poi il suo volto ritornò serio. «Sì! Abbiamo predisposto tutto e casa Jimbutas è sotto costante controllo, se

Redaelli ci va… saremo pronti.» «Bene» annuì il colonnello, «tenetemi informato.» Si soffermò per un istante a scrutare l’uomo che aveva a fianco, poi spostò lo sguardo attorno, osservando con attenzione la piccola sala ristrutturata da Carlo Scarpa a metà degli anni Novanta. Sembrò assorbire la morbida luce che proveniva dai lucernari e ritornò per un istante a soffermarsi sulla Tempesta, puntando poi diritto verso la sala sei, dove lo aspettava il San Giovanni Battista di Tiziano.

Capitolo 41°

Al Comando dei Carabinieri tutti mi conoscevano, quindi potei entrare di prima mattina nell’ufficio di Medini senza che nessuno si sognasse nemmeno di fermarmi; anzi, furono parecchi i saluti militari che mi furono tributati nel tragitto. Chiusi con forza la porta alle mie spalle. «Maledetto bastardo! Dov’è!» Piombai sulla scrivania e picchiai entrambi i pugni sul grande ripiano di mogano scuro. L’espressione allibita del colonnello contribuì a farmi infuriare maggiormente. «O mi dici subito dov’è e cosa l’hai convinta a fare o giuro che dovranno spararmi per farmi staccare le mie mani dal tuo collo!» «Marco! Per l’amor del cielo, non capisco assolutamente di che cosa stai parlando!» Medini era intanto balzato in piedi sulla difensiva. La porta si aprì di colpo e due militari piombarono spaventati all’interno dell’ufficio. Il colonnello alzò una mano per fermarli, poi volse lo sguardo su di me, valutandomi. «È tutto a posto, potete andare!» Si risedette attento, sotto il mio sguardo furente. «Ora ti calmi e mi spieghi tutto! Veramente non comprendo.»

Fu il suo sguardo seriamente preoccupato che mi fece placare. Mi lasciai cadere sulla sedia, di fronte a lui, sussurrando: «Emy è scomparsa!» Dal momento che non perdevo di vista, mi accorsi immediatamente che era allibito sensibilmente. «Che diavolo! Sei sicuro? È impossibile, l’avrei saputo!» Poi si bloccò imbarazzato. «Saputo? Vuoi dire che siamo stati tenuti sotto controllo?» Urlai arrabbiato, «ma che cosa sta succedendo?» «Oh, al diavolo! Certo che vi sto tenendo sotto controllo! Sei sempre un carabiniere, per Dio! Sai benissimo come vanno queste cose!» Il colonnello si stava alterando, ma io ero veramente spaventato e lui se ne accorse bene. «No, Marco, io non c’entro, credimi.» Era ritornato improvvisamente calmo. Rabbrividii, se non erano implicati i miei ex colleghi, voleva dire che c’era di mezzo… l’assassino. E questo mi sgomentava. «Raccontami tutto!» Avvertii la tensione della sua voce. «Dovevamo vederci ieri pomeriggio, verso le cinque, a casa Jimbutas. Emy doveva avermi preso un appuntamento con Carlotta, ma fu proprio quest’ultima che mi telefonò verso le quattro cercando la ragazza.» Medini non staccava gli occhi dai miei.

«Si stupì moltissimo di non essere stata chiamata da Emy, ma solo verso sera, non avendola ancora vista, incominciò a preoccuparsi seriamente. Mi richiamò e io la raggiunsi a casa sua, dove per tutta la notte abbiamo contattato chiunque potesse in qualche modo essere a conoscenza dei suoi spostamenti. Nulla!» Abbassai la voce. «Come presumo tu sappia, le Jimbutas sostengono di avere delle facoltà sensitive e secondo loro Emy sta correndo in questo momento un serissimo pericolo!» Il colonnello sollevò il telefono. Alcuni minuti dopo tutte le stazioni dei Carabinieri della Regione erano state allertate e informative urgenti erano state immediatamente inviate anche alle altre forze di polizia. «Marco…» Il colonnello aveva assunto un tono di voce che non gli avevo mai sentito usare. «Vorrei che tu conoscessi una persona…» Lo guardai esterrefatto. «Medini! Emy è scomparsa! Forse quel figlio di puttana l’ha presa e io dovrei perdere tempo per conoscere chi?» «Usciamo!» Il colonnello si era alzato dirigendosi con o deciso verso la porta. Mi sembrava tutto irreale, ma mi alzai a mia volta e lo seguii. Feci fatica a tenere il suo o e quando si fermò all’improvviso sulla riva di un canale nei pressi dell’Arsenale, quasi lo urtai malamente. Lo squadrai con fare duro, interrogativo, sentendo nuovamente la rabbia crescere dentro di me. Lui m’ignorò, fece un rapido gesto e un motoscafo piuttosto malmesso si accostò

silenzioso. Guardai stupito l’uomo al timone e mi ritrovai a osservare il sorriso da bambino di Nicolò. In borghese e con un berretto da baseball in testa non avevo riconosciuto immediatamente il brigadiere. Salimmo e Medini sparì all’interno della cabina che aveva le tendine perfettamente accostate. Io rimasi fuori e mi afferrai alla maniglia d’ottone fissata sulla plancia, mentre il carabiniere ripartiva veloce e silenzioso. Due minuti dopo entravamo in pieno bacino di San Marco e puntavamo decisi verso la Giudecca. La porta della cabina si aprì silenziosa e Nicolò mi fece un leggero cenno con la testa. Lo guardai ancora irritato, poi, scrollando le spalle m’infilai dentro. Il colonnello si era cambiato d’abito e al posto della divisa ostentava un leggero vestito di lino bianco. Mi fece un cenno e mi sedetti di fronte a lui. «Che cosa sai dell’Interpol?» Mi chiese distratto. «Quello che sanno tutti!» Risposi seccato. «Tra poco ne saprai qualcosa in più. Ti chiedo solo di essere molto discreto sulle cose di cui verrai a conoscenza, la vita di molte persone potrebbero dipendere dalla tua riservatezza.» Medini stava osservando, sorridendo, la mia perplessità.

Capitolo 42°

Emy aveva un feroce mal di testa e continui conati di vomito che minacciavano di soffocarla. Con i denti tentava inutilmente di tranciare lo stretto bavaglio che le teneva bloccata la mandibola, ma riusciva solo a spremere maggiormente lo straccio soffocante, impregnato dei suoi succhi gastrici. Aveva le mani e i piedi bloccati da lacci di plastica e una grossa cintura di cuoio le circondava la vita, bloccandola a un anello d’acciaio avvitato al pavimento duro e gelido. Era furibonda con se stessa. C’era cascata come una scema. Per arrivare più in fretta ai negozi delle Mercerie aveva tagliato per calli e callette poco frequentate e ando accanto a un piccolo ponte aveva notato un signore in difficoltà con l’ormeggio della sua barca. Era un bel signore, distinto, con un sorriso accattivante sul volto abbronzato. Nelle mani reggeva alcuni grossi pacchi e con il piede destro teneva bloccata, a pochi centimetri dalla riva, la cima d’ormeggio che evidentemente si era sciolta a causa del moto ondoso. Mi scusi signorina, sarebbe così gentile da afferrare la cima prima che cada in acqua, temo piegandomi di far cadere i pacchi… sono così fragili.» Istintivamente Emy si era chinata. Il tempo di afferrare la cima e rialzarsi che un dolore intenso alla testa l’aveva sopraffatta. Contemporaneamente una spinta decisa tra le scapole l’aveva fatta precipitare a

bordo dell’imbarcazione. Un istante dopo un grande telone puzzolente l’aveva ricoperta del tutto e il buio era piombato su di lei. Si era svegliata poi in quello che sembrava uno scantinato freddo e umido, saldamente legata al pavimento. Una luce accecante le fece serrare di colpo gli occhi, mentre una mano rude la afferrò per i capelli, facendole voltare di scatto la testa. Lentamente mise a fuoco il volto allegro del proprietario della barca, solo che i suoi occhi ora non sorridevano più, erano piuttosto un abisso insondabile di gelo e di pazzia. L’uomo slacciò la cintura che la bloccava al pavimento e sempre tenendola saldamente per i capelli la costrinse ad alzarsi. Obbligandola a saltellare sui piedi uniti la fece avvicinare a una grande croce di legno massiccio a forma di x, montata su uno strano marchingegno al centro della stanza. Strattonandola ancora rudemente le rimise la cintura attorno alla vita e la bloccò al centro della croce; poi estraendo un corto coltello dalla robusta lama seghettata e nerissima, si abbassò a tagliare il laccio che le serrava le caviglie. L’improvvisa ripresa della circolazione sanguigna la fece urlare dal dolore. L’uomo ridendo, le allargò con forza le gambe, bloccandole poi le caviglie con robusti legacci di cuoio. Emy prese a divincolarsi furiosa, ma un potente manrovescio le fece urtare la guancia contro il legno ruvido. «Vediamo di fare la brava?» Il tono era allegro, ma di un’allegria glaciale. L’uomo fece lo stesso lavoro con i polsi, poi si allontanò di qualche o per squadrare attento la figura della ragazza, legata a gambe e braccia spalancate, di

fronte a lui. Emy terrorizzata lo osservò sorridere soddisfatto, poi, mentre con il pollice accarezzava delicatamente la lama del coltello, lo vide riavvicinarsi. Con estrema cura l’uomo le tagliò i vestiti, facendo scivolare dolcemente la lama gelata tra la pelle e la stoffa, incurante dei lunghi brividi che la scuotevano incontrollabili. Quando fu completamente nuda, l’uomo le ò il palmo della mano su tutto il suo corpo, con calma, assaporando ogni curva e ogni rotondità. Avvicinò infine il suo viso a quello della ragazza, ma l’odore acido del bavaglio gli fece compiere una smorfia di disgusto. S’allontanò di scatto e con un colpo netto tagliò lo straccio, gettandolo poi con stizza in un angolo della stanza. Inaspettatamente scomparve dalla sua visuale, ma per ricomparire all’improvviso dopo pochi minuti, reggendo nelle mani un asciugamano bagnato. Con una gentilezza inaudita le pulì delicatamente la bocca e il collo, poi avvicinò le labbra alle sue. Appena Emy avvertì il contatto, morse con tutta la forza che aveva in corpo. L’uomo fece un balzo indietro, lo sguardo inferocito. «E così la gattina vuole fare la difficile!» Disse mentre tastava con la lingua il sangue che gli colava sul mento dal labbro lacerato. Si accostò a uno scaffale e scelse con cura uno strano oggetto metallico. Si avvicinò nuovamente alla ragazza e con la mano aperta la colpì sul viso, ripetutamente, con metodo. Poi con un movimento esperto gli agganciò alla testa il marchingegno.

Con gli occhi ancora pieni di lacrime e con le guance che bruciavano, Emy si rese conto che le aveva posizionato in bocca uno di quegli aggeggi che a volte i dentisti utilizzano per tenere aperte le bocche dei loro pazienti e vide le sue mani regolare, esperte, lunghe viti d’acciaio. Si ritrovò con la bocca completamente spalancata, bloccata in una posizione innaturale che la faceva respirare a fatica. L’uomo si allontanò nuovamente per ammirare il suo lavoro. «Perfetto!» Mormorò compiaciuto. Poi con un braccio fece un ampio gesto circolare e la ragazza incominciò a rendersi conto di dove si trovava. La stanza era ampia, senza finestre e dal soffitto pendevano catene e lunghe corde a cui erano agganciate carrucole dotate di robusti ganci. Grossi cavalletti ricoperti di pelle rossa erano disposti secondo qualche misteriosa logica per tutto il locale e su una parete era appeso in bella vista un assortimento allucinante di fruste e scudisci di tutte le forme. «Quella vacca di Esther si è divertita molto in questo luogo.» Ridacchiò l’uomo mentre apriva un armadietto ricolmo di falli dalle forme più inverosimili. Si voltò per un istante a scrutare la ragazza, poi ne scelse due di proporzioni enormi. «Non ti preoccupare, all’inizio anche lei ne era spaventata, poi…» Un sorriso malevolo gli increspava il volto, mentre andava a prendere un tavolino pieghevole che piazzò poi di fronte a Emy. Ci appoggiò sopra in bella evidenza i due falli, prima di allontanarsi per scegliere con cura alcuni frustini, che mise a loro volta ordinatamente sul ripiano del piccolo tavolo.

«Ora manca il meglio, aspettami, torno subito.» Emy era agghiacciata, mentre il cuore sembrava esploderle nel petto. Era cosciente di avere le capacità per poter comunicare telepaticamente con Carlotta o con qualsiasi altra donna del suo gruppo, ma il panico bloccava ogni suo tentativo e non riusciva a riprendere il controllo di se stessa. Inoltre, non avendo idea di dove si trovasse, non poteva inviare nessun indizio che potesse indicare alle sue amiche o a Marco il modo di rintracciarla. Il suo incubo ritornò reggendo tra le mani una piccola telecamera digitale e una valigetta metallica. Parlò senza guardarla. «Pensa che questo luogo meraviglioso l’ha ideato proprio Esther, io non sapevo neppure che si potesse arrivare a certi gradi di perfezione. Purtroppo per lei era solo un gioco e il dolore era controllato, troppo controllato; con te invece nulla ci vieta di sentirci liberi e di continuare a piacimento, vero?» Aprì la valigetta. All’interno, disposti ordinatamente, tutta una serie di strumenti chirurgici che brillarono immediatamente sotto la luce cruda della lampadina. Emy urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni e poi urlò ancora, disperatamente. Quando si accasciò sfinita, sorretta dai robusti lacci di cuoio, si accorse che l’uomo la stava tranquillamente riprendendo con la telecamera. «Penso che il caro capitano si divertirà molto a guardare queste scene.» Con attenzione avvitò poi la telecamera su un cavalletto, controllando con cura l’inquadratura. In primo piano il tavolino con il suo assortimento di “giochi”, poi la ragazza, la cui pelle perfetta risaltava vivida alla luce cruda della potente lampadina.

Soddisfatto, si avvicinò alla ragazza, sbloccò una leva posta vicino alla croce di legno e questa incominciò a ruotare su se stessa. Emy si ritrovò con la testa in giù e il sesso in alto, completamente offerto alla fantasia del suo carnefice. «Ora purtroppo ho da fare, ma tornerò presto e ci divertiremo molto, vedrai!» L’uomo le appoggiò un leggero bacio all’interno della coscia contratta e dopo pochi istanti Emy avverti distintamente il rumore di chiavistelli che bloccavano una porta. Pianse e la stranissima sensazione di sentire le lacrime cadere al contrario, scivolando dagli occhi alla fronte accentuò maggiormente il suo sfinimento.

«Assolutamente no! Agente! Mi deve credere, io non c’entro nulla con la cocaina!» Il tono dell’uomo era disperato. «Era lei che ne era ormai succube! Anzi, penso che sia venuta a vivere con me solo perché le offrivo possibilità economiche che le davano la certezza di potersi rifornire senza problemi.» I due poliziotti che ingombravano il suo soggiorno sembravano piuttosto perplessi. «Esther mi aveva giurato di aver smesso con quella roba.» L’uomo aveva i sudori freddi, mentre guardava con occhi pietosi gli agenti. Sapeva che nel pomeriggio avrebbe dovuto recarsi in questura per la storia della cocaina trovata nel bagaglio di Esther, avendo ricevuto il giorno prima una convocazione ufficiale a riguardo. Certamente però non si aspettava la visita a casa dei due poliziotti. Per fortuna che nello scantinato aveva già sistemato tutto, aveva appena chiuso

la porta blindata quand’era suonato il camlo. Da vecchio giocatore di poker azzardò un bluff: «Se volete, controllate pure, non ho bisogno di vedere un mandato di perquisizione.» I due agenti si guardarono. Il loro compito era quello di andare a prelevarlo e di dare nel frattempo un’occhiata alla situazione, ma non avevano certamente un mandato. Di sicuro una sbirciatina l’avrebbero data volentieri ed erano anche certi che qualcosa avrebbero trovato, ma qualunque avvocato avrebbe potuto in seguito creare problemi seri. «Non importa» disse infine uno dei due, «ci segua comunque in questura, ci sono dei documenti che deve firmare.» L’uomo si mise con calma la giacca e afferrò le chiavi di casa con noncuranza. «Va bene, purché sia una cosa breve!» Chiudendo la porta alle sue spalle non poté evitare di guardare le scale che conducevano al seminterrato, dove il suo divertimento era solo ritardato. Salendo in macchina, con un sorriso beffardo pensò alla ragazza legata a testa in giù, sicuramente l’avrebbe trovata molto più accondiscendente al suo ritorno.

Capitolo 43°

Il colonnello si era chiuso in un mutismo assoluto, completamente assorto in pensieri apparentemente insondabili. Avvertii un mutamento nei giri del motore e Medini parve risvegliarsi da un lungo torpore. «Siamo arrivati.» Sussurrò. Uscii dalla cabina e rimasi di stucco. Sulla fondamenta, un massiccio uomo di colore aveva afferrato con naturalezza la cima che Nicolò doveva avergli lanciato un secondo prima, poi si inginocchiò e con abilità realizzò un complicato nodo attorno a un anello di ferro infisso nella pietra. Alle sue spalle il portone di casa Jimbutas. «Ti presento William Christopher Thorpe, ed è un poliziotto!» Ruggì Medini alle mie spalle. «Chiamami pure William… lo fanno tutti.» Una mano enorme era tesa verso di me. La afferrai e mi sentii letteralmente sollevare sulla banchina. Medini scambiò alcune parole all’orecchio di Nicolò, poi ci raggiunse e puntammo decisi verso il camlo di casa Jimbutas. Non aveva fatto in tempo a tirare l’anello di ottone che il portone si aprì con uno scatto secco.

Entrammo. La vista dello splendido giardino ci colse di sorpresa, io effettivamente l’avevo già intravisto la notte precedente, ma ero talmente preoccupato per Emy che non mi ero neppure guardato attorno. Fu il pozzo a strappare a William un’autentica esclamazione di stupore e il poliziotto era ancora intento a guardarci dentro quando Lilith comparve sulla porta di casa. «Sbrigatevi a entrare, non c’è tempo da perdere!» Entrai con o deciso, ma mi bloccai dopo poche decine di metri, interdetto. I grandi divani neri erano stati spostati contro le pareti e al centro della stanza, seduta a gambe incrociate sul basso tavolino di pietra c’era Carlotta, completamente nuda. Attorno a lei notai, per la prima volta, un grande cerchio realizzato nel lucido pavimento di marmo, con una stella a cinque punte incastonata al suo interno. Decine di candele erano state poste sulla sua circonferenza e costituivano l’unica luce presente nella stanza. Guardai Medini allibito, ma al posto di scorgere il suo solito sorriso sarcastico, vidi invece sul suo volto un’intensa curiosità completamente priva d’ironia. Anche William sembrava letteralmente rapito dall’atmosfera che ci circondava e non staccava gli occhi da Carlotta, anche se ero certo che non si era perso un solo dettaglio di tutta la stanza. «È così da più di un’ora! Sono molto preoccupata!» Sussurrò Lilith. Tornai a osservare Carlotta. Aveva la classica posizione che si usa in una meditazione Yoga: Le gambe incrociate, le mani appoggiate sulle ginocchia con il pollice e il medio

che si toccavano leggermente, gli occhi chiusi. Poi mi accorsi della realtà e guardai sbigottito il colonnello, che mi rimandò uno sguardo concentrato, annuendo leggermente. Riportai gli occhi sulla donna, incredulo. Carlotta era di almeno dieci centimetri sollevata dalla superficie del tavolino, in perfetta levitazione. Cercai Williams con lo sguardo e vidi che quello strano poliziotto si era seduto di fronte a Carlotta nella stessa identica posizione, appena al di fuori del cerchio formato dalle candele, anche lui con gli occhi chiusi. Rimanemmo tutti immobili per parecchi minuti. Poi Carlotta aprì gli occhi e lentamente il suo corpo scese ad appoggiarsi sul basso tavolino. Quando si alzò da quella specie di altare barcollando leggermente, Medini si avvicinò per sorreggerla premuroso, mentre Lilith le infilava amorevolmente una leggera vestaglia di seta bianca. «È in un pericolo immenso, ma non riesco a capire in che luogo si trovi e lei è troppo terrorizzata perché possa esserci d’aiuto.» La sua voce era solo un debole sussurro, mentre incominciava a tremare vistosamente. «È in una specie di camera di tortura» continuò William, «ho intravisto catene e fruste, ma era troppo confuso e poi le immagini sembravano capovolte…» Lo guardai sbigottito. «Sono riuscito a mettermi in contatto per un breve istante con la mente di Carlotta, ma mi ha solo ato le immagini che riceveva.» Thorpe sembrava volersi scusare per la scarsità d’informazioni che aveva fornito.

«Ancora torture, ma quando ci lasceranno in pace noi donne?» Lilith era tornata tenendo in mano una tisana fumante e stava cercando di farla bere alla sorella. Emy prigioniera in una camera di tortura? In mano a un sadico maniaco che aveva già massacrato tre donne? Il mio cervello si rifiutava di accettare simili idee e ogni fibra del mio corpo si ribellava al solo pensiero. «Per l’amor di Dio!» Urlai, «qualcuno vuol dire anche a me cosa sta succedendo?» Ci guardammo tutti a vicenda diffidenti e mi resi conto che nessuno sapeva esattamente tutta la verità. Per un istante ebbi la netta consapevolezza che Emy fosse spacciata, e la sola idea del suo corpo inerme tra le mani di quel sadico mi fece impazzire. Incominciai a prendere a calci prima le candele che avevo attorno e poi tutto quello che mi capitava a tiro, poi mi trovai improvvisamente di fronte a William, o meglio, l’enorme pugno nero di William si trovò di fronte al mio mento. Ripresi i sensi disteso su uno dei grandi divani, il volto preoccupato di Lilith a pochi centimetri dal mio naso. «Per fortuna che sei robusto, giovanotto! Pensavo che ti avesse staccato la testa dal collo!» Si girò poi a lanciare uno sguardo di fuoco al poliziotto che mi venne vicino, gli occhi nerissimi in cui non sembrava albergare alcuna espressione. «Tutto ok?» La sua voce era pacata mentre allungava verso di me la mano aperta. La strinsi forte. Mentre mi rimettevo a sedere la stanza vorticò in modo preoccupante, ma ritornò

quasi subito al suo posto. «Scusate, mi sono saltati i nervi.» Odiavo dovermi giustificare. «Ne hai tutti i motivi, Marco, non ti preoccupare.» La voce di Medini era amichevole e senza nessuna sfumatura canzonatoria. «Anzi, siamo noi che dobbiamo delle scuse, sia a te che alle sorelle Jimbutas.» Guardò negli occhi Williams. «Il tempo è pochissimo, ma dobbiamo chiarire prima alcune cose, se vogliamo salvare quella povera ragazza; quindi ascoltatemi senza interrompere, poi ognuno potrà trarre le sue personali conclusioni.» Aveva ottenuto la nostra completa attenzione. «Cercherò di essere sintetico: tutto è cominciato con la scoperta fatta da Edwin P. Hubble nel 1929 sul fatto che l’universo è in continua espansione. Dalle prime osservazioni del moto delle galassie e dai dati sulle curve di rotazione delle stesse che, dal 1970, hanno polarizzato l’attenzione degli astronomi, si ha oggi la certezza che il contenuto del nostro universo sia costituito per quasi il 90 per cento da materia invisibile, la celebre “materia oscura”, che rivela la sua presenza solo mediante effetti gravitazionali. Le osservazioni astronomiche mostrano quindi la presenza di un’entità indecifrabile che accompagna e inviluppa la materia luminosa di un alone la cui natura e origine sono tuttora fra i problemi irrisolti della cosmologia moderna.» Lo ascoltavo perplesso, non riuscendo a capire cosa c’entrasse quel discorso con il nostro problema. «L’idea che esistano universi paralleli, di origine e natura differenti, cui si possa accedere o che influenzino il nostro, tramite connessioni permesse dalla fisica, sembrò possibile ad alcuni scienziati e con il tempo si radicò nell’immaginario scientifico quanto più il panorama del mondo fisico, dal macrocosmo all’infinitamente piccolo, appariva sempre più complesso. Questa idea è resa plausibile in modo scientifico, se vogliamo, dalle equazioni di Einstein. La

caratteristica più innovativa della teoria di Einstein è di ammettere soluzioni corrispondenti a geometrie non elementari, come quelle che descrivono lo spazio dotato di cunicoli, detti in inglese wormhole, cioè di strutture a geometria non semplicemente connessa che formano ponti fra regioni diverse dello stesso universo o fra universi distinti.» «In parole povere» lo interruppe William seccato, «esistono dei aggi tra universi paralleli o nello stesso universo.» Il colonnello lo fulminò con lo sguardo, ma il poliziotto senza badargli continuò: «Non abbiamo tempo per la fisica, Medini! iamo ai fatti!» L’ufficiale dei Carabinieri sospirò. «Nel 1943 nel porto di Filadelfia fu portato a termine un esperimento bellico top-secret. Un giorno di ottobre, secondo la testimonianza di alcune persone affidabili, la nave militare Eldrige D. E. 173 scomparve per alcuni secondi dal porto di Filadelfia, in un sibilo assordante e in una nube verdastra, per poi ricomparire qualche secondo più tardi nello stesso punto, come se niente fosse accaduto. Contemporaneamente alla sparizione della nave, si verificò nel porto di Norfolk, a un centinaio di chilometri di distanza, l’improvvisa apparizione della stessa. Fu vista attraccata al molo ma dopo pochi istanti sparì. Nessun esponente del governo o della marina commentò l’accaduto e nemmeno i mass media ne fecero parola. Quanto successe quel giorno fu il risultato di un esperimento, condotto dal governo americano, sull’invisibilità delle navi da guerra. Nella nave, sotto la direzione dell’allora consigliere della marina degli Stati Uniti Albert Einstein, vennero collocate alcune potentissime elettrocalamite di circa 380 tonnellate ciascuna. C’erano stati altri esperimenti prima di quello, ma le calamite non avevano mai raggiunto una simile potenza. Si voleva solo ottenere l’invisibilità dai radar, ma quel giorno non solo si ottenne l’invisibilità, ma anche lo spostamento in una diversa dimensione spazio-temporale, sorprendendo gli stessi scienziati addetti all’esperimento. E con la nave viaggiò anche tutto l’equipaggio, costretto poi a mantenere il segreto dal governo. L’esperimento di Filadelfia ci ha dimostrato che l’azione congiunta dell’energia elettromagnetica, nucleare e gravitazionale è capace di creare varchi dimensionali e spazio-temporali. Tutto fu messo a tacere, le implicazioni politico-militari erano enormi, addirittura troppo grandi per un solo paese.»

A parte Thorpe che continuava a spostare in continuazione il suo notevole peso da un piede all’altro, nessuno nella stanza muoveva un muscolo. «La preoccupazione che qualcuno potesse, in segreto, continuare simili esperimenti era altissima.» Riprese Medini dopo aver controllato con lo sguardo se avevamo seguito il suo discorso. «E quindi, quando nel 1946 il Belgio condusse la ricostruzione del vecchio IC, la Commissione Criminale Internazionale della Polizia, smantellata a causa della guerra, gettando di fatto le basi della moderna Interpol, venne creata una sezione riservata, con il compito di monitorare costantemente ogni fatto inspiegabile o misterioso che potesse in qualche modo essere ricollegato agli esperimenti di Einstein.» Per me non era una novità, l’Arma dei Carabinieri partecipava da tempo alla cooperazione internazionale di polizia distaccando propri ufficiali presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale e anche io avevo personalmente collaborato con varie strutture straniere dell’Interpol per casi inerenti a furti di opere d’arte. Sapevo anche dell’esistenza di un nebuloso ufficio che si occupava di fenomeni anomali e inspiegabili, ma quando il discorso cadeva sulle sue attività, si era finito sempre per fare battute sulle cose strampalate di cui si occupavano e sulle eccentricità dei suoi membri. Inoltre avevo sempre avuto il dubbio che fosse una sezione fasulla, creata per spillare soldi dai fondi internazionali o per “parcheggiare” agenti scomodi o incapaci. «Per semplificare le cose» sbottò Thorpe, «a mano a mano che gli studi sugli universi paralleli procedevano e sempre più scienziati formulavano teorie e tentavano esperimenti, ci si è anche resi conto che esistevano nel mondo singoli individui o addirittura piccoli gruppi iniziatici, che sostenevano di muoversi autonomamente nel tempo e tra i mondi senza l’ausilio di qualsivoglia tecnologia. Nella quasi totalità si sono rivelati imbroglioni o millantatori spudorati, ma ci sono stati casi più interessanti.» Si fermò per lanciare un lungo sguardo penetrante a entrambe le sorelle

Jimbutas, che rimasero perfettamente indifferenti. Poi riprese: «Se questo da un lato permetteva di dare spiegazioni razionali a veri enigmi storici come Nostradamus o Giordano Bruno, dall’altro creava ancora più misteri sull’universo e sulle sue regole. Per questo, all’interno della sezione di cui parlava Medini, agisce un gruppo selezionato che fa a capo al mio ufficio! È costituito da agenti che hanno attitudini o doni paranormali, come nel mio caso o serie preparazioni professionali, come nel caso del colonnello Medini. E il nostro compito è proprio quello di monitorare chi si è dimostrato realmente speciale.» William si alzò, leggermente titubante: «Per questo tenevamo sotto osservazione il gruppo di cui fanno parte le sorelle Jimbutas.» Per quanto conoscevo della vita personale del colonnello Medini, sapevo che veniva da una famiglia di militari e che aveva intrapreso la carriera nei Carabinieri solo per le insistenze del padre, un Generale di Brigata ormai in pensione da tantissimi anni. Sapevo anche che era uno dei pochi ufficiali in servizio a possedere sia una laurea in Fisica Nucleare che un’altra in Matematica Specialistica conseguita all’Università di Napoli, ma era anche assolutamente l’ultima persona che avrei mai pensato potesse collaborare con una simile sezione. Thorpe invece ce lo vedevo benissimo! Lanciai una breve occhiata a Lilith, che sbuffava vistosamente. «Quando Medini vide i loro nomi collegati all’inchiesta su Vanessa della Vigna» continuò il poliziotto, «mi contattò immediatamente e mettemmo degli uomini a controllarle discretamente.» Guardai indeciso Carlotta, ma la donna fissava immobile un punto imprecisato della parete che aveva di fronte. «Ci sarebbero dei particolari… strani, sulla vicenda di Michele» incominciai incerto, «e forse è il caso di parlarne.»

Ottenni immediatamente l’incondizionata attenzione dei due ufficiali. Parlai per quasi un’ora, raccontando di come ero venuto a conoscenza di quella storia pazzesca, del memoriale che mi aveva lasciato il mio amico, del viaggio che sosteneva di aver fatto in altri universi e dei dettagli che conosceva sull’omicidio di Vanessa. Quando affrontai l’argomento demoni, mi sentii piuttosto stupido, ma con mia sorpresa né Thorpe, né tanto meno Medini, diedero segni di incredulità o di scetticismo. Quando terminai, confermando gli strani poteri di telepatia di cui sembravano dotate sia le sorelle Jimbutas che Emy, mi sentivo estremamente imbarazzato. I due militari si fissavano silenziosamente negli occhi e un muto dialogo sembrava assorbire tutta la loro attenzione. «Emy è in pericolo!» Ricordò a tutti Carlotta. «Mi spiace!» Sbottò iroso Medini, «ma non abbiamo proprio idea di dove possa essere! Non possediamo il minimo appiglio da cui iniziare una ricerca seria e in realtà stiamo andando a casaccio! Se non arrivano nuovi sviluppi dalle indagini in corso non sappiamo assolutamente come muoverci!» Evitai di rispondergli male, intuivo benissimo che la sua irritazione era rivolta più a se stesso che verso di noi. La disperazione era ormai più forte del mio raziocinio, perché senza pensare mi trovai a dire: «Le Jimbutas sono convinte che io possa andare nell’universo in cui era finito Michele, alla ricerca di eventuali indizi che potrebbero consentirci di scoprire l’assassino che uccide qui, in questa realtà!» Nel momento stesso in cui terminai la frase, mi resi conto dell’assurdità di quello che avevo appena espresso. Nel lungo silenzio che ne seguì, ebbi tutto il tempo per sentirmi completamente

deficiente. «È troppo pericoloso!» Sentenziò Thorpe serissimo. «Si può fare!» Ribatté seccata Lilith. «No! Non si può fare!» Tagliò corto Medini, sempre più irritato. «I rischi sono pazzeschi e non abbiamo nessuna certezza che possa veramente raccogliere informazioni.» Ero allibito! «Pensate veramente che sia possibile?» Riuscii a sussurrare. I due ufficiali si guardarono un istante. «Il problema è quello dei paradossi» disse sottovoce William scrollando le spalle, «se commetti un errore, rischiamo grosso.» Pausa. «Mettiamo il caso che l’assassino ti scopra, potresti trovarti nella situazione di doverti difendere. Se vieni ucciso non potrai certamente tornare indietro per dirci di chi si tratta, se invece sei tu che uccidi lui, non sapendo le ripercussioni che la mancanza di quell’individuo potrebbero avere sul futuro, si creerebbe la seria possibilità che gli universi si dividano. In questo caso rischieresti di ritornare in un universo che non è più il tuo, mentre nell’altro Emy continuerebbe comunque a correre il rischio di essere uccisa.» Mi guardò intensamente negli occhi: «Ci sono già ato e non è piacevole!»

Un lungo silenzio piombò soffocante nella stanza. «Prendetemi per scemo ma non ho capito nulla! L’unica cosa che comprendo è che Emy è in mano a un sadico omicida, mentre noi stiamo qui a blaterare di assurde fantasticherie!» «Assurde mica tanto!» William Thorpe mi fissava ironico. «Non hai idea di come tantissimi scienziati prendano sul serio la questione e quanti soldi vengano profusi in continui esperimenti!» Mi si avvicinò fino ad arrivare ad appoggiarmi una mano sulla spalla. «Ti capisco più di quanto tu creda, io…» Ma poi i suoi lineamenti s’indurirono e ritrasse la mano, cacciandosela con forza in una tasca dei pantaloni. «Come dicevo prima, il problema riguarda uno dei principali paradossi sui viaggi nel tempo: cosa succederebbe se uno tornasse indietro nel tempo a uccidere un suo antenato? Sparirebbe nel suo presente?» Tornò a incrociare i miei occhi. «Una possibile risposta viene dalla teoria quantistica.» S’intromise nuovamente Medini. «Secondo la quale ogni volta che un oggetto come un elettrone è di fronte a una scelta, l’universo si divide per permettergli di accettare ognuna delle varie possibilità offerte. Nell’esempio più semplice: l’elettrone che potrebbe trovarsi di fronte a una parete con due buchi. In questo caso l’universo si divide in modo che una delle versioni attraversa il buco di sinistra, mentre l’altra attraversa il buco di destra. Nel paradosso dell’antenato, uccidendolo si crea una biforcazione nella storia e l’universo si scinde. In uno l’antenato è morto e non esisterà neppure la sua progenie, nell’altro continua a vivere. Se l’assassino decidesse di ritornare avanti nel tempo, finirebbe nell’ universo parallelo, dove il suo antenato è vivo e vegeto, cosicché l’assassino potrà nascere e tornare indietro, se anche

questa volta vorrà, a commettere l’omicidio.» «È questo il rischio che correresti, Marco!» Medini aveva perso completamente il tono professionale e mi guardava con quello che poteva sembrare vero affetto. «Se modifichi significativamente quel presente, rischi di non tornare più qui, potresti finiresti in chissà quale universo parallelo e in ogni caso per Emy non esisterebbero speranze.» Ero letteralmente annichilito. «Ti avevo accennato» la voce dolce di Carlotta risuonò limpida e sicura,«del fatto che esistono fili invisibili che in qualche modo continuano a legare i vari universi? Io non so nulla di macchine fantascientifiche e di universi che si scindono, ma da sempre ho viaggiato sia nel tempo che tra i mondi, fu una delle prime cose che ci insegnò a fare nostra madre. Io quei fili li conosco e penso che tu possa farcela. D’altronde, anche se questi due avessero ragione riguardo al nostro Tempo, tu andresti invece in un altro Universo, dove non potresti causare nessuno scompenso alla nostra realtà. E in quanto a farti tornare, ci pensiamo noi, ne puoi stare certo!» Poi si spostò vicino alla sorella per stringerle dolcemente la mano. Mi sembrava d’impazzire. Da un lato c’era un ufficiale dei carabinieri, con tanto di laurea in fisica, che mi metteva in guardia verso i viaggi nel tempo come se fossero la cosa più naturale del mondo; dall’altra una strega dichiarata, che pur di salvare un’altra strega sarebbe stata disposta a vedermi volatilizzare chissà dove. Fui tentato di mandare tutti al diavolo e di andare a sbronzarmi nel baccaro più nascosto della città, ma non potei muovermi. Non solo “l’altra strega” la conoscevo bene, ma era la mia donna e… l’amavo! Improvvisamente la stanza incominciò a ruotare e un dolore lancinante alla testa mi fece cadere in ginocchio.

La luce accecante che mi era esplosa dietro le pupille si attenuò gradualmente e a fatica incominciai a notare alcune forme indistinte, poi lentamente misi a fuoco una grossa striscia di cuoio che bloccava una caviglia minuta. Più in alto, qualcosa di lucido sembrava fluttuare nell’aria. Mi ci volle qualche secondo per percepire che si trattava di un grande specchio, ma fu solo quando riuscii a osservare meglio l’immagine che vi si rifletteva dentro che urlai. Avevo visto nitidamente il corpo di Emy, ma non era stata la sua nudità a sconvolgermi, era stato quello che avevo notato scintillare su un tavolo accanto alla sua testa. Mi alzai in piedi e afferrai Carlotta per le spalle. «Non c’è tempo, non c’è più tempo!» Urlai. «Mandami subito là, non importa il rischio, fallo subito!» Carlotta mi appoggiò il palmo della mano sulla fronte, dopo un secondo divenne più pallida della sua vestaglia e incominciò a tremare come una foglia. Doveva aver percepito anche lei quello che avevo visto io. Poi reagì, il colore gli tornò all’improvviso sulle guance e gli occhi presero a lanciare bagliori pericolosi. «Sdraiati sul tavolino, subito! Per la Grande Madre! Non perdere tempo!» Guardai disperato Williams, lui incrociò i miei occhi concentratissimo ed ebbi la sensazione di sentirlo entrare nel cervello, prima di vederlo diventare incredibilmente grigio in volto. «Bontà Divina!» Lo sentii sussurrare. Mi distesi sul mosaico del tavolo, la grande luna esattamente sotto le mie reni. «Ti ricordi il quadro di David, La morte di Marat?» La voce di Carlotta era calma, mentre mi appoggiava la mano sinistra sulla

fronte e la destra sul plesso solare. Annuii. «Concentrati sul quadro, non ho il tempo di mandarti nell’altro universo. Ti mando invece indietro nel nostro tempo! Da Vanessa!» Chiusi gli occhi e mi concentrai sulla cosa che più ricordavo di quel dipinto, il braccio nudo e abbandonato di Marat. Non successe nulla e sentii crescere l’angoscia, poi improvvisamente il tavolino sprofondò e caddi nel vuoto.

Capitolo 44°

La caduta sembrava non avere fine e l’immagine del braccio di Marat era l’unico punto di riferimento che tentavo disperatamente di mantenere vivo nella mia mente, poi tutto sembrò rallentare e nuovamente una saetta mi esplose nel cervello. Lentamente riacquistai il controllo dei miei sensi, ritrovandomi seduto per terra, con davanti agli occhi l’immagine bianca del braccio che continuava leggermente a vibrare. Mi accorsi che non facevo più fatica a concentrarmi, ora lo vedevo benissimo, bianco, morbido, la catenina d’oro al polso che luccicava debolmente. Balzai istintivamente indietro e picchiai dolorosamente la schiena contro qualcosa di duro. Recuperai a fatica il fiato e mi alzai barcollando, per ricadere dopo un istante, a sedere sgomento sul bordo di un bidet. Avevo di fronte a me una lucida vasca da bagno con dentro una donna immersa in un lago rosso, il braccio bianco abbandonato oltre il bordo, sul cui polso spiccava nitido un sottile braccialetto d’oro. Avevo visto solamente le fotografie dell’omicidio di Vanessa e trovarmi improvvisamente sulla scena del crimine, mi lasciava allibito. L’istinto professionale prese gradualmente il sopravvento. Il taglio alla gola non lasciava nessuna speranza, ma mi avvicinai ugualmente per tastarle l’arteria e ritrassi la mano di scatto. La pelle era ancora calda. Mi lanciai verso la porta come una furia e controllai tutte le camere, pronto a battermi, l’assassino poteva ancora essere lì!

Nessuno! Mi fermai ansante presso la finestra che dava sulla calle sottostante, ma i rari anti avevano tutti un comportamento insospettabile. Ritornai in bagno e cercai di richiamare alla mia mente la pratica di Vanessa. Da quello che ricordavo, il corpo era stato ritrovato dal portinaio un paio d’ore dopo la morte presunta della ragazza, quindi se era appena avvenuta, avevo circa un’ora abbondante per trovare eventuali indizi che potevano essere sfuggiti agli investigatori. Feci fatica a non toccare il corpo, l’istinto mi portava a ricoprirla, nel tentativo pietoso di impedirgli di diventare l’oggetto di quella macabra messinscena. Volevo evitargli di venire scrutato, fotografato, nuovamente violentato nella sua intimità anche dopo la morte, ma non potevo correre il rischio di modificare in alcun modo la scena del delitto. Avevo letto e riletto decine di volte il dossier e ricordavo benissimo ogni particolare, quindi mi concentrai su quello che non conoscevo. Ogni qual volta trovavo documenti o oggetti che comparivano nei rapporti dei carabinieri, li ignoravo sistematicamente, concentrando la mia attenzione su quello che notavo, ma che non era stato trascritto nel rapporto. Dopo un’ora non avevo ancora trovato nulla e riando per l’ennesima volta accanto alla piccola entrata mi accorsi che l’acqua della vasca incominciava a filtrare dal bagno. Non avrei avuto ancora molto tempo prima che raggiungesse la porta d’ingresso. Fui preso da un senso di frustrazione, tutto era partito da lì, ne ero certo. Vanessa doveva essere la chiave di quel mistero e io che oltretutto avevo l’incredibile opportunità di essere presente in tempo reale sulla scena del delitto, non riuscivo a trovare nulla di concreto. L’assassino, disponendo sicuramente di più tempo di quello che avevo io in quel momento e soprattutto grazie a un innegabile sangue freddo, aveva non solo

creato quel macabro teatrino, ma aveva evidentemente cancellato con cura ogni sua traccia. Tornai a osservare Vanessa. «Maledizione! Possibile che tu non possa dirmi nulla?» Sbottai. Gli occhi sbarrati della ragazza mi fissavano implacabili. Notai che non usciva quasi più sangue da quell’orrenda ferita, ormai si era riversato interamente nell’acqua e l’accappatoio verde di Michele ne era completamente impregnato. L’accappatoio di Michele? Se l’assassino aveva utilizzato l’accappatoio del mio amico per simulare il panno verde del quadro di David e lo ricordavo bene dai documenti presenti nel dossier, dov’era l’accappatoio di Vanessa? In bagno non c’era, ne ero sicuro. Adiacente alla stanza da letto c’era una vasta cabina armadio e aprii con cautela la grande porta scorrevole. Decine di vestiti erano appesi con cura quasi maniacale. Su un lato, perfettamente ordinate su una scarpiera di legno, un’infinità di calzature femminili di tutte le forme e colori, mentre sul lato opposto c’era un grande cesto di vimini. Lo aprii con ansia febbrile. Un accappatoio bianco era gettato sopra un mucchio di biancheria da stirare. Lo presi con cura e lo osservai attentamente, aveva un ante strappato e cosa più importante… mancava la cintura. Ricontrollai nella grande cesta e sotto alcune gonne stropicciate, arrotolata con cura, c’era una bianca cintura di stoffa. La esaminai con calma notando che al centro era stropicciata in modo innaturale.

Incominciai a farmi un’idea approssimativa di cosa era successo. L’assassino doveva essere riuscito in qualche modo a farsi aprire da Vanessa, forse facendosi are per il portinaio o per qualche altra persona conosciuta, altrimenti lei non avrebbe mai aperto con solo l’accappatoio addosso. Poi la colluttazione, dove lui doveva aver utilizzato il cordone dell’accappatoio per immobilizzarla e in quel frangente si doveva essere strappato il ante. Ricreando poi successivamente la scena del dipinto, aveva dovuto utilizzare l’accappatoio di Michele, per via del suo colore, nascondendo quello di Vanessa nel portabiancheria. Frugai con cura nelle tasche e in quella di destra trovai un pacchetto aperto di fazzolettini di carta. Lo stavo per riporre, quando notai infilato tra due di essi un pezzetto di carta ripiegato. Con il fiato sospeso andai nello studio e lo appoggiai sulla piccola scrivania, dove lo aprii delicatamente. A prima vista sembrava il foglio strappato di un piccolo taccuino. Sopra, alcune annotazioni scritte frettolosamente: - controllare l’apercredito ipotecario, sembra impossibile! - ricercare chi ha autorizzato il fido! - scadenza? - Aprire un file di sicurezza, meglio coprirsi le spalle! - Sw arovski Andai ad accendere il computer che avevo visto in salotto e i pochi istanti che questo impiegò ad aprire il sistema operativo mi sembrarono eterni. Lanciai un’ulteriore occhiata alla porta d’ingresso, constatando che l’acqua sul pavimento l’aveva quasi raggiunta, ancora pochi centimetri e sarebbe filtrata sul

pianerottolo. Quel computer l’avevo già visto nel mio ufficio, dove sarebbe stato poi portato tra qualche giorno, facendo parte delle prove che sarebbero state in seguito sequestrate e che era stato analizzato approfonditamente dai nostri esperti d’informatica. Solo che loro non sapevano cosa cercare, io invece avevo una traccia. Aprii esplora risorse e incominciai a leggere attentamente il nome di ogni cartella. Quasi mi sfuggì. Si trattava di una sottocartella denominata Sw, posta in una cartella più ampia definita genericamente “copie”. Quando provai ad aprirla, mi comparve inaspettatamente la richiesta di una . Digitai con un leggero brivido “Swarovski”, ma non successe nulla, imprecai e lanciando un ennesimo sguardo alla porta, verso cui l’acqua avanzava implacabile, riprovai con “arovski” La schermata cambiò all’improvviso e comparve una pagina Word. La scorsi con rapidità, poi diedi il comando di stampa. Silenziosamente dalla stampante laser posizionata accanto al monitor, uscirono un paio di fogli che misi velocemente in tasca, poi con cura ritornai a posizionare il foglietto dove l’avevo trovato. Facendo attenzione a cancellare eventuali mie impronte spensi il computer, con la voglia di fuggire il più lontano possibile da quel luogo, invece mi bloccai sulla soglia. L’acqua rossastra aveva incominciato a filtrare oltre la porta. Improvvisamente mi resi conto che se avessi tentato di uscire dallo stabile il portinaio mi avrebbe visto sicuramente are, ma nel medesimo tempo, non

potevo neppure correre il rischio che mi scoprissero in casa di Vanessa. Mi guardai preoccupato attorno, poi vidi la soluzione. A lato della porta, su un piccolo pannello di sughero alcuni bigliettini erano appiccicati con delle puntine colorate. Su uno di loro, con un pennarello rosso c’era scritto: “Custode”, seguito da un numero di telefono. Memorizzai il numero sul mio cellulare, poi mi spostai in salotto, accesi lo stereo e infilai nel cassettino il primo CD che trovai. Le note della Primavera di Vivaldi riempirono la stanza. Aprii con cautela la porta e facendo attenzione a non bagnarmi le scarpe, uscii, richiudendo silenziosamente alle mie spalle il grande battente blindato. Scesi con cautela le scale fino a intravedere, attraverso i vetri dell’atrio, il custode dentro la sua stanzetta. Incrociai le dita e feci il suo numero di telefono. Dopo un istante lo vidi voltarsi quasi completamente per rispondere dall’apparecchio posizionato su un tavolino lì vicino. Mi diede le spalle per pochi secondi, ma furono sufficienti per consentirmi di sgattaiolare fuori indisturbato, mentre continuavo imperterrito a lamentarmi al cellulare dell’altissima musica proveniente dall’appartamento accanto.

Capitolo 45°

Mi mescolai tra la folla che si muoveva indaffarata nel mercato di Rialto, finché trovai un tavolino libero in un “baccaro” stracolmo di gente rumorosa e mi sedetti sfinito. Mentre ordinavo ad alta voce un bicchiere di rosso, già avevo incominciato a leggere le prime righe dei fogli che avevo stampato.

Egregio avvocato A seguito del nostro colloquio telefonico le invio una breve nota inerente al problema a cui le avevo accennato: Prendere possesso del mio nuovo incarico ha comportato di analizzare ex-novo tutti i clienti, inclusi quelli affidati e verificare se esistevano e sussistono ancora, gli estremi per considerarli clienti affidabili. Mi sono trovata ad analizzare la pratica di un commerciante veneziano, cliente della filiale da oltre venti anni (tenga presente che questa filiale all’epoca era di un’altra banca e che fu in seguito assorbita). In questo caso la persona in questione era amico dell’ex direttore della filiale, che all’epoca autorizzò personalmente i fidi che devo oggi valutare. Il fido a suo tempo deliberato consisteva in un’apertura di un credito ipotecario accompagnato da uno scoperto di conto corrente, non deliberato, ma di fatto utilizzato. Il primo fido era di circa 150.000,00 euro. E lo scoperto, non autorizzato, ammontava a circa altri 100.000,00 euro. Analizzando l’apercredito ipotecario, mi sono trovata a leggere un contratto

mai visto in vita mia! Non prevedeva scadenza del fido, né rientri mensili o periodici di alcun tipo. Insomma una linea di fido a tempo indeterminato con rientro esclusivo degli interessi trimestrali, che erano addebitati in automatico dal sistema e nemmeno quelli erano stati coperti! Il contratto al contrario prevedeva dei limiti massimi d’interessi da poter applicare, irrisori o inesistenti se valutati alla luce del periodo di stipula e degli allora tassi vigenti, la banca non ci avrebbe coperto nemmeno il costo del denaro. Lo scoperto non autorizzato poi, implicava delle autorizzazioni che la filiale non poteva dare per autonomie specifiche e che organi superiori non avevano mai sottoscritto. Insomma un ramo secco esposto da tutte le parti e sotto ogni aspetto normativo/legale e finanziario. Inoltre, con stupore, ho rilevato che il cliente era in possesso di bancomat e carte di credito che generavano ulteriori scoperti con gli addebiti mensili, che lui copriva, a volte solo dopo svariate richieste, a distanza di anche di mesi! Ho fatto delle verifiche dei rischi in centrale ed è risultato che il cliente era pluriaffidato anche su altre banche ed esposto per importi che avrebbero fatto invidia ad aziende sane e floride. Ho convocato la settimana scorsa il cliente, che facendo lo sbruffone e pensando evidentemente che chiunque è “in vendita” o ricattabile, si è vantato delle sue amicizie in altissime sfere e che avrebbe parlato dei suoi affari, non con me comune impiegata (non alla sua altezza), ma direttamente con il mio superiore. Io sono stata ad ascoltare e alla fine gli ho fatto presente che il suo rapporto era una mia personale responsabilità lavorativa e penale, ma, se lo desiderava… poteva fare una richiesta scritta al “mio superiore” chiedendo di sostituire il suo responsabile diretto (in questo caso io) con un’altra persona. Anzi, ancora meglio, poteva chiedere di essere “gestito” ufficialmente,

direttamente dal mio superiore. Gli ho inoltre spiegato che nel mio lavoro esiste una cosa chiamata “parere dei minimis”, vale a dire che io, proponente, responsabile del suo rapporto do un parere sul merito creditizio e il mio superiore, deliberante, esprime il suo. Se i due pareri non coincidono in una delibera “positiva integrale”, prevale il parere più restrittivo, in quanto maggiormente cautelativo per la banca. L’incontro è finito in un’atmosfera alquanto fredda e pesante. Alcuni giorni dopo, ho chiesto tutta la documentazione di reddito della ditta e delle persone fisiche garanti. Inutile dire che ho ricevuto tantissime telefonate a titolo personale, che mi chiedevano di avere un maggior “riguardo” per il cliente, che era amico del capo da anni… e io concludevo sempre dicendo: “tanti clienti si vantano di avere delle amicizie in alto loco, sono certa che se fosse veramente un amico, mi avrebbe chiamato lui personalmente, d’altronde non c’è mica nulla da nascondere”. Ovviamente il mio superiore non si è mai esposto in prima persona! Ho anche avuto involontariamente delle informazioni da un poliziotto nostro cliente, che, incrociandolo mentre usciva dal mio ufficio, mi ha riferito che il personaggio in questione era indagato per strozzinaggio. Quindi, vista la situazione, nell’intenzione di tutelarmi professionalmente, ho mandato delle relazioni via e-mail ai miei superiori direttamente alla sede centrale, dove illustro le varie evoluzioni, conservando le ricevute di ricezione. Inoltre ieri, durante un altro colloquio con il cliente in questione, a un certo punto mi ha proposto un orologio molto prezioso, che gli avrei pagato con comodo quando potevo… Alla vista però della mia espressione sbalordita ha cambiato tono ed è ato alle minacce. Infuriata, mi sono purtroppo lasciata andare e gli ho detto irritata:

“Mio caro signore, io svolgo un lavoro per cui sono pagata. Il mio lavoro si svolge in base a regolamenti scritti e normative della Banca d’Italia, che io sto già violando non avendola messa immediatamente a sofferenza. Da domani seguirò alla lettera tutto ciò che è previsto e non la lascerò sgarrare nemmeno di ½ eurol, oltre ad assolvere ai miei doveri di anti-mafia e anti-riciclaggio ed a segnalarla alla guardia di finanza! Se non ci crede, guardi il monitor, e davanti ai suoi occhi ho aperto una schermata di servizio e gli ho bloccato carta di credito e bancomat per utilizzo irregolare (informazione che va a tutte le banche e nessuno se non sotto la propria personale responsabilità ne avrebbe potuta concedere un’altra). Dopodiché, sono entrata nelle notizie personali sul cliente – con obbligo di consultazione da parte di chiunque chiedesse accesso al cliente – scrivendo: “cliente non affidabile né dal punto di vista creditizio, né per gli impegni assunti con il gestore. Disattesa ogni forma di accordo amministrativo / finanziario. Al primo mancato rispetto di qualsiasi altro accordo dalla data odierna, si rimetterà la pratica all’ufficio legale per le procedure coattive di recupero di rito”. Ho fatto un largo sorriso al cliente e ho aggiunto: “Adesso se mi minaccia solo un’altra volta o tenta nuovamente di corrompermi attivo in modo irreversibile la sua scheda e poi la denuncio e… lei sa che lo faccio, vero?!”. Questo in breve è il resoconto di quello che è successo, mi riservo di darle ulteriori ragguagli nel momento in cui ritenessi che la questione ha preso una piega negativa per la mia carriera professionale o per la mia vita privata. Dott.ssa Vanessa della Vigna

Finalmente sapevo perché Vanessa era stata uccisa e perché c’erano state così tante pressioni perché si chiudesse il caso. Il problema era quello di scoprire l’identità del cliente. E in fretta!

Capitolo 46°

Pagai il vino e mi rituffai nella confusione di Rialto. Per il momento non correvo grossi rischi, l’altro mio io in quel momento era a Roma e sarebbe stato contattato solo il giorno dopo, quindi potevo ancora muovermi abbastanza liberamente. Comunque dovevo stare attento a non farmi vedere né da Michele, né da altre persone che potevano riconoscermi. Ero tormentato dalla sensazione frustrante di sentirmi completamente inutile e la paura bloccava ogni mia iniziativa. Incominciavo a rendermi conto che dopo la mia angosciante visione di Emy prigioniera, che aveva spinto Carlotta a farmi compiere quel viaggio non tra universi paralleli, come avevamo ipoteticamente concordato precedentemente, ma nel nostro universo, mi trovavo esposto ai tremendi rischi a cui avevano accennato Medini e Thorpe! Il mio cervello era in subbuglio. Non avevo capito nulla di quello che mi avevano spiegato sui viaggi temporali e sui pericoli che si correvano, ma se sui paradisi avevano ragione, ero in un bel guaio. Mi fermai a riprendere fiato di fronte alla vetrina di un variopinto negozio di maschere. Alcuni turisti mi urtarono leggermente, ignari dell’angoscia che avevo dentro, completamente conquistati dall’atmosfera caotica del mercato. Osservai il mio riflesso sul grande vetro che avevo di fronte. Il mio volto sembrava incastrato tra la maschera di un buffo giullare e quella molto più inquietante di una bautta cadaverica.

Mi sentii crollare e la sensazione di essere una marionetta nelle mani di un burattinaio pazzo mi riempì lo stomaco. Io non ero nessuno, non avevo l’istruzione di Medini e non possedevo doni paranormali come le sorelle Jimbutas. E a parte una nonna che ava per strega, non sapevo assolutamente nulla di veramente concreto sul mondo occulto e sulla magia. Le conoscenze professionali che avevo acquisito in materia mi sembravano ridicole a confronto di quello che mi stava accadendo. Eppure ero innegabilmente nel mio ato! Avevo visto il cadavere di Vanessa con i miei occhi e avevo frugato nella sua casa e i giornali esposti nell’edicola accanto sembravano beffarsi della mia salute mentale, con la loro data assurda stampata fresca sulla testata. Dovevo riacquistare il controllo di me stesso! Ripresi a camminare, tentando di concentrarmi sul mio compito. Con quello che sapevo era probabile che da un attento esame dei documenti nell’ufficio di Vanessa, alla Cassa di Risparmio di Venezia, si potesse risalire al misterioso cliente, ma non sapevo proprio come poterlo fare. Scartai l’idea di inviare una lettera anonima ai miei ex-colleghi, dal momento che la confusione che avevo in testa riguardo ai paradossi temporali mi terrorizzava. Facendo arrestare l’assassino, Michele si sarebbe salvato, ma se la teoria di Medini e di William era esatta e l’universo si fosse scisso in due, in uno Michele viveva ed Emy non avrebbe corso nessun pericolo, nell’altro sarebbero morti tutti e due. E io poi, dove sarei ritornato? Nel mondo dove le persone che amavo di più erano vive o in quello dove morivano?

In ogni caso, anche se fossi ritornato da Emy, avrei sempre avuto il sospetto e il dubbio di averla condannata, nell’altro universo, a morire realmente in un modo atroce. Avevo il cervello che mi scoppiava. Potevo abbandonare Michele per salvare Emy? Giunsi alla conclusione che dovevo cavarmela da solo! Non potevo correre il rischio di coinvolgere in modo significativo altre persone, alterando avvenimenti già accaduti. Nel frattempo ero arrivato alla stazione di Santa Lucia e più di una persona, incrociandomi, rimaneva perplessa nel vedere i miei occhi pieni di lacrime. Mi fermai pensieroso ai piedi della gradinata che portava all’ampio atrio della stazione. Avevo bisogno di un nascondiglio, un posto dove pensare tranquillamente, senza l’angoscia di essere riconosciuto da qualcuno. Optai per una località prevalentemente turistica, dove nessuno potesse far caso a un volto nuovo, magari fuori dalla provincia di Venezia, ma nel medesimo tempo facilmente raggiungibile. Presi il primo treno per Milano e scesi circa un’ora dopo alla piccola stazione di Desenzano sul Garda. Presi un taxi e mi feci portare in centro, dove vagabondai per il resto del pomeriggio mescolandomi ai turisti e facendo shopping. Verso sera ero di fronte a un piccolo albergo con in mano un borsone elegante contenente biancheria, jeans e camicie nuove di zecca. Entrai, chiesi una camera con vista e dopo neppure dieci minuti ero comodamente sdraiato su una poltrona ad ammirare il tramonto che si rifletteva sulle onde del lago, leggermente increspate dalla brezza della sera. Mi addormentai pensando con ironia alla faccia che avrebbe fatto l’altro mio

“Io”, se avesse controllato i movimenti della sua carta di credito. Rimasi in albergo per due lunghi giorni, uscendo solo per brevi eggiate sulla riva del lago e per recarmi a mangiare in qualche ristorante della zona, facendo particolare attenzione a non frequentare mai due volte lo stesso posto. Mi ero arrovellato inutilmente il cervello cercando possibili soluzioni, ma nulla era sufficientemente privo di rischi o garantiva un adeguato margine di successo. Mi ero spaccato il cervello per cercare di ricordare se tra i documenti presenti nel dossier su Vanessa ci fosse qualche traccia di quella particolare pratica, ma non ricordavo nulla e questo voleva dire che non era stata acquisita. La frase “non era stata acquisita” continuava a vorticare nel mio cervello, poi inaspettatamente, senza un vero motivo seppi cosa dovevo fare. Ripresi il treno per Venezia e quando giunsi sul Ponte della Libertà, mi ritornò in mente quando l’avevo attraversato a cavalcioni della moto, con Emy stretta contro la schiena. L’avrei salvata, con un nodo alla gola lo giurai a me stesso! Calcolai i tempi alla perfezione e alle undici in punto ero appostato dietro la statua di Daniele Manin, con davanti il grande leone alato di bronzo che mi nascondeva dalla facciata della Cassa di Risparmio. Con un brivido mi vidi uscire dal grande ingresso. Benedissi la mia allergia psicologica alle divise che mi portava a indossarle il meno possibile e rimasi a osservare la mia schiena, mentre in jeans e camicia bianca accompagnavo il brigadiere che avevo a fianco, inappuntabile invece nella sua stiratissima divisa estiva, a prendere un caffè nel vicino campo S. Luca. Attesi cinque minuti, poi con disinvoltura entrai in banca. Voltai a destra e salii le scale con o sicuro. Mi affacciai alla porta di un ufficio e con tono dispiaciuto ma autoritario mi rivolsi all’uomo che avevo di fronte:

«Mi scusi signor direttore, ho il dubbio di non aver salvato correttamente alcuni file prelevati dal computer della Signorina Della Vigna. Non potrebbe essere così gentile da lasciarmi accedere nuovamente ai file originali? È questione di pochi minuti, altrimenti, se il mio sospetto dovesse corrispondere al vero, sarei obbligato a tornare domani». «Vicedirettore! Sono il vicedirettore.» L’uomo mi guardava stupito. Sapevo benissimo che la camicia che portavo non era identica a quella che indossava il mio io alcuni minuti prima, ma anche questa era chiara. Identica non l’avevo trovata. Sorrisi, mentre nella mano sventolavo un CD nella sua custodia trasparente. L’uomo si riprese subito. «Ma sì, certamente!» Però si guardò preoccupato attorno, cercando palesemente aiuto. «Non si preoccupi, ricordo benissimo l’ufficio, posso andare da solo!» Lo salutai con un grazie e sentendo i suoi occhi puntati sulla schiena mi diressi determinato verso l’ufficio di Vanessa. Dentro non c’era nessuno. Accesi il computer ed estrassi dalla tasca una Memory Stick che inserii immediatamente nella presa USB. Saltai le cartelle che ricordavo di aver già consultato, fino a trovarne una, anche in quel computer, contrassegnata dalla sigla Sw. La aprii immediatamente e comparve la solita richiesta della .

Avevo trovato! Entrai senza fatica e rimasi di stucco; non solo conteneva la pratica integrale, ma anche le copie delle e-mail inviate alla sede centrale e le relative ricevute di lettura. Trasferii immediatamente i file sulla memoria della chiavetta USB. Alcuni secondi dopo il vicedirettore piombò nell’ufficio, accompagnato dal suo superiore scuro in viso. «Capitano!» Il tono del direttore era serio. «Come le avevo già fatto presente prima, per la tutela della privacy dei nostri clienti non può portare fuori nulla che non sia stato prima visionato personalmente da un incaricato della banca.» «Ha perfettamente ragione!» Cercai di avere il tono più convincente possibile mentre mi spostavo di lato per permettergli una completa visuale del monitor. «Ma come può vedere sto solo richiamando l’elenco delle pratiche che abbiamo già concordato in precedenza.» Lo guardai serio. «Ho il dubbio di aver sbagliato a masterizzare i file, sa, non sono propriamente un esperto.» Il direttore sospirò contrariato e scrutò il monitor. Se fosse entrato solo un istante prima avrebbe visto chiudersi il programma di gestione risorse e forse si sarebbe chiesto cosa facevo con una mano strettamente chiusa a pugno. Ma ora sullo schermo si vedeva solo la schermata di apertura di Windows. Mentre mi alzavo, infilai con noncuranza il pugno in tasca e vi depositai con

delicatezza la chiavetta, mentre con l’altra mano porgevo contemporaneamente il CD al vicedirettore. Lui lo prese con un senso di fastidio, poi si sedette al computer, inserì il disco e controllò quello che conteneva. Quando risultò completamente vuoto, lanciò prima un’occhiata di sollievo al suo superiore, poi richiamò sullo schermo i file che aveva selezionato assieme al mio “Io”, nella mattinata e li masterizzò nuovamente con cura. Estratto il disco lo mise nella sua custodia e, dopo aver spento il computer, me lo porse con aria di sufficienza, lasciandosi sfuggire con esagerata cortesia: «Mi auguro che ora Lei abbia tutto quello che le occorre, capitano!» «Lo spero anch’io!» Risposi con altrettanta sfrontata gentilezza. Tre minuti dopo ero fuori, la mano sprofondata nella tasca dei pantaloni che stringeva forte la Memory Stick. Aver pensato che Vanessa avesse tenuto nel computer dell’ufficio una copia dei file era stata una mossa vincente. Avevo notato che le cartelle contenevano anche i dati personali dei clienti e, anche se non avevo avuto il tempo di controllarle, ero certo che in mezzo a loro ci fossero anche quelli riguardanti l’assassino che stavo cercando. Avevo appena fatto il ponte in direzione di campo S. Angelo quando fui trattenuto per una manica, mi voltai di scatto e fissai stupito il viso ansioso di Lilith. «Sono quella giusta, non preoccuparti!» Il viso le si illuminò in un breve sorriso. «Carlotta ti ha spedito qui in tutta fretta e nessuno ha avuto il tempo di spiegarti come tornare indietro, così sono venuta a riprenderti.» La guardai stupito, non mi era neppure ato per il cervello che esistessero

particolari procedure riguardanti il mio ritorno, ero talmente preso dal pensiero di trovare l’assassino che non avevo per nulla pensato al rientro nel mio tempo. Mi afferrò per un braccio e mi fece svoltare in una piccola calle sulla sinistra. «Qui c’è un locale che non frequento quasi mai, non dovrei correre il rischio di incrociare l’altra… me stessa.» Mi guardò negli occhi. «Hai trovato qualche cosa?» L’ansia nella sua voce era palpabile. Io stavo fissando stupito l’indicazione sopra la sua testa: “calle degli assassini”. L’ironia del caso mi fece sorridere, abbassai gli occhi sulla mia amica e il sorriso mi si accentuò maggiormente. «Sì! Ho tutto!» Sospirai. «Bene! Allora ti offro il pranzo.» Le vidi ugualmente lanciare una rapida occhiata all’interno del locale, prima di trascinarmi dentro decisa.

Capitolo 47°

Ci sedemmo a un tavolino appartato e ordinammo immediatamente il piatto del giorno mentre Lilith si faceva raccontare tutto nei minimi particolari. Quando ebbi terminato, la sentii sospirare sollevata. «Penso che possiamo farcela.» Mormorò mentre incominciava a interessarsi dei cibi che nel frattempo erano arrivati sul tavolo. «Sembra proprio che tu abbia stoffa, ragazzo mio! Saresti uno splendido “Viandante”.» Guardai l’orologio. «Dobbiamo sbrigarci!» Protestai. «Calma giovanotto.» Lilith invece era stranamente tranquilla. «Punto primo, torneremo praticamente nel medesimo istante in cui siamo partiti, quindi il tempo che trascorriamo qui non ha molta importanza. Punto secondo, devo recuperare forze, viaggiare mi consuma ogni volta sempre di più energia e inoltre questa volta devo pensare anche a te. Punto terzo, non è che questi viaggi sono come prendere l’autobus, sarà difficilissimo ritornare un’altra volta in questa fascia di tempo. Non sappiamo il perché ma è così, quindi una volta che la lasciamo e abbiamo dimenticato di fare o non fare qualche cosa, non abbiamo più modo di rimediare.» Misi in bocca alcune forchettate di non so che cosa, avevo il cervello completamente assorbito da Emy e da quello che ci aspettava una volta ritornati. Poi Lilith mi riportò alla realtà con un leggero calcio sullo stinco.

«Sei pronto?» S’informò. Annuii ansioso e lei, dopo aver fatto un cenno al cameriere, pagò il conto. «Ora mi alzo e vado in bagno, tra un paio di minuti raggiungimi!» Non mi diede il tempo di replicare e si alzò silenziosa. Aspettai tre lentissimi minuti poi, cercando di essere il più indifferente possibile, la seguii. La toilette consisteva in un piccolo locale con un lavandino e due porte chiuse. Appena entrai, si aprì quella relativa al bagno delle signore e Lilith ne uscì velocemente, andando a incastrare con abilità il manico di una scopa nella maniglia della porta alle mie spalle. «Zitto e rilassati!» Ordinò. Appoggiò determinata una mano sulla mia fronte e l’altra sul mio ombelico, poi chiuse gli occhi. Pensai alla figura che avremmo fatto se qualcuno avesse tentato di entrare. «Concentrati, imbecille! Pensa al volto di Carlotta!» Chiusi gli occhi e non feci in tempo a pensare a nulla che caddi in alto. L’impressione fu proprio quella, di cadere verso l’alto. Non di essere tirato o risucchiato, ma di cadere al contrario. Il volto di Carlotta era come avvolto nell’ombra, allungai una mano e sfiorai invece la fronte di William. Balzai a sedere sconcertato e il nero rise forte, scoprendo una dentatura bianchissima. «Stupefacente!» Esclamò. Carlotta mi afferrò per un braccio e mi sollevò con forza inaspettata dal tavolino

su cui ero seduto. «Togliti svelto, sta arrivando Lilith!» Balzai in piedi e mi voltai a guardare. Il mosaico della grande luna sembrava tremolare, mentre le stelle del cielo dipinto sul soffitto brillavano luminosissime, poi la testa di Lilith prese lentamente forma e mentre la figura sembrava emergere gradualmente dal tavolino, i suoi lineamenti e le sue forme acquistarono sempre più consistenza. Un minuto dopo Lilith era in piedi sul tavolino. Le vidi aprire gli occhi di scatto mentre esclamava: «Accidenti! Mi sono dimenticata di liberare la serratura… sarà meglio che lasci are un po’ di tempo prima di ritornare in quel locale!» «Allora?» La voce del colonnello Medini echeggiò come un rombo. Misi una mano in tasca ed estrassi la memory-stick. «Dovrebbe essere tutto qui dentro!» Medini si precipitò verso la sua valigetta e la aprì, estraendone un computer portatile sottilissimo. Gli lanciai la chiavetta, lui la prese al volo e senza staccare gli occhi dallo schermo la inserì con cautela, digitando velocemente qualcosa. Il file si aprì immediatamente e cinque paia di occhi scrutarono contemporaneamente il monitor. Mentre i file scorrevano veloci, spiegavo ad alta voce quello che avevo trovato e cosa bisognasse cercare. «Giacobini, Sandro Giacobini, gioielliere!» Urlò Medini. «L’ho trovato! Per la miseria, ora sappiamo chi è!»

«Dev’ esserci l’indirizzo da qualche parte!» Fece eco William. «Lido! Abita al Lido!» Medini era balzato in piedi estraendo nel contempo il cellulare. Lo sentii lanciare ordini a raffica, mentre ci precipitavamo tutti verso la riva, dove ci aspettava Nicolò con il motore del motoscafo a pieno regime. «Metti il lampeggiante e vola!» Gli ordinò il colonnello mentre ci catapultavamo tutti nell’imbarcazione. Quindici secondi dopo ebbi veramente l’impressione di volare. Quel rottame di barca tradì i suoi segreti e ci trovammo a viaggiare in pratica con solo il piede del motore a contatto con l’acqua. «Merda!» L’esclamazione di Medini ci colse tutti di sorpresa, poi lo vedemmo chiudere il cellulare e scaraventarlo stizzito in acqua. «Era in questura per un accertamento, l’avevano in mano! Solo che non immaginavano chi fosse ed è uscito ormai da tre ore.» Tre ore! Rividi i ferri chirurgici luccicare sul tavolino. Tre ore! Un’eternità! Mi sporsi fuori bordo e vomitai, lacrime e cibo, senza vergognarmi.

Capitolo 48°

In piazzale Santa Maria Elisabetta tre gazzelle ci aspettavano con il motore . «Siamo già entrati in casa, Colonnello, ma non c’è nessuno!» Disse rapido un ufficiale. «C’è però una porta chiusa che pensiamo dia sullo scantinato, ma è blindata e comunque non si sente nessun rumore provenire dall’interno.» Esitò un istante. «Una vicina ha però affermato di aver visto il signor Giacobini rientrare più di due ore fa e di essere sicurissima di non averlo più visto uscire.» Ci dividemmo sulle auto che partirono sgommando. La casa era silenziosa. All’interno, tre carabinieri erano di fronte a una massiccia porta di metallo e quando ci sentirono arrivare si voltarono con aria dispiaciuta. «Non siamo riusciti ad aprirla, colonnello!» Sussurrò uno di loro. Appoggiai le mani sul freddo metallo, la blindatura era evidente. «Stiamo aspettando la squadra speciale.» Sentii bisbigliare. «Dovrebbe essere qui a minuti!» Picchiai i pugni contro il battente con una forza che non pensavo di avere. «Emy!» Urlai.

«Maledetto bastardo!! Se soltanto l’hai sfiorata!» Quattro braccia robuste mi avvinghiarono e mi trovai inchiodato contro il muro di fronte. William e Medini mi guardavano sgomenti, ma la loro determinazione nel bloccarmi contro la parete era senza tentennamenti. «Colonnello!» Il tono della voce ci paralizzò tutti e tre e ci voltammo contemporaneamente a guardare il carabiniere che aveva parlato, poi seguimmo il suo sguardo puntato sul pavimento. Una scura macchia di sangue aveva incominciato a filtrare da sotto la porta. Mi voltai a cercare disperato un aiuto da Carlotta e Lilith, ma delle due donne non c’era più traccia. Arrivarono invece di corsa alcuni militari in tuta mimetica e li osservai ansioso mentre applicavano degli esplosivi alla porta. Poi due di essi si disposero al suo lato, con le spalle ben appoggiate alla parete, in mano a ognuno un fucile d’assalto SPAS 15. Guardai Medini e allungai la mano, il palmo aperto rivolto verso l’alto. Lui mi squadrò per un lungo istante, poi ci appoggiò sopra la Beretta che teneva in mano. Quindi si voltò determinato e strappando una mitraglietta dalle mani del militare che aveva a fianco, diede l’ok agli artificieri. Un botto secco fece tremare la parete. I due militari ai lati della porta le diedero immediatamente una potente spallata e si catapultarono all’interno. Li seguii con la pistola spianata. Una potente lampadina posizionata al centro del soffitto illuminava crudelmente

il corpo nudo di Emy, che dondolava appeso a grosse catene agganciate al soffitto. Sotto di lei una pozza di sangue. Feci girare lo sguardo e la pistola per la stanza, l’indice contratto sul grilletto, un sapore metallico in gola. Una figura accovacciata in un angolo attirò la mia attenzione. Presi la mira ma un militare s’intromise improvvisamente sulla mia linea di tiro, tenendo però incollato sull’uomo il puntino rosso del suo mirino laser. Alcuni decimi di secondo e i puntini rossi si erano moltiplicati. Rilassai, con un senso di frustrazione, l’indice contratto sul grilletto e mi precipitai da Emy. L’abbracciai forte. Il suo corpo abbandonato mi faceva impazzire dal dolore. Sentii che qualcuno stava allentando le catene e vidi le forti braccia di William che mi aiutavano ad adagiare la ragazza sul pavimento. La voltai per controllare le sue ferite e rimasi di sasso. Il corpo di Emy era illeso e a parte i lividi violacei dove le catene l’avevano stretta, non presentava ferite di sorta. Incredulo osservai nuovamente il pavimento e la pozza di sangue. Guardai William, vedendo nei suoi occhi lo stesso stupore. Poi percepii un movimento tra le mie braccia ed Emy aprì gli occhi. Tolsi dal suo volto, con difficoltà, una specie di mostruosità metallica e lei mi fissò senza capire. Poi una luce si accese nel verde delle sue pupille e la ragazza sorrise leggermente, prima che il suo capo ricadesse pesantemente sul mio braccio.

«Emy!» Urlai disperato. «Tranquillo, è solo svenuta.» La voce di William era calma e rassicurante. «Colonnello! Per l’amor del cielo, venga qua!» L’avvertimento del carabiniere mi fece trasalire. Appoggiai delicatamente la ragazza sul pavimento e mi diressi anch’io verso l’angolo dov’era distesa la strana figura, la mano contratta sul calcio della pistola. Fu l’espressione stupefatta di Medini che mi mise in allerta. Girai attorno al colonnello e puntai deciso l’arma, pronto a sparare, ma rimasi nuovamente di sasso. Oltre il mirino, gli occhi di un uomo torturato a morte mi fissavano immobili, i capelli sporchi e la barba lunga spiccavano su una faccia tumefatta e coperta di escoriazioni. Aveva i denti rotti come se qualcuno si fosse divertito a spezzarglieli con una sbarra di ferro e sotto la camicia aperta, il suo corpo era un unico livido su cui spiccavano bruciature orrende. «C’è del sangue fresco anche qui!» Voltai il capo e vidi un carabiniere chino vicino all’ingresso, intento ad osservare la pozza di sangue che avevamo visto filtrare da sotto la porta. Medini mi guardò perplesso: «Quest’uomo è morto da un pezzo e non c’è sangue qui attorno.» Ci alzammo e osservammo con attenzione la stanza. Non aveva finestre e la porta, come fu immediatamente confermato da un artificiere, era stata chiusa dall’interno.

Il mistero era totale. C’erano pozze di sangue fresco che non appartenevano né a Emy né all’uomo misterioso, ma soprattutto, come aveva fatto Giacobini a uscire indisturbato dalla stanza? Medini scuoteva lentamente la testa ispezionando ogni centimetro del locale, mentre William, seduto su un cavalletto ricoperto di cuoio rosso giocherellava pensieroso con un sottile frustino. Un luccichio vicino alla porta attirò la mia attenzione. «Medini!» Esclamai indicando l’oggetto. Seminascosto da un rotolo di corda, un bisturi sporco di sangue era sfuggito alla nostra prima perquisizione. «È sangue fresco?» Sussurrò un carabiniere alle mie spalle. Annuii sconcertato, mentre sentivo il colonnello diramare un ordine di ricerca per Giacobini su tutto il territorio nazionale. Vidi William scuotere la testa leggermente, poi il massiccio nero saltò giù dal cavalletto e si diresse verso la porta. andomi accanto mi diede una pacca sulle spalle. «Fammi sapere!» Annuii mentre mi avvicinavo nuovamente a Emy che nel frattempo era stata soccorsa da alcuni infermieri. Distesa su un lettino, con una leggera coperta che la ricopriva, sembrava dormire tranquilla. «Le abbiamo dato un forte calmante.» Mi disse sottovoce una dottoressa che non avevo visto arrivare.

«Ora la portiamo in ospedale per gli accertamenti del caso, ma penso di poterla già rassicurare sulle sue condizioni. A parte l’evidente choc emotivo e una piccola lesione al cuoio capelluto, non sembra aver subito altre violenze fisiche.» Annuii incerto, ancora sconvolto da tutti quei misteri. Un movimento sulla porta attirò la mia attenzione. Carlotta e Lilith erano comparse improvvisamente nella stanza e si stavano dirigendo verso Emy. Ero sconvolto, ma non scemo! Mi avvicinai determinato e le due donne mi guardarono con occhi innocenti. Il polsino destro della camicetta di Lilith era sporco di sangue e lei non fece nulla per nasconderlo, mentre continuava ad accarezzare dolcemente i capelli della ragazza. Mi piegai leggermente verso di loro per avere spiegazioni, ma le due donne sgusciarono via, seguendo la barella con amorevole preoccupazione. Al loro posto rimase solo un leggero odore di legna bruciata. Tre ore dopo il posto era deserto, l’uomo misterioso era stato portato via e la scientifica aveva terminato i rilevamenti. Con Medini e gli specialisti che erano nel frattempo sopraggiunti, avevamo ricontrollato minuziosamente tutta la casa, ma non eravamo riusciti a trovare alcun indizio che ci aiutasse a fare un o avanti in quel rompicapo. Di Sandro Giacobini nessuna traccia e soprattutto nessuna idea su come fosse riuscito a fuggire. «Medini» chiesi all’improvviso, «posso rimanere ancora qualche minuto qui dentro?» Avevo un’idea che mi ronzava per il cervello, ma avevo bisogno di silenzio e di tranquillità per riuscire a metterla a fuoco.

Il colonnello si schiacciò il palmo delle mani sugli occhi arrossati e annuì, mentre sussurrava con un certo sforzo: «Basta che quando vai via avvisi il brigadiere di servizio qui fuori che venga a mettere i sigilli.» Poi agitò una mano. «Ci vediamo domani Marco, ho bisogno di dormire!» Lasciai uscire tutti. Attesi ancora alcuni minuti e poi andai a piazzarmi in mezzo alla stanza, esattamente accanto al luogo dov’era stata appesa Emy. Aspettai che il silenzio divenisse assoluto, quindi afferrai con ambedue le mani le catene che l’avevano imprigionata e chiusi gli occhi. Il tempo ò lentamente, poi finalmente avvertii un lieve rumore alla porta e udii distintamente l’eco provocato dalle mandate della serratura di sicurezza. Sapevo perfettamente che la porta era stata distrutta dall’esplosivo e che il rumore che mi arrivava era impossibile da udire. Cercai ugualmente di rimanere rilassato e di mantenere gli occhi chiusi. Dopo qualche secondo avvertii distintamente un ulteriore scatto della serratura e il cigolio dei cardini.

Capitolo 49°

Voltai il capo nella direzione del rumore. Non ebbi bisogno di aprire gli occhi per osservare la porta aprirsi completamente, lasciando entrare un uomo alto, sui cinquanta, di bell’aspetto. Un gelido sorriso sul volto. «Ciao gattina! Ti sei annoiata?» Il tono sgradevole della voce mi fece ricordare. Era il compagno della bella ragazza di colore che mi aveva urtato accidentalmente una notte in campo S. Bartolomeo. Lo vidi avvicinarsi alla grande croce di legno su cui era legata capovolta Emy. Agì su una manovella e la croce ruotò, riportando la ragazza con la testa in alto. Vidi il sangue defluirle dalle sue guance paonazze e gli occhi farsi nebulosi. «Non vorrai mica svenire! Vero signorina? Non vogliamo mica perderci tutto il divertimento!» L’avrei strozzato. Sentii il mio corpo muoversi e incominciai a fluttuare per la stanza, sollevandomi sino a osservare la scena da un paio di metri di altezza. L’uomo sciolse la ragazza che gli si afflosciò letteralmente tra le braccia. «Brava! È così che mi piacciono, arrendevoli e docili… all’inizio!» Una risata malsana echeggiò nella stanza, mentre trascinava Emy sul pavimento, per poi bloccarle nuovamente i polsi e le caviglie con delle grosse cinture di

cuoio alle quali erano attaccati robusti anelli di acciaio. Agganciò con cura agli anelli, utilizzando robusti moschettoni, alcune grosse catene, poi si allontanò di qualche o per azionare un piccolo argano. Emy fu sollevata a un metro e mezzo dal pavimento, la schiena inarcata e i seni penzolanti. La mano dell’uomo si mosse ad accarezzarli lentamente, con dolcezza, poi improvvisamente strizzò un capezzolo tra le dita e un urlo uscì dalla bocca della ragazza. «Bene! Penso che incominceremo proprio da qui!» Disse mentre si voltava per prendere un bisturi dal tavolino. Rimase di sasso! Di fronte a lui, a nemmeno di un metro di distanza, Carlotta lo stava fissando con uno sguardo di ghiaccio. Non fece in tempo a pensare a una qualsiasi reazione, che un dolore lancinante lo fece rotolare urlando a terra. «Cercavi questo?» Inginocchiata dietro di lui, Lilith teneva in mano il bisturi con cui gli aveva reciso entrambi i tendini delle caviglie. Carlotta nel frattempo si era avvicinata a Emy e le stava accarezzando con dolcezza i capelli. «Stai tranquilla piccola, ora ci siamo noi!» Poi si voltò verso l’uomo che fissava inorridito il bisturi in mano a Lilith. Sandro Giacobini tentò di alzarsi, ma il dolore alle caviglie doveva essere atroce, perché lo vidi sbiancare, appoggiando tutto il peso sulle braccia. La donna fu un fulmine, il suo braccio destro saettò in avanti ed il bisturi si conficcò profondamente sotto l’ascella dell’uomo.

L’urlo che ne seguì servì solo a preparare il colpo successivo, quando Lilith con calma, estratta la lama d’acciaio, lo colpì con violenza anche sotto l’altra ascella. «Qualcosa mi dice che non ti muoverai più molto bene!» Constatò amabilmente Carlotta. L’uomo era terrorizzato, non riusciva a capire come quelle due vecchie fossero piombate nella stanza e soprattutto come avessero potuto sopraffarlo così velocemente. Provò a strisciare verso la porta mentre le donne lo seguivano con lo sguardo, indifferenti. Lilith si era inginocchiata a sua volta accanto alla ragazza. «Non possiamo liberarti, lo capisci vero?» Il tono era preoccupato. Emy annuì esausta. «Quando abbiamo saputo con esattezza dov’eri è stato facile arrivare, ora ci pensiamo noi a quel porco, cerca di rilassarti… se puoi. C’è Marco fuori dalla porta, con mezzo esercito.» Appoggiò un bacio sulla fronte madida della ragazza e si rialzò per avvicinarsi alla sorella. Sandro Giacobini intanto era riuscito a trascinarsi a ridosso della porta e si udivano chiaramente i rumori dei tentativi fatti dall’esterno per aprirla. Se fosse riuscito a… Non riuscii nemmeno a terminare il pensiero, Carlotta gli aveva afferrato con una mano i capelli e gli aveva rovesciato indietro la testa, nell’altra mano impugnava una grande pinza di ferro, con cui gli serrò la lingua. Nuovamente il lampo del bisturi in mano a Lilith e l’uomo si ritrovò a osservare, con terrore, un pezzo della sua lingua penzolare a mezzo metro da lui.

Un fiotto di sangue lo soffocò. Carlotta gli lasciò andare la testa e una pozza scura si formò sul pavimento, incominciando a colare verso la porta. Le due sorelle si guardarono per un breve istante, poi afferrarono l’uomo saldamente per le spalle, chio gli occhi e tutti e tre si dissolsero nel nulla. Un istante dopo eravamo tutti e quattro in quella che sembrava essere una oscura cella di pietra grezza. Un uomo giaceva morto su un mucchio di paglia sporca. Le donne in silenzio spogliarono il cadavere e poi, senza tanti complimenti, fecero lo stesso con Giacobini. Cinque minuti dopo il gioielliere aveva addosso gli abiti luridi del morto, mentre le donne rivestivano con cura lo sconosciuto con i suoi abiti, prima di prenderlo delicatamente per le mani. Le vidi riportare con calma i loro occhi freddi sul suo volto terrorizzato, poi li chio e svanirono! Vidi che Sandro Giacobini si era reso conto all’improvviso di essere rimasto solo, in un posto orrendo, sanguinante e completamente indifeso. Urlò dal dolore e dal terrore, ma dalla sua gola uscì solo un lungo, atroce mugugno. Mi ritrovai nel seminterrato a fissare Emy sotto di me. Le catene continuavano a torcerle le braccia provocandole un dolore sordo e costante. Vidi che cercava di sollevare la testa per osservare le sorelle Jimbutas che appoggiavano amorevolmente un corpo esangue nell’angolo più lontano della stanza, poi, mentre le loro figure si stemperavano dentro le sue lacrime, tutto divenne confuso.

Capitolo 50°

Lentamente Marco aprì gli occhi e la luce gli ferì le pupille. Ansante si appoggiò alla croce di legno che aveva imprigionato il corpo di Emy e lo fissò a lungo, prima di voltarsi a dare un ultimo sguardo alla stanza deserta, poi barcollando uscì all’aria aperta.

Un rumore di ferraglia lo fece sussultare e vide la porta di legno chiodato aprirsi sotto la spinta di un urto violento. La luce di una torcia gli ferì gli occhi e quando un uomo puzzolente l’avvicinò pericolosamente al suo viso avvertì terrorizzato il calore delle fiamme sulle sopracciglia. «È ancora vivo! Eppure ieri sera sembrava spacciato!» Un’ombra di paura ò sul volto del carceriere. «Forse ha veramente il diavolo dalla sua parte!» Mugugnò un uomo alle sue spalle, con un brivido nella voce. «Consegniamolo al boia e facciamola finita, poi potremmo andare a berci un boccale di vino al Gallo d’Oro.» Quindi lo afferrarono rudemente per le braccia e lo trascinarono fuori, assolutamente indifferenti ai suoi balbettanti lamenti. «Come avrà fatto a pentirsi se gli hanno tagliato la lingua?» Disse ridendo uno dei carceri ad alta voce, mentre scaricavano rudemente il corpo dentro una specie di gabbia di legno posta sopra un vecchio carro sbilenco.

«Zitto! È meglio non parlare di queste cose.» Sussurrò terrorizzato il compagno, mentre si guardava attorno con circospezione. «Abbiamo finito, andiamo a bere, offro io!»

Mezz’ora dopo un uomo era legato a un palo eretto in mezzo a una grande piazza, sotto i suoi piedi decine di fascine di legna secca e attorno a lui gente impazzita che urlava: “stregun”, mentre lanciava pietre e sterco di cavallo. Vide una torcia accendersi, subito seguita da molte altre. Dietro alla luce terrificante di quelle fiaccole, tra i volti stravolti di decine di persone che lo maledicevano, due donne lo stavano fissando in silenzio, immobili, gli occhi freddi e duri. «Sono loro! Le streghe sono loro!» Gridò l’uomo con tutto il fiato che aveva in gola, ma dalla sua lingua mozzata uscirono solo monosillabi incomprensibili, poi una torcia volò verso di lui, seguita da un’altra e un’altra ancora. Le fiamme incominciarono ad alzarsi e il vento gli vomitò addosso un alito caldo mentre, accovacciata ai suoi piedi, una ragazza sinuosa lo guardava tristemente. Giacobini fissò allibito la lunga coda e l’incredibile pelle che riluceva di mille scaglie sfavillanti, poi la figura scosse la testa e con un unico, fluido movimento, scomparve. E allora lui urlò, urlò veramente, a lungo.

FINE