London Calling: A Tale From Norwich 434x44

Table of Contents

Titolo Autore Editore Verso la lettura - una sinopsi per Prospero Editore (di Barbara Ciolli). Quote- E. A. Poe Introduzione- I peccati dei padri (Norwich, 2125) Parte I - Le stanze della mia decadenza Capitolo I - Epicentro Capitolo II- Tutto ha il suo prezzo Capitolo III- Mantenere le apparenze Capitolo IV- La famiglia Howard Capitolo V- L’ olezzo del dolore Capitolo VI- Ossa e denti Capitolo VII- Il peso dell’anima Capitolo VIII- Mostri sotto il letto Capitolo IX- La commedia degli orrori Parte II- Il signore dei corvi Capitolo X- Il maggiordomo che non c’era

Capitolo XI- L’onore perduto di Dem Plant Capitolo XII- Un quarto di luna calante Capitolo XIII- Due buoni amici Capitolo XIV- Polvere di secoli Albero genealogico della famiglia Howard dal 1859, aggiornato al 2094 Capitolo XV- Il mio più grande rimpianto Capitolo XVI- La famiglia Plant Capitolo XVII- Il quaderno nero Capitolo XVIII- Hermann e io Capitolo XIX- Nessun Howard muore solo Parte III- Destino manifesto Capitolo XX- Dramatis personae Capitolo XXI- Uno il tutto Capitolo XXII- Lo scambio equivalente Capitolo XXIII- La benedizione degli Howard Capitolo XXIV- Un veloce cambio di prerogative Capitolo XXV- La torre dei corvi Capitolo XXVI- Fine della caccia Capitolo XXVII- La famiglia Black Capitolo XXVIII- Helena Capitolo XXIX- L’incubo

Epilogo- I peccati dei figli (Norwich, 2125) Cronologia di Londra dallo scoppio della Piaga (1901 –2103) Glossario dei nomi e dei termini

Verso la lettura: una sinopsi per Prospero Editore.

Nei primi anni del ventiduesimo secolo Londra giace ancora corrosa dalla piaga scoppiata due secoli prima, piaga che priva di vitalità e che trasforma le persone in creature non umane. In questo scenario avvengono le ultime gesta di un lignaggio anch’esso eroso dalla disumanità, dominato dalla follia di chi cerca una soluzione alla morte (ossia alla vita), che non può trovare. E per la follia del dolore della perdita e per la separazione dal proprio amore, i personaggi si aggirano nelle buie strade di una città in cui la vita umana è ormai quasi impossibile. E dove, infatti, s’aggirano anche altri strani esseri, non solo gli umani: alcuni semplici “animati”, altri esseri “liminari”; ma non ancora del tutto disumani. Ed è proprio questa la riflessione: in questa storia mancano i buoni e i cattivi. Non ci si identifica facilmente. Ci sono gli umani e i non umani. E tra gli umani, pochi archetipi. Ogni personaggio è figlio del suo destino, quasi condannato a seguire la propria morte. La follia, il dolore, l’impotenza, la necessità del tutto umana di non accettare la fine, sono ciò che guida i personaggi ai loro atti; atti che hanno tutti un sapore di finale, di epilogo. Di apocalissi. Apocalittica è la fine di una dinastia di nobili così umani e così vulnerabili al proprio destino. Né l’alchimia, né la ricerca, né la forza bruta possono consentire di eludere la propria ora. È la storia della coazione a ripetere di un intero clan, una storia che si ricrea generazione dopo generazione nei suoi membri. “…c’erano solo tre cornici vuote, dopo lo spazio sarebbe finito…” Il corridoio dell’antica dimora dei marchesi di Norfolk anticipa la fine.

E nonostante la forza inesorabile del destino, delle maledizioni familiari, della storia che vuole ripetersi, siamo tentati a pensare che ogni erede nasca da zero, che abbia le sue proprie possibilità e che, forse, l’ultimo erede potrà spezzare il circolo. O chiuderlo. Barbara Ciolli.

True! - nervous - very, very dreadfully nervous I had been and am; but why will you say that I am mad? The disease had sharpened my senses - not destroyed - not dulled them. Above all was the sense of hearing acute. I heard all things in the heaven and in the earth. I heard many things in hell. How, then, am I mad? Hearken!, and observe how healthily - how calmly I can tell you the whole story.

(E. A. Poe, The Tell-Tale Heart)

Introduzione: I peccati dei padri (Norwich, 2125)

Contemplare la polvere che danza nel sole ha sempre avuto un che di ipnotico per me fin da bambino. Mio padre chiamava sporco i batuffoli che rotolano sostenuti dalla brezza e oggi so che era un uomo cieco, chiamava sporco ciò che io chiamo Vita, l’inizio della Vita e anche la sua Fine. “Mio Lord, l’area è sicura.” Poche parole mi riportano alla realtà, uno degli esploratori che ho pagato per controllare che il mio castello in campagna fosse sicuro ha appena fatto capolino dalla cantina. “Rapporto..” non ricordo il suo nome, non ricordo mai i nomi, come se avessero una qualche importanza, se fosse per me dimenticherei anche il mio, e ci riuscirei se la gente non mi rammentasse in continuazione chi sono. “Rapporto, soldato.” dico alla fine. Molti nomi sono intercambiabili con un titolo asettico, triste e spersonalizzante e le persone ne sono quasi sempre compiaciute. Stolti. “Abbiamo esplorato tutte e ventuno le stanze, mio Lord, sono in cattive condizioni ma la struttura non ha danni irreversibili. In alcune aree sembrano essere state combattute delle battaglie ma non c’è traccia di creature viventi o di animati pericolosi. Riguardo la cantina abbiamo trovato un grosso laboratorio alchemico, anche quello sembra essere stato teatro di un combattimento piuttosto furioso ma non c’erano che due animati in pessimo stato di conservazione. Riguardo le cripte..” Non lo sto ascoltando da un po’, osservo le decine di finestre del castello ed entro nell’androne principale, ci sono decine di ritratti, i miei parenti, mi accorgo che ne mancano due e la galleria sarà completa: dovrò farmi fare un ritratto al più presto. Mi giunge in lontananza la voce del soldato. “Come hai detto scusa ?” gli chiedo.

“Riguardo le cripte, è meglio che andiate a vedere voi.” Le cripte nel cortile interno, il luogo in cui da sempre veniamo seppelliti, ci sono parecchie tombe e decine di miei avi, gli stessi che mi scrutavano da quei ritratti, posso sentirne alcuni grattare al di sotto delle lapidi, animati stupidi e bramosi di carne viva, non bruciati poiché nobili, condannati dal loro status alla sofferenza eterna, che divertente paradosso! Mi viene da ridere, mi trattengo, il soldato non percepisce che uno sbuffo “Signore ?” “Niente. Allergia alla polvere.” “Ecco, guardate.” si sposta di lato, rivela le cripte, cinque disposte a semicerchio, tutte sigillate tranne una, l’ultima, e vicino all’ingresso di questa due cadaveri: uno si muove a malapena, è un animato in pessimo stato di conservazione, gli abiti sdruciti e pochi filamenti di carne putrida a coprirgli le ossa annerite dal tempo, continua a muovere tristemente la testa senza poter fare altro, grottescamente avvinto all’altro cadavere, quest’ultimo completamente decomposto e divorato tranne per le parti che il suo compagno sembra aver protetto. Mi avvicino e alza la testa, gli resta un solo vacuo occhio, lo riconosco e so che anche lui mi riconosce. “Lasciatemi solo.” congedo i soldati, le mie fedeli ombre. Altri i verso l’animato, mi chino un po’. Un animato può avere paura? Spero ardentemente di sì. Scopro i denti in un sorriso, per mio padre non era che un brutto taglio in mezzo alla faccia, una coltellata sul mio viso e ripensandoci lo allargo il più possibile. “Buongiorno, signor padre.”

Parte I : Le stanze della mia decadenza

Capitolo I : Epicentro

Nubi grigie si stendevano su Londra, la mai morta, e tutto lasciava indicare che a breve avrebbe cominciato a piovere. I tetti della gigantesca metropoli si stagliavano all’orizzonte, scuri e fuligginosi, le cappe di fumo fuoriuscivano dalle fabbriche che mai si spegnevano e fioche luci partivano dalle centrali Tesla della South Side per stendersi in collegamenti senza fili a tutte le abitazioni. Erano poche le carrozze che avano per la strada, evidentemente quasi nessuno aveva in programma qualcosa di talmente importante da dover mettere il naso fuori di casa in una giornata fosca come quella, benché i londinesi avrebbero dovuto esservi abituati: Londra era sempre stata eccentrica, il clima aveva forgiato la gente che poi aveva costruito la società, una società talmente pragmatica ed irriducibile da non aver arrestato la sua avanzata di fronte l’inquinamento e la terribile Piaga che aveva annientato quasi tutto il mondo conosciuto e neanche di fronte ai mostri e alle aberrazioni generate dalla mente umana e dalle mutazioni dovute ai vari scoppi della Piaga. Era il tempo della regina Vittoria III, la donna che aveva sconfitto l’impero Prussiano e riportato in auge la Gran Bretagna dopo i tumulti causati dal padre, Edoardo. Era il 2103 e il governo conservatore era stabile ormai da dieci anni, le campagne anarchiche erano cessate da più di un lustro. I rapporti con la Prussia e la Svezia, i due scomodi vicini sopravvissuti anch’essi alla Piaga erano stabili e portavano grandi introiti commerciali. Una nuova classe di ufficiali, perlopiù appartenenti alla marina o alla Deathwatch, il corpo che si occupava di proteggere l’Impero dalle aberrazioni della Piaga, stava prendendo lentamente il posto dell’antica nobiltà, sempre più decadente e prossima all’estinzione. Erano tempi di pace, quelli, tempi in cui gli eserciti si riposavano e campi come quelli della medicina, dell’alchimia e della galvanica ricevevano sovvenzioni per progredire e migliorare la vita di tutti. Erano tempi tranquilli, a Londra, negli ultimi giorni di quel maggio del 2103. Le luci erano fioche all’ospedale di Whitechapel, nell’East End di Londra. Il Big Ben aveva da poco suonato le sette di sera e il primo tuono aveva annunciato il temporale. Le suore della Gilda si aggiravano per i corridoi spegnendo le luci delle stanze dei degenti, ogni operazione veniva fatta in assoluto silenzio per non turbare la pace di chi riposava. Un’altra giornata di lavoro era finita per le suore della Gilda, adesso tutti pregustavano una cena leggera e il tepore caldo delle

cortine del letto, qualche pagina di un libro sacro e quindi a dormire senza rimorsi. In tutto l’ospedale, di secondo in secondo più silenzioso era solo una la figura che sembrava affannarsi come se il tempo a lei concessa fosse poco, come se la fine di quella giornata potesse sancire anche il termine della sua esistenza. La figura si trovava in uno dei laboratori interrati di Whitechapel, una stanza ampia , priva di finestre. L’unica porta era sbarrata e l’ambiente all’interno era ingombro di macchinari galvanici, alambicchi alchemici contenenti liquidi e vapori che bollivano o distillavano. Tutti avevano un collegamento ma sarebbe stato impossibile coglierlo quasi a chiunque fosse entrato in quella stanza. Al centro del laboratorio, dove i tavoli alchemici e vari attrezzi medici erano stati disposti a semicerchio, c’era una barella d’aspetto antico, e sulla barella un lenzuolo macchiato di rosso copriva qualcosa. La stanza era invasa da vapori rendendo l’aria praticamente irrespirabile ma la figura che si affannava ora attorno ai liquidi in distillazione ora a calibrare gli attrezzi galvanici non sembrava rendersene conto, si muoveva come se tutto ciò che fosse al di fuori del suo esperimento non avesse alcuna importanza, probabilmente sarebbe stata capace di continuare anche in assenza di gravità o peggio: per rendersene conto era sufficiente soffermarsi sui suoi occhi. Tutto di lui indicava che era stato molto bello, i lineamenti fieri, il fisico snello, il verde degli occhi e i capelli che forse erano stati biondi. Eppure in lui si avvertiva qualcos’altro, ed era inquietante e lo consumava, come un tarlo o una malattia. Come una smania malcelata dalle orbite slavate, dai capelli incolori, irti e stopposi. La sua figura si era ingobbita tra gli strumenti, le dita dure e callose, il corpo come svuotato d’ogni liquido, il corpo di un ossessionato.

Un secondo tuono sconquassò le pareti del cielo e anche l’uomo venne scosso da un fremito, come si fosse reso conto di quello che accadeva attorno a lui. “È l’ora.” Lo disse aprendo le labbra bianche e sottili, vi ò sopra la lingua e si precipitò a sollevare il lenzuolo che nascondeva ciò che stava sulla barella, rivelando il cadavere di una donna dal colorito verdastro. Le cuciture attorno agli arti e le tumefazioni sulla scatola cranica indicavano che aveva subito delle modifiche, un lavoro certosino di taglio e cucito. Il corpo era nudo. L’uomo ò una mano sui capelli radi di lei, sulle palpebre butterate. “Questa sarà la volta buona.” sussurrò febbrile “Ti ridarò un corpo, Helena, torneremo insieme. Tutto, tutto quello che ci è stato tolto” un terzo tuono risuonò per le pareti di Whitechapel e al solo udirlo l’uomo si precipitò a un apparecchio galvanico collegato a un liquido rosso in ebollizione, afferrò un prolungamento che terminava in un ago e lo affondò alla tempia del cadavere “sarà di nuovo nostro.” annaspò ma non si fermò per riprendere fiato. Era una danza macabra quella che stava compiendo, a tenerlo su la sola forza della sua ossessione, chiunque l’avesse visto avrebbe pensato che era pazzo. Un pazzo che fintanto si fosse trovato dentro un laboratorio avrebbe saputo perfettamente dove mettere le mani. Un allarme risuonò per le strade dell’East End attorno Whitechapel e Victor sapeva che si trattava dell’interfono della Deathwatch collegato ad ogni settore di Londra e che quando quegli apparecchi si accendevano non era mai un buon segno. “Cittadini” la voce secca e sbrigativa che echeggiò dall’interfono era quella del Generale Bullet, esorcista decano della chiesa anglicana e attualmente al comando della Deathwatch. Bullet aveva dedicato la sua vita alla caccia e alla distruzione degli animati, i non morti che si rialzavano per colpa della Piaga, affamati di carne umana e bramanti di distruzione, ma anche all’annientamento di tutto ciò che considerava un’aberrazione, dai licantropi agli alchimisti.

“Un Out Break è appena scoppiato nell’East End, l’epicentro è l’ospedale di Whitechapel, la Deathwatch è stata prontamente inviata a sedarlo. Se rimarrete in casa senza intralciare il nostro lavoro e pregherete il Signore misericordioso, anche questa prova sarà superata.” L’interfono si spense dopo aver prodotto un’eco per le strade del quartiere povero di Londra. L’occupante del laboratorio, tra le dita del cotone imbevuto di tintura di iodio, si morse le labbra e con fare nervoso corse alla porta sbarrata: Bullet aveva detto che l’epicentro era Whitechapel: con tutta probabilità si trattava di animati rialzatisi a seguito di una qualche epidemia o di un incidente. Succedeva spesso che, negli ospizi, qualcuno avesse la cattiva creanza di morire e di rialzarsi nella notte, creando in pochi minuti un’ecatombe con decine di cadaveri sciamanti per le strade. Il fatto che fosse successo proprio quella sera sollevava un immenso fastidio nell’occupante del laboratorio, che ò il palmo sulla porta in legno massiccio, quindi senza riflettere spostò un solido tavolo alchemico contro l’unico ingresso: non poteva permettersi di perdere alcun istante, non quando aveva atteso così tanto, non se era in ballo la sua Helena. Tornò dal cadavere, ne sfiorò le giunture, fredde come ghiaccio, e ò la tintura di iodio sui palmi delle mani e dei piedi. Poi corse verso l’apparecchio telefonico: compose il numero dell’ufficio del Generale della Deathwatch, se era vero che non poteva permettersi di abbandonare l’esperimento, doppiamente vero era che non poteva morire né rischiare l’incolumità del soggetto o di Helena, se tutto fosse andato a buon fine. “Qui comando centrale della DSF.” disse la voce secca di Bullet all’altro capo. “Sono il marchese Victor Howard.” Il tono dell’occupante del laboratorio era roco, come può essere la voce di chi parla molto poco “Mi trovo all’interno di Whitechapel, volevo sincerarmi dell’arrivo dei vostri uomini.” Bullet cambiò tono: se prima era solo sbrigativo, adesso era tutto improntato sul disprezzo. C’era astio tra Victor e il Generale Bullet, il primo un medico e un alchimista oltre che un grande conoscitore di galvanica e metodi scientifici alternativi, il secondo un esorcista conservatore.

“I miei uomini pattuglieranno il perimetro esterno di Whitechapel, il primo focolaio è stato sedato un’ora fa, le suore della Gilda e i degenti che sono riusciti a sopravvivere hanno fatto in tempo a fuggire. Whitechapel adesso è praticamente vuoto e la Deathwatch deve prima di tutto sincerarsi che i civili non vengano contagiati, come voi ben sapete.” “Me ne rendo conto.” Victor si morse le labbra “Ma io sono bloccato qui dentro e non so quanto potrò resistere.” “Cosa pretendete, Mio Lord?” nelle parole di Bullet un sadismo animalesco “Questo non è il momento di essere egoisti, io non posso fare nulla per voi, non siete così essenziale.” “Lei sta mettendo alla prova la mia pazienza, Bullet.” Victor strinse la mano sulla sul ricevitore: la situazione poteva diventare catastrofica, adesso gli sembrava di sentire i strascicati fuori dalla porta e si chiedeva come diamine avesse fatto a non accorgersi prima del tumulto che c’era stato “Sa benissimo chi sono.” “Certo che lo so.” la voce del Generale era mortalmente calma , Victor poteva immaginarne le labbra, un taglio trasversale piegato in un sadico sorriso “Proprio in onore del vostro titolo non vi sbatto in faccia il telefono perché state intasando la mia linea durante un Out Break.” “Vada al diavolo, Bullet.” ringhiò Victor, gettando prima uno sguardo al suo cadavere, quindi alla porta. “Non avete che da attendere i soccorsi, arriveranno anche per voi. Nell’attesa posso darvi un’estrema unzione telefonica se preferite.” Per tutta risposta Victor sbatté la cornetta sul piastrellato: l’intero apparecchio cadde a terra con un gran fracasso. Aprì e chiuse più volte i pugni delle mani, respirò profondamente e si voltò verso il cadavere. Helena non avrebbe voluto che lui fuggisse abbandonando l’esperimento, non quando era così vicino al suo coronamento, all’avverarsi del suo più spasmodico sogno. “Ho studiato tanto in questi anni, amore mio.” continuò mentre controllava un liquido in distillazione che odorava fortemente di zolfo e lo mischiava a un altro

che aveva finito di far bollire poco avanti, chiaramente mercurio “Ho letto di numerose teorie per rendere vivo un corpo morto, ma tutte richiedevano il possesso di almeno un organo del soggetto. Io non avevo niente di tutto questo.” digrignò i denti di un bianco splendente “Ma avevo te, il tuo spirito, la tua forza di volontà. Ti ho qui, Helena” si ò un dito sulla tempia con aria febbrile “e tanto mi basterà. Darò vita all’esperimento più sensazionale mai tentato, riuscirò a ridarti un corpo vivo e non partirò da nulla di fisico.” la sua voce si andò abbassando di tono fino a quando un quarto tuono lo fece scattare in avanti, verso una manopola d’ottone. Vi pose la mano, gli occhi di un verde slavato fissi all’orologio a pendolo. “Mi basta trasmutare la tua anima dentro un corpo. Ci hanno separati, Helena. Ti riavrò.” Sembrava essersi dimenticato dell’Out Break, di Bullet e di ciò che gli accadeva attorno, Victor era nel suo mondo, lì nessuno poteva toccarlo, non in quel momento, non a un o dall’obiettivo. Per qualche secondo tutto tacque, l’acqua scrosciava fuori da Whitechapel, i liquidi in distillazione venivano trasfusi al corpo tramite gli aghi collegati a ogni estremità, un odore insopportabile di chiuso misto a marciume e zolfo si propagò per la stanza ma lui non vi fece caso. Fu nel momento in cui arrivò l’ennesimo tuono che pose le mani sulla manopola e si preparò a girare. Esperimento numero trentadue, si annotò in mente, Ti amo, Helena. “Fermo lì, Victor, ho tua moglie nel mirino.” La voce era calma, serafica, quasi affettata. Victor, le spalle di colpo frementi, alzò di poco il palmo dalla manopola. “Tu..” Victor non si voltò, sapeva che qualsiasi movimento avesse compiuto, l’uomo avrebbe premuto il dito sul grilletto e niente avrebbe più avuto senso. “Non ti crucciare.” Victor non riusciva a capire da dove venisse la voce, dove si nascondesse il suo nemico: sembrava che le sue odiose parole si spandessero da ogni grata dei condotti dell’aria “Se sono qui è solo per salvarti.”

“Mi hai già rovinato la vita.” ringhiò Victor, afferrando il proprio bastone da eggio “Cosa vuoi ancora da me?” “Io rovinarla a te? Sono un agente della natura ora, Victor, e in fondo è merito tuo.” la voce correva per i condotti, era ovunque. Victor lo odiava, lo voleva morto e l’unica cosa che lo tratteneva dal partire a inseguirlo o sfidarlo era l’incolumità del cadavere alle sue spalle “O forse dovrei dire che è colpa tua, ma cosa importa? Sono qui per impedirti di compiere un crimine, l’ennesimo. Non è corretto prendere un’anima per i capelli e farla tornare dal mondo dei morti, non è etico, non è naturale.” “E il modo in cui è morta?” ringhiò Victor “Il modo in cui l’hai uccisa? È naturale, quello?” Fu quando pronunciò quelle parole che nella testa di Victor, percossa da fitte dolorose, si fece strada un suono che sembrava un grido, le urla disperate di una donna torturata a morte. “Pensi che io non abbia sentito?” gridò Victor guardando tutto e niente “Ho quelle grida in testa, sempre con me, ma non ti permetterò di farlo un’altra volta, non potrai fermarmi.” “Sbagliato, Victor” la voce si alzò di tono in un piccola risata e, nello stesso momento, Victor si dovette stringere le tempie, tanto le urla erano diventate stridenti “Tutto questo ti porterà alla perdizione: guardati come sei ridotto, sei un relitto. Se continui così, chi si occuperà di tuo figlio?” Victor crollò a terra, le braccia il solo appiglio a cui aggrapparsi. Era schiumante di rabbia, strinse i denti: i suoi occhi erano iniettati di sangue “Io lo farò.” ringhiò “Dopo averti sbudellato come tu hai fatto con mia moglie.” “Dovevi vederla, la tua Helena.” la voce corse veloce da un condotto all’altro “Strillava come una puttana. Lo sai che tutte le donne hanno in se il seme del male? È piantato così radicalmente che non basta picchiarle o sgozzarle, no Victor, io scavo a fondo e impedisco al seme di attecchire su noi poveri mortali. Come hai potuto essere così stupido?” “Sta’ attento.” le urla nella testa di Victor si intensificarono “Sta’ attento, Jack.”

A sentire il suo nome, la voce rise ancora “Ma il seme aveva già attecchito nel tuo corpo, ti ha fatto perdere la ragione, e ora? Guardati, non sei mai stato più pazzo. Io devo impedirti di perpetrare le tue follie, non sai disporre di te stesso” la voce percorreva la stanza , tra toni più alti e più bassi, la voce di un folle, di uno spettro o di entrambe le cose “sarò la tua guida o se non vorrai, il tuo liberatore.” “Prova a toccarmi e..” “Non puoi fare niente, non hai capito? Non puoi fare niente contro di me e per questo ti devo ringraziare.” Jack rise ancora “Ti ho mai raccontato di quel giorno? Alla tua Helena ho dovuto strappare ogni organo prima di sentirmi soddisfatto, l’ho fatto a mano, Victor, alla fine ero così impregnato di quel liquido che l’ho dovuto leccare via, non ne è rimasto nemmeno un po’, ho pulito tutto, tutto.” la voce si faceva vicina, e le urla nella testa di Victor erano troppo forti, le urla di sua moglie “Ma lei non sorrideva, era morta con in viso un ghigno orribile. Nessuno può guardarmi senza sorridere, io che sorrido sempre. Allora le ho aperto due squarci sul viso: era bella, tua moglie, Victor, forse troppo. Ora che ti conosco così bene posso solo dirmi felice di averti salvato da lei.” Victor puntò il bastone contro i condotti, l’altra mano premuta sulla fronte “Vieni fuori, Jack.” urlò come un animale ferito “Combatti, figlio di puttana.” “Non posso fermarmi, spiacente.” la risata di Jack era argentina “Se rimango ancora un po’ rischierei di essere assalito da una manica di animati. Sei contento Victor?” chiese “Questo Out Break l’ho organizzato io, è tutto per te e tu ne sei l’epicentro.” Victor si era appena rimesso in piedi quando udì dei i veloci fuori dalla porta e qualcuno sparò contro la serratura “Sarà semplice per loro entrare e mangiarti vivo. E quando morirai ti torturerò, strapperò dal tuo corpo il seme del male, come ho fatto con Helena.” gridò Jack con aria trasognata “Come farò con tuo figlio.” Victor si precipitò contro la porta, nello stesso momento in cui Smiling Jack, la sua nemesi, il serial killer che aveva ucciso sua moglie Helena, scompariva lungo il corridoio senza lasciare alcuna traccia. Fece per inseguirlo, ma la voce nella sua testa, la voce di Helena parlò di nuovo.

No, gridava Helena. “Devo farlo, Helena. È il tuo assassino.” Victor fece per uscire nel corridoio, ma Helena lo ancorò al terreno. Devi fuggire, disse nella testa di Victor. E con somma disperazione, Victor girò la testa per rendersi conto che alle sue spalle si addensavano parecchie ombre: i i dei possessori erano strascicati e i gemiti che emettevano facevano pensare solo a una cosa, la fuga repentina. Victor si morse a sangue le labbra diventate cianotiche; cominciò a correre.

Capitolo II: Tutto ha il suo prezzo

Le strade dell’East End erano deserte, in lontananza si sentiva il rombo dei carri della DSF sulle strade male asfaltate. Le finestre delle povere abitazioni erano sbarrate, le luci fioche o addirittura spente, le porte non sarebbero state aperte a nessuno, vivo o morto che fosse, fino a quando Bullet non avesse dato l’annuncio che l’Out Break era stato scongiurato. La pioggia aveva smesso di cadere lasciando le strade del quartiere povero ancora più anguste, ammuffite e fangose; per quelle vie correva una ragazza. Aveva il respiro affannato e sul suo volto era dipinto il terrore, quello del topo che teme una trappola ad ogni angolo. Ma lei non era una sprovveduta: sapeva cosa rischiava tra le strade durante un Out Break, ma non aveva scelta, lo faceva per una buona causa. La ragazza odorava di paura, il viso cereo si scorgeva appena da sotto il cappuccio. Non indossava alcuna maschera antigas, forse non se la poteva permettere. Con o veloce svoltò in uno stretto vicolo all’incrocio tra due negozi sbarrati e si ancorò a una porticina di legno muffito; bussò due volte. Rimase in attesa per qualche secondo, la mano a mezz’aria, prima di bussare di nuovo, più insistentemente “Apri, ti prego, Dem.” disse, la voce argentina venata di disperazione “So che sei in casa.” Ma dovette attendere almeno un altro mezzo minuto prima di udire il rumore di un chiavistello dall’altra parte. La porta aprì appena, quando necessario per lasciarle scorgere la canna di un fucile che sporgeva verso di lei. Un paio di occhi di un disgustoso color giallognolo la fissavano con malagrazia. La porta si aprì del tutto. “Entra.” disse il padrone di casa, prima di fare qualche o indietro senza darle le spalle. Ma la ragazza non fece un solo o. Scorse l’interno dell’abitazione: una

stanza arredata miseramente, molto scura e lurida, entro cui si respirava lo smog che riusciva a penetrare per l’assenza di depuratori. “Non sono qui per una visita di cortesia.” disse lei “Devi venire con me.” Gli occhi giallognoli del padrone di casa si strinsero “Sei impazzita? Siamo in Out Break, non ho intenzione di uscire da qui.” “Buffo” rispose la ragazza “considerato che sei vestito di tutto punto e che mi hai accolto con un fucile già carico.” “Ti sei sbagliata.” gli occhi disumani si strinsero nel buio dell’angusta abitazione “Chi fa il mio lavoro deve essere sempre pronto al peggio.” Per tutta risposta la ragazza strinse le braccia sotto lo scialle rosso fuoco “Ecco, qualche volta tendi a dimenticarlo, che tipo di lavoro fai.” “Voglio sopravvivere.” “Però ti piace questo suono, vero?” la ragazza batté una mano sulla tasca della gonna ampia, facendo risuonare l’indiscutibile tintinnio del denaro. A quel suono, gli occhi si distesero “Cosa vuoi?” “Ho bisogno che mi aiuti a recuperare Mimì.” rispose lei “È a Whitechapel.” “Che diamine ci fa lì tua sorella?” chiesero gli occhi, che continuavano a guardarsi attorno, indugiando soprattutto sul mondo esterno alle spalle della ragazza. “È malata. L’ho dovuta far ricoverare qualche giorno fa, ma adesso è scoppiato l’Out Break e l’epicentro è proprio l’ospedale.” “È un suicidio.” tagliò corto l’altro “Non se ne parla.” “Dem, posso pagarti.” Lei si sarebbe gettata ai piedi del padrone di casa, il tono di preghiera era incrinato dal pianto , gli occhi lucidi sotto il cappuccio “Ti darò quello che vuoi, ma ti prego, aiutami. Sei l’unico cacciatore che conosco, la mia ultima

possibilità.” Dem sembrò pensarci per qualche istante, i suoi occhi orbitarono lascivi prima sulla tasca della gonna di lei, dov’erano le monete, quindi sullo scialle che lasciava intravedere una camicetta slacciata su un medaglione d’oro e una vistosa scollatura “Quanto mi darai?” “Non ho che tre sterline.” rispose lei “Sono tutti i miei risparmi. Te ne darò una adesso e le altre a lavoro compiuto.” “Non sei nella posizione di dettare legge, Juliet.” risposero gli occhi gialli senza staccarsi dal corpo di lei “Voglio tutto adesso e a fine lavoro mi dovrai un favore.” Juliet sospirò, porse a Dem un sacchetto tintinnante “Tieni.” Fece per avvicinarsi, ma lui retrocedette nell’ombra “Poggia tutto sul tavolo. Ti aiuterò.” “Frazie.” sollevata dalla risposta , la ragazza si tirò indietro il cappuccio. Non dimostrava nemmeno vent’anni, non era alta, ma il corpo possedeva proporzioni generose tutte al punto giusto, fianchi sensuali e un seno florido che sicuramente lei amava mettere in mostra. Quando il cappuccio cadde indietro, vi fuoriuscirono una massa di lunghi capelli corvini e un viso dal colorito olivastro, singolare per un’abitante della Metropoli, dove il sole non spuntava mai. Aveva poi una bocca dalle labbra carnose e grandi occhi nervosi, di un verde vivido, segnati da un contorno di nero sulle palpebre. “Muoviamoci però.” disse Dem “Non sono stupido.” deglutì lanciando un altro sguardo alle spalle di Juliet prima di venire alla luce “Questo Out Break è troppo violento, potrà essere sedato solo dalla Deathwatch.” Dem era un giovane di bell’aspetto, non molto alto ma atletico. Aveva capelli castano scuro scarmigliati, una zazzera scomposta lunga fino alle spalle, la pelle tesa sugli zigomi, molto pallida, le labbra scure insane, entro le quali si scorgevano canini più appuntiti del normale. Era vestito di un corpetto di cuoio , cinturone a cui erano assicurate due spade, Grave Digger in mano e cappello a falda larga, stivali di cuoio pesante a completare il tutto.

Gli occhi erano irrequieti, il colore giallo era indice della sua malattia: Dem era un dhampir, un mezzo vampiro, un metaumano.

“Andiamo.” Juliet si ravviò lo scialle sulle spalle e guardò Dem che intascava le monete e annuiva. “Ti avverto che se è stata morsa farò il mio dovere, con lei così come con qualunque cadavere ci sbarri la strada.” “Non c’è problema.” e senza pensare veramente al senso delle parole che Dem aveva pronunciato, Juliet uscì in strada e riprese la sua folle corsa. Dem le stava a pochi i di distanza e si guardava attorno cercando di non perdersi niente. Le monete di Juliet tintinnavano nella sua tasca e una volta recuperata Mimì, viva o morta che fosse, avrebbe avuto ancora un credito da riscuotere. Le strade erano silenziose, la Deathwatch non era ancora arrivata eppure aveva sentito anche lui il messaggio del Generale Bullet. Dovevano agire velocemente perché se i soldati di Bullet avessero visto un dhampir per le strade non si sarebbero fatti scrupoli ad aprire il fuoco contro di lui, giudicandolo un potenziale pericolo. Arrivarono in vista di Whitechapel qualche minuto dopo: le porte erano spalancate e sulle scale c’erano tracce di sangue. Orme confuse sulla fanghiglia che ricopriva le strade, segni di una rocambolesca fuga all’esterno. Dentro, Dem non vide altro che buio. “Là c’è la porta dell’inferno.” annunciò a voce alta dopo aver sputato a terra “Non la troveremo.” Lo sguardo di Juliet lo fulminò e Dem pensò che sarebbe stato semplice stringere le mani sul fragile collo della ragazza fino a soffocarla e spingere la sua carcassa dentro Whitechapel. In fondo nessuno avrebbe pianto per lei, non era che una povera orfana. Toccò le monete che tintinnarono dentro la tasca e guardò Juliet; si ò la lingua sulle labbra: forse ucciderla in quel momento sarebbe stato un o affrettato, forse sarebbe ancora riuscito a scucirle qualche moneta: per esempio,

se avesse salvato la sua sorellina lei gli sarebbe stata in debito per tutta la vita. I rapporti umani non erano faccende da poco. Dem non capiva come ci si potesse affezionare a qualcuno, ma in via teorica sapeva come funzionavano quelle cose. Juliet aveva una torcia Tesla e, un pugnale stretto nell’altra mano, si stava precipitando dentro l’ospedale. Tolta la sicura al fucile a pompa, un vecchio Grave Digger strappato a un cadavere nelle fogne qualche anno prima, Dem la seguì. L’ospedale era vuoto, nessuno si era dato pena di chiudere le porte né di sbarrare alcunché: i degenti erano stati buttati giù dal letto per fuggire, la sala operatoria sembrava essere stata presa a cornate da un ariete, le porte avevano ceduto e giacevano in un cumulo di ferraglia; all’interno, il puzzo di sangue era terribile. Juliet si pose un lembo di scialle sul naso. “Dove la tenevano?” chiese Dem. Alla vista di schizzi di sangue contro una parete, storse la bocca. Istintivamente si pulì il dorso della mano destra contro il mantello, sfregò forte fino a che provò dolore, allora fu soddisfatto. Juliet corse verso le scale: anche lì, su quel bianco altrimenti immacolato, le tracce di sangue erano piuttosto evidenti “Ancora un piano.” “Non mi piace.” disse Dem “C’è troppo silenzio.” Ma non fu Juliet a rispondergli. Entrambi udirono, ben chiaro, uno strillo acuto provenire dabbasso, verso le scale che portavano ai laboratori interrati. “Che diamine succede?” Dem fece un o indietro, il Grave Digger puntato, proprio nel momento in cui Juliet urlò “Mimì!” e senza dir altro si precipitò giù.

Capitolo III: Mantenere le apparenze

Victor correva verso le scale per i corridoi sotterranei di Whitechapel, i i alle sue spalle si addensavano, sapeva che gli animati lo avevano fiutato: sentivano il calore della vita all’interno del suo corpo, e lui non poteva arrendersi. La voce di Helena non smetteva di urlargli di scappare, che gli erano alle spalle. Victor ringraziò mentalmente che Jack fosse un maledetto sadico e che non avesse preferito ucciderlo come un topo all’interno del laboratorio. Si strinse il fianco, da dove cominciava a sentire fitte atroci, e continuò la sua folle corsa fino a quando si trovò di fronte una figurina e dovette arrestarsi per non falciarla. Non dimostrava più di nove anni, era piccola e parecchio smagrita, il camice da notte dell’ospedale le stava largo sulle clavicole scheletriche. I capelli castano chiaro erano corti e ispidi, gli occhi languidi e arrossati come le guance, segno evidente di febbre. La bambina era ferma di fronte Victor, al centro esatto del corridoio, e lo guardava dal basso verso l’alto. I i si avvicinavano e, in meno di due secondi, le ombre avevano quasi raggiunto l’imboccatura del corridoio. Le scale erano a qualche metro: Victor fece per continuare a correre ma la bambina gli si attaccò alla giacca. “Corri.” le urlò Victor lanciandole un’occhiata feroce. La bambina girò gli occhi verso le figure che arrancavano sempre più veloci verso di loro: l’odore della carne fresca eccitava quei cadaveri e la piccola spalancò la bocca in un urlo acuto e strozzato, così improvviso da fare arrestare gli animati per degli istanti, utili a Victor per afferrarla. “Continua a gridare.” le ordinò dopo un rapido calcolo mentale: quegli animati tali da poco tempo, forse mantenevano un barlume di umanità dentro i loro corpi sempre più freddi. La strinse tra le braccia per non lasciarla cadere. Posso farcela, pensò. E come se avesse sentito, anche se Victor aveva qualche dubbio perché ben sapeva cosa significasse vedere gli animati per la prima volta, la bambina

continuò a urlare senza frenarsi, le lacrime agli angoli degli occhi e la bocca livida spalancata. Tra Helena che lo incitava e quelle strida malaugurate, Victor continuò a correre. Stava per giungere all’imboccatura delle scale quando, al crocevia con altri due corridoi, si accorse di essere in trappola: cinque animati lo accerchiarono. Avevano labbra cianotiche spalancate, i denti da predatori, e lui seppe di essere spacciato. Tese il bastone contro i cinque, pronto ad azionare una delle cariche Tesla contenute al suo interno per friggerne almeno alcuni portandoseli all’Inferno, quando udì qualcuno scendere le scale e subito dopo un forte e chiaro rumore di spari. Uno colpì un animato alle cervella: uno schizzo di nero sangue putrido raggiunse Victor alla fronte. Quando si pulì dal sangue, il cadavere era a terra, scosso da convulsioni, umori nerastri che fuoriuscivano dal cranio e dalle labbra. Gli altri quattro continuarono ad arrancare, ma questa volta Victor era pronto: aspettò che un altro gli fosse vicino per azionare la carica galvanica. A giudicare dai vestiti, il suo avversario era stato un infermiere, uno di quegli uomini muscolosi abituati a tenere i pazzi fermi mentre vengono sedati. Victor ringraziò di avere con sé un’arma elettrica. La scarica bluastra colpì in pieno petto l’inserviente che venne colto da forti spasmi muscolari, si morse la lunga lingua arcuata mentre gli occhi schizzavano fuori dalle orbite ed orribili ferite si aprivano sulla cute. L’animato cadde a terra con un tonfo, incapace di muoversi ancora. Il fucile sparò un’altra volta e Victor corse più velocemente che poté, la bambina in braccio, su per le scale da dove era arrivato il fuoco amico. Le mani degli Animati cercarono di avvinghiarsi, le unghia tese: quando furono troppe, Victor estrasse dalla tasca una piccola ampolla contenente un liquido verde che lanciò al centro del corridoio.

Fu solo un lampo e lingue di fiamme verdi esplosero per le mura dell’interrato di Whitechapel. Gli animati procedevano incuranti, tra le fiamme, emettendo quel rumore ronzante tipico della loro lenta avanzata a bocca aperta. Prima presero fuoco i loro vestiti, poi la loro carne; il rantolo si trasformò in migliaia di grida e poi più niente, solo tonfi e odore di carne bruciata. Victor approfittò di quel momento per scappare su per le scale, la bambina boccheggiante contro la sua spalla. Si fermò quando fu di fronte a una ragazza stretta in uno scialle rosso fuoco e a un giovane dhampir, fucile a pompa Grave Digger puntato contro qualunque animato avesse avuto voglia di salire le scale. “Sta’indietro.” gli disse il cecchino. Victor si fece da parte e lui sparò a due animati che si tendevano sulle scale, abbattendoli con mira precisa. Victor si piegò, schiena contro il muro, lasciando la bambina che corse incontro alla ragazza “Juliet, Juliet!” Lei la strinse in un abbraccio, come si fosse trattato del suo tesoro più prezioso “Mimì, sia ringraziato il cielo, sei viva.” sussurrò Juliet contro la spalla scheletrica della bambina, che respirava male e in maniera scomposta. Victor lanciò a entrambe uno sguardo obliquo prima di parlare “Potrebbe essere lì per avere un attacco. Tisi, vero?” Juliet lo guardò per la prima volta, gli occhi verdi smarriti: l’uomo che aveva di fronte era vestito di abiti costosi ma sdruciti, dimessi, e certo non solo a causa delle unghie degli animati “L’ho ricoverata qualche giorno fa, mi hanno detto che..” “Non creda a una sola parola di quello che le dicono i medici, sperano solo di farle spendere più soldi.” rispose lui. Dem intanto aveva messo via il Grave Digger e stava correndo fuori; Victor lo seguì: le fiamme stavano fuoriuscendo dall’interrato, gli animati all’interno

ormai non erano altro che un pallido ricordo, ma le fiamme si stavano espandendo. Juliet prese in braccio Mimì e seguì a ruota Victor, mentre Dem già si scapicollava fuori da Whitechapel senza guardarsi indietro e badando di non inciampare sulla scia di sangue viscido che ricopriva le scale. Quando tutti e quattro furono fuori poterono respirare l’aria inquinata dell’East End a pieni polmoni e guardarsi attorno: nella piazza erano appena arrivate le carrozze inviate dal Generale Bullet, un teschio intrecciato tra spine di rosa sugli sportelli che si aprirono, lasciando are gli uomini in nero armati di Van Haller, i micidiali fucili Tesla. Ignorandoli, corsero subito a presidiare l’edificio. “È questo l’epicentro.” gridò quello che sembrava il più alto in grado “Mettete in quarantena Whitechapel e spegnete le fiamme.” Victor si tirò in piedi: aveva i capelli pieni di fuliggine, il viso sporco di fumo e una mano ustionata dalla carica elettrica che aveva sparato contro gli animati. Si avviò verso l’ufficiale “Voglio parlare con il vostro Generale, avete una radio all’interno delle carrozze se non erro.” L’ufficiale si girò verso di lui, come se l’avesse notato solo in quel momento “Con chi è che vorresti parlare? Ma sentilo, questo povero pazzo, l’abbiamo salvato dalla morte e si permette di dettare legge come se ne avesse l’autorità.” “Voi non avete idea di chi avete davanti.” Victor si morse le labbra, anche se era conscio di essere così coperto di fumo da risultare irriconoscibile “Sono il marchese di Norfolk, Conte Maresciallo d’Inghilterra, di qualunque autorità si parli sotto Sua Maestà, io la possiedo, sono stato chiaro? Si tolga da qui, ho bisogno di conferire con Bullet.” Probabilmente avvalendosi delle sue scarse conoscenze d’etichetta, l’ufficiale non trovò nient’altro di meglio da fare che farsi da parte lasciando salire Victor sulla carrozza. Juliet e Dem si lanciarono uno sguardo interrogativo, subito sostituito da quest’ultimo con un gran sorriso: aveva salvato la vita di un pezzo grosso, avrebbe avuto una bella ricompensa.

All’interno della carrozza, Victor si era appena messo in comunicazione con Bullet “Come vede, Generale” sottolineò accuratamente il titolo “sono riuscito a venirne fuori salvando da solo me stesso e una bambina.” lanciò uno sguardo a Juliet che abbracciava Mimì appena fuori dalla carrozza “Mi chiedo quando la Deathwatch comincerà a fare il suo lavoro, non dovrebbe essere affar mio andare in giro a salvare civili.” “C’è un concetto che vi ostinate a ignorare, si chiama scelta del male minore.” rispose Bullet con astio “Avevo una popolazione da proteggere. Cosa sarebbe stato meglio?, salvare un nobile e una bambina oppure salvaguardare tutto l’East End?” “Idiozie, l’epicentro è partito da Whitechapel e lei pur sapendolo ha mandato i carri solo adesso.” ringhiò Victor a voce più alta “Stia attento, Bullet, la sua condotta arbitraria non piace a molti, si potrebbe decidere di mandarla in pensione anticipata e noi non vogliamo che succeda.” “Solo il Signore dispone del mio futuro.” fu la risposta di Bullet, che a dispetto delle parole mise su un tono che sfidava chiunque ad allontanarlo dal lavoro di cui era schiavo da anni. Victor interruppe la comunicazione radio sbattendo le cuffie sull’apparecchio con rabbia. Uscì fuori dalla carrozza per vedere Juliet che cullava Mimì: la bambina si era fatta ancora più pallida di prima e non sembrava cosciente. “Signore?” Juliet gli andò incontro: misurava ogni gesto, quasi temesse di turbare il sonno della bambina. Victor le lanciò uno sguardo privo d’interesse. “Vorrei ringraziarvi per aver salvato Mimì.” disse Juliet con un piccolo sorriso, gli occhi colmi di riconoscenza “Non sarebbe qui senza di voi.” “Me la sono trovata davanti, non potevo fare altro.” le rispose Victor, gli occhi socchiusi in un’espressione scocciata: non vedeva l’ora che quella conversazione volgesse a termine, particolare che evidentemente non fu colto da Juliet “Ho sentito chi siete, ho sentito parlare della vostra bravura come medico. Al giorno d’oggi, è impossibile trovare qualcuno disposto a curare una bambina dell’East End e..”

“Non sono un buon samaritano.” tagliò corto Victor prima di darle le spalle. “Ma voi l’avete salvata.” Juliet non sembrava intenzionata a demordere “Ve ne prego, signore, se aiuterete Mimì potrò darvi in cambio quello che volete, sono disposta a tutto.” Victor si morse le labbra: quella donna pressante era l’ennesimo, fastidioso inconveniente della giornata e lui odiava gli inconvenienti “Piccola, lurida bifolca, mi hai preso per un cacciatore di taglie, per un avventuriero o per un ladro da strapazzo della tua schiatta?” sbottò alla fine, voltandosi verso di lei “Non c’è niente che puoi fare per quella mocciosa, per curarla servirebbero medicine che non ti potresti permettere nemmeno fra un milione di anni. Morirà, e anche prima di quanto immagini, e tu non potrai farci niente, capisci? Niente.” Aveva ringhiato senza quasi prendere fiato. Juliet lo guardò senza sbattere gli occhi che si inumidirono per le parole spietate dell’uomo che aveva davanti. Strinse più forte Mimì, le dette un bacio sui capelli ispidi “Ma voi quelle medicine potreste permettervele. Siete sicuramente di buon cuore, l’avete salvata.” Victor scosse furiosamente la testa, premendosi le dita sulle palpebre “Va’ via, te lo dico per l’ultima volta, pezzente.” “Non fateci caso.” una voce affettata alle spalle di Victor lo fece voltare: non si stupì di vedere Dem, fucile dietro la schiena e braccia incrociate, un mezzo sorriso di finta comione tutto per Juliet “Darebbe l’anima al diavolo per quella bambina. Io ho imparato da tempo a non fidarmi del prossimo, tantomeno ad amarlo.” Victor squadrò Dem da capo a piedi, era ben armato e aveva già dato prova della sua precisione con il fucile, dentro Whitechapel “Il tuo nome..?” chiese. “Plant.” il dhampir aprì le labbra in un sorriso ancora più ampio, mostrando denti irregolari e giallognoli “Dem Plant. Sono un cacciatore di taglie: vampiri, animati, uomini, non mi faccio problemi, per me i bersagli sono tutti uguali.” Non si era nemmeno tolto il cappello prima di presentarsi. Era chiaro che non possedeva la minima educazione e non aveva alcuna voglia di improvvisare come ci si dovesse comportare di fronte a un nobile, ma a Victor non importava:

quel Plant era un buon cecchino e Smiling Jack aveva dato prova di essere una buona spina nel fianco. Se Victor avesse avuto un cane da guardia dentro Whitechapel, tutto quel trambusto non sarebbe accaduto. “Plant, ti andrebbe di metterti al mio servizio?” “Prendere o lasciare, non c’è altra soluzione.” rispose Dem, squadrando Victor con gli occhi giallognoli “La paga è buona?” “Quanto basta.” sbottò Victor “Non ti preoccupare di questo.” Dem sorrise ancora più apertamente, e nei suoi occhi non c’era felicità: sapeva di essere un miserabile, e la cosa non gli era mai interessata. Tutto quello che chiedeva era continuare a sopravvivere, possibilmente senza provare dolore. La sua vita fino a quel momento era stata errabonda, si portava dietro numerosi fantasmi e molti di questi facevano male; la protezione di un nobile avrebbe potuto fargli comodo, e poi chi era Dem per tirarsi indietro quando sentiva profumo di denaro? “Quando comincio?” “Subito.” Victor gli dette le spalle “Ti trasferirai a casa mia. Se hai parenti o cos’altro ti conviene salutarli perché sarà difficile che tu li riveda, il servizio è perenne.” “Non ho nessuno.” Dem tirò fuori dalla tasca un pezzo di pane muffito che prese a sbocconcellare “Funziona in maniera semplice: voi mi dite dove devo sparare, io lo faccio. Sempre che voi non dimentichiate di pagarmi.” “Non avverrà.” le spalle di Victor fremettero. Camminò fino a trovarsi di fronte Juliet, che era rimasta in disparte con la bambina stretta a se, le guance rigate di lacrime. ò un lampo nella testa di Victor, una luce improvvisa che aveva il viso e la voce di Helena. È così che vuoi far crescere nostro figlio? , disse la luce. “Cosa vuoi dire?”

Sai in che condizioni verte la famiglia, non abbiamo altri che Andrew. Quella ragazza potrebbe esserti utile come domestica. “Helena lo sai” Victor avvertì un brivido lungo la schiena “lo sai che i miei esperimenti hanno preso tempo e denaro, poi la filanda è fallita, quel maledetto incidente..dovrò già pagare la guardia del corpo.” Non è necessario che tu la paghi, Victor, lei è disposta a tutto pur di vedere viva quella bambina. Usala più che puoi., disse Helena. Victor drizzò le spalle. Sentiva che Helena si stava allontanando, il cuore prese a battergli più forte, sconquassandogli la cassa toracica “Helena, no, non andare via.” Fa’ ciò che ti sei prefissato, Victor, ma non permettere che nostro figlio cresca come un bifolco. Non permettere che non venga giudicato degno dei suoi pari. Mantieni le apparenze, fallo più che puoi. La voce severa di Helena disparve e Victor gemette di dolore. Doveva continuare gli esperimenti, doveva riprovare, e questa volta, fosse arrivato pure Smiling Jack o un cataclisma, non si sarebbe fatto trovare impreparato. “Tu” disse, gli occhi verso Juliet “Curerò la tua bambina, in cambio ti metterai gratuitamente al mio servizio.” La ragazza alzò lo sguardo non credendo alle proprie orecchie “Voi..” “Poche chiacchiere e seguimi , non ho tempo da perdere con i convenevoli.” Victor fece roteare il bastone , si avviò alla carrozza che lo attendeva nel cortile di Whitechapel “Ti occuperai del mantenimento della casa, se accetti non voglio lamentele né richieste di pagamento e voglio che sia chiaro che questa non è né elemosina né simpatia per quella mocciosa o per voi pidocchi dell’East End. È chiaro?” Juliet balzò in piedi, la bambina ancora rincantucciata contro “Sì signore.” “Così va meglio.” rispose Victor con una smorfia.

Capitolo IV: La famiglia Howard

La carrozza lasciò Victor, Dem e Juliet, con Mimì ancora in braccio, di fronte alla magione dei marchesi di Norfolk, al numero 53 di Bath Road, West End. Era una grande villa circondata da un a muro di pietra e da un grande giardino. La casa , su tre piani, sorgeva su uno dei luoghi più brulli del West End ma, chissà come, i marchesi avevano saputo far attecchire nel giardino numerose piante di varia provenienza e genia, rendendo quel luogo un gioiello per tutto il quartiere aristocratico. “La prima regola” disse Victor rompendo il silenzio che era calato tra loro in carrozza “è non fare domande d’alcun genere.” Aprì la porta. L’interno della casa dava l’impressione di un luogo un tempo ricco e sontuoso su cui si era posata la patina della dimenticanza. “La seconda” si guardò attorno come un animale che torna alla tana dopo una notte di caccia e vuole accertarsi che è rimasto tutto uguale “è che ciò che faccio nel sottoscala è affar mio, se anche avvertiste rumori non siete tenuti a preoccuparvene.” Un dito di polvere pervadeva ogni mobile della sala d’ingresso, il grande pendolo a muro sembrava non essere ricaricato da anni. Un tappeto persiano giaceva, arabescato e dimenticato, in un angolo della vasta sala d’ingresso che appariva buia e lugubre con appena due candelabri accesi, la cera che cadeva sui tavoli in mogano corrodendone il legno pregiato. Le pesanti tende rosso scuro erano tarlate, tirate a coprire le ampie vetrate. “La terza” una statua greca che raffigurava una donna nuda senza braccia al centro della stanza avrebbe avuto bisogno di intensa opera di restauro mentre le assi in legno del pavimento cigolavano e dalle spaccature fuoriusciva polvere “è che le chiavi di alcune ale della casa le tengo io, e nessun altro oltre me può accedervi.” Se qualcuno avesse dovuto scrivere un romanzo su quella casa, rifletté Juliet guardandosi attorno, il titolo perfetto sarebbe stato le stanze della mia decadenza. Non riusciva a immaginare quali problemi o difficoltà avessero potuto indurre un

nobile conosciuto e di così antica genia come il marchese di Norfolk a non dedicarsi più alla cura della propria casa, una casa che lei avrebbe ringraziato a vita di possedere. Strinse di più Mimì al seno e seguì Victor. Sulle scale della grande stanza, ad attendere il padrone di casa, un giovane maggiordomo in marsina scura e aria grave. Quell’aria professionale, pensò Juliet, era come un pugno in un occhio, in tutta quella decadenza. Il maggiordomo sembrava dimostrare più di venticinque anni, e reggeva un candelabro . “Andrew” Victor batté il bastone per terra, si alzò una nuvola di polvere e il rumore rimbombò in tutta la sala “Fa’ vedere a queste persone i loro alloggi.” Andrew non si mosse dagli scalini ma abbassò il capo in un saluto ossequioso “Le stanze della servitù, Mio Lord?” “Lui è la mia guardia del corpo.” spiegò Victor, spiccio, indicando Dem con un cenno del capo “E lei ti si affiancherà nella manutenzione della casa.” un altro cenno verso Juliet. “Vogliate seguirmi.” disse subito Andrew. “Conto su di te per spiegar loro tutto, non ho tempo da perdere in chiacchiere inconcludenti.” disse ancora Victor a Andrew. Il maggiordomo annuì scortando Juliet e Dem verso le cucine “Il marchese è uno degli uomini più importanti di Londra, vi rivolgerete a lui con l’appellativo Mio Lord. Il figlio del Marchese, il signorino Hermann..” Victor osservò il gruppo andar via. Guardò i dipinti appesi alle pareti della sala: i suoi antenati lo fissarono, testardi, insidiosi, arcigni come solo i membri della famiglia Howard potevano essere. Della maggior parte di loro non conosceva che storie o leggende, di altri più o meno niente. Sulla prima rampa di scale, ad abbracciare tutto, il capostipite della famiglia Howard dal 1908, anno dello scoppio della Piaga, il Duca Henry Howard. Victor era cresciuto sotto il suo sguardo e sempre sotto quegli occhi verde

, gli occhi di una persona che amava lottare per ciò che amava, aveva vissuto le sue più grandi tragedie: la scomparsa di sua madre, il fallimento della filanda di famiglia e poi la morte di Helena. Ricordava bene quando, quattro anni prima, gli era stato portato il corpo squarciato della moglie, privato d’ogni organo: anche volendo creare una creatura prometeana, Victor non avrebbe potuto farlo, di Helena non esisteva altro che la pelle, l’involucro. Si abbassò sul tappeto rivoltato, lì da qualche parte era stato il corpo di Helena: c’erano ancora le macchie, rosse di sangue rappreso, che mai lui aveva voluto far smacchiare. Aveva pianto come un bambino, si era strappato i capelli, aveva battuto i pugni contro il pavimento e contro se stesso di fronte al grottesco involucro che gli era stato consegnato. Helena non si sarebbe potuta nemmeno alzare come animata; era stata semplicemente annientata, sottratta alla faccia della terra. Alzò il viso per guardare il ritratto a grandezza naturale della sua famiglia come appariva un tempo, quando ancora la tragedia non li aveva toccati. Da una parte c’era lui: quando quel ritratto era stato commissionato si era da poco prestato ad un ciclo di cure antiagapiche, quei trattamenti avveniristici che permettevano il ringiovanimento e il mantenimento dei tessuti all’età ottimale di trentacinque anni. Victor osservò le sue mani, si sfiorò il viso e per un attimo trovò il suo aspetto alieno, si rese conto di essere troppo vecchio per il suo corpo, trentacinquenne da trent’anni, capì che era troppo. Accanto a lui Helena, i capelli ricci castano chiaro, gli occhi scuri, quegli occhi grandi che per Victor erano sempre stati la vita e che non vedeva da così tanto tempo. Avrebbe potuto uccidere per loro, smuovere mari e monti, bastava che lei lo fissasse perché Victor si prestasse a ciò che lei avesse voluto. Si soffermò sulle sue labbra sottili, le sue spalle, la vita stretta in un corpetto che era sempre troppo asfissiante. Gli occhi di Victor erano tutti per la sua Helena, non guardò nemmeno i tratti della terza persona ritratta in quel dipinto, forse l’unica che avrebbe potuto dargli attestazione dell’ancor viva presenza di una parte di Helena sulla terra.

Victor dette le spalle al ritratto e si diresse a una porta in legno intagliata nel sottoscala che sarebbe parsa invisibile a chiunque non vi avesse prestato attenzione. La aprì con una piccola chiave che teneva appesa al collo e scese le scale del suo laboratorio personale. Di tutta la casa era senz’altro quello l’unico posto in cui, dopo la morte di Helena, si fosse mai sentito al sicuro. Lì, tra i suoi alambicchi, le sue macchine galvaniche, i bisturi, i distillati e i veleni; lì e solo lì Victor riusciva a stare ancora bene. Era il suo sancta sanctorum; la casa andava in rovina, i domestici dovevano andare via ed era solo al laboratorio che lui provvedeva, perché da quel luogo sarebbe uscita l’idea che avrebbe riportato Helena da lui, e allora la casa degli Howard, che da quattro anni era ferma in stasi, avrebbe potuto rinascere come l’araba fenice dalle sue stesse ceneri. Victor sfiorò una grossa ampolla colma di un liquido incolore e vischioso. Aveva le dita tremanti: dall’Als, il liquido che poneva in stasi la materia organica, sarebbe rinata la sua Helena. Tutto il denaro che aveva speso riguardava gli esperimenti. Non gli importava altro, né dei domestici, né della casa, né del ragazzino che con un balzo sgraziato stava scendendo gli ultimi gradini del sottoscala e lo guardava in silenzio, gli occhi sbarrati. Un moto di rabbia nel vedere quel ragazzino scosse le spalle di Victor “Che cosa ci fai qui?” tuonò, facendo un o in direzione di lui che retrocedette continuando a fissarlo in silenzio sacrale, non osando quasi respirare. “Allora?” Il viso di Victor era trasfigurato, schiumante d’ira. Il ragazzino dimostrava dieci anni e non era alto, né si poteva definire bello. Anzi era tozzo, sgraziato, dalle spalle strette e un piccolo collo incassato. I capelli biondicci erano tirati indietro da un’ esagerata quantità di brillantina, il viso era lucido e gli occhi slavati, quasi incolori. Victor si avvicinò a lui che cadde di spalle contro il primo gradino, lo afferrò per un orecchio e con tutta la forza che aveva gli torse il braccio “Quante volte” sillabò contro il suo orecchio che divenne subito paonazzo; il bambino annaspò

come se gli mancasse l’aria “Quante volte ti ho detto, razza di disgustoso aborto, che non devi portare la tua pancia spropositata qui dentro a meno che non te lo chieda io?” Il bambino urlò di dolore e paura, il braccio torto dietro la schiena e gli occhi porcini strizzati “Vi prego..” strillò come un maiale sgozzato. Ma Victor aveva altri programmi. Senza allentare la presa lo scortò su fino alla sala d’ingresso e solo allora lo lasciò. “Rimani qui.” ordinò dato che lui stava per scappare. Negli occhi di Victor, nient’altro che disgusto “Ho assunto due domestici, Hermann, giusto perché tu non cresca come un selvaggio” si morse le labbra “o un maiale; effettivamente sei più vicino alla seconda possibilità che alla prima.” Hermann si accoccolò contro il corrimano in legno delle scale, frignando di dolore ma guardando Victor con qualcosa che era insieme disperazione masochistica e grottesca ammirazione “Volevo..volevo solo salutarvi, erano giorni che..” “Smettila di frignare, sei un uomo.” Victor troneggiava di fronte a lui. “Erano giorni che non vi vedevo.” Victor scosse la testa, non si sforzava nemmeno di mascherare la repulsione “Comincio a credere che sia tu la causa del mio malumore ma d’altro canto come trattenersi? Guardati, sei disgustoso.” “Ma io..” Hermann si drizzò in piedi, gli occhi rossi rigonfi di lacrime. Sapeva di essere solo e suo padre non provava alcuna gioia né soddisfazione nel vederlo. “Non fai altro che piangere, più tento di raddrizzarti più diventi storto. Che devo fare con te? Sei privo del benché minimo talento, uno sputo al buon nome della famiglia, una vergogna per me.” Strinse le labbra e si sedette sui gradini delle scale, dalla parte opposta a quella di Hermann “Che cosa vuoi che me ne faccia del tuo grugno, adesso? Ho avuto una pessima giornata e tu la stai peggiorando, lo capisci questo?” gli lanciò uno sguardo di odio, gli occhi spenti di Victor ebbero un guizzo, uno soltanto. Hermann sembrava terrorizzato “Fila via.”

Le ultime parole non lasciavano spazio a repliche. Hermann colse al volo l’opportunità e, gli occhi talmente colmi di lacrime da avere davanti solo ombre confuse, si rifugiò al primo piano, verso la sua stanza. “Inutile.” rimasto solo, Victor si sentì fremere ancora di più, ma questa volta non era rabbia, quella stava scemando. Non sapeva se odiava davvero suo figlio; ma ogni volta che se lo trovava davanti avvertiva un moto di rabbia incontenibile. Lo repelleva quel fagotto timido e impacciato, così poco nobile, così diverso da lui, così diverso da Helena. Si accasciò contro il corrimano, la tempia bollente contro il legno. Socchiuse gli occhi “È tutto inutile.”

Capitolo V: L’ olezzo del dolore

Victor aveva trascorso la notte in laboratorio cercando di giungere a un punto fermo degli esperimenti. Sapeva perfettamente come riuscire a ridare vita a un corpo morto, aveva studiato a fondo la composizione dei prometeani, avrebbe saputo indicare a occhi bendati ogni fragile collegamento delle terminazioni nervose all’energia galvanica, ogni filamento da ricucire e i tagli precisi da infliggere alla scatola cranica per reinnestare il cervello. L’unico problema era che senza il cervello di Helena, non avrebbe mai potuto riavere indietro sua moglie. Victor sapeva di avere un grande vantaggio, quello di avere accanto lo spirito di sua moglie: ciò a cui voleva arrivare era il coronamento di un esperimento mai tentato: cercare di trasferire uno spirito dentro un corpo morto, sigillarlo al suo interno tramite l’energia galvanica e alla fine ridargli vita. Il problema era che non aveva idea di come si potesse proiettare uno spirito da un luogo a un altro e anche Helena da quando era morta era sempre rimasta attaccata a Victor e non sapeva, o forse non poteva staccarsi da lui. Victor era in dormiveglia nel suo laboratorio, la testa ripiegata su una spalla, la schiena contro il freddo muro di pietra. Indossava ancora gli abiti del giorno prima e i capelli erano una zazzera disordinata e stopposa. Non ricordava quando era stata l’ultima notte che aveva dormito sonni tranquilli, l’insonnia lo massacrava, i pensieri che lo assillavano erano troppi. Doveva ripetere l’esperimento e per farlo aveva bisogno di costruire un altro prometeano e doveva farlo subito, non poteva permettersi di perdere altro tempo. Si alzò di scatto e senza badare all’atroce mal di schiena che l’aveva appena colto si precipitò su per le scale allo studio del primo piano. La polvere che lo accolse quando spalancò la porta rivelando una stanza che non veniva pulita da anni, lo fece tossire più e più volte. Senza badare al buio, Victor accese una candela. Si fermò alla cassaforte: all’interno non trovò che le ultime dodici sterline. Strinse le monete e serrò gli occhi, aveva soldi per un ultimo esperimento, non

avrebbe potuto permettersi altri errori, non più. ** La campana della cattedrale di St.Paul aveva suonato da poco le otto e Juliet si stava dando da fare a pulire la sala da pranzo. Aveva cominciato a lavorare due ore prima, svegliata dal solerte Andrew che le aveva spiegato come funzionavano le cose in casa Howard. Su Victor non si poteva contare per alcun consiglio amministrativo, stava sempre chiuso nel laboratorio del sottoscala e nemmeno il maggiordomo sapeva cosa fe là dentro. Il marchese di Norfolk era geloso delle sue cose e non permetteva a nessuno di entrare in laboratorio, in camera da letto o nello studio. Per quanto riguardava le altre stanze, Andrew aveva fatto il possibile per non farle cadere in rovina ma i suoi sforzi da solo non bastavano. Gli altri domestici erano andati via quattro anni prima, in parte cacciati dal padrone di casa, in parte per altri motivi su cui il maggiordomo era stato molto riservato. L’unico figlio di Victor, Hermann, in quel momento era alle spalle di Juliet e stava facendo colazione. Non sembrava avere molta voglia di mangiare, per cui Juliet, dopo aver lanciato un rapido sguardo a Andrew che si trovava nella sala principale in bilico su una scala e cercava di spolverare un grande lampadario di cristallo, gli si avvicinò “Ciao.” Lui alzò lo sguardo, gli occhietti incolori ebbero un sibilo di curiosità “Sei la nuova domestica?” “Sono arrivata ieri. Non è buono?” chiese, occhieggiando i dolci che Hermann aveva nel piatto: non sapeva di cosa si trattasse ma sicuramente non era l’orribile pastone insapore che lei era abituata a trangugiare fin da piccolissima. Hermann alzò le spalle grassocce “Non ho fame.” C’era qualcosa negli occhi di quel brutto bambino che fece venire a Juliet la voglia di stringerlo tra le braccia, una malinconia della quale si sentiva partecipe, una cappa che l’aveva presa non appena aveva messo piede in quella triste casa. Hermann sembrava molto più vecchio della sua età e lei non poteva capacitarsene.

“Mi dispiace. C’è qualcosa che posso fare per te?” Hermann tremò, come se non fosse abituato a parole tanto gentili “No..no..” teneva gli occhi spalancati “Papà non mi vorrebbe vedere parlare con i domestici.” “Lascia stare tuo padre, se hai qualche problema devi parlarne a qualcuno, non puoi certo tenerti tutto dentro.” spiegò Juliet con tono spiccio “Io sono Juliet e tu sei Hermann, vero?” Hermann non rispose. Si morse le labbra e Juliet notò che le sue unghie erano completamente mangiate, inesistenti “Perché ti fai questo?” chiese mentre avvertiva un’ondata di disgusto misto a pietà e prendeva tra le sue una delle mani grassocce del bambino. “Perché sono brutto, inutile e repellente.” Hermann sussurrò a fior di labbra quelle parole come se le avesse imparate a memoria ma lui stesso stentasse a credervi. “Chi te le dice queste cose?” Juliet aggrottò le sopracciglia. “Mio padre.” Juliet si guardò attorno, ma non sembrava esserci anima viva “E tu ti senti brutto, inutile e repellente?” gli chiese chinandosi verso di lui. “Qualche volta..un po’.” Hermann deglutì “Lui è sempre arrabbiato quando mi vede.” i suoi occhi erano irrequieti, come se si aspettasse che Victor piombasse dentro la stanza da un momento all’altro. “Magari tuo padre è arrabbiato per altri motivi, sai. Io sono sicura che non sei inutile e se fossi così brutto non vorrei stare nella stessa stanza con te, ti pare?” Juliet sorrise “Secondo me tuo padre non sospetta nemmeno in quante cose sei bravo. Cosa ti piace fare?” “Mi piace suonare il violino. E disegnare. E scrivere, tengo un diario.” per quanto si sforzasse di mantenersi serio e distante, nel parlare di quello che gli piaceva, le labbra di Hermann si schio in un sorriso timido che contagiò anche Juliet “Vuoi sentirmi suonare qualcosa?” chiese speranzoso.

“Va bene.” E con aria di intontita felicità, Hermann balzò giù dalla sedia. Fece per precipitarsi fuori dalla porta che però fu bloccata dalla sagoma di Victor. Il marchese prima gettò a Hermann un’occhiata raggelante, quindi continuò a camminare verso Juliet che osservò la scena sentendo il cuore incrinarsi. Aveva capito cosa intendeva Hermann. “Buongiorno, padre.” disse Hermann con un piccolo sorriso speranzoso non appena Victor gli voltò le spalle “Stavo per far ascoltare alla signorina come suono il violino. Vuoi sentire anche tu?” Victor si fermò di botto “Che cosa ti avevo detto in merito alla mattina, Hermann?” chiese, sillabando attentamente ogni parola. Le labbra di Hermann tremarono “Che..” balbettò “che..” “Che non ti voglio nella mia stessa stanza. Vattene, fila via subito.” la voce di Victor era un ringhio. Hermann era paralizzato dal terrore, così tanto da non fare nemmeno attenzione alle parole di suo padre. “Mi hai sentito?” ringhiò ancora Victor “Va’ via, impiastro.” Hermann scappò via con un guizzo, Juliet sentì i suoi i pesanti su per le scale e d’istinto fece per seguirlo trovandosi il o sbarrato da Victor “Perché tu lo sappia” disse, spiccio “i panni sporchi si lavano in famiglia e tu non fai parte della mia famiglia. Non ti permettere di rivolgere una sola parola a mio figlio.” Juliet stava per rispondere che non poteva che essere contenta di non far parte di quella famiglia disastrata, che lei non aveva mai avuto niente dalla vita ma che almeno aveva cercato di non far mancare l’amore al piccolo nucleo che aveva creato con Mimì, e che se era davvero quella la nobiltà allora preferiva rimanere povera e priva di mezzi, ma si trattenne, era ancora troppo presto e Victor non aveva ancora visitato Mimì. “Sì, Mio Lord.” si limitò a dire.

Victor la squadrò per qualche istante prima di tornare a parlare “Tu e Dem dovrete andare a Stepney a fare per me delle commissioni.” spiegò “Al mercato della carne c’è un certo dottor Wagner, ha una bottega. Parlate con lui, sa esattamente ciò che mi serve. Pagatelo con questi” estrasse dalla tasca un sacchettino che tintinnò di monete “è la cifra esatta.” Juliet prese il sacchettino dalla mano di Victor. “Dem si sta già preparando, dovrete fare più in fretta possibile, i pezzi che mi occorrono sono molto delicati.” continuò “Non tollererò errori.” “Non ci saranno errori.” a parlare era stato Dem, le braccia incrociate sull’armatura di cuoio usurata e appena sotto una camicia molto larga, il solito cappello a coprire la zazzera castano scuro “Non c’è nemmeno bisogno di tutti e due per un lavoro così facile.” “Dovrete trasportare molti pezzi.” lo riprese Victor “Se non tornate, consideratevi morti.” “Mio Lord” Juliet era quasi sull’uscio quando si voltò di nuovo “mi chiedevo se aveste già visitato Mimì.” “Ogni cosa a suo tempo.” le rispose Victor, ogni parola un ringhio “Tu procurami quei pezzi.” ** Il mercato di Stepney era il più grande di Londra e di tutto l’East End, le bancarelle si perdevano a vista d’occhio e lì si diceva fosse possibile trovare di tutto, da corpi umani pronti per essere tagliuzzati a libri antichi in edizioni credute perdute fino alla corona di Enrico II Plantageneto o un dito di S.Giorgio, reliquiario prezioso, ma discernere i falsi da ciò che di veramente buono c’era a Stepney erano affari del compratore. Dem e Juliet avanzavano in silenzio tra la folla, entrambi privi di maschera antigas, il primo perché non ne aveva bisogno, la seconda perché non se ne era mai potuta permettere una. Qualche volta Juliet lanciava a Dem un’occhiata in sottecchi e tutte le volte che lui ricambiava, i suoi occhi giallognoli non andavano oltre il pesante e insolito medaglione che Juliet teneva sempre al collo.

Era un medaglione che faceva gola a molti, tutto d’oro com’era, e la ragazza non se ne separava mai. L’aveva sempre avuto, almeno per quello che riusciva a ricordare: le suore della Gilda gliel’avevano riconsegnato l’anno prima, il giorno in cui aveva abbandonato la Casa di Carità, le avevano spiegato che premendolo si apriva. Al suo interno era stato impresso il nome Juliet, per questo le suore avevano deciso di chiamarla così. “Il posto dev’essere questo.” disse Dem: l’odore era nauseabondo e il crocchio di persone di un numero consistente; si doveva andare avanti a spintoni per are. La bottega che Dem stava indicando era lurida e lugubre, l’unico ingresso era chiuso da una tenda putrescente di un colore indefinibile. Non appena entrarono, i due si trovarono in un angusto labirinto di scaffali colmi di merce catalogata e sotto vetro. La scelta era ampia, pensò Juliet guardandosi attorno disgustata: si andava da feti deformi a interi corredi anatomici. “Credo che andrò a rimettere.” rantolò la ragazza poggiando la mano sulla spalla di Dem che da parte sua badò bene di scrollarsela di dosso “Non mi importa delle tue lamentele.” sbottò, quindi alzò la voce “Dottor Wagner?” Se ci fosse stato un animale da paragonare all’uomo che venne fuori dall’ombra, quello sarebbe stato un ragno. Pallido, filamentoso, vecchio oltre ogni dire, gli occhiali fondi incrinati in bilico sul naso dall’ossatura debole, pochi peli, tutti in luoghi sbagliati del viso, macchie sulle mani dalle unghie lise di nero. La figura era stretta in un camice bianco macchiato di sangue sui polsi, camice a cui mancavano parecchi bottoni, allacciato male. “Posso fare qualcosa per voi?” con somma sorpresa di Juliet, la voce dell’uomo non era debole e acuta come aveva immaginato, ma forte e giovanile. “Abbiamo un ordine da parte del marchese di Norfolk.” disse Dem, le mani che carezzavano le spade ai fianchi. “E il marchese di Norfolk non pretenderà nuovamente del credito, spero.” Wagner strusciò una mano sull’altra, e la mascella sulla mandibola, provocando un rumore insopportabile di vetri rotti che fece gemere Juliet.

Dem, estrasse il sacchetto con le monete “Il marchese di Norfolk ha sempre come pagare.” disse, gettando l’involto in aria verso Wagner che, con insolita destrezza, lo afferrò per intascarlo subito. “Molto bene, sembra che il vostro padrone sia fortunato.” Wagner dette le spalle ai due per inoltrarsi tra le scaffalature e scomparire nel buio “Ho qui dei pezzi anatomici interessanti in ottimo stato di conservazione” disse molto lentamente con la sua voce giovanile “Ancora qualche giorno però e avrei dovuto disfarmene, sarebbe stato un peccato doverli vendere ai ghoul.” Un odore aspro di carne cruda inondò la stanza e Juliet affondò ancor più il naso dentro il fazzoletto; Dem, al contrario, non fece una piega. Dall’oscurità si intravedeva Wagner piegato su se stesso che sistemava qualcosa dentro un sacco di feltro. “Ci darai tutto?” si informò Dem, le braccia incrociate sulla pettorina in cuoio. “Non manca niente, di’ al tuo padrone di stare tranquillo.” rimase zitto per qualche istante, pensoso. “Qualcosa non va?” chiese ancora Dem, gli occhi gialli puntati su quel poco che riusciva a vedere di Wagner che tornò lentamente alla luce trascinando un sacco dall’aspetto pesante, macchiato di quello che evidentemente era sangue “Mi chiedo” disse il dottore quando fu a pochi i da Dem “Se il marchese di Norfolk conosce la storia dei Deville.” “Che?” “Credo di no, ovviamente, e come potrebbe, d’altro canto?” Wagner si carezzò il mento con aria assorta, senza far caso a Dem “Eppure le tipologie sono così simili..” “Ma insomma, chi sarebbero questi Deville?” sbottò Dem “Parla.” Wagner alzò le spalle, guardò Dem e si ò una mano su un grosso porro che aveva sul collo e c’era qualcosa nel modo in cui lo carezzava che fece supporre a Juliet che non fosse solo quello che sembrava. “Dite questo al marchese, che i Deville erano una famiglia di si impiantata a Londra, borghesi niente di più; il capofamiglia era un farmacista, era riuscito a

comprare una bella casa nella North Side. Ebbene, dhampir, io conosco tutti i medici e gli alchimisti di Londra, nessuno escluso: chiunque comincia a miscelare ingredienti e a dilettarsi di piccole, stupide esplosioni alla fine arriva da me smanioso di mettere le mani sulla carne dei cadaveri” Wagner sospirò, le sue vecchie vene tese come il collo di una tartaruga “perché la morte è una delle nemiche più oscure e silenziose, ben poco interessante, ben poco malvagia.” scosse piano la testa “È giusta. Ed è proprio la sua correttezza che fa impazzire gli uomini che si adoperano per strapparle coloro che ghermisce.” L’odore di carne putrida s’era fatto insopportabile. Juliet fece qualche o indietro, verso la tenda che fungeva da porta. Dem aggrottò le sopracciglia “Taglia corto, vecchio idiota, dicci quello che sai.” “Dovresti imparare a trattare con le persone anziane, dhampir.” rispose Wagner con un piccolo sorriso malato. Dietro gli occhiali era impossibile capire dove guardasse, tanto erano fondi “Ad ogni modo, Victor Howard è un mio buon cliente, non posso certo permettermi di perderlo. Charles Deville capitò nella mia bottega quasi per caso, girava per Stepney da giorni, era sudicio e maleodorante, puzzava di alcol. Capii che era un farmacista dalle domande che mi porse, capii che avrebbe comprato qualcosa quando avvertii in lui l’olezzo del dolore, odore ben più forte del più scadente gin, impossibile da mandar via: lo stesso che ha addosso il vostro padrone.” Dem lo sfidò con lo sguardo a continuare a tergiversare; sembrava che Wagner avesse gusto a farli attendere, come se volesse trattenerli apposta nel suo putrido negozio, tra feti umani e ombre tra gli scaffali, carne umana che era stata rifiutata o si preparava ad essere riutilizzata perché, come il maiale, non si getta via niente e, Dem l’aveva sempre pensato, tutti gli uomini somigliavano a dei grassi maiali, in fin dei conti. “Charles Deville mi fece delle grosse ordinazioni da quel giorno, chiese corpi su corpi. Scoprii che sua figlia piccola era morta. Tisi, mi disse lui. Il suo fantasma però tartassava Deville, lo supplicava di fargli avere un corpo e lui aveva deciso di giocarsi tutto. Voleva riallacciare l’anima della figlia morta in un corpo prometeano.” “ Cos’è un prometeano?” chiese Juliet rompendo il suo silenzio, e se ne pentì subito, l’odore che inspirò era nauseabondo.

Wagner inarcò le sopracciglia, sottilissime e sparute, e mostrò la dentatura ancora dritta anche se giallognola “Non lo sapete ? Non avete mai letto Frankensten?” osservò l’aria stranita di Juliet prima di continuare “Immagino di no. Esistono molti prometeani a Londra solo che le persone, incontrandoli, non ci fanno caso. La maggior parte sono costruiti e finanziati dal Ministero della Sanità e sono automi programmati per fare determinati lavori così..” un piccolo risucchio dalla bocca mentre prendeva aria “.. così disgustosi da non voler essere svolti neanche dai più infimi tra gli esseri umani. Ogni tanto un dottore romantico cerca di mischiare occultismo, alchimia e medicina per inserire in un prometeano vuoto i ricordi e la mente di qualcuno che non c’è più. Una cosa incredibilmente pericolosa.” Wagner sorrise con l’aria di chi la sapeva lunga. “Oltre che illegale. Non che mi importi, ovviamente.” disse andosi le mani sul camice sporco di sangue e tendente al grigiastro. “Non credo sia qualcosa che vi riguardi.” Wagner si ò la lingua nerastra sul taglio che aveva al posto delle labbra “ma al posto vostro direi a Victor Howard di are a controllare casa dei Deville.” “Che fine ha fatto il signor Deville?” chiese Juliet. Wagner alzò le spalle e ò il pesante sacco che reggeva a Dem. Ai suoi piedi s’era formata una grossa pozza di sangue “Non ne ho idea, non esco mai da qui.” disse con aria da vecchio sperduto “Spero di rivedervi presto, vivi o morti.” sorrise di più “In entrambi i casi mi farà piacere.” Dem e Juliet uscirono in fretta dal negozio, il viso di Dem era storto, quello di Juliet solo verdastro “Hai sentito cosa ha detto Wagner? Non riesco a crederci.” Il dhampir non rispose. “Non capisci?” Juliet si affrettò a superare un crocchio di persone urlanti che si era trovata davanti, per raggiungere il suo compagno “Se il marchese si da’ a questo genere di esperimenti, Dem, è una cosa mostruosa, non è normale.” Dem seguitò a non dire una parola e questo fece innervosire Juliet ancora di più “Davvero credi che se la morte si potesse sconfiggere così facilmente noi saremmo ancora mortali? È evidente che quando ci sei dentro non ne esci più, il marchese sta per compiere un gesto sconsiderato e..” “Sul serio, Juliet” sbottò Dem lanciandole una delle sue occhiate fulminanti, due ombre livide sotto gli occhi, appena sopra gli zigomi molto sporgenti da dhampir

“di quello che Howard fa o non fa non mi interessa niente. Se muore, pretenderò dei soldi da quel fagotto inutile di suo figlio fino a metterlo in ginocchio. Se non muore, avrò il mio stipendio. In entrambi i casi ci guadagno.” “Ma non è giusto, Dem.” “E tu chi diavolo sei per dire cosa è giusto e cosa no?” il dhampir parlava con tono duro: era scocciato e il sacco gli pesava sulle spalle, non vedeva l’ora di tornare alla magione degli Howard. “Come fate a essere tutti così crudeli?” Juliet ra arrabbiata, lei e Mimì si trovavano dentro una tana di lupi pronti a sbranarsi e a vendere i rimasugli al Dottor Wagner, quel ragno filamentoso che viveva nell’oscurità, e non poteva far niente per uscirne, ci si era infilata da sola e adesso, come un topo, non poteva far altro che continuare ad accettare i pezzi di formaggio che le venivano offerti, pregando che non fossero avvelenati. Si odiò a lungo per tutta la strada fino al West End.

Capitolo VI: Ossa e denti

Victor girava per la grande sala d’ingresso che quella mattina Andrew si era sforzato di rendere presentabile, anche se gli era stato espressamente vietato di smacchiare o rimuovere il tappeto. Il marchese di Norfolk aveva appena ricevuto i pezzi anatomici che aveva richiesto, i suoi due servitori erano di fronte a lui e Dem gli aveva comunicato quello che aveva detto Wagner. Victor era meditabondo, dalle parole del dottore di Stepney sembrava che i Deville si stessero occupando dei suoi stessi esperimenti e se era come pensava avrebbero potuto essere già giunti all’anello di congiunzione che a lui mancava: potevano essere venuti a conoscenza di qualcosa di fondamentale, potevano addirittura essere riusciti nel loro proposito. O impazziti del tutto, alle orecchie di Victor risuonò una voce e non gli fu ben chiaro se era quella di Helena o i suoi pensieri. “Andiamo dai Deville.” disse, spiccio “Non c’è tempo da perdere.” Dem gli si mise subito alle spalle; Juliet fece come per dire qualcosa ma alla fine alzò le spalle e, costernata dal fatto che a causa di Mimì e della sua salute non poteva permettersi alcuna considerazione, seguì i due. Victor stava quasi per uscire, la giacca sottobraccio, quando si udì un pianto dirotto. “Cos’è questo frastuono? Andrew!” chiamò, il viso come traato da una scossa elettrica. Andrew comparve sulla prima rampa di scale “Mio Lord, il signorino Hermann non trova il suo violino.” “Di’ a quell’inutile cumulo di lardo che me ne sono disfatto io. Era ora di finirla con quei atempi da donnetta. Che impari cosa vuol dire essere mio figlio.” Il pianto terminò in un sospiro di spasmodica attesa, quindi tacque del tutto. Juliet sentì la pressione di una lacrima contro l’occhio, ma si trattenne: non sapeva per quanto sarebbe riuscita a rimanere calma di fronte a quelle situazioni. Per Mimì, si disse, fallo per Mimì.

** La casa di Charles Deville si trovava in una bella zona della North Side, una costruzione a schiera di abitazioni tutte simili. A quell’ora le strade della North Side erano ben popolate, i negozi aperti, le carrozze e lo scalpiccio dei cavalli, agenti di Scotland Yard ad ogni angolo delle strade. Juliet si doveva ancora abituare all’atmosfera che c’era lì e nel West End, così diversa dai luoghi poveri in cui era cresciuta. Cercò con lo sguardo il sostegno emotivo di Dem ma ancora una volta non trovò altro che gelo, il dhampir seguiva Victor come fosse il padreterno o una preda. Era bizzarro, pensò Juliet: Victor sembrava sapere di non potersi fidare di Dem, allora come mai l’aveva preso come guardia del corpo? Victor suonò il camlo mentre Dem teneva d’occhio le finestre, tutte chiuse, tende pesanti a celare gli interni. Attesero qualche istante prima di udire un lento e pesante ciabattare; la porta si aprì. Di fronte a loro, in marsina scura doppiopetto, un maggiordomo molto alto e allampanato, calvizie incipiente e occhi di un grigio sfuggente. “I signori desiderano?” chiese, con cortesia. “Sono il marchese di Norfolk. Vorrei vedere il Dottor Deville.” Lui aprì completamente la porta “Accomodatevi nella sala del tè.” Victor , Dem e Juliet entrarono in una casa sobria ma ben arredata. Il maggiordomo li scortò per un piccolo corridoio fino a una saletta con le tende tirate che aveva l’aria di essere rimasta chiusa per molto tempo. “Vogliate scusare l’aria.” disse il maggiordomo “Non riceviamo molte visite, né vi attendevamo.” Victor non lo degnò di uno sguardo. Il caminetto era spento, accanto vi erano alcune poltrone d’aspetto malandato

attorno a un piccolo tavolino da tè in legno “Non c’è alcun problema.” disse, spiccio. Juliet notò che il maggiordomo era molto incurvato, probabilmente a causa dell’altezza spropositata, e che aveva gli occhi fissi. Qualcosa nella sua figura le fece accapponare la pelle e per questo si appigliò ai giocattoli che vide ad ogni angolo della stanza “Il signor Deville ha figli?” chiese, pur sapendo benissimo cosa il maggiordomo avrebbe risposto. “Assolutamente no.” rispose quello “Qui non ci sono bambini.” Qualcosa nel tono in cui aveva pronunciato quelle parole fece voltare anche Victor che aggrottò le sopracciglia “Spero non ci sia da fare molta anticamera.” Il maggiordomo si abbassò in un inchino “Vado subito, se vi serve qualcosa suonate il camlo o chiedete a voce alta di Larich.” e scomparve chiudendosi dietro la porta della sala. Gli ospiti rimasero completamente al buio. “Che schifo di mostro.” commentò Dem con una smorfia “Ha mentito.” Juliet alzò le spalle “Forse non amano ricordare la morte di quella povera bambina.” Si avvicinò a un cumulo di cubi di legno su cui erano disegnate le lettere dell’alfabeto in colori pastello. I cubi erano impilati uno sull’altro, come per una costruzione, e sembravano essere stati toccati di recente, erano gli unici oggetti in quella stanza che non sembravano avere almeno un dito di polvere. Juliet fece per toccare il cubo in cima ma la costruzione cadde senza che l’avesse sfiorata e, come spostati da una forza invisibile, i cubi si disposero per terra in modo da comporre una parola e a quella vista Juliet balzò indietro colta alla sprovvista, il cuore che martellava contro la cassa toracica. “Che succede?” Victor le si avvicinò e gettò uno sguardo ai cubi “Ma certo, proprio come diceva Wagner.” commentò prima di mettersi a sedere disinteressandosi del mondo circostante. Juliet guardò la parola che i cubi avevano composto e notò che erano due file, e che la prima diceva “BATHROOM” e la seconda “ZOE”.

“Ottimo.” ringhiò Victor “Possiamo anche andarcene.” “Dopo tutta questa strada?” chiese Juliet che sentiva il cuore battere più forte “Abbiamo appena avuto la certezza che Wagner diceva la verità, c’è effettivamente il fantasma di una bambina qua dentro.” “È questo il punto.” Victor si alzò di scatto, sbattendo il bastone per terra “Se il fantasma è ancora qua dentro, significa che non sono riusciti a far quadrare l’esperimento, ecco qual è il problema. Sono nelle mie stesse acque, mi sembrava troppo strano che uno zotico come Deville ne potesse sapere più di me. Andiamocene.” Ma Juliet si alzò e si attaccò al camlo per udire i i strascicati e Larich che si affacciava “Desiderate?” “Il bagno. Mi mostri il bagno.” Dem aggrottò le sopracciglia, Victor le lanciò uno sguardo accigliato, ma prima che potesse dire qualcosa, Larich si fece da parte per farle strada. Juliet si fece scortare in silenzio su per le scale fino a un altro corridoio pieno di porte chiuse. Lui andò a o sicuro verso una di quelle in fondo “Faccia con comodo, io torno giù ad annunciare il marchese al signor Deville.” Juliet non rispose; il cuore non smetteva di batterle forte. Entrò nella stanza che Larich le indicava e si chiuse la porta alle spalle per guardarsi attorno: il bagno era grande, di fronte a lei una vasca coperta da un lungo velo bianco, accanto la tinozza. Innervosita da quello che aveva visto sui cubi e sicura di essere sola, si avviò alla tinozza. Slacciò i bottoni delle maniche della camicia, aveva bisogno di mettere i polsi sotto l’acqua, le avrebbe evitato fitte alla testa. Socchiuse gli occhi mentre immergeva le mani dentro l’acqua fresca e rimase così per qualche istante. Quando li riaprì, l’acqua della tinozza era di un rosso acquoso, come sangue; sollevò subito le mani urlando, e il liquido schizzò sulle pareti. Ma quale liquido? L’acqua era tornata trasparente. Juliet si guardò le mani costernata e non notò niente di particolare, doveva essersi fatta prendere dal panico con i racconti di Wagner e le parole su quei

cubi. “Hai avuto paura?” La voce dietro di lei era reale, così reale da farle drizzare i peli sul collo. Juliet sobbalzò e si girò di scatto per trovarsi di fronte una bambina di circa undici anni. Aveva boccoli biondi che le ricadevano lungo le spalle, un vestitino elegante azzurro pastello in stile impero e occhi molto scuri. Juliet non aveva mai visto un fantasma ma se sembravano tutti così vivi, si disse, probabilmente non ci aveva mai fatto caso. “Zo..Zoe?” balbettò, sentendosi i sudori freddi lungo la fronte. “Tu stai male. Hai bisogno di qualche impacco freddo.” la bambina spalancò gli occhi. “Non ce n’è bisogno, mi hai solo colto di sorpresa a comparirmi così, alle spalle.” La bambina sorrise mostrando l’assenza dei due incisivi superiori “È uno scherzo che faccio sempre a Larich.” spiegò “Peccato che lui non si spaventa mai. Comunque sì, io sono Zoe, Zoe Deville.” tese una piccola mano dalle dita curate. Vincendo il terrore, la ragazza la strinse meravigliandosi di quanto fosse calda. “I cubi sotto sono tuoi?” chiese Juliet a bruciapelo, quella storia cominciava a non piacerle: quella bambina era davvero morta? E se no, perché dire in giro che lo era? E perché Larich sosteneva che in quella casa non ci fossero bambini? “Ci ho giocato fino a poco fa.” rispose Zoe “Ti ho scritto io di venire qui.” “Non ti ho visto.” Juliet si appigliò alla tinozza alle sue spalle, sapeva di essere pallida come un cadavere, ma non osava guardarsi allo specchio. “Non te ne sarai accorta.” le rispose Zoe e di colpo si fece più smunta “Qui nessuno si accorge di me.”

“Ma hai detto che Larich..” “Solo lui.” gli occhi di Zoe erano tristi “Per i miei genitori sono come invisibile.” Juliet sapeva poco di fantasmi perché, ormai ne era certa, non era con una bambina viva che stava parlando, ma pensò che non sarebbe stata una buona idea chiederle perché Larich avesse detto a tutti loro che lei non esisteva. “Hai provato a parlare con loro?” chiese cercando di fare buon viso a cattivo gioco. “Certo, che domande.” la bambina fece qualche o per la stanza e si sedette sul bordo della vasca “Ma non mi ascoltano, o meglio, mio padre fa come se non esistessi, sono mesi che sta dentro il suo laboratorio e non esce nemmeno per mangiare. Qualche volta piange, mi siedo a un angolo e lo guardo lavorare, lo facevo spesso e c’erano delle volte in cui lui mi chiamava e mi faceva lavorare con lui, mi spiegava le cose. Ora se glielo chiedo non mi risponde nemmeno.” abbassò il viso. “E tua madre?” “Non posso disturbarla, lei dorme.” disse Zoe “Larich mi ha vietato di andare da lei.” “Posso vedere la tua mamma?” chiese Juliet quasi di botto “Vorrei parlarle.” Zoe spalancò gli occhi “Perché?” “Voglio chiederle perché non ti parlano più, potreste” Juliet pensò alla parola migliore da dire “chiarirvi, penso, non credi?” Gli occhi di Zoe si illuminarono “Lo faresti per me?” chiese, un piccolo sorriso sul visino smunto. “Certo! Hai la mia parola, accompagnami da lei.” Non aveva idea di cosa stesse andando a fare dalla signora Deville né di come intraprendere il discorso, sapeva solo che quella storia non le piaceva e che la giornata era cominciata male tra le polveri di casa Howard, era proseguita

peggio a Stepney nell’orrenda bottega di Wagner e adesso stava per giungere al suo coronamento con i fantasmi; ma Juliet voleva vederci chiaro. Odiava essere entrata in quelle storie macabre di dottori pazzi che nei romanzi aveva sempre detestato, certo non era il suo più grande sogno trovarsi in una casa di pazzi, ma perché lamentarsi, dal momento che con un pazzo del genere ci abitava? Stava per aprire la porta del bagno quando Zoe la sorò e ò attraverso il legno per scomparire alla vista di Juliet “Sei ancora lì? Che aspetti, esci.” la sollecitò la bambina mentre Juliet sentì mancarsi il fiato, si prese di coraggio e dopo qualche secondo uscì nel metodo consueto. Zoe la condusse all’interno di un’altra stanza poco lontano dal bagno, in cui scomparve ando attraverso la porta che Juliet aprì. Il luogo in cui si trovava era diverso dal resto della casa, che appariva polverosa ma in buono stato di conservazione. Là dentro l’odore era insopportabile, le finestre sbarrate da cui da tempo non entrava la luce del sole, la polvere e le ragnatele così fitte che quando Juliet si chiuse la porta alle spalle si alzarono tali nuvoloni da coprirle la vista per qualche istante. Su un letto matrimoniale, con le coperte tirate fino alla testa, c’era qualcuno. Juliet si avvicinò con cautela, Zoe le teneva la mano. “Perché dorme sempre?” “Da quando sono stata male è sempre così.” rispose la bambina “Mi dispiace averla fatta soffrire ma Larich dice che un giorno si riprenderà e tornerà a giocare con me, a insegnarmi le poesie. Mi divertivo tanto con la mia mamma, lo sai?” Juliet non rispose, afferrò un lembo delle coperte e avvertì un tremito lungo la spina dorsale. Aveva paura, ma sapeva che doveva alzare le lenzuola per rendersi conto del posto in cui era capitata. “Sarà una bella sorpresa.” Fu la voce di Zoe a riscuoterla e Juliet tirò via la coperta rivelando uno

spettacolo agghiacciante: lo scheletro senza pelle di una donna dai lunghi capelli scuri sparsi sul cuscino. Le orbite erano vuote e, sulle ossa nere e consumate, Juliet pensò di vedere segni singolari, come di denti, come se qualcuno le avesse sbocconcellate con rabbia. I suoi ultimi pensieri si frammentarono alla visione. Fece qualche o indietro reggendosi la testa. Si girò verso Zoe e anche lei teneva gli occhi spalancati “Mamma..” sussurrò con un filo di voce “La mia mamma..” Juliet prese in braccio Zoe e scappò via dalla stanza senza chiudere la porta “Andiamo via da qui.” sussurrò senza sapere se lo stesse dicendo a Zoe, così traumatizzata da non riuscire nemmeno a piangere, oppure a se stessa “Te lo prometto , andremo via di qui.”

Capitolo VII: Il peso dell’anima

“Quanto ha intenzione di farci aspettare?” ringhiò Victor “Me ne vado.” Dem non rispose “Lo dico al maggiordomo?” chiese non troppo convinto. “Non se ne parla, andiamo via e basta.” Andò verso la porta con o marziale e fece per aprirla ma le sue mani scivolarono sulla maniglia, attraversandola “Ma cosa..” Dem fece qualche o indietro e sbatté le palpebre “Che vuol dire?” “Non ne ho idea.” Victor fece are ancora una volta le mani sulla maniglia ma non solo non ne sentiva la consistenza, non riusciva proprio ad afferrarla “È come se fossi fatto di aria o..” E improvvisamente capì: se un vivente non riusciva a toccare gli oggetti era perché quegli oggetti non esistevano realmente, non erano che copie ectoplasmatiche di immagini di un ato sbiadito, fissate nell’etere come fotografie. “Helena” disse a voce alta “devo andar via di qui, devo andare a parlare subito con Charles Deville, sempre che ci sia ancora un Deville con cui parlare. Aiutami.” Ma nella sua testa tutto taceva, Victor non sentiva i sussurri di sua moglie né il suo grido di dolore e tutto fu come prima che Helena fosse morta. Victor non si era mai sentito più solo. “Signore” Dem si era fatto da parte tremando da capo a piedi, il Grave Digger puntato contro i cubi sul pavimento “si muovono. I cubi si muovono.” I cubi si disposero, ma questa volta in due file ordinate, formando le parole DOWNSTAIRS e LABORATORY. Dem digrignò i denti “Perché cazzo sono qui?” la sua rabbia sfociava tutta negli occhi che erano infuocati, due tizzoni gialli di odio. Victor non ne era impressionato “Siamo impalpabili, dovremmo riuscire a

are attraverso la porta.” disse con freddezza “Calmati. La situazione è troppo seria per comportarsi da imbecilli.” Dem aveva paura ed era arrabbiato ed era ancora più arrabbiato perché aveva paura: odiava trovarsi con le spalle al muro, e solo in quel caso arrivava a menare le mani, non avrebbe mai scelto la prima linea per combattere, preferiva aver sempre una via d’uscita più sicura; ma quando lo costringevano, allora uccideva senza alcuna pietà, per la sua vita. Victor chiuse gli occhi, ò attraverso la porta e dopo qualche secondo fu seguito da Dem. Si tastò il polso: non sentì il cuore, la testa era vuota e quella situazione pareva priva di senso ma al suo occhio esperto risuonavano camli d’allarme familiari, come di un qualche fenomeno che aveva studiato ma di cui non ricordava cause e concause. Di fronte a loro, intenta a scendere velocemente le scale, aria distrutta e occhi sbarrati, Juliet, che reggeva in braccio una bambina con i boccoli biondi “Dobbiamo muoverci.” disse la ragazza “Questa è la casa di un assassino.” “Che diamine stai dicendo?” chiese Dem. “La madre di Zoe è stata uccisa nella sua stanza” era palese che Juliet fosse sotto shock “Uccisa..spolpata..non c’erano che le ossa ed erano..oddio..” Zoe alzò la testa e si girò a guardare prima Juliet, poi Dem e Victor: i suoi occhi erano di colpo fondi, arrossati, non più quelli di una bambina. La pelle era bianca come gesso e alle tempie scoppiarono reticolati di profonde venature violacee. “Ricordo, ricordo tutto.” disse “La scorsa primavera mi sono ammalata, ero triste, non potevo più giocare con gli altri bambini e la mia mamma non poteva più farmi lezione nella sala del tè. Quando sono morta è stato come attraversare un lungo tunnel scuro, non riuscivo ad uscirne, né ad andare oltre, e da lì sono caduta e mi sono ritrovata qui.” spiegava lentamente, la voce soffusa, come si trattasse di ricordi di un’altra epoca “Mio padre non riusciva ad accettare la mia morte. Mi sentiva e si convinse a ricrearmi a partire dal mio corpo. Ma non poté farlo: quando scavò per riportarmi a casa non avevo più organi, se li erano mangiati i vermi. Allora decise che mi avrebbe dato un nuovo corpo e vi avrebbe sigillato il mio spirito dentro. Studiò tantissimo, e io gli fui accanto: ebbe bisogno di molti soldi e tanti corpi; non so quante volte tentò, ma non gli riuscì

mai di ridarmi la vita. Mia madre rimaneva a letto, depressa. Non so quando morì. Non mi voleva vedere, diceva che gli impedivo di tornare a vivere e che ero troppo crudele. Ebbi paura e non salii più da lei. Mio padre dava via i corpi che non erano serviti per l’esperimento, e li dava a Larich. Toccava a lui disfarsene. Un giorno mio padre scoprì ossa umane sul retro della nostra casa: erano moltissime, e chiese a Larich. Larich si arrabbiò molto e non sembrava nemmeno più lui, aveva pezzi di pelle grigiastra e allora..” “..E allora” completò Victor per lei “la sua ingordigia l’ha trasformato in un ghoul. Ha ucciso Charles Deville, che aveva scoperto tutto, e ha deciso di servirsi di sua figlia, di te, per attirare quante persone potesse all’interno della sua trappola.” “Ma come?” chiese Juliet. Si stava mordendo le labbra a sangue, ma il sangue non usciva. “I ghoul riescono a dar forma alle impronte eteriche. Potremmo dire che quelle disgustose creature hanno un certo talento nel manipolare la realtà. Gli serve solo una fonte di ectoplasma continua, qualcosa come il fantasma di una bambina, per intenderci. Con i loro poteri possono far sembrare reale qualunque cosa, alterando persino il loro aspetto fisico.” “In questo modo..” sussurrò Juliet. “In questo modo il ragno avrebbe attirato le sue mosche in trappola: chiunque entri qui non è destinato a sopravvivere.” completò Victor con aria truce. “Ha fatto male i suoi conti.” Dem era furibondo “Io sono armato e adesso lo vado a schiacciare contro un muro, quel lurido figlio di puttana.” “Sbagli, idiota, non puoi toccarlo come lui non può vederti.” ribatté Victor ancora più freddamente “Non hai seguito la mia spiegazione ? Noi stiamo vivendo un’illusione. È come aver perso i sensi, solo in maniera diversa rispetto a un sonnifero o a un’altra droga.” “Siamo morti?” Victor gli rispose con un sospiro scocciato “Assolutamente no, non siamo ancora né da una parte né dall’altra. Un ghoul predilige la carne viva, quindi ho da supporre che se ha dei corpi privi di sensi tra le mani, avrà piacere di mantenerci

vegeti per più tempo possibile. Potremmo avere ancora una possibilità di scappare da qui.” “Dove sono i nostri corpi?” Juliet si appese alle spalle esili di Zoe e la scosse “Zoe, ne abbiamo bisogno.” “Se ve lo dico tornerò a stare da sola.” le vene bluastre sulle tempie della bambina pulsavano. “Non perdere tempo.” Dem era già sulla prima rampa di scale “Prima che sia troppo tardi.” “Sciocchezze” Juliet abbracciò Zoe “Tu potrai stare con me se vorrai.” “Prometti di non prendermi in giro.” “Lo prometto, spero di riuscirci.” Victor e Dem corsero su per le scale. “Qualunque cosa tu veda” disse Victor “non attaccare subito Larich. Finchè non sei nel tuo corpo, non puoi fargli niente.” “E come ci torno, nel mio corpo?” Dem si sentiva in trappola, e lui odiava sentirsi in trappola. “Ci servirà quella bambina.” Victor si fermò di fronte a una porta semiaperta da cui provenivano rumori e una piccola risata acuta e chioccia e vi scivolò attraverso. All’interno, lo spettacolo era agghiacciante: si trovava in un bagno, al centro del quale svettava una vasca; lì accucciato c’era un ghoul, la pelle cadente, la pancia prominente, vestito solo di stracci che forse un tempo erano stati un abito elegante da inserviente. Aveva un naso grigiastro bitorzoluto, completamente glabro, e denti aguzzi da cannibale. Il ghoul rideva mentre osservava qualcosa dentro la vasca. Victor si avvicinò e con orrore vide che là dentro c’era il corpo nudo di Juliet chiazzato di sangue, e che Larich si stava dando da fare con un seghetto per affettare una parte della gamba della ragazza.

La parte del ginocchio era stata quasi completamente spellata, i muscoli e le ossa in vista. Il sangue sprizzava fuori dalla pelle di Juliet e Larich rideva. Victor vide che di fronte la vasca erano posizionati altri due corpi, e che uno era il suo e l’altro di Dem. “Schifoso, lurido figlio di cagna.” Dem stringeva i denti mentre Juliet, appena arrivata, piangeva di orrore e raccapriccio. Il dhampir afferrò Victor per le spalle e, con un gesto quasi ferino, lo sbattè al muro “Come diamine faccio a tornare là dentro? Quello mi ammazza, capito? Mi ammazza!” Victor ricambiò lo sguardo giallognolo di Dem senza battere ciglio “Quella bambina” disse, freddo come ghiaccio “con i suoi poteri ci può rispedire ai nostri corpi.” Dem guardò Zoe “E fallo, cosa aspetti?” La bambina teneva stretta la mano di Juliet che sembrava annientata dal dolore “Ti farà male” disse alla ragazza. “Lo so.” “Rimani qui.” Juliet scosse la testa “Devo tornare indietro, mia sorella mi aspetta.” “Tua sorella” Zoe sbattè gli occhi, accanto a lei Larich stava ingurgitando un pezzo sanguinolento di gamba. Juliet aveva gli occhi lucidi e non riusciva a staccare lo sguardo. “Tua sorella è una bambina come me?” “È la mia sorellina.” Juliet si accasciò a terra, molto pallida “Ha tanto bisogno di me, è malata.” “Nessun bambino dovrebbe essere lasciato solo.” disse Zoe “I miei genitori sono stati accanto a me fino alla fine.”

“Allora ti prego” Juliet tenne Zoe stretta tra le braccia “fa’ che io possa stare ancora con lei. Fa’ che lui” lanciò uno sguardo a Victor che si era appena liberato della stretta di Dem “possa stare con suo figlio..” “Chi mando per primo?” chiese Zoe. “Manda me. Lo uccido, quel maledetto.” ringhiò Dem. “È proprio quello che non devi fare.” gli disse Victor “Tienilo fermo ma prima di ucciderlo aspetta che torniamo tutti ai nostri corpi. Quando Larich morirà, probabilmente scomparirà anche la bambina.” “Perché?” “Non ci sarà più niente a legarla a questo mondo.” Larich aveva appena posato il seghetto sui muscoli fragili e sanguinolenti della gamba di Juliet, ai piedi non c’erano le unghie, le aveva rimosse fino alla radice e gettate nel lavabo, dove l’acqua era tinta di un rosso acquoso e aveva macchiato lo specchio soprastante. Zoe puntò gli occhi su Dem che scomparve all’istante per riaprire gli occhi di colpo, come dopo un collasso, all’interno del suo corpo. I tre spiriti accanto a lui rimasero in attesa mentre il dhampir si impossessava di un bisturi lasciato a giacere accanto alla vasca. Larich era troppo occupato a cibarsi di Juliet per pensare a lui. L’odore di sangue nel bagno era nauseabondo. Dem scattò contro il ghoul che, impreparato, lascio cadere il pezzo di pelle ingurgitato per metà e si trovò occupato in una lotta assassina contro un dhampir nudo e armato di un solo bisturi, così infuriato da aver tutte le possibilità di aprirgli il cranio in due come sembrava essersi silenziosamente proposto. “Adesso tu.” Zoe guardò Juliet “Quella bambina, stalle vicino più che puoi.” Un attimo dopo, urlando per il dolore e per lo shock di trovarsi inondata di sangue, Juliet spalancò gli occhi. Di fronte a lei, dietro una patina di sangue che le colava sul,le palpebre vide Dem cavare con ferocia l’occhio di Larich. Il ghoul reagì scagliandolo contro le piastrelle di marmo del bagno. Forza bruta contro rapidità.

Juliet sapeva chi avrebbe vinto e cercò di dire qualcosa per rincuorare Dem, ma dalla sua bocca non uscì che un rivolo di sangue. Poi arrivò il dolore. “Manderò indietro pure te.” Zoe si avvicinò a Victor “Tu vuoi bene a tuo figlio?” Victor aggrottò le sopracciglia “Cerco di farlo crescere come il nobile che è.” “Stai bene con lui?” “Con i bambini non c’è da star bene, solo da raddrizzarli, ed è un lavoraccio.” “Non ti piacciono i bambini.” Non era una domanda. “Non molto.” ammise Victor, stupito di star facendo un discorso simile con una bambina e chiedendosi perché non le ingiungesse di sbrigarsi. Attorno a lui la battaglia continuava senza esclusione di colpi “Io non ricordo di essere mai stato un bambino.” “Perché tu sei nato vecchio.” lo sguardo di Zoe era di comione. Victor sentì le gambe mancargli, uno scossone alle spalle “Forse sì.” Zoe stava per rispondere quando Victor avvertì uno strappo all’altezza dell’ombelico. Sembrava che su tutto fosse caduta una patina opaca che aveva congelato la scena di fronte a lui. Nel dolore che l’avevano raggiunto in concomitanza con lo strappo, riuscì a scorgere Juliet che cercava di trascinarsi fuori dalla vasca lasciandosi dietro una scia di sangue. Dietro di lei, una scena confusa in cui Dem, in viso un’espressione di ferocia animale, traava il cuore del ghoul con il seghetto con cui prima Larich aveva tagliuzzato la gamba di Juliet. A Victor mancò il respiro. Zoe era scomparsa, attorno a lui non c’erano che silenzio e quella scena congelata per sempre. Lo avvolse una sensazione di disgusto, le fitte alla testa erano martellanti. Si massaggiò le tempie , gli occhi socchiusi, e pensò che forse Larich era morto. Dem aveva spezzato la maledizione, ma lui non era riuscito a tornare indietro:

sarebbe stato condannato a rimanere per sempre in quel limbo, che non era vita né morte. Pensa, Victor, pensa, si disse, le mani premute violentemente contro le tempie, come a volerle sfondare , ci dev’essere un modo per uscire di qui. “Victor..” Al suono di quella voce, una voce che ben conosceva e che amava incondizionatamente, lui chiuse gli occhi per accorgersi che questa volta non proveniva dalla sua testa, ma dall’esterno: e quale fu la sua commozione nel vedere che di fronte a lui, palpabile e bellissima, c’era Helena, esattamente com’era l’ultima volta che l’aveva vista viva. Rimase senza parole. Non riusciva a pensare, balzò in piedi e aprì la bocca, ma non ne uscì suono. “Amore mio.” balbettò alla fine cadendo in ginocchio. Gli mancavano le forze, gli tremavano le gambe, cos’altro avrebbe potuto fare di fronte alla donna che amava? “Mio angelo.” Lei non rispose. Gli si avvicinò e lasciò che Victor singhiozzasse su di lei, la testa premuta sul suo ventre, lasciò che la cingesse. Victor sentì una mano are dolcemente sui suoi capelli, e non ricordava quanto avesse anelato quel tocco. “Amore, angelo mio.” ripeté “Rimarrò qui con te per sempre. Rimarrò, e saremo insieme e nessuno ci separerà, mai più.” Si alzò. Tremava come un bambino di fronte agli occhi della donna per la quale avrebbe dato la vita; eppure lei non sorrideva, lo guardava con un misto di sospetto e rimprovero. “Cosa c’è?” Victor le ò una mano incerta sulla guancia liscia, sui boccoli castano chiaro. “Non è questo il tuo posto.”

Le sue labbra non si aprivano, ma Victor sapeva che gli stava parlando, e la sua voce era ovunque in quel luogo senza spazio né tempo “Ma io voglio rimanere con te. Non puoi farmi questo, Helena, non un’altra volta.” “Torna da Hermann, lui ha bisogno di te. Torna da nostro figlio.” “Ma cosa..” Victor strinse Helena tra le braccia, cercò le sue labbra per baciarle, ma lei rimase fredda, imibile “Cosa importa adesso di Hermann? Siamo insieme, è questo che conta, Helena, solo questo. Non sai quanto ti ho cercata, mio angelo, adesso non ho più bisogno di niente.” Helena aggrottò le sopracciglia “Se mi ami prometti che tornerai da Hermann. Prometti che ti prenderai cura di lui fino a quando te ne sarà data possibilità.” Victor scosse piano la testa, il peso di Helena sembrava affievolito, sperava che fosse solo una sua sensazione. “Prometti, Victor. Nostro figlio è tutto ciò che di me rimane sulla terra e ne dovrai avere cura.” , la voce era sempre più stridula, acuta, quasi insopportabile, “tu non rimarrai qui, questa sera tornerai a casa, da lui.” “Non farlo, Helena!” Victor cadde ai piedi della sua donna, sapeva di sembrare pazzo e forse lo era. Pazzo, ossessionato, maniacale “Ho bisogno di te, non posso dirti addio, non per la seconda volta.” “Addio, Victor.” Helena scivolò via come sabbia tra le mani di Victor e, così com’era arrivata, se ne andò. Victor avvertì una scarica di adrenalina, un altro strappo e quando riaprì gli occhi si trovava nel suo corpo, guardava il soffitto bianco del bagno ed era a pochi i dal cadavere martoriato di un ghoul sopra il quale Dem si stava divertendo ad infierire con un bisturi. Dall’altra parte, Juliet urlava di dolore: si era trascinata fuori dalla vasca da bagno e strascicava la gamba sul pavimento rotto, procurandosi solo altre lesioni. Victor si alzò in piedi e poggiò le mani sulla vasca macchiandole di sangue.

Deglutì un paio di volte e si ò una mano sui capelli: Helena non voleva che lui morisse, ma che Victor la riportasse indietro dagli Inferi, come Orfeo con Euridice; voleva che lui, lei ed Hermann fossero di nuovo una famiglia. Adesso toccava a Victor provarle che le sue speranze erano ben risposte. Si precipitò su Juliet e la prese in braccio: lei aveva il viso martoriato, ridotto a una maschera di sangue, le guance violacee ed era bianca come gesso nonostante la carnagione scura “Serve una trasfusione.” ringhiò Victor “Dem, muoviti, non c’è tempo da perdere.” Dem aveva appena finito di straziare il corpo del ghoul. Aveva in una mano il seghetto, nell’altra il bisturi, un rivolo di saliva gli scorreva per le labbra e gocciolava fino alla pelle grigiastra e sanguinolenta della sua vittima; i canini erano esposti e più lunghi del solito. Guardò prima lui con ferocia sadica, poi Victor “Ma voi..” “Non c’è tempo da perdere, dobbiamo scendere in laboratorio, ispezionarlo e tornare a casa.” Juliet cercò di biascicare qualcosa ma poi ricadde indietro, vinta dal dolore, la testa abbandonata su una spalla di Victor. Si vestirono alla bell’e meglio con delle vesti da camera trovate in bagno, e scesero al primo piano, dove trovarono le armi di Dem e il bastone galvanico di Victor. Victor ingiunse a Dem di stare con Juliet “Scendo da solo.” disse prima di scomparire nel buio del sottoscala, con sè solo una torcia galvanica. All’interno del laboratorio, niente sembrava essere stato toccato da molto tempo: gli alambicchi erano quasi del tutto vuoti, l’odore di zolfo aveva raggiunto livelli disgustosi e il mercurio che un tempo doveva essere stato in ebollizione era tutto evaporato. E poi c’era un cadavere che lo guardava seduto su di un trono in legno di fronte al tavolo alchemico, le mani e i piedi legati da catene che non gli permettevano di alzarsi. Eppure gli occhi dell’animato seguivano i movimenti di Victor e lo osservavano famelici.

“Charles..” salutò Victor con aria truce, mentre superava l’uomo, in avanzato stato di decomposizione, che un tempo era stato il signor Deville, ancora vestito di tutto punto, una pistola stretta tra le mani e un buco nel cranio. Probabilmente aveva deciso di farla finita dopo aver scoperto cosa aveva fatto Larich. Eppure quando Larich l’aveva trovato, l’aveva semplicemente legato mani e piedi. Come mai non l’aveva mangiato? Forse, riflettè Victor, perché un ghoul possedeva l’istinto tribale delle bestie e Larich vedeva ancora Charles Deville come il suo padrone. Victor mise una mano sulla spalla di Charles e sorrise “Guarda che fine hai fatto fidandoti di una creatura come Larich. In fondo mi sei stato utile: mi hai ricordato come, appena avrò risolto i miei problemi e riavrò con me Helena, dovrò premurarmi di abbattere il mio, di cane, prima che diventi rabbioso.” Rovistò nel laboratorio alla ricerca di qualcosa, qualunque cosa potesse essergli utile, ma non trovò niente. Preso dalla rabbia per il viaggio a vuoto e il pericolo che aveva appena corso, con un ringhio sordo fece cadere tutte le ampolle sul tavolo. Le boccette si schiantarono a terra, rompendosi in mille pezzi. In quel momento, dall’altra mano del cadavere, scivolò un libriccino nero pece che cadde a terra tra i cocci. Victor si chinò a prenderlo: non era che un quadernetto liso, ma all’interno sembrava ricco di nozioni alchemiche che avevano a che fare con gli spiriti, gli ectoplasmi e i prometeani. Inarcò le labbra in un sorriso di furiosa soddisfazione: a casa avrebbe letto tutto quello che c’era là dentro. In prima pagina era scritto solo un nome, quello di Damon Black.

Capitolo VIII: Mostri sotto il letto

Mimì tossiva stringendo a se le coperte. Si trovava in una camera che non era la sua ma l’uomo per cui Juliet lavorava, dopo averle sentito il cuore e averle fatto qualche altro esame di cui lei non aveva ben capito il senso, aveva decretato che non era consigliabile che lei dormisse nella stanza che era stata data a lei e a sua sorella e che aveva bisogno di un letto comodo e di un caminetto . Così Mimì si era trovata in una grande stanza da letto, immersa in morbide coperte, riscaldata dal tepore del fuoco sfrigolante, le sarebbe piaciuto star lì se non fosse stato che stava molto male. Tossì ancora e cercò a tentoni il fazzoletto che aveva posto accanto al cuscino. Era imbrattato di macchie rosse, la gola le raschiava ed erano giorni che non riusciva a mandar giù niente. Non era che una bambina, Mimì, eppure capiva che c’era qualcosa che non andava nel suo corpo, che stava male e che Juliet era preoccupata per lei. Si guardò attorno in una pausa dall’accesso di tosse: le mura della camera erano costellate di disegni, linee nitide e conformi che però davano vita a figure mostruose. Mimì socchiuse gli occhi, le ombre che il fuoco proiettava su quei fogli riempiti di colori troppo scuri le facevano paura, era come se dessero vita alle creature oscure. Mimì era cresciuta tra un orfanotrofio della Gilda e l’East End e proprio per questo era sempre stata molto prudente su quello che poteva nascondersi tra le ombre. Deglutì, e nascose la testa sotto le coperte, si rincantucciò lì sotto e attese, fino a quando sentì il CLAC della maniglia e seppe che qualcuno era entrato nella stanza. Mimì guardò chi aveva davanti. Hermann si voltò di scatto, spalancò gli occhi e gli fece cenno di non fiatare, un dito sulle labbra. Contenta del fatto che non si trattava di un mostro ma solo di quel brutto bambino grassoccio che aveva intravisto qualche volta, Mimì si mise a sedere sul letto “Ciao..” disse, rauca. “Non fare rumore, ti prego.” le ingiunse Hermann, l’indice della mano destra che quasi meccanicamente correva ai denti che presero a sgranocchiare l’unghia quasi inesistente “Se mio padre sapesse che sono entrato qui..”

“Questa è la tua stanza, vero?” chiese Mimì, troppo contenta per avere scoperto di non avere dinnanzi un mostro e desiderosa di parlare con qualcuno. Hermann annuì forsennatamente senza parlare, quindi si precipitò al secretaire accanto la porta e prese a cercare qualcosa. “Dove dormirai?” domandò ancora la bambina. “Nella stanza degli ospiti, credo.” la informò Hermann “Ti avevo chiesto di star zitta, ti prego.” “Perché non puoi stare qui? È la tua stanza.” Mimì spalancò gli occhioni nel momento in cui Hermann si avvicinò, le sopracciglia aggrottate “Se mio padre mi vede parlare con la figlia di uno dei domestici mi picchia, e non mi piace” i suoi occhi si inumidirono “essere picchiato da lui.” “La suora della Gilda che si occupava di me all’orfanotrofio” rispose Mimì di rimando “mi diceva che non c’è niente di male nel dare conforto agli ammalati e che da ammalati siamo tipo” cercò le parole giuste “tutti uguali.” Hermann pensò qualche istante a quelle parole, giusto il tempo che Mimì ebbe per farsi prendere dall’ennesimo accesso di tosse e affondare il viso smunto nel fazzoletto “Che idiozie.” disse alla fine il bambino alzando le spalle, ma qualcos’altro aveva colto la sua attenzione “Quindi vieni dall’orfanotrofio?” Mimì annuì mentre sputava un grumo di sangue nel fazzoletto “Sono stata lì per un po’. Juliet mi ha portata via quando è stata abbastanza grande per lasciarlo.” “E allora avete preso a vivere da sole?” gli occhi slavati di Hermann sembravano galeoni d’oro, tanto erano spalancati “Racconta.” Mimì aggrottò un sopracciglio “Qualche volta ho fame, Juliet allora si fa in quattro e mi procura lo scop. Con i suoi risparmi abbiamo preso una soffitta vicino Whitechapel, i vetri erano rotti e i piccioni c’avevano fatto il nido ma Juliet ha coperto i buchi con degli stracci, poi mi racconta delle belle storie e mi piace vivere lì, tranne che d’inverno.” si morse un labbro livido “Juliet è stata tanto buona con me.” “È tipo una madre?” chiese Hermann.

“No, Juliet è mia sorella.” rispose Mimì, sicura di quello che stava dicendo “Lei mi vuole bene.” Hermann si grattò sotto la gola pensieroso “Mia madre mi voleva molto bene.” disse “Mi ha insegnato a disegnare e suonare il violino, e a comportarmi bene. Poi mi portava sempre con lei, ed era divertente eggiare per la City.” “Dov’è tua madre?” domandò Mimì, stringendo forte il fazzoletto macchiato. “È morta.” gli occhi di Hermann erano grandi, spiritati, e più Mimì li guardava fisso più lui si sforzava di fissarsi su un altro punto “Ho solo mio padre, adesso. E Andrew. Andrew è l’unico gentile con me.” “Tuo padre grida sempre.” disse Mimì. “Mio padre vuole raddrizzarmi, ho tante cose che non vanno.” disse Hermann “Vuole che io diventi un uomo. Lui è una persona importante e lo sono anche io; non dovrò sfigurare, per questo mi impegno a fare quello che dice, ma è difficile.” spiegò “Quando lo deludo non ne è felice, e lo deludo spesso perché sono sbagliato.” “Non è vero.” Mimì tossì un paio di volte e scosse la testa “Fai solo brutti disegni.” Hermann si rosicchiava le unghie metodicamente “Posso dirti un segreto?” Mimì annuì subito “Qualche volta vorrei essere nato in orfanotrofio. Qualche volta vorrei che mio padre non ci fosse, che fosse morto. Qualche volta vorrei che ci fosse un muro tra di noi.” “Non so cosa vuoi dire. Non ho un papà.” rispose Mimì, un focolaio dalle parti dove sospettava fosse il cuore. “Per me vuol dire urla e botte. Io gli voglio bene, ma lui è sempre arrabbiato. Allora vorrei che lui non mi veda più.” scosse la testa “La scelta è essere nobile come me o essere povero ma poter fare quello che mi pare, come te.” Mimì alzò un sopracciglio “Forse vorrei averli, dei genitori.” “Tu sei povera ma hai Juliet, lei ti vuole bene. Io sono figlio del marchese di

Norfolk , mio padre mi odia e sono sbagliato. Credimi, a conti fatti sei più fortunata tu di me.” Fece per alzarsi e la bambina gli tese una mano smagrita “Io sono Mimì. Rimani ancora un po’, mi piaci.” Hermann sbatté gli occhi incredulo, poi prese la mano che la bambina gli tendeva “Io sono Hermann.” “Che brutto nome.” “È un nome importante per la mia famiglia, me l’ha spiegato mia madre, una volta. Hermann era mio nonno.” ** “Pensavo che quel mentecatto non avrebbe mai fatto niente di buono nella sua lurida, sozza vita e invece eccomi qui a ricredermi. Indirettamente devo ringraziarlo per aver disseminato di sperma tutta Londra.” Queste furono le prime parole che Juliet sentì quando riprese conoscenza. Solo dopo alcuni minuti si decise ad aprire gli occhi, si sentiva circondata da veli, la bocca impastata e sulla lingua sapore di ferro. Era come se qualcuno le avesse messo una benda sugli occhi, all’inizio non vedette che ombre e si chiese se per caso non era morta. Qualche istante dopo però mise a fuoco una tenda rosso fuoco subito seguita da un caminetto spento su cui erano posate delle miniature che non riusciva a vedere e, accanto a lei non appena girò la testa che le fece molto male, Victor Howard, seduto su di una poltrona sdrucita, vestito di una camicia macchiata di sangue con le maniche risvoltate, sprofondato nella lettura di un libricino nero. Le tende erano tirate ma da fuori si avvertiva il rumore del temporale, Juliet non sapeva quanto tempo aveva dormito e tutto quello che voleva era essere informata sulle condizioni di Mimì oltre che sulle sue. Non avvertiva dolore ma ricordava sempre meglio quello che era successo: sangue ovunque, la vasca da bagno e Larich che si nutriva di lei. Trattenne un conato di vomito e si schiarì la voce “E-ehm.”

Dovette farlo altre due volte perché Victor alzasse lo sguardo dal libriccino e aggrottasse le sopracciglia. Si alzò subito in piedi e le ò una mano distratta sulla fronte “La febbre è scesa.” disse, spiccio “Ti ho salvato la gamba ma temo dovrai stare in casa per almeno due settimane, la pelle ricrescerà.” Juliet annuì piano come imbambolata e insieme grata, per qualche istante in quel bagno aveva temuto che Victor e Dem l’avrebbero lasciata a morire, poi ricordò che il marchese l’aveva presa tra le braccia e allora si sentì inondata da una sorta di inspiegabile calore “Cercherò di lavorare lo stesso.” disse piano. “Certo che lo farai.” rispose Victor “Ti ho salvata per questo, non certo per la mia buona azione quotidiana.” Juliet dette in un piccolo sospiro, giusto il tempo che ebbe per cominciare a sentire un lancinante dolore alla gamba. Digrignò i denti e sprofondò la testa sul cuscino “Sì, sarà orribile.” disse Victor “E ancora non hai visto niente.” “Come sta Mimì?” chiese Juliet con un filo di voce. “Era peggiorata.” disse Victor, impietoso “Le ho dato qualcosa, l’ho visitata e l’ho messa in camera di mio figlio, là c’è il caminetto, credo starà meglio.” “Quando potrò vederla?” “Se ti va di morire di dolore va’ pure, ma allora niente salverà la tua bambina dalla casa di carità della Gilda. È da lì che provenite, no?” Victor aggrottò le sopracciglia e Juliet seppe che diceva la verità, se lei fosse morta non avrebbe certo tenuto Mimì con sè, per questo doveva tener duro e tirare avanti, sopportare alti e bassi e attendere perché se anche era vero che l’uomo per cui lavorava aveva un carattere orribile, abitudini deplorevoli e immorali e una vita non certo semplice, Juliet si fidava del suo acume di medico e sentiva che lei e Mimì non potevano essere cadute in mani migliori. “Grazie.” disse semplicemente mentre Victor le dava le spalle “Avevate detto qualcosa prima, quando ho ripreso conoscenza?” chiese ancora. “Niente che ti riguardasse.” fu la risposta secca di Victor “Comunque imprecavo contro mio padre.” “Farsi odiare dai figli” sussurrò Juliet stretta tra un moto di rabbia e uno di

dolore “È prerogativa di famiglia, vedo.” Victor divenne una statua di marmo, rimase imibile, immobile, in viso un’espressione imperscrutabile , quasi senza respirare “Cos’è che hai detto?” disse alla fine senza nemmeno guardare Juliet. “Dite quello che volete” rispose Juliet, rannicchiandosi sul cuscino “ma a voi stesso non potrete negare la verità. Vostro figlio vi teme.” “È giusto così.” “Non deve solo temervi.” ribatté Juliet “Non provate mai un moto di affetto quando fa qualcosa di giusto, qualcosa di bello?” “Come dimostro il mio affetto” le parole di Victor erano affilate come coltelli “non sono affari che ti riguardino e ora sta’ zitta prima che ti cacci via da questa casa, te e la tua pidocchiosa marmocchia. Hai parlato anche troppo, non approfittarne.” “E va bene” Juliet abbassò la testa “starò zitta, ma vostro figlio per adesso vi teme, in seguito vi odierà, così come voi odiate vostro padre.” La mano di Victor si aprì e chiuse più volte meccanicamente, quindi il marchese si voltò verso Juliet, andando verso di lei a grandi falcate, in viso un’espressione furente “Tu vieni a dire a me com’è giusto che io mi comporti con mio figlio, com’è giusto che io lo sproni a diventare un uomo: eppure cos’è che sai? Come ti permetti di criticarmi se non conosci nemmeno una virgola del mio rapporto con il disgustoso verme che era il precedente marchese di Norfolk? Tu non sai niente” piantò una mano sullo stipite del letto, un’altra affondo sul materasso e Juliet si trovò a pochissimi centimetri da Victor “niente, capito? Non hai idea di cosa significhi aspettare un suo sguardo, anelare un - Bravo, Victor, ben fatto per tutto il giorno, tutti i giorni, studiare come un pazzo fino a farsi sbiancare i capelli, sorridergli e in cambio ricevere solo indifferenza, né parole, né botte solo fredda maniacale indifferenza. Non sai cosa voglia dire sentirsi un buco nero agli occhi del verme che ti ha messo al mondo e venire a sapere dalle lacrime di tua madre che non solo in società è completamente diverso ma che si è fottuto tutta Londra, prostitute e nobildonne, nessuna differenza. Nessun mistero. Nessun rispetto per la moglie, per il figlio, per il buon nome della famiglia.” Victor schiumava di rabbia e Juliet, gli occhi spalancati, non osava respirare “Era

un gentiluomo perfetto, lui, tutti lo adoravano, amava divertirsi e ancora oggi c’è chi lo rimpiange perché al suo posto c’è quel maniaco, il deplorevole figlio del marchese Hermann. Mia madre era arrivata al punto di non poter mettere un piede fuori di casa senza essere additata e derisa. E poi abbiamo fatto il botto, abbiamo scoperto che il verme si era fottuto una borghese, che ci aveva fatto un figlio, un bastardo.” Girava per la stanza come un’anima in pena, le dita premute sulle palpebre “Facemmo carte false per mettere a tacere la famiglia di lei, il verme mandò il bastardo a balia in qualche paese lontano da Londra, forse a Brighton, chissà. Gli dette un nuovo cognome, Black. Damon Black, così si chiamava il mio fratellastro. Niente doveva ricondurlo alla mia famiglia, eppure..eppure scoppia un’epidemia di tifo, la balia muore e ce lo ritroviamo qui in casa. Mia madre non sopporta la vergogna, si ammala anche lei e muore. Eppure Black, lui..era affezionato a mio padre, lavorava fianco a fianco con lui in laboratorio e io li odiavo, tutti e due. È stato quando quel depravato di mio padre è morto di sifilide che finalmente mi sono sentito libero di cacciarlo via.” “Cosa ne è stato?” chiese Juliet che ad ascoltare quello sfogo si era quasi dimenticata del dolore alla gamba. “Non ne ho idea: ha avuto il coraggio di inviarmi una stupida lettera in cui mi annunciava il suo matrimonio con una donnetta, una puttana da circo.” disse Victor: sembrava distrutto dalle urla di prima “Non avevo idea di quello che avesse combinato fino a che non ho trovato questo” indicò con un cenno il libriccino nero sul bracciolo della poltrona “che guarda caso è stato scritto da lui. Buon sangue non mente, perlomeno lo sperma di mio padre è riuscito a produrre qualcosa di decente oltre me.” “Dice cose utili?” Victor annuì, riprese in mano il libriccino e lo sfiorò con le labbra tremanti di qualcosa di molto simile a un piacere grottesco “Qui dentro c’è tutto. Black si è occupato di ciò a cui anelo io. Ovviamente anche le sue sono tutte teorie, ma credo che le mie conoscenze e le sue possano dar vita al coronamento di ciò in cui credo.” Juliet non credeva nemmeno di star parlando con Victor Howard in quel modo. Adesso che lui le aveva spiegato qualcosa di sé, riusciva forse a capirlo meglio.

“Come hanno fatto i Deville a ottenere il quaderno di Black?” “Spero lo abbiano strappato dal suo cadavere rinsecchito.” rispose Victor con una smorfia di rabbia. “Avete bisogno di qualcosa, mio Lord?” “Solo finire di leggere.” Victor si avviò di nuovo alla porta, forse si era pentito di aver spiattellato a Juliet fatti riguardanti la sua famiglia, ma non sembrava darlo a vedere. “Per adesso mi sei completamente inutile, dormi e falla finita con le lamentele, la servitù parla troppo e da’ da parlare.” “Almeno faccio bene il mio lavoro.” rispose Juliet con un piccolo sorriso “Mio Lord, riguardatevi.” Victor aveva sentito ma non rispose nulla e si chiuse la porta alle spalle, lasciando Juliet sola in compagnia del lume di una candela e delle sue ombre.

Capitolo IX: La commedia degli orrori

Le luci in laboratorio erano fioche e dalla sala principale non proveniva alcun rumore, l’unico sveglio era Victor che correva in una danza macabra lungo le scaffalature colme di composti alchemici, materiali immoti più o meno pericolosi, essenze che potevano dare vita come toglierla: era sufficiente un po’ più di mercurio ad alterare una miscela, a provocare lo scoppio necessario alla morte di un individuo o di molti insieme, un piccolo stravolgimento in una mistura per bloccare per sempre il cuore, l’esistenza di un uomo. Ma quel giorno Victor non era lì per dare la morte. Tutto quello che voleva era conferire la vita alla donna che amava. Per farlo, aveva sacrificato gli ultimi anni della sua vita e adesso che anche il diario del suo fratellastro, Damon Black, gli aveva dato ragione, si sentiva ancor più ferocemente soddisfatto, ancora più autorizzato nel portare a compimento ciò che ormai era la sua ossessione. “Vedrai, Helena” disse lanciando uno sguardo allucinato e feroce al quadernetto ad un angolo del tavolo alchemico “questa sarà la volta buona, riuscirò a infonderti nuovamente respiro, il tuo cuore batterà di nuovo, tu vivrai e allora niente potrà più dividerci.” Aveva letto dei numerosi esperimenti tentati da Black e aveva partecipato con il fiato sospeso a ogni suo fallimento, ogni sua frustrazione. Da quello che era riuscito a capire dai pochi dettagli personali contenuti all’interno del quaderno, sua moglie era morta, di lei non esisteva più il corpo per qualche ragione e voleva re infondere vita al suo spirito, dargli un corpo. “Uniti nella sventura, sempre, Black.” commentò Victor scivolando letteralmente da un tavolo alchemico all’altro e afferrando ampolle, apparentemente senza alcun criterio, in realtà quello di chi conosce una stanza talmente bene da poterla vedere anche da cieco. Victor lavorava quasi al buio, al centro di un tavolo da laboratorio stava accatastando fiale e ampolle. Ad un angolo della stanza, un grande telone macchiato era teso a coprire qualcosa. Victor si ò una mano tra i capelli, in viso un’espressione soddisfatta: secondo il parere di Damon, ingerire un composto di zolfo e rubidio permetteva il aggio di uno spirito da un corpo a un altro.

Il problema di Black era che una volta fatto uscire lo spirito, non riusciva a sigillarlo all’interno del nuovo corpo: scriveva che a quel punto lo spirito di Mallory, la moglie, tornava sempre indietro. Victor soppesò l’ampolla di rubidio liquido, le sopracciglia aggrottate: era a un o dalla soluzione e non riusciva a cavare un ragno dal buco. Si diresse al telone, lo scostò rivelando una grande vasca contenitiva, unico oggetto all’interno della stanza a sembrare nuovo di zecca. Al suo interno, un cadavere umano, quello di una donna. Esteticamente macabro e sgraziato, nient’altro che un ammasso di arti cuciti insieme, ad occhio medico era perfetto: ogni legamento era teso alla perfezione, lo stato di conservazione sotto Als era ottimo. Il corpo era in stasi e galleggiava nell’Als. Victor non poteva permettersi di perdere il prezioso involucro che avrebbe ospitato il corpo di sua moglie. Dato che non gli sarebbe più stato concesso di sbagliare, era disposto ad attendere anche dieci, mille anni, prima di provare. ò il dorso della mano sul vetro della vasca: l’Als preservava il corpo, lo proteggeva, così come l’anima di sua moglie era protetta dal corpo di Victor, sigillata al suo interno. Per adesso, il cadavere che aveva davanti non era altro che un involucro, vuoto e freddo. La mente di Victor calcolò molte ipotesi, una più disparata dell’altra. Per ore e ore rimase a contemplare il cadavere che galleggiava nell’Als: alla luce delle lampade Tesla sembrava quasi che sbattesse gli occhi. Poi, di colpo era vivo, spalancava la bocca verso Victor e nel suo corpo nient’altro che freddo e oscurità. Victor non riusciva a scappare, l’abisso lo inghiottiva e lui sapeva che era troppo tardi per risalire, troppo tardi per chiedere aiuto. Sapeva di essere solo, completamente solo. “Helena!” Urlò, si appigliò alla vasca, le unghie scivolarono sulla liscia superficie di vetro e lui cadde a terra, riverso su un fianco. Avvertì il dolore di uno spigolo di legno contro il cranio, strizzò gli occhi e mise a fuoco il mondo circostante: aveva dormito e non si era nemmeno accorto del tempo che ava; ancora una volta

aveva mischiato realtà e fantasia. Sulla sua visuale scese un’ombra scura: perdeva sangue dalla testa. Si rialzò di scatto, ò la manica sulla fronte, il lino ne rimase impregnato: liquido scuro rosseggiò sul pavimento polveroso; le luci allargarono le ombre. Qualche volta, all’interno del laboratorio, Victor aveva allucinazioni: era a causa dei vapori soffusi del laboratorio; le pareti di pietra del sottoscala ne erano così impregnate che non c’era da meravigliarsi più di tanto se accadevano fatti del genere. Si sedette contro il muro freddo, gli occhi che stentavano a rimanere aperti, quando sentì un grido lungo, protratto. Proveniva da sopra. Afferrò il bastone galvanico e salì i gradini tre alla volta trovandosi nel salone principale. “Che succede?” gridò, furibondo. Dem apparve dalle cucine: nonostante l’ora tarda era vestito di tutto punto con l’armatura e reggeva il Grave Digger “Viene da sopra.” spiegò seccamente. Victor fece per salire le scale quando anche Hermann corse fuori da una stanza e si appigliò al corrimano, subito seguito da Andrew in evidente stato di confusione. Hermann aveva gli occhi spalancati, era pallido e tremava come preso da una crisi epilettica. “Ho chiesto” Victor corse su per le scale fino a che si trovò a due i da Hermann “che succede?” Suo figlio non osò alzare lo sguardo e balbettò qualcosa. Victor lo afferrò per le spalle contenendo l’istinto di spingerlo “Che hai? Parla!” “Mio Lord” sopraggiunto dietro di lui, Dem si morse le labbra contenendo un impulso irrefrenabile che i canini fuoriusciti non riuscirono a smascherare “la camicia..”

Solo allora Victor notò che il lato destro della camicia di suo figlio era macchiato di sangue “Che hai fatto, impiastro? Rispondimi.” gridò, ottenendo solo che Hermann trattenesse il fiato contenendo forse l’impulso di piangere e, forse, quello di gridare ancora. “Mio Lord” Andrew era andato e tornato velocemente dalla stanza di Hermann e si reggeva il cuore, sconvolto “la stanza del signorino è spalancata, qualcuno ha rotto la finestra.. e ha preso la bambina.” Dem corse in camera: trovò un cuscino completamente distrutto da colpi di coltello, il materasso insanguinato e cocci di vetro dappertutto. “È stato velocissimo.” disse in un soffio “Ad un bravo ladro sarebbe servito almeno un minuto, questo ha fatto tutto in pochi secondi.” Ma Victor non lo stava ascoltando: accanto al letto dove Mimì dormiva, il letto di Hermann, su un tappeto damascato era stato approntato un involto di lenzuola come se qualcuno vi avesse dormito “Hermann.” ringhiò. Il bambino rimase dietro di lui: sembrava troppo stordito per parlare, ma Victor non gli concesse nemmeno un momento per riprendersi, lo scosse con violenza e gli tenne la faccia ben ferma per fissarlo negli occhi “Chi era? L’hai visto?” “Io..io..” Victor gli dette un altro scossone “So che hai dormito qui, non sono un idiota, so che c’eri. Parla, inutile codardo, com’era?” Gli occhi giallognoli di Dem si inerpicarono fuori, nel giardino; ogni senso era acuito, in attesa di sentire anche un solo rumore, in attesa della risposta di Hermann. “Allora?” “So..sorrideva.” balbettò Hermann “Sembrava un lupo delle favole e so..sorrideva quando l’ha presa. C’era..tanto sangue, ho..avuto paura.” “Smiling Jack”urlò Helena nella testa di Victor, facendolo raggelare. Lui batté i denti e, fremendo come un cane ferito, si girò verso il suo servitore.

“Dem, è lui. Dividiamoci, dobbiamo trovarlo.” Il dhampir aspettava solo un ordine, tenne ben stretto il Grave Digger e si precipitò giù per le scale, così anche Victor, che gettò di lato Hermann come fosse un patetico sacco di patate. “Tu sta’ qui.” ingiunse a Andrew “Stagli vicino.” concluse con un cenno al figlio boccheggiante per terra. Le porte d’ingresso furono aperte, Dem era già sparito nella notte: i dhampir potevano acuire i sensi, erano cacciatori perfetti, notturni e diurni, umani e insieme animali. Degli uomini possedevano la pazienza, delle bestie la ferocia. Dem sentiva il sangue pompargli nelle orecchie, l’adrenalina lo tirava verso il suo obiettivo. Avvertì come una scia, la strada che doveva percorrere. Si gettò per i viali alberati del West End, le schiere di case nobiliari a quell’ora immote: chi era a far festa si trovava ancora alla City. Udì un grido di rabbia, un ringhio feroce che pareva quello di una bestia ferita, un ululato disperato e le strida di un esserino; e poi, l’odore della paura. Il dhampir seguì la strada delle urla, il Grave Digger contro il petto: sentiva bisogno di sangue e si staccava nervosamente pezzi di pelle dalle labbra. Trasalì quando si trovò di fronte a un involto di lenzuola abbandonate per la strada. Avvicinandosi notò che tra queste sporgevano delle mani e che sia le coperte che i pochi lembi di pelle visibili erano macchiati di sangue fresco. La mano si muoveva debolmente tra le coperte. Dem si avvicinò a o di corsa fino a quando si trovò a pochi centimetri da Mimì, il viso ridotto a una maschera di sangue, profonde lacerazioni sulle braccia, come se le unghia di qualche animale l’avessero ghermita. Tossiva, sputava grumi scuri, teneva gli occhi stretti e respirava a fatica, stretta in una pozza maleodorante di vomito e sangue. Dem si guardò attorno ma non vide più niente: l’odore di sangue era troppo e lo

inebriava. Per la strada non vide altri che se stesso e quella patetica figurina. Sorrise, i canini ancora più esposti, e tese un dito magro. Lo ò sugli squarci nella pelle di Mimì, che dette in un grido di dolore. Dem non si ritrasse fino a che il dito fu imbrattato di sangue fin dentro l’unghia, lo portò alle labbra e succhiò, deliziandosi di quanto dolce e corroborante potesse essere quel liquido rosso. Ogni sorso, Dem, non è che un o in più verso la bestialità, verso la trasformazione ultima. A pronunciare quelle parole, nella testa di Dem, era stata una voce che lui ben conosceva, una voce che si sforzò di scacciare. Allontanò da se il dito e scosse la testa come se potesse servire a mandar via il ricordo molesto di chi una volta l’aveva guardato negli occhi e gli aveva detto quelle parole. Cercando di far snebbiare la mente, Dem prese il patetico involto che era Mimì e corse verso la magione degli Howard, negli occhi gialli un solo desiderio, quello di chiudersi al più presto la porta di casa alle spalle e dimenticare quella voce, quel volto. Dimenticare il ricordo di canini che affondavano nella sua carne, la sensazione di piacere e sofferenza atroce. Dimenticare il sangue che gli veniva succhiato via dalle vene e un paio di occhi gialli da demone fissi contro i suoi che a quel tempo erano ancora scuri, umani. Ricordò che avrebbe voluto fosse un incubo, ma quei canini erano reali, quegli occhi erano veri e venivano fuori dai suoi peggiori incubi. Digrignò i denti ed entrò nel giardino degli Howard: le porte erano tutte aperte e all’interno della sala principale trovò Victor che si aggirava da un angolo all’altro. La statua greca al centro della stanza rimaneva immota nella sua decadenza. “L’hai trovata.” Andrew si fece avanti per prendere in braccio la bambina, ma Victor lo frenò “Poggiala qui a terra, Dem, voglio darle un’occhiata.” Il dhampir fece come gli era stato ordinato e rimase a guardare Victor Howard

che svoltava il fagotto di lenzuola e scopriva il corpo maciullato di Mimì: la camicia da notte era invischiata nella pelle aperta, il cotone a bagno nel sangue, nei tagli da bestia che aveva addosso. Dem poggiò la schiena contro il muro e rimase a guardare disgustato il sangue che prima aveva leccato, aveva schifo del suo dito che era sporco, sozzo di quel liquido rosso. Avrebbe dovuto lavarlo a fondo, sfregarlo per pulirsi di quella lordura. Victor sembrava preso da un sacro furore , strappò un lembo del colletto della camicia da notte di Mimì. Schiumò d’ira “Era per Hermann, questo.” si alzò di scatto e scosse la testa “Finiscila, Dem.” “Ma..Mio Lord..” A parlare era stato Andrew che stava trattenendo i tremiti. Victor si voltò verso di lui “Non possiamo fare più niente per lei, non capisci? È stata morsa.” Il maggiordomo spalancò gli occhi e fissò più attentamente Mimì: la bambina aveva sul collo un vistoso squarcio. Victor osservò i presenti appoggiandosi rigidamente al muro, la fronte aggrottata come se stesse evocando un ricordo doloroso “Anni fa lavoravo a un progetto insieme all’ora Ministro della Salute Isaac Durbany. I licantropi, come li chiamate voi, erano soggetti umani modificati in laboratorio per diventare i nemici naturali degli animati. Il progetto fallì e ci ritrovammo con bestie mutaforma incontrollabili. La maggior parte non sono più in grado di mantenere la forma umana e vivono nelle Wastelands fuori da Londra, ma alcuni, come Smiling Jack, sono tornati dentro le mura della città. Lui si ricorda di noi, di me. E mi odia.” guardò Dem “Dobbiamo abbattere la bambina prima che abbia la possibilità di far incubare la malattia e mutare. Fallo.” Era un ordine e il dhampir, estratta la spada, la fece mulinare sopra la bambina , contro il suo fragile collo. Gli occhi di lei erano strizzati nel dolore, era cosciente e soffriva, annaspava e sprizzava sangue.

È giusto, pensò Dem, sto ponendo fine alle tue sofferenze, è giusto, non mi guardare così, perché mi guardi così? “No!” Juliet incespicò fuori dalla sua stanza, Hermann a sorreggerla. La spada di Dem troncò di netto la testa di Mimì, che rotolò lungo la stanza, fino a finire immota contro un angolo in ombra, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue. “No, Mimì, no!” Juliet si avvinghiò a Hermann urlando, una mano a stringerlo e un’altra tesa contro i propri capelli. Voleva stritolarli, voleva strapparli. “No, no, no.” biascicò, la fasciatura alla gamba stava saltando, si era riempita di puntini rossi, ma lei quel dolore non lo sentiva: adesso era tutto catalizzato per Mimì, tutto per l’unica persona alla quale aveva voluto bene e che adesso non c’era, se n’era andata per errore, uno stupido scambio di persona, una tragica commedia degli equivoci. Dem era fermo di fronte al piccolo cadavere che un tempo era stata Mimì. Guardava l’elsa della spada che colava gocce di sangue e sentiva i canini premere contro le labbra. Lottò contro il disgusto e la fame e contro la voce che sentiva in testa, sempre la stessa. La voce rideva forsennata, rideva di lui. Si sforzò di fissare Victor, che invece guardava Hermann. Il bambino fissava nel vuoto, le guance paffute erano afflosciate, sul viso solo le lacrime di Juliet. Aveva il pallore mortale di chi ha appena visto due volte la morte in faccia nelle sue variegature più brutali. Non stringeva più Juliet, si lasciava stringere, ma era come se non sentisse niente di quell’abbraccio inconsulto, come se in quel momento fosse chiuso nel suo bozzolo, dove nessun altro aveva accesso. “Hermann..” Victor fece un o nella sua direzione, salì il primo gradino e

Hermann si scostò da Juliet per guardarlo fisso negli occhi “Perché, Hermann? Non dovevi...non dovevi guardare.” Il bambino scosse piano la testa, negli occhi una furia che Victor non aveva mai visto, rabbia inconsulta e insieme impotente “Non dovevo.” ripeté “No, non dovevo.” “Hermann, io…” “Io ti odio!” gridò Hermann prima di scomparire ancora più su, verso la soffitta. “Che cosa state guardando, voi?” urlò Victor subito dopo “Portate via questo ammasso di letame, pulite tutto, abbiamo dato abbastanza spettacolo per oggi.” Era arrabbiato e non sapeva cosa pensare: scese lentamente le scale. Ti odia, Victor. Lui ti odia., gli sussurrò in testa la voce di Helena. “Helena, cosa devo fare?” ringhiò crollando sulle scale. Stagli vicino. “Vuole togliermi ogni pezzo della mia famiglia, vuole finirmi.” Victor scosse piano la testa, assente al mondo circostante “Devo mettere una taglia su di lui.” Tu non puoi pagare nessuna taglia e lo sai., disse Helena. “Non importa. Io devo uccidere Smiling Jack, non sarò soddisfatto prima di averlo traato a fil di lama, prima di aver visto la sua schifosa faccia sorridente infilzata a una picca. E quando l’avrò, Helena, quando l’avrò non solo ti avrò finalmente vendicato ma avrò solo una cosa da fare su questa terra: ridarti la vita, amore mio.”

Parte II: Il signore dei corvi

Capitolo X: Il maggiordomo che non c’era

Juliet si strinse nelle coperte, sudava abbondantemente e forse aveva la febbre alta ma non gli importava, non aveva intenzione di chiedere aiuto, erano giorni che nessuno si occupava di lei e se non fosse stato per le poche attenzioni che Andrew le garantiva e la compagnia di Hermann, che qualche volta ava di nascosto a salutarla, sarebbe morta. Ma in fondo che senso poteva avere per lei vivere o morire? Mimì era morta, il suo piccolo angelo, la sua sorellina era stata uccisa, la sua vita troncata freddamente dal colpo di spada di un assassino, lo stesso che lei aveva coinvolto il giorno infausto in cui la sua strada e quella di Victor Howard si erano incrociate. Juliet si avvinghiò ancor più strettamente alle coperte, digrignò i denti e nel delirio della febbre si morse a sangue le labbra, la gamba le faceva male ma non avrebbe gridato, nessuno sarebbe dovuto accorrere al suo capezzale, lei sarebbe morta lì , era questo che aveva deciso, avrebbe chiuso per sempre gli occhi in un letto di sudore e forse, se c’era un dio da qualche parte su nel cielo come dicevano le suore della Gilda all’ospizio di carità, quando avrebbe riaperto gli occhi avrebbe visto la sua Mimì. Juliet maledisse a fior di labbra il giorno in cui tutto era cominciato, quello in cui aveva accettato di lavorare come una patetica schiava in quella fredda casa del West End. Per cosa, poi? La sua Mimì, non aveva che lei al mondo, era rimasta vittima di un grottesco scambio di persona, era stata rapita da un assassino, lei, un fuscello malato dalle clavicole smagrite, il suo uccellino spaurito, Juliet poteva solo immaginare quanta paura avesse avuto quando il suo rapitore, dopo essersi reso conto di aver sbagliato obiettivo, per rabbia, aveva dilaniato le sue carni. I piedi di Juliet si avvinghiarono alle coperte, le ribaltarono e la ragazza le sentì scivolare giù dal letto. Il caminetto era spento e presto avrebbe avuto brividi di freddo, quella casa era tetra e la odiava, sapeva di decadenza e lacrime, di sangue suppurato male come una ferita ricucita in fretta per la vergogna, e Juliet rimpiangeva la sua soffitta nell’East End, i bei momenti con Mimì, le storie che le raccontava di fronte alla stufa mentre arrostivano castagne verdastre. Avevano un sapore disgustoso ma era bello star lì a parlare, lei e Mimì da sole. Adesso cosa aveva guadagnato da quella che si era rivelata una scelta sbagliata?

Mimì non c’era più, lei era sola abbandonata in un fondo di letto in una camera sontuosamente decadente, lugubre come la morte. Juliet avrebbe voluto piangere, ma si trattenne: aveva già dato abbastanza spettacolo. E poi, come il pianto avrebbe potuto mutare la sua condizione? Sentì brividi di freddo lungo la colonna vertebrale, poi un tremore spasmodico. Battè i denti: era finita, quelli erano i sudori della morte. Era come bloccata in un cubo di ghiaccio, la gamba pungeva, e lei era lontana da tutto, da tutto. È così che si muore?, si chiese un secondo prima di quella che avrebbe giurato sarebbe stata una perdita di conoscenza; che però non venne. Juliet sentì la porta aprirsi piano e qualche o lento fino al suo letto. Non si mosse, pensando che, chiunque fosse, se l’avesse vista in quello stato, avrebbe capito di non essere giunto in un buon momento e l’avrebbe lasciata in pace; ma non fu così. Avvertì qualcuno chinarsi e un attimo dopo le coperte ricaddero sul suo corpo. Juliet aprì gli occhi. Di fronte a lei c’era un uomo in marsina scura da maggiordomo, un abito uguale a quello di Andrew. L’uomo le sorrideva con aria singolare, sorniona. Juliet spalancò gli occhi e si chiese che fine avessero fatto i tremori che l’avevano assalita fino a un secondo prima. “Lei chi è?” chiese. “Le ho portato il tè.” con un gesto elegante, il maggiordomo pose un vassoio in argento sul comodino accanto al letto; quando Juliet sbirciò, vide che sopra c’era una grossa teiera fumante di liquido ambrato. “Perché?” “Mi hanno detto che ne aveva bisogno.”

“Non pensavo che il marchese avesse altri servitori.” commentò Juliet, debolmente. Il maggiordomo le rimboccò i cuscini “Ha fatto presto a sostituirmi, vuole mandarmi via?” “Se avesse voluto mandarla via” la riprese lui “l’avrebbe già fatto da un pezzo, le pare? È già una settimana che si rotola nel letto senza far nulla di costruttivo.” “Costruttivo? Lei dice?” Juliet sentì gli occhi pizzicare, seppe che stava per scoppiare in lacrime, di dolore e di rabbia “Per colpa del padrone di casa, la mia Mimì è morta, morta: e io non ho potuto farci niente, capisce? Questa casa, la gente che ci vive, sono tutti maledetti. Odio star qui! Li odio tutti.” Il maggiordomo continuò a fissarla, la testa piegata leggermente di lato, e solo allora Juliet notò che aveva gli occhi stranamente liquidi. “Cos’ha da fissarmi? Le faccio pena, non è vero? Se la risparmi, non voglio essere compatita. Vorrei solo andarmene di qui, oppure morire. Ma se proprio devo morire, che sia adesso, ho disgusto di questa lenta agonia, ogni giorno è una tortura.” Finalmente due grosse lacrime scivolarono lungo le guance di Juliet, che rimase qualche secondo attonita a fissare l’uomo di fronte a lei; poi si ò sugli occhi la manica della camicia da notte “Mi scusi..” balbettò Il maggiordomo fece qualche o in sua direzione, l’espressione enigmatica non era mutata, gli occhi erano più grandi e acquosi che mai “Ho solo ascoltato il suo sfogo, in un certo senso anche questo fa parte del mio compito.” “È un maggiordomo, non un analista.” singhiozzò Juliet, le palpebre violacee “Lo vuole un consiglio? Scappi da qui anche lei.” “Io, scappare?” il sorriso sulla bocca dell’uomo si allargò “Non potrei mai, stare qui è il mio compito, sorveglio questa famiglia da così tanto tempo che non si immagina.” Juliet gli lanciò uno sguardo storto “Io qui non l’ho mai vista.” “Spesso ci si rifiuta di vedere ciò che è. Si stenta a credere a ciò che si ha davanti e non si riconosce subito la vera realtà, in fondo ce ne sono così tante, è semplice confondersi.”

“Non so chi lei sia.” Juliet si accoccolò sul materasso. Il tè era ancora caldo, in bilico sul vassoio, ma non aveva intenzione di berlo. Non si fidava di quell’uomo, però non si sentiva nemmeno minacciata dalla sua presenza “Però mi è familiare.” concluse, pensierosa. “Mi avrà visto da qualche parte in casa, lo sa che è così. Io ci sono sempre stato, da prima di Victor Howard e da prima ancora di suo padre.” “Non sembra così anziano.” Juliet aggrottò le sopracciglia. “Gliel’ho detto.” rispose quello “Spesso ci soffermiamo alle apparenze quando la realtà è dietro l’angolo. I nostri occhi rifiutano di guardare: è umano.” “Lei parla da solo, e parla di cose che non capisco.” Juliet si ritrasse; più lei si tirava indietro, più lui si chinava su di lei, con i suoi enormi occhi acquosi “Conosce la storia della famiglia Howard, signorina Juliet?” “Ne so poco. E non sono sicura di voler sapere qualcosa di una famiglia maledetta.” Solo allora si rese conto che il viso del suo interlocutore era quasi impossibile da definire: se solo sbatteva gli occhi le sembrava di aver dimenticato ogni tratto, se lo guardava attentamente, un secondo dopo già non lo ricordava più; eppure continuava a non avere paura. “Maledetti? Gli Howard non sono maledetti. Tutt’altro! La loro è una condizione privilegiata, hanno ricevuto una benedizione.” “Che benedizione ci può essere nel soffrire, perdersi e far soffrire gli altri?” “Lei ancora non ha capito, lo so.” finalmente il maggiordomo si allontanò da Juliet “D’altronde è presto, ma spero che quando tutto le sarà rivelato sarà pronta. Gli Howard hanno una possibilità che a molti è negata.” “Quale?” L’uomo era sulla porta e ormai Juliet non ricordava più nulla del suo viso; solo i suoi occhi. Neri, liquidi e così poco umani.

“Questo” disse lui “me lo dirà lei la prossima volta, ci rifletta.” “Ci rivedremo?” “Mi cerchi, sono sempre qui in giro.” “Come si chiama?” “Henry.” Chinò la testa di lato e Juliet si rese conto che aveva la voce terribilmente acuta, gracchiante “Arrivederci, signorina Juliet.” E, tempo un battito di ciglia, il maggiordomo senza volto era scomparso. Juliet rimase sola: la porta era spalancata, ma sull’uscio sembrava non essere ato nessuno. “Ciao.” i nel corridoio annunciarono l’arrivo di Hermann: il ragazzino aveva le mani impiastricciate di tempera nera. Era parecchio smagrito nell’ultima settimana: e come dargli torto, se non riusciva a mangiare? “Ciao, Hermann. Siediti qui.” Juliet cercò di ignorare il dolore lancinante alla gamba e fece cenno a Hermann di accomodarsi ai piedi del letto “Come stai?” Il bambino sembrava preoccupato; avevano ato molto tempo assieme Juliet sentiva di cominciare a volergli bene. “Meglio.” mentì “Mi rimetterò a breve.” “Bugiarda.” Hermann aggrottò le sopracciglia “Stai male, si vede. Un giorno sarò un grande medico, il migliore di Londra.” disse, per un attimo l’ombra di un sorriso sulle labbra “Prometti che allora verrai sempre da me.” “Sarai il mio medico personale.” promise Juliet “Ma Hermann, posso chiederti una cosa? Quanti domestici ha tuo padre?” “Solo te, Andrew e il signor Plant.” rispose Hermann, tutto preso dal tirare le pellicine attorno alle unghie senza rendersi conto che stava sanguinando, o forse

sì. “Gli altri sono andati via, la tata si lamentava che papà non la pagava da mesi.” “Non c’è mai stato qui un secondo maggiordomo?” chiese ancora Juliet “Anche prima, se ricordi, prima che andassero tutti via? Qualcuno che si chiamava Henry.” Hermann le lanciò uno sguardo indagatore “Il maggiordomo a casa è sempre stato Andrew, prima con lui c’era una governante ma è stato tanto tempo fa , non ricordo nemmeno come si chiamasse.” Juliet non sapeva cosa rispondere. Ebbe di nuovo brividi di freddo: aveva assistito a una visione, eppure non aveva avuto paura. E cosa significava che lei e Henry, di cui adesso non ricordava più né il volto né alcun altro segno particolare, si sarebbero rivisti? Avrebbe dovuto prenderla come una minaccia? “Cos’è questa?” Hermann tese una mano e Juliet la seguì con lo sguardo: là dove Henry aveva posato il vassoio con la tazza di tè, adesso c’era solo una piuma molto lunga, nera come la pece.

Capitolo XI: L’onore perduto di Dem Plant

Victor lavorava in laboratorio. Da quando Smiling Jack era entrato in casa sua, aveva raddoppiato le ore che trascorreva nel sottoscala: ormai non usciva quasi più di lì. Gli occhi immoti del cadavere ricucito lo fissavano, gli sembrava di essere seguito ma non gli importava: doveva portare a termine il suo progetto, doveva terminarlo così come avrebbe finito Smiling Jack. Helena sarebbe stata viva e lui morto per sempre, un incubo seppellito, una tomba su cui nessuno avrebbe pianto. Victor si aggirava tra le sue macchine galvaniche. Provvedeva lui stesso alla loro manutenzione e ne conosceva ogni funzionalità, ogni metodica. Era sempre stato sicuro che proprio nelle sue macchine, nella sua scienza galvanica, avrebbe potuto trovare il trucco per ridar vita a Helena; eppure il quaderno di Damon Black attestava che la buona riuscita di tutto era un buon misto di medicina e alchimia. Si morse le labbra e ò una mano tremante si tubi di una macchina a raggi galvanici: aveva bisogno di un anello di congiunzione tra alchimia ed energia Tesla, e non riusciva a capire quale potesse essere. Brancolava nel buio e odiava non sapere cosa fare. “Cosa guardi?” scoccò uno sguardo furibondo al cadavere un attimo prima che qualcuno bussasse alla porta del laboratorio. “Mio Lord” era Dem, la solita voce strascicata priva di emozioni “Ha chiamato la Deathwatch, ci sono notizie sulla taglia.” “Cosa ?” Victor si arrampicò su per le scale fino alla sala principale. Dem portava dei guanti d pelle e stringeva le mani sotto le braccia “I ghoul l’hanno preso in consegna, adesso è loro prigioniero nelle fogne.” “Come hanno fatto i ghoul a sapere della taglia?” “Mi sono premurato di metterla ovunque.” rispose Dem. Forse per il freddo, quel

giorno aveva le labbra livide e i canini terribilmente appuntiti “È più probabile che uno del genere si faccia vedere al mercato della carne che nella North Side. E poi è un licantropo: la taglia aumenta ancora, una cifra del genere non è roba da borghesi, ma da cacciatori.” “Va’ a controllare.” Victor si ò una mano tra i capelli: sembrava ancora più invecchiato. Il viso era coperto di fuliggine, i vapori dei gas gli tenevano aperti i pori della pelle, che era lucida e coriacea. Il poco biondo rimasto sui suoi capelli era scivolato via, mentre la barba cresceva ispida sul suo mento. Dem sfiorò le spade ai fianchi “Devo ucciderlo?” “Lui è mio.” gli occhi color verde slavato di Victor si accesero per un attimo, ma non fu che un istante. ** Dem camminava per le fogne, cunicoli maleodoranti di melma che ben conosceva: ricordava le volte che vi si era rifugiato. In merito a tali ricordi, preferiva cacciare in altri luoghi più propositivi. Giunse a una biforcazione, gli stivali impastati di quella melma verdognola che lo repelleva. Era un cacciatore di taglie perché era l’unico modo per imparare a difendersi dalla minaccia che attendeva da anni. Erano trascorsi vent’anni dal giorno in cui la vita di Dem era cambiata: il momento in cui chiudendosi alle spalle la porta di casa, si era trovato di fronte una figura nell’oscurità; quella figura sorrideva ed era simile a lui, solo più animalesca. Una bestia tesa verso il suo collo, gli occhi gialli disgustosi, fanali nel buio. Dem aveva cercato di difendersi. Alzò una manica della camicia per rivelare un profondo squarcio a metà polso, una cicatrice profonda che aveva il segno profondo di due canini. Strizzò gli occhi e rivisse le sofferenze che derivarono dal quel giorno: i momenti in cui, steso a letto, aveva pensato che non ce l’avrebbe fatta, e quelli in cui aveva sentito la bestialità dei vampiri calare come una cappa su di lui. Ricordò quando si era arreso: sarebbe stato come Denis, come suo padre. Sarebbe diventato un vampiro, magari anche lui sarebbe andato in giro a

mordere i suoi bastardi, a rovinare loro la vita. Eppure Dem non era diventato un vampiro. Quando si era sentito capace di lasciare il letto, smagrito e impallidito, si era accorto di possedere un’altra maledizione: era diventato un dhampir, per antonomasia il nemico peggiore del vampiro. Il nemico peggiore di suo padre, Denis Plant. Sorrise nel buio. Vedeva poco, ma gli bastava a non perdere l’orientamento. La scia di odori si faceva più intensa e tra tutti prevaleva il puzzo di carne marcia di ghoul: erano due. Da quando era un dhampir , Dem un cacciatore di taglie: i suoi sensi sbagliavano raramente, era immune a smog e malattie, era il segugio perfetto. Non era da lui lasciarsi sfuggire la possibilità di guadagnare dai vantaggi, piccoli o grandi che fossero. Quando si viveva di stenti, si doveva imparare a guadagnare da tutto. Ma l’ombra di suo padre gli era alle spalle, Denis Plant aveva giurato di tornare a trasformarlo e renderlo ciò che Dem odiava, quella bestia dipendente dal sangue umano che lo repelleva, così come lo disgustava la visione dell’odioso liquido rosso. Si fregò le dita una sull’altra: quanto le aveva dovute grattugiare, per togliere la lordura lasciata dal sangue di Mimì! Strinse le labbra e strisciò lungo il muro rivestito di uno spesso strato di melma; i muschi rendevano il terreno scivoloso e dovette procedere con cautela mentre la traccia olfattiva diventava più consistente. Denis Plant un giorno l’avrebbe trovato, e questo era un dato di fatto, si disse Dem. Quello che poteva fare era non farsi trovare impreparato, con il rischio di giocare la parte del topo che striscia silenzioso lungo i cunicoli, terrorizzato dalla possibilità di una trappola. Dem sapeva per certo che c’era una trappola, ma non sapeva dove. Nell’attesa, avrebbe fatto di tutto per sopravvivere. Svoltò l’ultimo angolo e si trovò di fronte un cunicolo buio e maleodorante a cui due figure facevano la guardia ed erano grottesche a vedersi, più piccole di

Larich ma con la pelle grigiastra ugualmente cadente, porri bitorzoluti sulla pelle glabra, occhi gialli porcini. Le pudenda erano a malapena celate da un panno sporco sotto i fianchi. Non avevano armi e non ne avrebbero avuto nemmeno bisogno d’altro canto. Le creature non parlavano: si guardavano intorno, guardavano lui. Strisciando con cautela, Dem fece un cenno: c’era una sorta di patto di silenzioso apprezzamento tra ghoul e dhampir; gli uni non davano grattacapi agli altri. Tra reietti della società, né uomini né mostri, si doveva collaborare. “Vengo per Jack.” disse, seccamente. I ghoul si lanciarono uno sguardo sottecchi. “Noi fare vedere solo a Victor Howard.” ringhiò uno dei due. “È il mio padrone.” tagliò corto Dem, parlando lentamente per farsi capire “Fatemi vedere Jack.” I ghoul ridacchiarono “No.” dissero “Tu non può.” Allora Dem capì: Smiling Jack si trovava alla fine di quel cunicolo ma non era stordito né legato, semplicemente attendeva che la preda gli cadesse tra le zampe, e lui era stato così stupido da pensare di infilarsi in quell’oscurità. Quel giorno avrebbe dovuto ringraziare la sua paranoia, così come la costante paura di svegliarsi con un coltello piantato alla gola. D’altronde non sopravvivi a vent’anni da dhampir e trentadue da umano, se non sei cauto. “Jack” i denti di Dem stridettero tra loro “non ho niente contro di te, voglio stringere un patto.” I ghoul guardarono il dhampir, feroci. Dal fondo del tunnel non ci fu alcuna risposta. “Tu ora va’.” ringhiò quello che aveva parlato prima: si drizzò sulla schiena e fu più alto di Dem, un gigante oblungo dall’odore repellente e le mani spaventosamente grandi.

Il dhampir aveva fatto due i indietro quando dal fondo del cunicolo fuoriuscì una voce melliflua “Hai deciso da che parte stare, povero piccolo dhampir?” “Io sto dalla mia parte.” gridò Dem di rimando. “Hai solo capito qualcosa dalla vita. Mi porterai il mio buon amico Victor?” Dem si morse le labbra e scoprì in mostra i canini; i ghoul erano sempre davanti l’ingresso e, così come non era sicuro di volerli sorare, non era nemmeno certo di voler vedere la creatura con cui adesso stava contrattando “È una questione di priorità, Jack.” spiegò “Io ti do lui e tu in cambio potrai garantirmi qualcos’altro.” “Non dar niente per niente. Sei un animale, Demian Plant, così come lo sono anche io.” “Stronzate.” tagliò corto Dem “Io ti porterò Victor Howard e tu avrai la tua vendetta. Tu in cambio mi garantirai protezione.” “Protezione?” la voce si alzò spaventosamente di tono e Jack rise “Il piccolo dhampir vuole protezione da un serial killer, da un licantropo? Guardati bene la giugulare, Demian Plant, la vedo già dilaniata dai miei denti.” “Devi proteggermi da un vampiro. Voglio che lo uccidi.” Dem soppesò bene le parole “Potrai farne quello che vuoi. Non siete nemici naturali?” “Una bestia che sa usare il cervello.” la voce di Jack era soffusa. Dem sentì che si stava muovendo su e giù “E va bene, Demian Plant, accetto l’accordo. Portami Victor.” Dem chiuse a morsa la mano destra sull’indice sinistro fino a torcerlo: era il dito sporco, quello che sotto il guanto era scarnificato per le sfregature. “Ho la tua parola d’onore?” “Come pretendi” le risa di Jack fecero tremare le pareti melmose del tunnel “la parola d’onore di un animale, tu stesso che non conosci onore?” Dem sentì i veloci lungo il cunicolo e seppe che era arrivata l’ora di andare: corse, alle spalle le risate sconquassate di Jack e, solo per lui, nella sua testa,

quelle di suo padre Denis Plant. “Corri, Dem. Corri, il tempo stringe!” disse qualcuno e Dem non seppe se fosse Jack o la sua immaginazione. ** “Cosa ti hanno chiesto in cambio?” Victor avanzava con Dem lungo le pareti scivolose dei cunicoli: a lui, le fogne sembravano tutte uguali. Nei suoi occhi un solo anelito, quello di vedere Jack negli occhi. Voleva aprirgli il sorriso con un coltello e farlo morire lentamente, renderlo un tronco umano e cospargersi del suo sangue, urlare di soddisfazione e alla fine tenersi la sua testa, appenderla al muro della sua camera da letto e guardarla ogni volta avesse voluto, guardarla stringendo Helena a se. Ebbe un fremito di piacere a quella prospettiva e poi si dedicò a Dem “Cinque feti umani. I ghoul non vogliono denaro, non se ne fanno niente.” spiegò il dhampir. “Vedremo. L’hai visto?” “No ma è sicuramente prigioniero.” Victor si era vestito in fretta: se qualcuno l’avesse incontrato in quel momento, avrebbe pensato a un pazzo forsennato che si era perso. Il bastone galvanico era appeso alla cintura, all’altro fianco una spada afferrata da sopra il camino della sala principale. La spada portava sul manico l’effigie di un’ampolla a cui era avvinghiato un serpente, lo stemma dei marchesi di Norfolk dai tempi del capostipite, il Duca Henry. Arrivarono all’imboccatura del cunicolo. Dem si fermò di fronte ai ghoul che si spostarono per lasciarli a. “È qui.” disse il dhampir mentre dal profondo delle bocche dei ghoul partivano ringhi ferini, gli occhi porcini fissi su Victor che per loro era solo carne buona da mangiare.

Dem non batté ciglio mentre Victor proseguiva lungo il cunicolo scosceso: i muschi erano ovunque, rendevano la discesa ancora più difficoltosa. Dem seguì Victor con tutta l’intenzione di scappare non appena Jack avesse attaccato. Ci si sarebbe messo d’accordo in seguito. Il cunicolo terminava bruscamente su un cumulo di melma e liquame: lo scolo era in secca e i piedi affondavano nella fanghiglia maleodorante. Victor si rese conto di essere caduto in trappola. Di fronte a lui c’era un uomo, ma non sembrava prigioniero, né pareva esserlo mai stato. Smiling Jack era vestito di nero, i denti bianchissimi serrati in un sorriso animalesco. Gli angoli della bocca erano stati aperti sulle guance da due colpi secchi di coltello; gli mancava un grosso pezzo di naso, e gli occhi erano di un viola , al cui interno sembravano danzare tutti i diavoli dell’inferno. I capelli erano grigi e stopposi, lungo le spalle. “Victor!” Jack si alzò a braccia spalancate e il marchese notò che aveva le unghie forti, listate di scuro “Non sai da quanto speravo di rivederti, di parlare faccia a faccia.” la voce si abbassò di tono e divenne cavernosa, grottesca “Così, come due amici: il dottore e il suo vecchio paziente.” “Lo sapevo.” Victor toccò il pomolo del bastone galvanico “Era un inganno.” “Sono un animale, Victor.” Jack strisciò lungo il muro, un’ombra tra altre ombre “Non ho ingannato nessuno; ho solo atteso la preda dentro la mia tana. E tu adesso sei qui.” “È finita, Jack.” Victor cercava di seguirlo con lo sguardo, ma lui era troppo veloce. Lui, l’uomo che aveva ucciso Helena “In un modo o nell’altro, è finita.” “Lascerai tuo figlio tutto solo.” Jack si arpionò al muro, le mani ingrossate dalla danza delle lingue di fuoco sulle torce “Non vedrai mai più Helena.” “Non osare pronunciare il suo nome.” “Io non ho solo divorato le sue interiora, Victor.” sussurrò Jack “Le ho succhiato via ogni anelito di vita, ogni possibilità di salvezza. Le ho strappato via l’anima; sento le urla delle donne che ho ucciso e mi deliziano. Mi deliziano, capisci?” rise forte “Cosa ne pensi, dottore? Sei soddisfatto della tua creatura?” “Finisce qui, Jack. Non c’è altro da discutere.”

“Credi di poter vincere, Victor? Vuoi combattere? Dovresti arrenderti a me, hai avuto la possibilità di continuare a vivere eppure ti sei dannato, hai macchiato l’anima che io avevo ripulito.” La voce si alzò di nuovo, era acuta come quella di un bambino “Ti potevi salvare e invece sei qui e stai per morire; sai, in genere la mia preferenza va alle donne ma dopo tutti questi anni e gli esperimenti che ho subito” il viso di Jack venne attraversato da una scossa, le labbra squarciate tremarono. Dem fece un paio di i indietro “sei il mio preferito. Voglio anche la tua voce a urlare dentro di me.” Victor avrebbe voluto tapparsi le orecchie, ma ormai nemmeno questo l’avrebbe aiutato. Si limitò ad attendere, il bastone ben stretto e l’altra mano alla spada, in testa le urla di sua moglie. “Helena calmati.” Non puoi vincere. “Smettila.” Pensa a Hermann, rimarrà solo. Non ci sarà salvezza per te, come fai a non vedere?Come fai a non vedere? Il corpo di Smiling Jack si tese; l’assassino urlò facendo tremare le pareti e il suo corpo si ingrossò: i vestiti si strapparono rivelando arti mastodontici coperti di una fitta peluria grigiastra. Il viso si allungò, identico a quello di un lupo: i denti seghettati, gli occhi viola e le unghie pronte a ghermire la preda. Era alto almeno due metri, molto più di Victor e Dem, che si rintanò in una rientranza a qualche metro dai contendenti: la curiosità di assistere allo scontro era pari al disgusto del sangue che a breve sarebbe scorso per quelle pareti rivoltanti e non riusciva a staccare gli occhi, ipnotizzato. Victor fece mulinare il bastone davanti a se. Smiling Jack non gli dette tempo di pensare, si gettò contro di lui ed era molto più veloce. Victor si gettò di lato e venne mancato per poco; Jack si girò e tese le zampe:

quello che Victor poteva fare era poco, solo cercare di stargli lontano e azionare la scarica Tesla del bastone al momento giusto per friggere le cervella al suo avversario. Rotolò di lato e si trovò immerso nel liquame: era difficile camminare in quel luogo e si odiò per essere sceso senza riflettere. Ma non fu che il ripensamento di un istante, le zanne di Jack erano a pochissimo da lui. Victor bloccò i denti del lupo con il bastone. Le zanne vi si chio attorno e Victor fece forza: Jack era troppo forte, ma Victor lo trattenne abbastanza da azionare il bastone galvanico. Le zanne di Jack furono scosse da lampi bluastri; il licantropo balzò indietro e strizzò gli occhi: l’energia lo stava avvolgendo, Victor aveva caricato al massimo. Jack si rivoltò, voleva urlare e staccarsi, ma l’energia era così forte da tenerlo ancorato con le zanne serrate al bastone. Victor afferrò la spada. In quel momento, la forte scarica fece scoppiare un occhio al licantropo, poi dette in un ultimo scoppio: al posto dell’occhio, solo sangue e filamenti di vene scollegate. Jack guaì di dolore. Poi serrò ancor più i denti: molti erano saltati per la scossa, e non rimanevano che gengive sanguinolente. Il bastone andò in pezzi, cadde nel liquame, che frizzò qualche istante . Victor era a un o dal licantropo e Jack lo sapeva. Il lupo gli balzò addosso e lo tenne fermo, la schiena sprofondata nella melma. Le zampe del licantropo erano pressate contro le sue braccia, i pochi denti rimasti si avventavano sul suo viso, e dalla bocca colava, copiosa, saliva di vendetta e rabbia. Victor aveva perso la spada e non poteva muoversi: stava per soccombere, e più resisteva, più sprofondava nel liquame; per nessuna ragione avrebbe chiuso gli occhi. Helena, pensò, forse sto arrivando.

Una zampata gli traò il petto: si aprì uno squarcio sul tessuto, la camicia si tinse di sangue e Victor provò un dolore che mai aveva sentito prima. Gli scese una cappa rossa sugli occhi, e si preparò al colpo finale, che non arrivò. Quando mise di nuovo a fuoco, avvinto nella morsa del dolore, Jack si stava rivoltando su se stesso: aveva un’elsa piantata nel petto fino al cuore e urlava di rabbia e sofferenza. Dietro di lui c’era Dem, gli occhi gialli fissi. Victor aveva troppa adrenalina in corpo per svenire. Balzò in piedi e afferrò la spada, caduta a pochi metri da lui; Dem si preparò a colpire la bestia anche con la seconda spada. Ma prima che il dhampir potesse agire, Victor si precipitò su Jack con tutte le forze di cui disponeva: roteò la spada sulla testa e traò il collo coriaceo della bestia, segando la carotide. La testa di Jack cadde nella melma a pochi metri da Dem e Victor ; il corpo rimase in piedi per qualche altro secondo, giusto il tempo che ebbe Dem di piantare una seconda spada nel cuore del mostro e spingerlo a terra con un calcio. Il sangue si mischiò alla fanghiglia in un crogiolo di odori disgustosi; senza degnare Dem di uno sguardo, Victor si avviò a i strascicati alla grossa testa del licantropo: l’unico occhio viola era stretto in uno sforzo ormai inutile. “Questo” sussurrò, la voce roca “è il mio trofeo.” Si gettò in ginocchio: aveva il petto aperto, e dalla bocca gli colava un rivolo di liquido rosso, ma si sentiva pervaso di grottesca soddisfazione. “Helena” gridò “sei vendicata.” Crollò a terra senza più muoversi. Dem fu tentato di scappare via; ma se l’avesse fatto, pensò, cosa ci avrebbe guadagnato? Aveva scelto da che parte stare, Victor se non altro poteva garantirgli una casa ben sicura nel West End. In fondo, se avesse aiutato Smiling Jack, chi gli

avrebbe assicurato che la bestia avrebbe rispettato i patti? Con riluttanza mista a disgusto, madido di sudore e schizzi di sangue, Dem si caricò Victor in spalla; avvinghiò la testa di Jack a un gancio che legò alla cintura. Uscì dal cunicolo: i ghoul lo guardarono con espressione feroce “Lui?” “È carne buona.” rispose Dem con un cenno verso il fondo del corridoio: mentre si allontanava, sentì rumore di mandibole, ossa che scrocchiavano e grida di giubilo, segno che i ghoul avevano avuto la loro ricompensa.

Capitolo XII: Un quarto di luna calante

Ore due e venti antimeridiane, pensò Dem, l’East End è impegnato a sognare il suo sogno da peccatore, non ci sono luci sulle strade luride tranne le poche lampade azzurre ancora funzionanti, i miei piedi affondano nella fanghiglia e nei solchi lasciati dalle ruote delle carrozze e no, non sento odore di vampiri, qui non devono essere ancora arrivati. “ Dove mi porti ?” dice quel tizio, un orribile gigolò dhampir trovato in una bettola da due soldi. Com’è che si chiamava? Gyles? Gille? Gilles? “A casa mia.” rispondo senza nominarlo: se sbagliassi si insospettirebbe. Giro la chiave nella serratura, la sento scattare. Inspiro ed entro spalancandola di colpo: è vuota. Casa mia è vuota, lercia e polverosa come l’avevo lasciata. “Ehi, tutto bene tesoro ?” mi dice. “Sta’ zitto. Non ti pago per farmi domande, sto benissimo.” “Come vuoi amore.” “Zitto ho detto.” e questa volta lo convinco: odio la sua voce, odio gli altri dhampir, potrebbero diventare vampiri da un momento all’altro; non sono come me, sono più deboli. Mi guardo attorno e vedo che non è stato spostato niente: non sono ancora entrati, meglio così. “Sdraiati sul letto.” Lui obbedisce immediatamente “Cosa vuoi che faccia ora, tesoro ?” Sorrido, salgo a cavalcioni su di lui “Niente di particolare.” dico mentre avverto il familiare rumore della mia lama che esce dal fodero. Vedo gli occhi della puttana assottigliarsi per lo sbigottimento e annuso il tanfo della paura. “Mi basta che muori.” La carne squarciata fa sempre lo stesso rumore: mi assicuro di perforare bene il cuore, così non diventerà un vampiro.

Non era poi male quest’ometto. Bacio le sue labbra, assaporo il gusto di ferro del sangue, mentre riprendo dalla sua tasca gli scellini con cui l’ho pagato in anticipo. Rotolo accanto a lui con il suo borsello in mano, dentro trovo delle sigarette: ne vuoi una, Dem? Perché no! Ne accendo una, gli accarezzo i capelli e gli parlo mentre inspiro “Cosa c’è da fare, adesso? Ah sì, prima scrivo una lettera d’addio, poi la lascio alla Thompson, l’unica vicina che ancora mi parlava e le dico, le dico..che mi sono suicidato. Brucerò la casa con te dentro.” Rido, è divertentissimo, mi dispiace solo che quando attuo i miei piani, quando arriva il mio momento, io sia sempre solo: ma no, in fondo va bene così. “Troveranno il corpo di un dhampir abbrustolito: tu sarai Dem Plant e Gillan solo una puttana scomparsa. Sei contento di aiutarmi ?” Gli muovo la testa per farlo annuire, apro e chiudo le sue labbra, sporco le dita di sangue e rossetto. Mi disgusta e insieme mi eccita “Fai sì con la testa ? Ma certo che sei contento. Ora mettiamoci a lavoro.” Mi avvio allo scrittoio e prendo carta e penna. Saranno anni che non scrivo, ne lecco la punta, mi pungo, odio e amo il sangue. Fuori da qui si intravede la luna. Mio padre non mi troverà mai. La luna è calante, appena un quarto, sembra il sorriso di mio padre. Non mi troverà mai. Devo scrivere. Odio quel sorriso. Smettila di sorridere.

Mi alzo di scatto e chiudo le tapparelle. “Così va meglio, cominciamo..Io fui Dem Plant..no. Io sono Dem Plant e sono un assassino.”

Capitolo XIII: Due buoni amici

Victor era dolorante, non era ato nemmeno un giorno da quando Dem l’aveva riportato a casa riverso nel suo sangue. Dopo le cure, gli aveva posto accanto la testa di Jack, ma Victor nemmeno l’aveva guardata: i propositi di vendetta erano andati perduti. Jack era morto: cosa poteva importargli? Non era che l’ennesimo assassino. Perché perdere tempo a infierire su un cranio quando con qualche sforzo in più Victor avrebbe potuto riavere sua moglie? Questa volta chi avrebbe potuto fermarlo? Aveva atteso di essere solo in camera da letto. Aveva mandato via tutti ed era sceso in laboratorio. Le bende attorno al costato gli stringevano le ferite, il sangue raggrumato vi sfregava contro. Victor si era accasciato, schiena al muro e occhi fissi sulla vasca contenitiva entro cui galleggiava il corpo del prometeano conservato nell’Als. Victor si rigirava tra le mani il quaderno di Damon Black: non poteva fare alcuna prova senza essere certo della sua buona riuscita: se l’esperimento fosse andato male, avrebbe perso il suo ultimo corpo e sarebbe caduto per sempre in miseria. “La povertà busserà alla mia porta e mi porterà via tutto.” sussurrò a se stesso, gli occhi secchi perché dimenticava di batterli “Soldi, alleati, potere. La casa in cui sono cresciuto. Ma avrò te, Helena. Ci rifaremo, saremo felici. Ti porterò ovunque tu voglia, angelo mio.” Trattenne un singulto di dolore. I vapori nel laboratorio non facevano bene alla sua ferita, ma non poteva certo permettersi di languire a letto. Aiutandosi con un bastone da eggio, si trascinò per i tavoli alchemici: il composto di rubidio e zolfo di cui Damon Black parlava nel suo diario era già pronto. Victor ne aveva studiato a fondo gli effetti; era quella la chiave per tranciare il legame tra lo spirito e il corpo a cui si era attaccato dopo la morte. Avrebbe dovuto segare il filo che teneva avvinti lui e Helena, ma cosa avrebbe legato lo spirito al nuovo corpo?

“Quale energia potrebbe far tanto?” ringhiò Victor, sbattendo il diario sul tavolo. Le pagine si smossero e gli occhi di Victor si soffermarono su un’immagine, quella di una piccola sfera fatta di luce galvanica. “Cos’è questa? Una sorta di prigione per spiriti?” sussurrò “Una cella contenitiva fatta d’energia galvanica che viene utilizzata per catturare i poltergeist, per imprigionare per sempre la loro follia. Se riuscissi a imprigionare qui dentro il tuo spirito, Helena,” la voce di Victor si faceva più alta, più eccitata; il cuore fremeva “trancerei il legame, e allora invierei il tuo spirito al corpo che ti ho destinato e lo farei grazie a un’altra scossa di energia galvanica, ma certo..” Si sentiva debole, sudava freddo e sugli occhi era come scesa una patina di nebbia: cosa importava? Victor aggrottò le sopracciglia e sfiorò con le dita la vasca di Als dove galleggiava il corpo “Serve ben poco: un prometeano.” “Alcuni componenti alchemici.” il composto di liquido rosso riluceva promettente e pericoloso alla luce fioca del laboratorio. “E galvanica, sì, energia Tesla.” Abbracciò con gli occhi i suoi adorati macchinari: doveva costruirne uno capace di collegare il suo cervello a quello del prometeano. L’aveva già in mente: al centro avrebbe posto la cella contenitiva per lo spirito di Helena. Doveva mettersi subito al lavoro. La ferita gli faceva male, ma Victor nemmeno la sentiva: doveva lavorare e non c’era mai stato tanto da fare. Aveva trovato il connubio perfetto tra galvanica e alchimia, tra scienza e misticismo; l’arte di ridare un corpo a chi l’aveva perduto, il metodo esatto di portare di nuovo gli spiriti alla vita, di concedere loro un’esistenza eterna, reale. Quasi piangeva di gioia mentre ruotava per il laboratorio, il fiato corto e troppo da fare; avvertiva i sospiri di Helena. Lei era impaziente. “Questa è la volta buona, me lo sento.” gridò nel vuoto del laboratorio “Ora più niente potrà fermarmi, amore mio. Saremo insieme.” **

Victor era all’interno di una grande sala che avrebbe ricordato molto la stanza d’ingresso di casa sua se i muri non fossero stati oblunghi e deformati, e i quadri alle pareti esageratamente tridimensionali: i visi sembravano squadrarlo. Dalla stanza si dipartivano moltissime scale a chiocciola. Victor cercò di capire dove conducevano e quale fu il suo stupore quando guardò in su e vide che proseguivano verso il cielo, ben oltre le nuvole. Camminò. Conosceva quel luogo: era sicuro di essere molto lontano da Londra e da ogni cosa che conosceva. Forse era un luogo che aveva visto da bambino. Cercò di richiamare i ricordi alla sua mente ma ottenne solo un tremendo dolore al costato. Cadde in ginocchio e quando abbassò la testa per controllare dovette trattenere un urlo di disgusto: dalla fasciatura si intravedeva una grossa ferita purulenta; materia gialla colava sulla pelle e sembrava che l’infezione si propagasse a vista d’occhio. Quando la materia colò per terra, si tramutò in un verme giallognolo, grasso e lucido. Victor si alzò di scatto e corse via: perdeva vermi a frotte, ne era cosparso e non ci poteva far niente. Scorse una grande porta oblunga all’altro capo della stanza e vi si fiondò correndo: si trovò al centro di un semicerchio di cripte. Di fronte a lui una figura vestita di rosso, i capelli ricci smossi leggermente dal vento. Tese una mano verso di lui e fece per urlargli qualcosa. Era Helena. “Angelo mio!” Victor cercò di urlare, ma le corde vocali erano scomparse, dalle labbra non uscì alcun suono che non fosse un orribile gracchiare. Victor sbattè gli occhi e si trovò di nuovo di fronte all’uscio in cui aveva intravisto Helena. Adesso lei stava parlando con qualcuno che non riusciva a vedere in viso, un uomo gobbo vestito da monaco. Era vestito di un lungo saio nero, il cappuccio tirato sulla testa. Il monaco non lo degnò di uno sguardo e questa volta

nemmeno Helena. Victor non riusciva a muoversi, aveva le labbra incollate e i vermi alle costole: vide Helena allontanarsi con quella figura triste dalle spalle cadenti. Si sentì soffocare. Rotolò su un fianco e cercò di prendere fiato: non era più in mezzo alle cripte, ma chiuso tra quattro strette pareti di pietra. Di fronte a lui c’era un trono di legno intagliato. Da fuori sentì forte il gracchiare di uno stormo di corvi: dovevano essere migliaia. Incredulo e nauseato, Victor si portò una mano agli occhi per scoprire che sul polso aveva il buco di un chiodo e che qualcuno l’aveva crocefisso. Urlò e non aveva lingua. Si toccò gli occhi, ma anche quelli erano stati inchiodati: non poteva aprire le palpebre. Eppure c’era una luce: una piccola apertura all’interno della pietra. Vi si precipitò per affacciarsi. Nella luce c’era la sagoma di un uomo. Si svegliò. Victor Howard aveva dormito supino per terra. Era in laboratorio, aveva il respiro affannato come se avesse corso chilometri, ed era pronto a scommettere di avere urlato. Si guardò attorno, quindi alzò lo sguardo alla persona che aveva intravisto e fu sollevato di vedere Andrew sull’uscio. Il maggiordomo si era curato di non scendere nemmeno un gradino per non indisporlo. “Mio Lord, buongiorno. Come vi sentite?” Victor balzò in piedi; fu una mossa azzardata, perché il dolore lo fece ricadere per terra. Sorrise a denti stretti “Era da un po’ che non mi sentivo così bene. Aiutami ad alzarmi, oggi è un giorno meraviglioso.” Andrew corse giù per le scale e aiutò Victor a sedersi sullo sgabello “Avete

dormito qui un giorno intero, è quasi l’ora del té.” “Lo salterò, ho molto da lavorare.” Victor seguì lo sguardo di Andrew che si soffermò sul prometeano nella vasca di clonazione. La curiosità del maggiordomo non gli dette fastidio: sapeva che quel ragazzo non avrebbe mai fatto domande. Andrew non si stupiva mai di niente, o almeno non lo dava a vedere. “Perché sei sceso qui?” “Per annunciarvi che abbiamo ospiti.” Victor alzò un sopracciglio “Chi?” “Il Conte di Leicester, Mio Lord. L’ho già fatto accomodare in sala da tè.” Victor lanciò al maggiordomo uno sguardo interrogativo: fin da piccoli, lui e George Arwen, il Conte di Leicester, si erano detestati cordialmente. Con il are del tempo, avevano deciso di occuparsi entrambi di medicina e, quando ancora Victor frequentava con Helena i salotti del bel mondo londinese, Arwen non perdeva occasione di cercare di stuzzicarlo su ogni piccolezza. Victor sapeva chi era la mente geniale tra loro due: Leicester sarebbe sempre stato un povero invidioso. Lui era di ben altra pasta. “Sono anni che non ci vediamo, cosa vuole?” “È venuto a portar via suo figlio che ha trascorso qui il pomeriggio. Ha detto che ne avrebbe approfittato per farvi un saluto.” Andrew abbassò la voce con discrezione “Sembra che il signorino Arwen sia diventato molto amico del signorino Hermann.” Victor sentì la collera montargli addosso “Cos’è che ha fatto?” ringhiò, ma di un ringhio basso, soffuso. “Mio Lord, con tutto il rispetto, non è colpa di vostro figlio. Lui non poteva certo sapere..” “Risparmiami le riflessioni personali. Di’ a Leicester che non ci sono. Anzi,

perché mentire? Riferiscigli che non ho tempo o voglia di vedere nessuno, men che meno la sua ridicola, pomposa..” Una risata falsa fece voltare entrambi: sull’uscio si stagliava la sagoma di un uomo alto e allampanato, dai lunghi capelli biondi e ordinati, stretti in una coda. Indossava un tight bordeaux inappuntabile e le sue dita giocherellavano con un monocolo d’oro. Teneva le braccia strette sul petto con espressione divertita “Se non ti conoscessi, Victor” esordì “direi che stavi parlando di me.” Victor si morse a sangue il labbro “Anche se fosse? Questa casa è mia, Leicester, esci immediatamente da qui.” Sentiva la rabbia premere contro le tempie. Le fitte al costato erano pressanti e non riusciva a tenere gli occhi aperti: l’adrenalina della sera prima era scomparsa; doveva sforzarsi di apparire dignitoso e autorevole, in seguito sarebbe potuto crollare. “Uscire? Non potrei perdonarmelo.” Leicester scese qualche gradino “Così è questo il sancta sanctorum degli Howard, inaccessibile a chiunque non sia della famiglia.” “Inaccessibile a chiunque non sia gradito.” Victor dovette contenersi per non avventarsi su Leicester e premere le dita contro i suoi occhi porcini che scrutavano con avidità ogni angolo senza che lui potesse farci niente. “Immagino che io non lo sia.” “Vattene.” “Dunque questo..tu lo chiami laboratorio?” Leicester adesso era di fronte a lui. Guardandolo, Victor si rese conto di quanto tempo era ato da quando frequentava altri nobili. Quel periodo sembrava far parte di un’altra epoca. “Questo posto è un tugurio.” “Arwen, questa è effrazione di proprietà privata.” tuonò Victor “Qualunque cosa

tu voglia ne parleremo sopra, in sala da tè.” Andrew recepì immediatamente il messaggio e corse incontro a Leicester “Vi faccio strada, Mio Lord.” Gli occhi di Leicester saettarono per il laboratorio ancora una volta, prima di farsi condurre fuori “Comprendo il desiderio di star comodi in casa propria,” commentò “ma non credevo che vi fosse compreso anche il cattivo odore.” La porta si chiuse dietro di loro. Victor salì i gradini tre alla volta; corse su per le scale fino alla sua camera. Non ricordava quand’era stata l’ultima notte che aveva dormito nel suo letto: il baldacchino nascondeva ragnatele vecchie di anni, e la polvere sostava ovunque. Le tende erano state tirate da così tanto tempo che la carta da parati scollata e umidiccia aveva preso la consistenza dei licheni. Victor si liberò degli abiti che indossava da non ricordava quanti giorni; si guardò allo specchio, le spalle ossute ancora tese e frementi di rabbia. Era più magro di quanto si ricordasse. La fasciatura sul costato era puntellata di rosso; i capelli erano irti, selvaggi e intrecciati, la barba incolta. Maledicendo Leicester per il tempo che gli stava facendo perdere, si lavò la faccia meglio che poté; ò i capelli sotto l’acqua gelida e si dette qualche veloce colpo di rasoio senza curarsi dei tagli di distrazione. Indossato il primo tight scuro che riuscì a trovare, senza allacciare i bottoni del panciotto, Victor scese di corsa le scale. In sala da tè dove trovò Leicester: sedeva in bilico su una poltrona rammendata ed era intento a sorseggiare una tazza di liquido ambrato corretto con del gin. Alle sue spalle, in giardino, Victor scorse le sagome di due bambini che giocavano e ridevano. Il sangue alle orecchie rischiò di rompergli i timpani. “Che vuoi?” chiese senza sedersi, le braccia incrociate di fronte Leicester. “Ti sei abbrutito, Victor.” l’altro sorrise “Non ti saprei distinguere da una bestia.” “Stai esagerando.” ringhiò Victor, in tono d’avvertimento “Ti introduci in casa mia e pretendi di mancarmi di rispetto?”

Leicester si ritrasse appena: era così innamorato di se da credersi inattaccabile “Non è una visita di piacere, anche se devo ammettere di essermi tolto qualche soddisfazione. Se sono qui” spiegò “in parte ha concorso l’amicizia che i nostri ragazzi hanno stretto.” “Non mi fare perdere tempo.” Leicester si alzò di scatto e si mise in piedi di fronte a Victor “Howard, so benissimo quello che combini all’interno del tuo tugurio, so che vuoi dar vita a qualcosa di mai visto, sensazionale quanto terribilmente illegale.” “Cosa ne sai tu?” “Io so tutto: basta così poco per maneggiare piccole informazioni! È sufficiente lanciare monetine da una parte all’altra di Stepney. Chiunque sa dove ti rifornisci, non è certo un mistero; e il dottor Wagner ha i suoi bei difetti, è stato ben disposto a dar via i tuoi segreti per qualche feto deforme da collezione.” sorrise mettendo in mostra denti bianchissimi “A cosa serve far finta di avere alleati, Howard, se non puoi nemmeno permetterti di comprare il loro silenzio?” Victor non batté ciglio: Leicester lo stava attaccando là dov’era più debole. Non avrebbe avuto soddisfazione. “E dimmi, di quanto denaro dispone la facoltosa cassa dei marchesi di Norfolk? Dieci, undici sterline?” Leicester si aggirò per la stanza, disgustato dalla decadenza che vi serpeggiava “Forse nemmeno quelle. Povero Victor, sei ridotto al lastrico. Ti sei chiesto quanto potrebbe venirti a costare l’esperimento?” “Ho già comprato tutto.” “Sì, certo, cos’è che era? Una vasca di clonazione e un corpo rinsecchito.” Leicester scosse piano la testa “Ti servirà altro. Dell’Als in più, o macchinari galvanici, tu non lavoravi con quelli?” “Posso” Victor si piegò appena, il dolore al ventre era tornato “permettermi anche quelli.” “E dopo cosa farete, Vostra Grazia? Ipotecherete la casa? Darete vostro figlio

all’ospizio dei poveri mentre voi cercherete di riprendervi la dignità accumulando debiti di gioco? Magari perderete la faccia e la nobiltà che poi sono le ultime cose che vi rimangono. Non è questo che è successo al tuo parente?, chi è che era? Il Duca Rodney?” “Adesso basta.” “Ti propongo un affare, Howard.” Leicester si sedette di nuovo “Mi offro di pagare ogni spesa che tu dovrai affrontare per questo tuo esperimento. In cambio..” già stringeva in mano il libretto degli assegni e la stilografica “Al termine di questo mi cederai tutti i diritti e io lo presenterò alla scienza a mio nomr.” Victor aprì e chiuse la mano a pugno più volte. Era senza parole: Leicester gli stava chiedendo di rinunciare all’idea che avrebbe rivoluzionato il campo della medicina, della galvanica e dell’alchimia dei due, tre secoli successivi, di cedergli un parto della sua mente, di attribuire a lui onori che non meritava. “Riflettici.” Leicester era chino sul tavolo da tè, compilava l’assegno “Ti consegno l’assegno in bianco, puoi mettere la cifra che ti serve, il denaro non è un problema per me.” sottolineò accuratamente l’ultima parte della frase “Howard, che te ne fai di una moglie rediviva se poi non hai altro da offrirle che non sia il tuo petto su cui piangere? Che poi nemmeno il tuo petto è combinato bene..” commentò notando la camicia ormai completamente inzuppata di sangue. Victor cercava di rimanere dritto sulle spalle nonostante il dolore atroce e la vergogna. “Aggiungi pure qualche sterlina per delle cure mediche decenti. Se ti conosco bene ti sei ricucito da solo.” disse, impertinente, prima di corredare l’assegno della sua firma “Allora, cosa mi dici? Vogliamo garantire un futuro a quel fagotto di tuo figlio?” Ma cosa c’era ormai da rispondere? Victor non aveva scelta, il sì era imposto. La casa navigava ormai nella miseria, e costruire un apparecchio galvanico sarebbe costato moltissimo: quelle sterline le avrebbe dovute chiedere in prestito, o avrebbe dovuto cominciare a fare avanti e indietro dal banco dei pegni.

Leicester in fondo cos’altro voleva, se non una gloria che Victor non aveva mai cercato? Ripiegò l’assegno e se lo mise in tasca “Ti lascio la tua schifosa gloria, pomposo damerino da strapazzo. Io avrò qualcosa di molto più prezioso.” “Ma certo!” la voce di Leicester era melliflua quando si alzò per tendere la mano a Victor “Affare fatto, allora.” “Affare fatto.” suo malgrado, Victor la strinse. “Non vedo motivo di soffermarmi, mi accompagni alla porta? Ovviamente voglio essere informato di tutte le spese, ed è mio espresso desiderio essere presente il giorno della prova.” Victor non rispose; si avviò alla porta mentre Leicester sciorinava concetti che lui nemmeno ascoltava. Scese più in fretta possibile le scale che portavano alla sala principale e Andrew fu lesto ad aprire la porta d’ingresso, tendendo al Conte il cilindro e il cappotto. “Spero che tu sia abbastanza lucido da capire” disse piano Leicester, in viso un’espressione di schifosa finta pietà “che se dovessi parlare a qualcuno di questa nostra conversazione, l’accordo salterà e mi vedrò costretto a denunciarti per attività illecite. Sta’ attento, Howard, la posta in gioco non è mai stata più alta e tu sei debole. Potresti perdere ogni cosa.” Leicester girò sui tacchi e uscì in giardino “Thomas!” chiamò “Ce ne andiamo!” Sulla visuale di Victor comparve un bel bambino dai capelli biondi inanellati, la pelle chiara e il portamento inappuntabile. Con un sorriso molto ampio, un sorriso vero, si precipitò accanto al padre, che tese la mano afferrando la sua e si allontanò verso una bella carrozza ferma al cancello di casa Howard. Victor attese che la carrozza si allontanasse per sbiancare e accasciarsi contro la porta. “Mio Lord!” Andrew corse a sorreggerlo “Vi porto a letto, siete un cadavere.” Victor si sarebbe fatto trascinare, non fosse stato per un altro bambino che gli

corse incontro, un bambino che non aveva nemmeno la metà dei pregi del figlio di George Arwen. Victor lo squadrò, gli occhi annebbiati, e lo giudicò manchevole, debole e stupido. “Padre, voi state male.” disse Hermann con un filo di voce. Tese la mano paffuta verso di lui, e fu allora che tutta la rabbia che Victor si era sforzato di contenere scoppiò: perché la colpa era di Hermann, perché niente di tutto questo sarebbe successo se lui non avesse stretto amicizia con le persone sbagliate. Il figlio di quel disgraziato mollusco del Conte di Leicester, lui che aveva una moglie viva, un bel figlio e nessun problema di denaro, stupido come una scimmia ma furbo come un serpente a sonagli. Si liberò con uno scossone dalla stretta di Andrew e si avventò su Hermann. Lo tirò dentro casa per un orecchio. “Chiudi la porta.” gridò al maggiordomo. “Mio Lord, ma..” “Chiudila!” Hermann non osava fare resistenza: era terrorizzato e Victor lo sapeva. Provava una sorta di cieca soddisfazione nell’incutere terrore a suo figlio. Tirò l’orecchio per costringere Hermann a guardarlo negli occhi; alzò la mano e la abbatté sulla guancia del figlio, e ancora, e ancora. “Non devi” ringhiò “mai” il sibilo della mano precedette un altro schiaffo, forte, sotto la mascella “osare guardarmi negli occhi.” “Capito?” Hermann era costretto a rimanere in piedi, l’orecchio rosso e gli occhi velati di lacrime; le guance erano vermiglie e il labbro spaccato. “Hai capito?” ripetè Victor. Si sentiva cieco e sordo di rabbia. Non era disposto ad ascoltare altro che la sua voce, e se il figlio avesse pianto sarebbe stato peggio per lui.

Herman annuì; Victor lo spinse a terra con violenza “Sono tuo padre, maledetto lurido sacco di letame, e ti raddrizzerò, in un modo o nell’altro.” Hermann si rannicchiò. Victor gli tirò un calcio sul fianco, lasciandolo più stordito che in se: suo figlio non si lamentava, era assente, e a Victor poco importava. “Sei un essere repellente, mi fai schifo. Volevi un amico e mi hai portato a casa quel demonio di Leicester. Mi vuoi rovinare? Ci sei riuscito! Non capisci,” gli torse entrambe le braccia dietro la schiena. Hermann si morse la lingua, ma non gridò “non capisci che un solo o falso e tutto il tuo schifoso mondo delle favole potrebbe finire? È il momento di crescere, Hermann!” la stretta si fece più ferrea, così come la morsa dei denti del bambino sulla lingua “Questo mondo ci vuole male. Le favole non esistono. Devi svegliarti, capisci? Svegliati, Hermann, combatti.” Lasciò libere le mani del figlio, che però non si mosse di un millimetro; cercò di scuoterlo, prendendolo per le spalle “Combatti, idiota! Alzati.” Hermann respirava meccanicamente. Teneva la bocca serrata e gli occhi strizzati colmi di paura. Tra di loro comparve Andrew che prese delicatamente Hermann per le spalle “Mio Lord, vi prego, basta.” lo pregò, e nei suoi occhi grigi c’era tanta disperazione cheVictor quasi si stupì. “Perché?” chiese con un filo di voce. “Avete il coraggio di chiederlo?” Andrew prese in braccio Hermann e lo portò su per le scale più in fretta che poté. Victor era solo, accanto al tappeto macchiato del sangue di Helena: vi si coricò sopra, vi ò le labbra e, per un istante, sentì una mano di velluto che lo cullava. Per la prima volta ebbe un moto di pietà. Per se stesso, per Hermann e per quello che aveva fatto. “Rimpiango ogni giorno” sussurrò contro il tappeto “il momento

in cui sei venuto al mondo.”

Capitolo XIV: Polvere di secoli

Juliet muoveva qualche o strascicato all’interno della sua stanza: aveva chiesto di poter tornare agli alloggi della servitù. Odiava quella fredda camera degli ospiti. Inoltre la inquietava l’incontro con Henry, il maggiordomo senza volto che le aveva lasciato una piuma nera come solo ricordo del suo aggio e della loro discussione. Juliet camminava per quel cubicolo di stanza dalle pareti tarlate, e si aiutava con un bastone. La pelle aveva cominciato a ricrescere sotto la fasciatura che Andrew provvedeva a cambiare ogni giorno e lei stessa sentiva di avere molte energie in corpo, benché la morte di Mimì l’avesse distrutta e lasciata senza fiato per molto tempo. Aveva perso la concezione dei giorni che avano e, non fosse stato per Andrew, ma soprattutto per Hermann che ava sempre più spesso a farle compagnia, dubitava che sarebbe stata ancora viva. Juliet si appigliò alla cassapanca e si sedette tenendosi il cuore: non si era ancora guardata allo specchio, ma dubitava di essere un bello spettacolo. Si sfiorò la bocca secca e le guance smagrite, le occhiaie gonfie e violacee. Gemette: Mimì era morta e lei continuava a vivere, che ingiustizia! Aveva riflettuto molto, se abbandonare o meno quella casa. Alla fine aveva optato per il no: senza di lei, Hermann sarebbe rimasto solo in balìa di Victor. Juliet si malediceva per il suo carattere debole, ma ormai era affezionata a quel bambino. La porta della camera si spalancò: entrò proprio Hermann, un occhio gonfio e livido e le labbra violacee. Juliet rimase a bocca aperta: il bambino zoppicava e si teneva il fianco con le mani. Era ancora più smagrito. Le guance paffute si erano completamente afflosciate lasciando scorgere un viso dai lineamenti duri, distrutti dal dolore e

dalla vergogna. “Cosa ti è successo?” Juliet si precipitò verso Hermann, ma lui si tirò indietro “Fa male.” “Come..chi ti ha fatto questo?” , Lo so chi è stato. Dimmelo, dimmelo!, pensò con rabbia. “Ora cammini.” Hermann cambiò argomento. La voce era dura. “Andrai via di qui?” “Cosa te lo fa pensare?” “Lo dici spesso mentre dormi. Dici Via, via di qui, e Questa casa è maledetta. Ti rigiri nel letto. Hai gli incubi.” “Volevo andar via, è vero.” non aveva senso mentire “Ma ora ho cambiato idea. Voglio rimanere qui con te. Dopo aver visto cosa ti ha fatto quel..” ebbe un moto di odio verso Victor che immaginava, al solito, chiuso in laboratorio, disinteressato a tutto. E pensare che quando aveva raccontato a Juliet la storia dei suoi genitori e di Damon Black, lei aveva quasi avuto pietà di lui. “Lo odio.” disse Hermann “E anche lui mi odia.” “Gli parlerò. Gli dirò quanto soffri.” “Peggioreresti la situazione, e lui ti caccerebbe di casa.” sussurrò Hermann “Devo solo aspettare di crescere un altro po’.” “Allora cosa farai?” Sul viso di Hermann si dipinse un brutto sorriso sghembo, niente più che un taglio sotto il naso “Quando morirà, sarò io a seppellirlo.” Juliet abbracciò Hermann più stretto che poté. “Vorrei poter fare qualcosa.” gli disse “Qualunque cosa.” “Rimani con me.” Hermann le lanciò uno sguardo sbiadito. Non dimostrava nove anni, sembrava già vecchio. Juliet ebbe paura per lui, ma si riscosse.

“Ti volevo chiedere una cosa, c’è un posto dove potrei trovare informazioni sulla tua famiglia? Sto cercando una persona.” “Chi?” Hermann era pur sempre un bambino, e dunque era curioso. “Si chiama Henry. Ti ricordi? Te ne ho già parlato.” “Il maggiordomo? Dubito che sia rimasto qualcosa dei precedenti domestici.” “Non stiamo parlando di un maggiordomo. Ne sono sicura.” disse Juliet “Mi aiuterai?” “Ce la fai a camminare? Devo farti vedere una cosa.” Juliet si alzò con una certa fatica e prese il braccio che Hermann le offriva “Non puoi portarla qui?” Camminarono per il corridoio, poi salirono una rampa di scale che li portò all’ultimo piano, a una porticina di legno che Hermann aprì facendole cenno di star zitta e di fare meno rumore possibile. Il bambino aveva in mano un grosso mozzicone di candela: all’interno del cubicolo dov’erano entrati non c’era luce. Era un posto angusto; le pareti erano scrostate. Lo spazio era occupato da bauli, cassapanche e scatole a cui erano poggiate di malagrazia tele incrostate molto antiche. Per terra di disperdevano fotografie così antiche che era impossibile capire chi un tempo vi era ritratto. In quello stanzino, re e regina erano soqquadro e polvere. “Dove posso sedermi?” Juliet si sentì mancare. Hermann la scortò a una poltrona consunta. “Vengo spesso qui.” spiegò poi. Juliet si guardò attorno “Ci sono cose interessanti?” Occhieggiò subito ai grandi bauli chiusi e alle vecchie tele: aveva letto tantissimi romanzi che parlavano di soffitte nobiliari traboccanti di segreti. Se non fosse

stata così male, ci avrebbe subito messo le mani, considerando che aveva pure una ricerca da portare a termine. “Giudica tu.” Hermann aprì le scatole e i bauli per mostrarle intere collezioni di bastoni da eggio istoriati, di diverse fogge ed epoche. Alcuni erano animati, la lama fuoriusciva con un solo, sapiente scatto. “Questo è il simbolo degli Howard.” spiegò Hermann mostrandole il serpente attorcigliato all’ampolla, su di un vecchio drappo tarlato “Indica che siamo alchimisti o qualcosa del genere.” “Perché il serpente?” “C’entra qualcosa con la medicina. Guarda questi.” Hermann aprì una grossa cassa di legno, ne estrasse un Elephant Gun “Bello, vero? Un giorno ci andrò a caccia con mio figlio. Lo porterò sempre con me e in testa avrò” optò per un cilindro di un viola consunto “..un cappello del genere.” “Che colore orribile.” commentò Juliet. “Concordo. Chissà di chi era.” Hermann lanciò il cappello verso un angolo della stanza, dove scomparve nell’ombra. “Non c’è un albero genealogico da qualche parte?” Juliet si era accoccolata per terra accanto a Hermann e adesso erano in due a cercare tra i bauli e le scatole “Non so, qualche documento..” “Dovresti scendere in biblioteca.” Hermann si rimirava a uno specchio a muro, un monocolo sull’occhio pesto “Questo monocolo è inutile.” “Allora scendiamo, mi serve solo un nome.” “Ma hai solo un nome, cosa vorrai mai trovare? Però..hai una faccia. Prova a vedere se lo trovi qui.” Hermann le ò un involto di carta legato con dello spago e si sedette accanto a lei, nel respiro un fremito di mistero che era tutto dei bambini della sua età. Juliet slegò l’involto e le caddero in grembo un mucchio fotografie.

“Non è così semplice.” disse “Non ricordo bene che faccia avesse.” Prese a scorrere le foto. Dietro alcune erano appuntati i nomi a cui la gente ritratta aveva risposto un tempo. “Mia madre.” Hermann puntò l’indice sulla fotografia che Juliet stava guardando. L’immagine ritraeva una bella donna di profilo. Aveva capelli ricci e lineamenti nobili, l’atteggiamento sofisticato e gli occhi sognanti. Stringeva in grembo una rosa. Lady Helena De Vere, recitava la didascalia sul retro. “Era molto bella.” disse Juliet. La fotografia successiva ritraeva Helena insieme a un Victor estremamente sorridente. Facevano seguito altri visi sconosciuti di donne e uomini di quella famiglia, gli Howard, nella cui casa Juliet abitava ma di cui sapeva così poco. Le fotografie diventavano sempre più antiche quanto più scorreva, era arrivata a quelle datate 1940 quando, girando distrattamente un’immagine, fu attratta da un nome. “Questo..” sussurrò, portando l’immagine agli occhi per vedere meglio. La fotografia ritraeva due giovani vestiti elegantemente secondo i dettami della moda vittoriana. Uno aveva capelli biondi lunghi tirati indietro in una coda stretta. Ostentava un’aria soddisfatta nella sua divisa da ufficiale della Deathwatch, la guancia destra rigata da una cicatrice di cui sembrava orgoglioso. L’altro protagonista della foto era più basso di lui di tutta la testa, scuro di capelli. Aveva un atteggiamento bizzarro: era come rincantucciato in se stesso, si teneva dietro il biondo come un’ombra, forse per nascondere quella che sembrava una brutta cifosi che gli deformava le spalle. Il suo viso era serio e sulla fronte si poteva scorgere un buon accenno di rughe d’espressione, anche se il ragazzo era chiaramente giovane. Gli occhi erano profondi e acquosi, e quelli, Juliet li ricordava bene. Ebbe un fremito e seppe che aveva trovato Henry quando, girando la fotografia, lesse la didascalia “James e Henry Howard, 1942”. “È lui.”

Hermann strizzò gli occhi, concentrato “Questo lo conosco!” disse indicando il giovane biondo “C’è un suo ritratto in sala d’ingresso.” “E quest’altro è Henry, vero?” Juliet tremava: la data gli rimbalzava in continuazione di fronte agli occhi. 1942 significava che aveva davvero parlato con uno spirito o qualcosa del genere. Io ci sono da sempre, questo le aveva detto Henry: e adesso cominciava a capire cosa intendesse. La piuma nera che teneva dentro la tasca del grembiule sembrò pesare indicibilmente, come un macigno: toccandola ebbe l’impressione che fosse bollente, ma non fu che una sensazione della durata di un istante. “Sono sicuro che il ragazzo biondo sia James.” gli occhi incolori di Hermann erano fissi su Juliet “Sei pallida. Comunque me lo puoi dire: hai davvero incontrato Henry?” “Non lo so. Ma abbiamo un nome e una data, possiamo cercare in biblioteca.” Scesero le scale, la gamba di Juliet bruciante, ma lei non aveva intenzione di fermarsi. Hermann aprì con uno scatto la grande stanza che racchiudeva in un semicerchio tutti i volumi di proprietà della famiglia Howard, una parete ricoperta di scaffalature di libri di diversa foggia e epoca, alcuni risalenti a molti secoli prima della Piaga. Juliet prese posto alla scrivania mentre Hermann saliva i pioli della scaletta per guardare i volumi più da vicino. “Cerca qualcosa sulla storia della tua famiglia, stiamo parlando di affari vecchi di duecento anni.” consigliò Juliet. Hermann fece scorrere la mano sui libri senza ascoltarla, sembrava stesse cercando qualcosa in particolare “Eccolo!” esclamò alla fine andole un volume rilegato in pelle nera “L’albero genealogico.” L’albero genealogico degli Howard scorreva dal 1889, anno di nascita di Henry

Howard, VII Duca di Norfolk e capostipite della schiatta, fino al 2094, anno di nascita di Hermann. “Eccolo qui” disse Juliet, bene attenta alle ramificazioni che seguiva con la punta delle dita “Henry Howard è figlio secondogenito del settimo Duca di Norfolk. È anche fratello di un James, dev’essere lui che stiamo cercando. Il punto è che” avvicinò gli occhi al foglio macchiato di umidità: qualche lettera era stata cancellata e il foglio era rovinato, ma era possibile scorgere, al nome di Henry, una S puntata. “Che cosa vuol dire?” chiese Hermann. “Suppongo che sia un modo per indicare che era un santo.” Juliet non sembrava molto convinta “Ma avrei bisogno di leggere chi era.” Trovarono molti libri sulla storia della famiglia Howard. Scoprirono che era una nuova ramificazione sorta da una famiglia molto più antica, scomparsa con lo scoppio della Piaga nei primi anni del ventesimo secolo. C’erano notizie su tutti i membri della famiglia, anche sul fratello maggiore di Henry, James Howard, ottavo Duca di Cambridge e Norfolk, colui che tra le altre imprese gloriose compiute nel periodo della Reclamazione di Londra aveva fondato la Deathwatch e ne aveva coniato il motto, Death or glory. Si parlava di tutti. Meno che di S. Henry. “Ci sarà molto da cercare.” commentò Juliet, mentre Hermann sfogliava pagine polverose “E date le premesse, non ho molte speranze. Se chiedessi a tuo padre?” “Ti manderebbe al diavolo.” arono molte ore in biblioteca a scorrere con gli occhi i numerosi nomi dei marchesi di Norfolk, una lunga sequela di uomini facoltosi, corredati di mogli e figli. “Guarda che strano” disse Juliet “Hai notato che nella tua famiglia, quasi tutte le donne sono morte giovani?” “Generalmente muoiono di parto.” rispose Hermann mentre si rosicchiava un’unghia.

“Sì ma è bizzarro che sia le mogli, che i secondogeniti e terzogeniti degli Howard difficilmente riescono a procreare. Guarda qui per esempio: Lord James Howard” lesse a voce alta “Conte di Rochester. Cercò con tutti i suoi mezzi di ottenere una discendenza ma gli risultò impossibile: la sua prima moglie morì nel dare alla luce una creatura nata morta, la seconda scomparve in circostanze misteriose. La terza..ti faccio l’elenco completo, Hermann?” “Non c’è bisogno. Come finì?” “Lord James Howard trascorse i suoi ultimi anni solo, nella sua tenuta di campagna, preda di certe malinconie.” “Vuol dire che diventò pazzo. Io ho trovato notizie su Claire Howard, sua sorella.” disse Hermann “Andò in moglie al Marchese di Winchester, gli dette un figlio, ma perì poco dopo di una malattia mai chiarita. Il figlio comunque sopravvisse.” “Quello che preferisco è l’ultimo Duca di Norfolk e Cambridge, Rodney Howard.” Juliet si preparò a leggere la parte che riguardava il Duca, ma Hermann scosse la testa “Non parlare mai di Rodney a un Howard. È a causa sua se adesso non siamo più duchi.” Rabbrividì, conosceva quella storia a memoria “Perse la nobiltà, la ricchezza e la bellezza in una sola notte. A carte.” “Come diamine fai a giocarti la bellezza, Hermann? È impossibile!” “Si giocò la faccia. Fisicamente.” Juliet si morse il labbro e tornò a leggere. Rimasero ore in silenzio e non si fermarono fino a quando l’orologio della sala d’ingresso suonò i rintocchi della mezzanotte. Pioveva: a breve sarebbe arrivato un temporale. Juliet sentiva gli occhi farsi sempre più piccoli e la vista sfocarsi. Stava per crollare sulle pagine di un pesante libro di storia del giardinaggio redatto da una

certa Claire Hastings, moglie di chissà quale marchese, quando la voce di Hermann la fece sussultare. “Juliet, l’ho trovato!” Hermann aveva in grembo un libriccino rilegato in pelle, in pagine di pergamena scritte a mano da una grafia confusa. “Senti qua” si schiarì la voce “Per tutta la mia vita, mi sono interessato di ogni leggenda riguardante la mia famiglia. Tutte le genìe nobili inglesi ne hanno almeno una, e certo gli Howard non fanno eccezione; ma tra tutte, quella più sensazionale e in un certo senso più terrificante riguarda un mio antenato prossimo, S. Henry. “A chi si chiederà chi fosse costui risponderò che secondo le mie ricerche fu figlio secondogenito del settimo Duca di Norfolk. Henry fu uno spirito singolare, un’anima dai risvolti oscuri: grande studioso di occulto e filosofia, visse ricercando l’ascesi e la beatitudine. Vagava per Norwich come un santone, asserendo di essere una sorta di guardiano dell’intera famiglia.” “Era bizzarro, folle, ma così moralmente irreprensibile che, alla sua morte, fu proclamato Beato e per sua richiesta tumulato fuori dalle cripte del Castello di Norwich, per proteggere le anime lì seppellite e accogliere i morituri dell’intera famiglia.” “Sul tumulo fu costruita una statua ed è lì che Henry Howard riposa. Risparmio le leggende che parlano del suo basamento vuoto quando c’è luna piena: non è di questo che voglio trattare.” “Ciò che colpisce nella leggenda di S. Henry è la morte. Vi ruotano attorno svariate leggende. Per la maggior parte nient’altro che storie che si raccontano ai bambini per farli andare a letto presto. La più conosciuta sostiene che Henry fosse un grande allevatore di corvi e che li amasse visceralmente. Li teneva in voliere all’interno di una torre. Proprio mentre saliva in quella torre, Henry fu avvistato per l’ultima volta; e da quel momento, che le mie ricerche hanno fatto risalire al 1947, nessuno vide più S. Henry Howard.” “Dicerie sostengono che sia stato ucciso dai suoi stessi corvi. Altri arrivano a dire che sia stato lui stesso a offrirsi a loro in un ultimo viscerale segno di amore, per essere un tutt’uno con gli animali che allevava. Ho svolto molte

ricerche su quale fosse la torre in cui Henry sarebbe morto, ma ho dovuto constatare con costernazione che nel luogo dove avrebbe dovuto sorgere, ora non c’è più niente.” “Altre testimonianze, difficili da appurare e non per forza da riferirsi alla figura di Henry, parlano di un corvo, uno psicopompo che appare a ogni membro della famiglia per annunciargli la morte o un’immane tragedia. Cos’è uno psicopompo?” “Non ne ho idea, ma va’ avanti.” rispose Juliet, interessata “Se non capisci il significato di una parola saltala, è più semplice.” Hermann non sembrava molto convinto, ma continuò “Da quando Henry è morto, molti della nostra famiglia hanno detto a intervalli di tempo più o meno regolari di essere entrati in contatto con il suo spirito, ma nessuno sembra averne scritto niente: per questo documentarsi è stato abbastanza difficile e devo basarmi su testimonianze acquisite da me stesso.” “Che io sappia, di Henry parlarono mio zio, Rodney Howard, mio padre Victor e mia sorella Mathilda. Proprio Mathilda è stata uno dei motivi per cui la storia di Henry è divenuta la mia ossessione. Mia sorella era una persona splendida, in un certo senso la mia guida. Non sono mai riuscito ad accettare la malattia che l’aveva colpita: di punto in bianco, cominciò a millantare di incontri con un monaco dal viso di corvo che le prevedeva sventure per la mia famiglia. Mathilda gli chiese di che maledizione si parlasse, e le fu assicurato che non erano che benedizioni, che gli Howard avevano, grazie a lui, la possibilità di liberarsi dai peccati, di purificarsi e ascendere.” “Dopo tali rivelazioni, mia madre morì, Lady Claire Hastings, morì. Mathilda ebbe una crisi profonda, mio padre e io decidemmo di farla ritirare al Castello di Arundel, dove Rodney Howard trascorreva, già da molti anni, un’esistenza al di fuori della società, mostruoso in viso e nell’anima. Nemmeno un mese dopo il trasferimento ad Arundel, le condizioni di Mathilda si aggravarono. L’ultima volta che la vidi non parlava più, fissava il vuoto; le poche volte che interloquiva, sosteneva di parlare con Henry, che lui era l’unico a non averla abbandonata. Qualche giorno dopo, Mathilda, la mia adorata sorella, fu trovata impiccata nella sua camera da letto.” “Che storia agghiacciante.” Juliet aveva dimenticato di sbattere le palpebre per

quasi un minuto quando Hermann fece una pausa per annuire. “Mette ansia. Continuo? Sono le ultime pagine.” “Ti ascolto.” “Piansi sul suo corpo, terrorizzato e impotente: non avevo potuto salvarla da se stessa. Per la prima volta non ero tanto sicuro di cosa fosse reale e cosa no. Sul suo cadavere venne trovato un biglietto che ricordo a memoria e conservo gelosamente. Diceva – Una maledizione si perpetua fino a quando c’è qualcuno a crederci – ; inizialmente non ho capito, adesso che sono qui e sto per morire sono giunto alla soluzione. Henry esiste, è reale e i suoi occhi seguono ogni membro della famiglia Howard: Henry è nel nostro sangue, imperscrutabile ed eterno: meno di un vivo, più di un fantasma. Non so cosa voglia da noi né perché tutto questo abbia avuto inizio. Ho cercato una risposta, l’indizio che avrebbe potuto mettermi sulla giusta strada, e sono giunto in capo a nulla. Ho un’ultima carta da giocare, e non sono nemmeno sicuro che funzionerà. Non mi aiuterà a salvarmi la vita; posso allora sperare per la mia anima?” “Vado alla morte privo di certezze, con la sola insalubre coscienza di aver lasciato ai miei figli il fardello più grave che un padre dovrebbe consegnare. È utile, in fin dei conti, cercare di sfuggire alla morte? Oppure dovremmo fingere di non vedere e continuare, imperterriti, il lungo cammino verso la vita? Norfolk Howard-Norfolk, Nono Marchese di Norfolk. Le ultime righe sono illeggibili, non ho idea di cosa ci sia scritto.” concluse Hermann, gli occhi grandi come galeoni e l’aria scombussolata. “Henry, il guardiano della famiglia Howard.” Juliet si tirò indietro i capelli folti. “Vederlo non è un buon segno.” “C’è da chiedersi se fosse davvero lui.” “La piuma.” le ricordò Hermann “Ti ha lasciato una piuma.” Juliet avvicinò la piuma agli occhi, alla luce fioca della candela il nero risplendeva, profondo come la notte. “Perché, se è davvero Henry Howard, è venuto fuori proprio ora,” sussurrò “e perché proprio con me?”

“Juliet, ho sonno.” Hermann sbadigliò “Pensiamoci domani, vuoi?”

Albero genealogico della famiglia Howard dal 1859, aggiornato al 2094

“En to pan”

Henry Howard, VII Duca di Norfolk (1859 – 1922) Moglie: Lady Viola De Vere, Fam. Oxford (1870 – 1921) Figli: Lord James Howard S. Henry Howard (1921 – 1947) *NESSUNA DISCENDENZA

James Howard, VIII Duca di Cambridge e Norfolk (1910 – 1949) Moglie: Lady Renée Deveraux, Fam. Essex (1915 – 1940) Figli: Lord Rodney Howard Lord Victor Howard

Rodney Howard, IX Duca di Cambridge e Norfolk (1940 – 1992) * INCAPACITATO PER PRODIGALITA’ Titolo decaduto. Con discendenza, ramo degli Howard di Surrey.

Victor Howard I, Conte di Arundel (1943 – 2010) Moglie: Lady Claire Hastings, Fam. Huntingdon (1947 – 1983) Figli: Lady Mathilda Howard (1980 – 2010) * NESSUNA DISCENDENZA Lord Norfolk Howard-Norfolk

Norfolk Howard-Norfolk I, IX Marchese di Norfolk (1981 – 2037) Moglie: Lady Juliet Hyde, Contessa di Rochester (1990 – 2043) Figli: Lord Hermann Howard-Norfolk Lord James Howard, Conte di Rochester (2013 – 2050) * NESSUNA DISCENDENZA Lady Claire Howard, Marchesa di Winchester (2015 – 2047) *CON DISCENDENZA

Hermann Howard-Norfolk I, X Marchese di Norfolk (2012 – 2061) Moglie: Lady Anna Smith-Stanley, Fam. Derby (2010 – 2053) Figli: Lord Victor Howard-Norfolk

Victor Howard-Norfolk II, XI Marchese di Norfolk (2040 – in vita ) Moglie: Lady Helena De Vere, Fam. Oxford (2070 – 2101) Figli: Lord Hermann Howard-Norfolk (2094 – in vita)

Capitolo XV: Il mio più grande rimpianto

Victor aveva comprato ciò che gli serviva per costruire la sfera di contenimento e, giorno e notte, si dedicava all’assemblaggio dei fili, a modellare i pezzi meccanici e renderli funzionali all’esperimento. A fargli da testimone, solo gli occhi immoti del corpo che avrebbe accolto lo spirito di sua moglie. Qualche volta Helena gli parlava. Era lei che dava a Victor la forza di continuare. “Ce la farò.” diceva a denti stretti ignorando il dolore atroce al costato “Devo farcela.” Leicester non si era più fatto vivo: attendeva notizie, e Victor sapeva che se non le avesse avute si sarebbe trasferito in casa sua. Aveva troppo timore di non assistere all’esperimento che avrebbe potuto sancire il cambiamento di ogni concezione medica e alchemica: ogni legge avrebbe potuto essere ribaltata dalla scoperta di Victor, che sarebbe stata attribuita a Leicester. Victor stava collegando i fili della sfera di contenimento. Attorno a lui, impulsi galvanici bluastri. I suoi capelli erano tesi in aria per l’energia sprigionata. Bussarono alla porta del laboratorio. “Avanti.” bofonchiò. Si ò una mano sulla fronte sudata e tolse gli occhiali protettivi. Le palpebre sfiancate misero lentamente a fuoco la figura di Juliet. “Cosa c’è?” chiese Victor, sbrigativo. “Mi chiedevo aveste voglia di salire a pranzo, Mio Lord.” Juliet era rimasta sulla soglia “Oggi è il compleanno di Andrew e abbiamo pensato di..” “Ho da fare qui, non ho tempo da perdere in sciocchezze. C’è altro o sei qui per ficcanasare, come al solito?” ringhiò rimettendosi gli occhiali. “Non mi importa di quello che state facendo.” Juliet si appoggiava al bastone e non era intenzionata ad andarsene “In realtà volevo sapere qualcosa da voi.” Victor ringhiò qualcosa che Juliet suppose fosse un segno di protesta. Aveva sentito parlare dei nobili del West End, ma dai discorsi che si facevano su di loro

non avrebbe mai pensato che tra di loro potesse nascondersi una persona come Victor. Quell’uomo era più vicino alla disperazione che si percepiva nell’East End, che alle aiuole ordinate del quartiere aristocratico. In lui c’era qualcosa di selvaggio che respingeva e insieme affascinava; nella sua condotta c’era del marcio, ma Juliet non riusciva a credere che fosse veramente senza cuore. Gli bastava guardarlo e si ricordava che anche lui aveva sofferto. “Vorrei sapere qualcosa su S. Henry.” “Una stupida leggenda per bambini, non mi interessano queste idiozie.” Victor alzò un sopracciglio, pulì le lenti degli occhiali. “E di Norfolk Howard? “A che gioco stai giocando?” Victor tornò a collegare fili, attorno a lui lampi di energia galvanica e, alle sue spalle, la carcassa di un macchinario a due braccia. “Mi sono imbattuta in questi nomi per caso, mentre spolveravo un libro in biblioteca.” Juliet cercò di apparire disinvolta: il punto era che non aveva idea di come porsi a Victor “Sembra un tipo affascinante, così..” Victor la interruppe “Henry è il santone pazzo della mia famiglia, un povero scemo gobbo con un complesso di inferiorità mai sanato nei confronti di suo fratello. Ha terrorizzato qualcuno e ha avuto la fortuna di morire in maniera misteriosa, così i soliti perdigiorno ci hanno ricamato sopra. Non è niente che valga la pena di essere approfondito.” “E Norfolk?” “Mio nonno? Un eccentrico visionario, una specie di poeta ai suoi tempi.” Victor fu inondato da una scarica di luce blu e si trasse indietro giusto in tempo per evitare la scossa “Un parolaio romantico che piace ancora a qualche vecchia nostalgica.” la guardò, stupito “Ma che t’importa di loro?” “Vostro nonno aveva una sorella, se non sbaglio.” “Tieni i pazzi e la mia famiglia fuori dal mio laboratorio.” sbottò Victor lasciando andare i fili che non era riuscito a collegare “È inutile, ormai mi hai

distratto, stupida!” Lanciò i guanti protettivi e gli occhiali in un angolo; poi, rabbiosamente, si lasciò cadere su uno sgabello. Era esausto e filiforme, gli abiti gli cadevano addosso. “Mi dispiace.” disse Juliet “È interessante, la storia della vostra famiglia.” Victor sospirò “Sono idiozie, ragazza, roba da romanzo. La storia di famiglia ci dipinge come nobili malinconici rintanati nelle nostre magioni, intenti a sorseggiare del gin o tagliarci le vene rimembrando i tempi della cavalleria. Secondo quelle storie lì, aspettiamo il momento di far mulinare di nuovo le armi e salvare le nostre principesse. Un futuro in cui vivremo di nuovo le nostre avventure, belli come angeli e dannati come demoni.” scosse la testa “E invece guarda, delle ricchezze che le nostre case sembrano celare non c’è niente, solo freddo e vuoto. E per sopperire, ci si deve armare come si può. Alcuni Howard avevano il denaro, altri il potere. Altri ancora, come mio padre, il perché della loro vita l’hanno cercato nel sesso. Ma il cuore, l’unico organo che dovremmo ascoltare, molti Howard non si sono mai accorti di possederlo.” “Ho sentito parlare di una maledizione.” disse Juliet. “Porcherie, non credo a una sola di quelle stupide leggende.” sbottò Victor “Guardami: nella mia vita ho avuto solo sfortune eppure non ho dato la colpa a nessuno. Non sono felice, ma si fa presto a dire che è stato a causa della cattiva sorte. Pensi che ignori cosa si dice di Victor Howard? Dicono che sono pazzo. Dicono che sono un rozzo, violento monomaniaco. A nessuno di quei froci annoiati a per la testa che Victor Howard si è solo stancato degli orpelli, delle maschere e delle loro schifose ipocrisie. Voglio la realtà, ragazza, vivo nel mio mondo, ho degli obiettivi e li perseguo. Quello che c’è fuori” indicò con un cenno la porta socchiusa “non mi riguarda. Loro non capiscono, sono ottusi, chiusi nelle loro gabbie dorate. Ho capito da tempo che non devo chiedere l’aiuto di nessuno. Che è meglio fare da soli.” “Non dovete essere solo per forza.” “Non c’è scelta. Tutti lo siamo. Voi altri avete solo troppa paura per accorgervene.” “Voi non siete solo.” ripeté Juliet. Si rannicchiò accanto a Victor; per la prima

volta lo guardò fisso negli occhi. Il cuore prese a batterle forte. Lui le scoccò uno sguardo di sorpresa furibonda. “Avete vostro figlio. So cos’è successo a vostra moglie, ma temo abbiate dimenticato quello che c’è di più importante.” Gli occhi di Victor erano braci puntate contro di lei, le sue sopracciglia aggrottate in un’espressione indecifrabile. Juliet ebbe un attimo di smarrimento, prese il respiro e si preparò a continuare. “Hermann è tutto ciò che rimane di Lady Helena. E voi siete così duro con lui! Perché? L’avete mai pensata in questi termini?” Victor aprì la bocca per dire qualcosa, ma la voce di Helena in testa lo bloccò, sua moglie era d’accordo con Juliet. Lui è parte di me, Victor. A parlare era Helena. “Voglio semplicemente educarlo.” Victor rispose a entrambe, gli occhi sbarrati. “Non c’è solo l’educazione! Dove lo mettete l’affetto? Non avete imparato niente dal brutto esempio di vostro padre?” Ha bisogno di te. Victor aveva orecchie solo per lei. “Cosa dovrei fare? Ormai è troppo tardi.” No. “Non è mai troppo tardi, Mio Lord.” Juliet si alzò di scatto nonostante le fitte violente alla gamba “ate del tempo con Hermann, parlategli qualche volta: potete ancora salvare il vostro rapporto. Potete ancora dirgli che gli volete bene.” “Helena.” sussurrò Victor, le tempie infuocate “Helena, cosa devo fare?” Crescilo. Crescilo come un padre dovrebbe crescere il figlio.

Victor ricambiò lo sguardo di Juliet “E va bene, andiamo su. Proverò a parlargli.” Juliet era in pensiero per Hermann e non era molto sicura che la situazione si sarebbe evoluta positivamente; eppure fino a quando qualcosa si smuoveva, era un grosso o avanti. Victor precedette Juliet nella sala da pranzo rassettata alla bell’e meglio da lei e Andrew qualche ora prima. Adesso che Juliet era tornata in piedi, cercava di darsi da fare per rendere vivibile quel palazzo tetro. Hermann si aggirava per la stanza, in mano un blocco da disegno e gli occhi che vagavano da un angolo all’altro della stanza. Quando lo vide, Victor si bloccò e Juliet scorse un fremito lungo il suo viso, una paralisi che lo lasciò senza niente da dire per qualche istante; Hermann fece per sgattaiolare fuori dalla stanza bofonchiando uno “Scusatemi.” “No.” disse Victor. Hermann era sull’uscio. “Rimani.” Il bambino rimase come inebetito, le labbra sconvolte da un tremito e le spalle incurvate: non si era ancora ripreso dalle botte di qualche giorno prima. Anche se l’occhio era meno gonfio, i segni erano ben visibili. Così non disse niente e aspettò che Victor gli parlasse. Juliet si rese conto che era difficile per entrambi, penoso per chiunque assistesse. Andrew le fece cenno di uscire con un cenno discreto. Erano soli nella stanza quando Victor si schiarì la voce: aveva sentito vago il disgusto per se stesso quando aveva picchiato Hermann. L’aveva coperto con la certezza che stava facendo qualcosa di utile a raddrizzare suo figlio, l’unico che Helena gli aveva dato, il solo a cui avrebbe potuto consegnare un’eredità spirituale. “Come stai?” chiese Victor guardando tutto meno che Hermann.

“Bene.” “Ottimo. E cosa facevi?” chiese Victor. “Di..disegnavo.” suo figlio mostrò il carboncino e il blocco da disegno. “Posso vedere?” “Non vi interesserebbe.” Hermann abbassò la testa e strinse di più il carboncino. La mano tremava: era macchiata di nero come i polsini della camicia. Sembrava molto preso da una macchia sul pavimento, ma per la prima volta Victor gli fu grato. Hermann aveva capito cosa quel momento comportava per lui; aveva capito he guardare disegni di cui non gli importava nulla non sarebbe stata che ipocrisia, una gigantesca forzatura. Non sapeva cos’altro dire: quello sarebbe stato il momento perfetto per discutere con suo figlio; per cercare, come aveva detto la sua Helena, di recuperare il rapporto. Gli avrebbe potuto parlare della madre, magari dirgli quanto lei lo aveva amato e forse abbracciarlo: non ricordava di averlo mai fatto. Victor sapeva che quello sarebbe stato il momento perfetto per cominciare a comportarsi da padre, ma non aveva idea di cosa volesse dire essere padre. “Pranzo in cucina.” stava dicendo Hermann. “No, no.Torno giù io, volevo semplicemente farti un saluto.” Hermann alzò un sopracciglio “Grazie. Anche a me ha fatto piacere vedervi.” Victor avvertì che il gelo che prima era una corrente d’aria fredda che soffiava da lui a Hermann, ormai era stato ampiamente ricambiato. Ne fu stupito, forse per la prima volta ne ebbe paura. Ricordò la stessa raffica tra lui e suo padre molto tempo prima; ricordò come aveva quasi gioito della sua morte. Non aveva versato una lacrima. Aveva organizzato la cerimonia funebre in fretta, quasi il corpo senza vita di suo padre fosse un fardello, una pesante incombenza di cui liberarsi. E in fin dei conti, anche a distanza di anni, Victor la pensava ancora così.

Sarebbe stato uguale per Hermann, alla fine? Aveva fatto tanto per non dare a suo figlio la stessa indifferenza che aveva ricevuto dal padre, e alla fine ciò che aveva ottenuto era il medesimo risultato. Tutto questo Victor avrebbe voluto dire a Hermann, ma non lo fece. Andrew bussò alla porta per annunciare che il pranzo era servito, e Victor scosse la testa “Torno giù. Non ho fame. Non disturbatemi per nessun motivo.” “Dicono che sei pazzo.” disse Hermann, di colpo. “Come dici?” “Dicono che sei pazzo.” ripeté suo figlio “A scuola mi evitano e so che mi prendono in giro e non per colpa mia,” spiegò “ma per te. Dicono che sei pazzo, che hai speso tutti i tuoi soldi per seguire le tue ossessioni malate; che presto finiremo in mezzo a una strada come” la voce si abbassò di tono “come Rodney Howard. Dicono che sei la vergogna dell’aristocrazia e che quando c’era il nonno tutto andava molto meglio. Lo sanno tutti che sei violento e sempre arrabbiato, per questo non ho amici. L’unico che mi è stato vicino è stato Tom. Quando l’hai saputo mi hai picchiato.” la mano che stringeva il carboncino era quasi bianca per l’assenza di circolazione “Se avessi saputo di te e Lord Arwen, non ti avrei messo in imbarazzo: ma come potevo immaginarlo, se non mi dici mai niente?” Victor rispose lentamente “Dicono tante cose, ma sono degli asini. Devi avere fiducia in me. Non posso fermarmi, lo capisci?” “Non capisco.” Il carboncino si spezzò. Cadde a terra con un piccolo TIC. “Mi dispiace.” “Se vuoi, qualche volta a dal laboratorio. Mi farebbe piacere.” e a i strascicati, più in fretta che poteva, Victor uscì dall’atmosfera opprimente di quella stanza.

Capitolo XVI: La famiglia Plant

Annuso l’aria: nessun segno di vampiri. La luna è alta e rende le strade abbastanza luminose da darmi una buona visibilità e non c’è molta nebbia stanotte. Devo ringraziare il vento. Questa corrente d’aria però potrebbe essermi fatale nel caso in cui loro si portino sottovento. Annuso l’aria, mi guardo intorno. Mi sposto verso gli angoli della strada. Nessun segno di vampiri. È così strano non doversi più preoccupare della mia famiglia, sapere che mio padre mi ritiene morto. L’ho davvero ingannato? Le strade non mi sono mai sembrate così tranquille, le insegne delle bettole sbattono lentamente mosse dal vento gelido che tiene i londinesi dentro casa. È una notte da predatori e io non sono più una preda. Sento odore di decomposizione provenire dai canali di scolo sul Tamigi. Il fiume invece non fa molto rumore a volte penso che sia quasi solido, un’enorme massa semisolida di rifiuti e cadaveri. Qualcuno sta pescando sulla riva del Tamigi. Mi dà le spalle ed è avvolto in cenci piuttosto luridi, ci sono poche luci ma io vedo benissimo. Lui probabilmente no. Annuso l’aria. È sottovento ma sembra umano. Nessun segno di vampiri. Ho sete. Mi avvicino lentamente al pescatore, è comodamente appoggiato in mezzo ad alcuni pali per ormeggiare piccole imbarcazioni. Mi sposto di qualche metro, è

ancora sottovento. Maledizione. Nessun segno di vampiri. Alza le braccia all’improvviso. Mi ha visto. Scarto di lato in mezzo a una massa di rifiuti. No. Ha solo preso un pesce. Ci sono ancora pesci nel Tamigi. Mi sposto, annuso l’aria. Solo puzza di pesce. Nessun segno di vampiri. È un pescatore, non è un vampiro. Mio padre non mi sta più cercando. Sono libero. Mi avvicino. Sono a pochi centimetri. Sto per agguantarlo. Annuso. Vampiri. Si volta. “Ciao, Demian.” Salto indietro, i suoi canini sono lunghi e sottili e luccicano sinistramente alla luce della luna. “Pensavo fossi morto.” Mi sta prendendo in giro. Era una trappola. Salto indietro. Metto tra me e lui una piccola scialuppa in secca. Mi volto e

inizio a correre. Mi sta inseguendo. Entro in un vicolo, mi arrampico lungo una grondaia e la sento cigolare, è dietro di me. Salto dai tetti verso un piccolo cortile interno. Un cane abbaia e poi guaisce spaventato. È dietro di me. Corro verso una piazzetta, una qualunque, dove ci sono delle persone avrò più possibilità di seminarlo. Sento i suoi i. È sempre più vicino. Vedo il campanile di una chiesa, ci sono quasi. Salto una bancarella. “ALT!” Annuso l’aria. I peli sulla nuca si rizzano: energia galvanica e sudore. Soldati della Deathwatch. Se questi soldati scoprono che sono un dhampir mi sparano. Perché? Sperano che mi trasformi in un vampiro per recuperare la taglia. Uccideranno anche mio padre. Mi fermo, non voglio morire. Annuso l’aria. Vampiri e Deathwatch. Sono circondato. “IDENTIFICARSI.”

Annuso l’aria. Solo Deathwatch. Mio padre è scomparso. Sento il rumore dei grilletti delle loro armi Tesla che scattano e si caricano. “Ultimo avvertimento.” Non finirà mai. Non mi libererò mai di lui. Devo andarmene da Londra. “Addio, amico.” Resta immobile ancora un secondo. Ancora un secondo. Sparano, i loro raggi galvanici li accecano per un attimo. Mi lancio sulla destra, sento i miei capelli rizzarsi. Sono ancora vivo. Scappo via.

Capitolo XVII: Il quaderno nero

Juliet stava ripulendo la sala d’ingresso da quella che sembrava polvere dei secoli. Secondo Andrew, una casa così grande esigeva una cura e un’amministrazione costanti. Nel sorteggio, quel giorno a Juliet era toccato il piano terra, a Andrew le camere da letto e la biblioteca. Juliet era appena tornata dal giardino reggendo un vaso di rose e viole: si era liberata delle spine con qualche taglio, e ora il mazzo stava sul pianoforte a coda della sala d’ingresso, su un vecchio vaso di porcellana cinese. Anche la statua greca al centro della sala era stata spolverata e splendeva attorno a fiori variopinti. Secondo Juliet i fiori rallegravano anche l’ambiente più tetro. Si stava dedicando a are lo straccio sulle cornici degli antenati di Victor quando, ancora una volta, si trovò a pensare alla stranezza che stava vivendo: aveva visto Henry, colui che in vita si era proclamato guardiano della famiglia Howard e che, anche da morto, aveva alimentando leggende e storie tra i membri della famiglia e gli antichi abitanti di Norwich. Da un canto non c’era da meravigliarsi: gli Howard erano un’antica famiglia nobiliare e in Inghilterra ogni famiglia che si rispettasse aveva il suo fantasma. Effettivamente l’Inghilterra stessa traboccava di storie di spiriti. Per esempio c’era una leggenda che Juliet aveva sentito alla Casa di Carità, quella del bambino fantasma: in classe c’era sempre un banco in più, ma veniva lasciato vuoto. E poi in classe erano trentadue, trentuno effettivi. A un nome dell’appello, il numero trentadue, non doveva rispondere nessuno. La leggenda raccontava che non se ne doveva parlare. “Non fare domande.” aveva spiegato una volta a Juliet una ragazza più grande “Non chiede del ragazzo fantasma. Chi fa domande scomode, muore sempre.” Così Juliet aveva immaginato la storia di Mathilda e Norfolk Howard, due fratelli uniti nella sfortuna che avevano guardato troppo avanti. Sempre che nella loro storia Henry c’entrasse davvero e che Juliet e Norfolk, in epoche diverse, non avessero vagheggiato troppo con la fantasia. Juliet non aveva ancora capito se Henry, o il Signore dei Corvi, come lo chiamava Norfolk, intervenisse attivamente nelle vicende della famiglia o si

limitasse a scortare le anime dei defunti nell’aldilà. Quel che era sicuro, era che mai un caso era stato documentato di membri estranei alla famiglia Howard che venissero contattati da Henry. Perché allora il Signore dei Corvi aveva voluto parlarle? Perché non si era manifestato a Victor o a Hermann? Juliet stava lucidando la cornice di un uomo biondo dagli occhi verdi lucenti. Aveva un’espressione assorta e la bocca tirata in un mezzo sorriso malinconico. “Chi sei?” La didascalia recitava proprio “Norfolk Howard I”. “Eri carino. Somigli un po’ a Victor.” Juliet si ò una mano sui capelli e si girò a guardare il tappeto arabescato arrotolato in un angolo. La porta del sottoscala si aprì e comparve Victor. In mano stringeva il quaderno nero di Damon Black. Juliet si fissò sulle mani ossute di lui, e poi sulle ombre violacee sotto gli occhi. “Hai visto?” tagliò corto Victor “Non è servito a niente.” “Non potete pretendere tutto e subito, i rapporti si costruiscono. Serve tempo.” rispose Juliet. Strapazzò lo straccio prima di riporlo nella tasca del grembiule. “Cosa devo fare?” A Victor era costata molta fatica fare quella domanda, e Juliet lo sapeva. “Avete avuto una buona idea a invitarlo in laboratorio.” “Non verrà.” “Perché?” “Me l’avesse chiesto mio padre io non sarei venuto.” sbottò Victor.

“Ma voi non siete vostro padre.” rispose Juliet “E Hermann non è una proiezione di voi da bambino.” “Io” Victor sprofondò su una sedia, abbandonando il quaderno sul tavolo “non ero come lui. Avevo meno pazienza ma ero più testardo, più sicuro di me. Avrei voluto che Hermann mi fosse simile, ma non è andata così.” “Dovete accettarlo.” Juliet si rese conto che Victor non sorrideva mai. “Cosa si potrà mai costruire da un cumulo di macerie?” Il tono di Victor adesso era il solito, imperscrutabile “Sto perdendo tempo, ho da lavorare.” “Vedrete, andrà bene.” Victor rispose con un ringhio che forse era un assenso; stava per tornare in laboratorio quando la ragazza lo fermò di nuovo “Mio Lord, ci sarebbe il tappeto da smacchiare. Se voi poteste..” “Fallo, ne ho fin sopra i capelli. Di te, di Andrew, di questa fissazione. Come se un tappeto pulito vi potesse cambiare la vita.” sbottò Victor prima di chiudersi alle spalle la porta del laboratorio. Juliet stava per salire le scale per annunciare la novità a Andrew quando si accorse che Victor aveva lasciato sul tavolo il quaderno di Damon Black. La curiosità di dare un’occhiata agli appunti del misterioso fratellastro di Victor fu troppa e, in fin dei conti, si disse mentre sfogliava le pagine ingiallite dall’umidità, non faceva niente di male. Si accucciò su un gradino e si immerse nella lettura. Il diario era ricco di termini medici, alchemici, e di definizioni di varia natura. Black era un uomo preparato e Juliet per la maggior parte delle frasi non aveva idea di cosa stesse dicendo. Sfogliò più velocemente. Nel quaderno c’erano disegni anatomici che miravano a cucire arti di diversi cadaveri per crearne uno poco più grande del normale: il prometeano, l’essere di cui aveva parlato il dottor Wagner a Stepney. Damon aveva corredato ciascuna figura di una didascalia e la descriveva con

minuziosa attenzione. Spesso nominava la donna che amava e per la quale stava conducendo esperimenti. La chiamava Mallory. Juliet lesse che Mallory era morta e che, per ridarle vita, Black stava cercando di fare quello che Victor voleva fare con Helena. Si stupì di quanto Damon e Victor fossero simili nel dolore e, quando arrivò alle ultime due pagine, righe buttate giù con calligrafia meno precisa, una sorta di diario, Juliet si chinò a leggere. 3 settembre, 2087 Anche l’ultimo esperimento è fallito. C’è qualcosa che non torna nel procedimento; non riesco a comprendere cosa, ma ho solo bisogno di tempo e più prove. Il mio calvario ebbe inizio cinque anni fa, quando Mallory ha chiuso gli occhi dando alla luce la nostra unica figlia. Sul suo cadavere ho giurato che l’avrei riportata in vita, e non per capriccio. Io non sono il solito alchimista superbo convinto di poter ribaltare ogni legge della vita e della morte. Semplicemente, senza di lei il sole non scalda più, i colori non sono più tali, l’aria è stantia. Senza di lei non riesco a vivere e nemmeno a morire: sono un corpo che si trascina senza obiettivi, meno di un vivo, meno di un animato. Juliet, figlia mia, non hai che da attendere: quando tua madre sarà di nuovo tra noi tornerò a prenderti e potremo essere una famiglia. Dovresti avere cinque anni adesso; rivedo con orrore il momento in cui ti ho abbandonata all’ospizio di carità della Gilda. Ho girato la ruota e ti ho visto trasportata tra le suore. Da quel momento ho troncato il filo di sangue che ci legava. Ho rifiutato il compito. Mi chiedo come stai, se ti trattano bene: qualche volta mi scopro a girovagare per quei luoghi e pensarti, e spero non me ne vorrai, ma non potevo far altro: ho girato in lungo e in largo da quando tua madre è morta, Juliet. Tenere con me una neonata avrebbe significato rallentare, perdere tempo.

Amo tua madre come fosse parte della mia stessa carne, la rivoglio indietro e voglio indietro te, figlia mia, spero mi comprenderai. Mallory, amore mio, presto saremo di nuovo insieme e nessuno potrà più negarci la libertà che tanto abbiamo agognato, che questa grama esistenza non ci ha concesso. Farò più in fretta che posso perché non posso resistere: sento la tua voce battermi sulle tempie, mi esorta a continuare, ed è l’unica che ormai mi sta vicina; persino alla torre degli alchimisti di Machno non ho ricevuto che comione e parole crudeli. Sapevo che mi credevano un povero mentecatto e perché, poi? Quello che voglio fare non potrà che essere d’aiuto alla scienza, significherebbe provare che l’alchimia è superiore alle porcherie sanguinolente che chiamano medicina e galvanica. Machno questo non l’ha capito. Non è che un vecchio pazzo, un ottuso imbottito di vanagloria che vive della propria leggenda; dato che lì per me non c’è posto scriverò la mia ma in un luogo diverso. Quando avrò le risposte e anche te, Mallory, vengano pure gli ingegneri galvanici con i loro prometeani, vengano pure i macellai che si fanno chiamare medici: venga pure Machno, io padroneggerò l’arte alchemica e grazie a quella tu vivrai. Damon Black Juliet chiuse il quaderno senza credere a quello che aveva letto. Il cuore le palpitava sotto il petto e sembrava sul punto di scoppiarle contro la cassa toracica. Non sarebbe potuta arrivare alle informazioni contenute nel diario di Black nemmeno nelle sue più folli fantasie. Calmati adesso Juliet, si disse, e non lasciare correre la fantasia. Dev’esserci una spiegazione razionale, ti sarai sbagliata. Rilesse tutto il o e tornò alle stesse conclusioni: avrebbe potuto pensare di essere pazza, ma con quale coraggio quando così tante cose corrispondevano? Le suore della Gilda le avevano raccontato com’era stata trovata in fasce, nata da appena qualche giorno, nella ruota dell’ospizio della carità di Whitechapel. Era il

2082. Juliet tirò fuori il ciondolo dalla scollatura. Era un medaglione in oro che lei portava sempre al collo: era insolito e un po’ troppo grosso per una ragazza dell’East End. Le suore della gilda gliel’avevano consegnato al momento della sua uscita dall’orfanotrofio, quando aveva compiuto diciotto anni: le avevano detto che l’avevano trovato tra le sue fasce. Juliet premette sul ciondolo e quello si aprì. All’interno era stato impresso il suo nome, Juliet. Per questo le suore l’avevano chiamata così. Lasciò ricadere il ciondolo, chiuse gli occhi e cercò di calmare il respiro, la gamba le faceva male per la posizione scomoda ma non le importava, in quel momento non sentiva altro che il suo cuore e il diario di Damon Black sulle gambe pesava, sembrava incandescente. Se fosse stato vero, rifletté, che lei era figlia di Damon Black, sarebbe stato chiaro perché Henry avesse deciso di parlare con lei. Anche lei faceva parte della famiglia Howard: Black era il figlio bastardo del padre di Victor, in fin dei conti, e il sangue non mentiva. Allora avrebbe dovuto parlarne a Victor? Scartò quell’ipotesi. Lui non avrebbe capito, era troppo preso dal suo esperimento , e poi odiava Black. Forse avrebbe pensato che Juliet fosse solo una ragazzina che aveva lavorato troppo di fantasia. Si appese al corrimano per alzarsi e, con una certa fatica, zoppicò fino al bastone: decise che non avrebbe detto niente nemmeno a Hermann. Il bambino avrebbe potuto farsi scappare qualcosa con Victor o con Andrew, e questo Juliet non poteva ancora permetterselo. Aveva bisogno di risposte prima di fare qualunque altra cosa e conosceva solo una persona che della famiglia Howard conoscesse tutti i retroscena. “Henry?” chiamò salendo la prima rampa di scale “Sei qui?” Nel corridoio del primo piano le risposero solo porte chiuse e buio. Salì fino al secondo chiamando il guardiano degli Howard e sentendosi una stupida perché forse non era il metodo migliore: ma in fin dei conti lui non aveva specificato

come lo si dovesse chiamare. “Henry?” Stava per salire in soffitta quando vide una faccia affacciarsi dal piano di sotto. Andrew alzò un sopracciglio “Juliet, tutto bene?” “Oh, sì.” mentì la ragazza “Ti stavo cercando. Lord Howard ha detto che possiamo smacchiare il tappeto. Ho bisogno del tuo aiuto per portarlo in lavanderia.” “Ottimo.” Andrew aveva capito che Juliet aveva soprasseduto sul nome che stava pronunciando prima, ma era un ragazzo fin troppo discreto. Non gli sembrava il caso di ficcare il naso, ancor meno in quel momento. “Scendiamo, se abbiamo fortuna entro oggi avremo finito di pulire il piano terra e tutto il primo.” “Facciamola risplendere, questa casa.” gli fece eco Juliet, aprendo le labbra in un sorriso falso. Doveva parlare con Henry, in un modo o nell’altro. Se ci sei, se esisti, sfiorò la piuma di corvo dentro la tasca del grembiule, vieni da me, ti prego. Non ho mai avuto così bisogno di risposte.

Capitolo XVIII: Hermann e io

Victor era immerso negli ultimi preparativi : la sfera di contenimento era pronta. Erano giorni che Victor sentiva sua moglie fremere dentro di lui e questo l’aveva esortato a lavorare senza concedersi più di un’ora di riposo a notte. Guardò la macchina con soddisfazione: adesso aveva solo bisogno di un laboratorio abbastanza grande e attrezzato per dare il via a tutto. Ne era sicuro, Helena sarebbe tornata a vivere. Leicester avrebbe avuto la sua gloria, ma lui avrebbe riabbracciato la donna che amava. Era appena crollato, spalle contro il muro, quando qualcuno bussò piano alla porta. “Avanti.” si sentiva soddisfatto dopo chissà quanto tempo. Forse fu per quello che non appena vide Hermann si alzò in piedi. Suo figlio scendeva lentamente le scale e si guardava attorno, gli occhi spalancati per le meraviglie grottesche che vedeva. Victor sentì il cuore battere per paura che un qualche movimento scoordinato del figlio potesse compromettere l’esperimento o le sue sostanze. Cercò di non pensarci. “Pensavo non saresti venuto.” “Invece sì.” Hermann era a disagio e ancora di più lo era Victor, che si era reso conto del fatto che era stato lui a chiedere a suo figlio di scendere in laboratorio. In realtà l’aveva fatto solo per scongiurare l’eventualità remota che questo accadesse. “Sei troppo diverso da me.” disse Victor. Hermann rosicchiò un’unghia “Posso andare via.” “Se vuoi rimani. Non ti ho mai insegnato niente d’alchimia, vero?”

Suo figlio scosse la testa. “Fa’ attenzione a non rompere niente, ti spiego qualcosa.” disse Victor con tono cauto. Non perdeva d’occhio nessuno dei movimenti solitamente scoordinati di Hermann: avrebbe dovuto stargli dietro e non era nemmeno sicuro di poter essere un bravo insegnante. “Siamo tutti alchimisti in famiglia, vero?” Hermann era curioso: si chinò a guardare tra gli scaffali alcuni flaconi di mercurio liquido. “Esattamente. Il primo fu il mio bisnonno, il Conte Victor di Arundel.” “Voglio sapere tutto. Questo a cosa serve?” Raramente Victor aveva visto Hermann davvero interessato a qualcosa che anche lui giudicava fondamentale, e questo lo colpì: Hermann era scattato verso il flacone che conteneva l’essenza che avrebbe dovuto scindere il legame tra lui e Helena. “Un composto di rubidio e zolfo. Non toccarlo, è molto fragile.” Ma già Hermann era interessato a qualcos’altro. “E questo?” Aveva gli occhi vivi mentre guardava una pietra verdastra sottovetro e nello stargli dietro, Victor sentiva qualcosa che non aveva mai provato prima “Cuprite, è un minerale fatto di rame.” “Il rame è verde, sì.” Hermann alzò un sopracciglio e continuò ad avanzare per il laboratorio “Proprio così.” “Ho letto qualcosa in biblioteca.” gli disse Hermann “Mi piace Paracelso. Lo sai, lui diceva che nei cadaveri è contenuto un altissimo quantitativo di zolfo e..” “..Voleva sostituirlo con il mercurio. Lo zolfo era il materiale della morte, il mercurio della vita e l’unione tra i due elementi sarebbe stata sancita dal sale. Sal, sulfus et mercurius.” completò Victor, le braccia incrociate sul petto. Hermann annuì e sorrise timidamente.

“E quello?” Indicava la macchina galvanica che Victor aveva appena finito di costruire. “Non toccare.” “Ti occupi anche di galvanica, vero? Mi sono sempre chiesto come si potesse racchiudere l’energia Tesla all’interno di una macchina.” “Dipende dal materiale che si utilizza, alcuni non lasciano che l’energia fuoriesca, la intrappolano dentro. Questa macchina” la sfiorò quasi con amore “è fatta interamente in titanio, un materiale molto resistente a qualsiasi tipo di corrosione, sia essa data da elementi alchemici o energia galvanica.” “Vorrei tanto provare a creare qualcosa qui.” Gli occhi di Hermann lo pregavano di metterlo alla prova.Victor non se la sentì di dirgli di no: per la prima volta lui e suo figlio avevano trovato un interesse comune e non aveva intenzione di perdersi quel momento. “E va bene.” disse alla fine “Ora, la prima cosa da sapere sugli alchimisti è che non scrivono mai niente. Dovrai mandar giù molti concetti a memoria. Se non vuoi faticare, esci subito di qui: la via da percorrere è lunga, e non mi piace perdere tempo.” Hermann era già dietro un tavolo “Dimmi solo cosa devo fare.” “A me gli occhi, fa’ quello che ti ordino.” disse Victor “Considerati sempre sotto esame: se noterò un solo piccolo calo di attenzione non ti darò una seconda possibilità. Chiaro?” “Sì.” “Il processo alchemico si basa su tre fasi. Miscelando semplicemente un elemento con un altro non otterrai che l’effetto dell’olio con l’aceto: non si amalgameranno, rimarranno divisi uno entro l’altro, eterogenei. Questo processo si chiama nigredo.” “Se però tu vuoi rendere un composto omogeneo e sei abbastanza in gamba, erai alla seconda fase, quella denominata albedo. Serve quasi sempre un

terzo elemento, come il sale per l’esperimento di Paracelso, che funga da collante per gli altri due.” Hermann non aveva occhi che per lui, era ansioso di mettersi alla prova e Victor non poteva che apprezzarlo: sperava solo di non star perdendo tempo. “Solo alla fine otterrai la completa fissione e il composto sarà pronto: sarà il rubedo, e molto spesso puoi esserci arrivato pur avendo sbagliato tutto e aver ottenuto solo un’immonda porcheria. Morale della favola? Sta’ attento a ciò che fai.” Victor insegnò a Hermann i termini per indicare i vari stadi di aggregazione della materia, e le teorie atomiste ipotizzate da Democrito e Leucippo, riprese e messe in pratica da Lavoisier e più tardi da Dalton. ò rapidamente in rassegna la tavola degli elementi e le loro classi di appartenenza e, alla fine, mise Hermann alla prova dandogli da creare un’ampolla di Masque. “È una pozione alchemica. Si applica in viso e ne altera la muscolatura. In questo modo puoi modificare i tuoi tratti facciali e somigliare a un’altra persona, se sei abbastanza bravo. Molto semplice da preparare.” Victor stette a guardare suo figlio cercare ingredienti e miscelarli con cura, in punta di piedi sul tavolo alchemico, alla cui superficie arrivava a malapena. Rimase sbalordito dalla singolare abilità con cui sembrava aver assorbito le spiegazioni che gli aveva appena dato: sembrava muoversi nel laboratorio come se sapesse perfettamente dove andare. Aveva compreso l’ordine in cui Victor aveva sistemato i vari elementi sulle scaffalature, e questo lo colpì positivamente: per la prima volta sentì che avrebbe potuto essere fiero di suo figlio. Rimasero in laboratorio per tutto il pomeriggio. Victor non ricordava che avessero mai ato così tanto tempo insieme dalla morte di Helena, fino a quando Andrew bussò per annunciare che la cena era servita. “Allora vado.” disse Hermann sbattendo gli occh: i vapori gli avevano fatto

rizzare in aria i capelli e gli avevano regalato una patina di vapore brinato sulla fronte. Aveva qualche bruciatura sulla mano, si era scottato con la fiammella del bollitore, ma era felice. “Vengo anch’io.” disse Victor. Si meravigliò di quello che aveva detto, forse ancor più di Hermann. La sala da pranzo veniva sempre apparecchiata per due, nonostante Victor non salisse mai. Generalmente il cibo in tavola a casa Howard era semplice. Eppure quel giorno, a tavola troneggiava un grande piatto da portata con roast beef e Yorkshire pudding fumanti, e poi pasticcio di rognone e tortino di agnello, e puré, salsa di carote, per finire in una gigantesca torta di mele appena sfornata. L’idea era stata di Juliet che aveva visto Hermann scendere in laboratorio e aveva coinvolto Andrew in un’intensa opera culinaria. Hermann si era appena seduto e si stava versando del succo di zucca, quando Victor fece un cenno al giovane maggiordomo “Chiama Dem Plant, devo dirvi qualcosa di molto importante.” Andrew scomparve e Juliet si affrettò a servire a Victor una porzione generosa di roast beef che lui guardò a malapena. Prese a mangiare velocemente: forse il suo stomaco risentiva dei lunghissimi digiuni a cui si era sottoposto in laboratorio. Hermann guardò Juliet: era ancora nervoso. La ragazza lo aiutò a prendere per se del purè e del tortino d’agnello prima di scompigliargli i capelli. Victor notò quel gesto ma non ebbe niente da ridire. Si limitò a riempirsi il flute e bere osservando attentamente i movimenti di Juliet e quelli di Hermann. Dem entrò in sala da pranzo: in testa aveva il solito cappello a falda larga e stava sbocconcellando qualcosa che di così repellente che nessuno volle informarsi sulla sua identificazione. Victor spostò appena il piatto della cena, congiunse le mani sul tavolo e parlò con aria di fremente aspettativa, gli occhi fissi a ciascuno degli occupanti della stanza. “Come ormai tutti saprete, in questo periodo sono stato occupato a ultimare un

esperimento molto particolare. Adesso è tutto pronto.” prese lentamente fiato “Il mio laboratorio non è adatto all’esperimento per questioni di spazio. Non posso nemmeno recarmi alla London University o agli interrati di Whitechapel. È fuori questione. Ormai l’avrete capito tutti, ma lo ripeterò: ciò che mi appresto a fare è illegale. Bullet o chi per lui ne verrebbero subito informati e non ho intenzione di farmi guastare l’esperimento da un branco di fanatici religiosi.” “Per questo ho deciso che l’unico luogo in cui poter eseguire in pace l’esperimento è Norwich.” “Norwich?” intervenne Dem “Che roba è?” “La città un tempo governata dalla mia famiglia.” disse Victor, spiccio “Ora completamente disabitata.” Un grande silenzio e qualche occhiata di stupore accolsero le parole di Victor: Dem abbassò la testa masticando lentamente. Juliet incrociò le braccia sul petto dopo aver scambiato una rapida occhiata con Hermann. Entrambi erano parecchio nervosi. “Mio Lord” a parlare per primo fu Andrew, che stava portando in tavola una grossa zuppiera fumante “Norwich si trova nel bel mezzo delle terre perdute, e di rado si trovano corriere disposte a are da lì. Potrebbe essere pericoloso.” “Sciocchezze.” Victor si alzò in piedi “Ci sono già stato altre volte. Tra quelle stupide rovine non c’è assolutamente niente.” Juliet fece qualche rapido calcolo: ricordava che il diario di Norfolk I aveva parlato del castello di Norwich e aveva detto che lì non solo erano nati e morti i membri più antichi della famiglia, ma era anche vissuto Henry. Immediatamente seppe ciò che doveva fare. “È un’ottima idea! Chiedo il permesso di venire con voi, Mio Lord.” “Concesso.” Victor non si fece domande “Non volevo il vostro consenso, solo informarvi del fatto che sarò irreperibile per un po’. Dem?” Il dhampir aggrottò le sopracciglia. Teneva le spalle a muro, una testimonianza di come si sentiva in quel momento: aveva provato a uccidere suo padre e non

c’era riuscito, la sua copertura era saltata e sapeva di avere i suoi occhi perennemente addosso. Londra e il West End erano l’ultima protezione che gli rimanevano. A Norwich avrebbe avuto le spalle scoperte, ma se fosse rimasto a Londra sarebbe stato solo, quindi non ebbe dubbi. “Sì, ci sarò.” nella sua voce era evidente una nota di fastidio “Ma come ci arriviamo?” “Dubito che i treni ino da una città fantasma.” commentò Andrew. “Perché preoccuparsi quando abbiamo un alleato potente come il nostro Conte di Leicester?” Victor storse la bocca con disgusto “Che si occupi lui del trasporto. Io esigo solo che si parta il prima possibile. Andrew, chiamalo dopo cena e riferiscigli quanto ho detto. E poi,” si rivolse ancora al maggiordomo “tu rimarrai qui ad occuparti di mio figlio.” Al di fuori di quella scena c’era Dem che, il collo incassato nelle spalle, si sentiva sempre più stretto tra incudine e martello. Quella situazione l’avrebbe fatto impazzire. Ora che suo padre si era allertato non poteva più tentare alcuna manovra per coglierlo di sorpresa. Adesso Dem era una preda; forse lo era sempre stato.

Capitolo XIX: Nessun Howard muore solo

Juliet aveva cominciato ad affezionarsi a tutti i componenti di quella casa che solo un mese e mezzo prima, quando l’aveva vista, le era sembrata lurida e tetra. Eppure adesso sembrava che le cose stessero andando meglio: lei e Andrew avevano reso vivibili i primi due piani di casa Howard; Victor e Hermann avevano trascorso del tempo insieme, e Juliet sospettava fosse stato piacevole per entrambi. Avrebbe tanto voluto ci fosse anche la sua Mimì a completare il quadro, eppure il freddo della sua mancanza non faceva che testimoniarle con bieco realismo che la sua sorellina era morta. Ma ormai Juliet stava capendo: doveva andare avanti, la sua vita era nel futuro. Mimì, la sua dolce bambina, sarebbe stato un ricordo, un bellissimo ricordo a cui attingere qualche volta, ma niente di più. Uno di quei ricordi che non fanno male. ò un dito sulla gamba bianchiccia e tumefatta; trattenne l’impulso di piangere. Da qualche parte, fuori di lì, nella dependance degli Howard, c’era Dem. Juliet non capiva a che gioco stesse giocando. Dem era stata la prima persona che aveva conosciuto uscita dall’orfanotrofio: il dhampir ava spesso al pub dove Juliet aveva trovato impiego per pochi scellini al giorno. A quel tempo, la ragazza stava raccogliendo monete per poter prendere Mimì con se, garantirle un posto in cui vivere. Juliet veva procurato a Dem alcuni impieghi come cacciatore presso altri avventori. Per quel che ne sapeva, il dhampir aveva sempre svolto bene il suo lavoro; eppure Juliet non poteva dimenticare l’espressione che aveva qualche volta quando entrava nel pub a rotta di collo. Si guardava attorno come inseguito, come se avesse avuto alle calcagna il diavolo in persona. Juliet si pentì di non aver mai approfondito la questione, anche se dubitava che avrebbe mai ricevuto risposta. Adesso era troppo tardi: Dem la disgustava. Era seduta sul bordo della piccola vasca nei servizi dei domestici: aveva i capelli umidi, dall’acqua tiepida salivano vapori piacevoli e odore di rose. Juliet aveva sgraffignato un’essenza profumata da un armadio a muro.

La ragazza udì qualcosa, come un ticchettio seguito da un lento gracchiare. Si avvolse dentro la vestaglia e uscì dal bagno, in mano solo un mozzicone di candela. Ad attenderla, il buio della casa: era rimasta sveglia per ore, e adesso era notte fonda. Si accorse di un’ombra scura, quella di un essere che le veniva incontro, ogni o un ticchettio, sgranò gli occhi e vide che si trattava di un grosso corvo dagli occhi acquosi. Si tirò indietro, si morse le labbra per non gridare. Il corvo gracchiò. Inclinò la testa a sinistra, aprì le ali e si posò sulla testa di marmo della statua greca, in sala d’ingresso. Juliet scese le scale e corse fino a che si trovò di nuovo di fronte al brutto uccello. “Henry? Sant’Henry Howard?” si sentiva davvero stupida a parlare con un animale aspettandosi una risposta. “Santo? Solo Beato.” rispose una voce gracchiante. La voce però non proveniva dal corvo ma alle spalle di Juliet che, quando si voltò, si trovò di fronte una figura rinsecchita vestita di un lungo saio nero che non riusciva a mascherare una devastante gobba. La figura aveva spalle cadenti e il cappuccio tirato fin sopra la testa. “So qualcosa di più su di te.” esordì Juliet. “Te l’avevo detto: spesso rifiutiamo di percepire la realtà; ma non per nostra inettitudine: semplicemente dobbiamo attendere. I nostri occhi necessitano di una lunga preparazione prima di vedere.” Henry rimase qualche o lontano da Juliet, che si sporse per guardare oltre il cappuccio, entro cui non vide altro che buio “Per questo l’altra volta ti ho visto come un domestico?” Henry non rispose ma Juliet suppose che stesse sorridendo sotto il cappuccio “Mi hai cercato, eccomi qui. Hai qualcosa da chiedermi.” Non era una domanda.

“Ho così tanti pensieri in testa che non so da dove iniziare.” disse Juliet “Sono figlia di Damon Black, vero?” Henry si limitò ad annuire. “Posso fidarmi di te?” “Decidi tu.” la voce di Henry era insopportabilmente gracchiante. Juliet dovette trattenersi per non turarsi le orecchie “La scelta è sempre libera.” “Non posso dire di conoscerti, le poche informazioni che ho ottenuto su di te non erano che leggende.” Juliet notò che Henry non aveva ombra “Sei uno spirito?” “I greci mi definirebbero psicopompo.” gracchiò Henry “Ho il compito di stare accanto a ogni membro della famiglia Howard nel momento del trao.” “Chi ti ha dato questo ruolo?” “Te l’ho detto.” Henry inclinò la testa di lato e, nello stesso momento, lo fece anche il corvo sulla statua “Disponiamo noi del nostro futuro. Io ho scelto questo.” “Secondo Norfolk tu hai dato inizio a una maledizione.” Henry non si mosse. Teneva le braccia immobili lungo il saio “Non temere, quando arriverà il momento, tutto ti sarà chiaro.” nella sua voce non c’erano né malizia né comione, o almeno non era possibile capirlo “Io posso guidare il tuo cammino verso l’aldilà, ma non è mio compito saziare i tuoi dubbi.” “Mi hai detto che sono figlia di Damon Black.” “A quello ti eri già risposta da sola.” Henry era serafico. “Quindi non sei tu a guidare i i degli Howard sulla terra?” Juliet alzò un sopracciglio “Mathilda impazzì dopo averti incontrato.” “Annunciai a Mathilda una grave sciagura.” gracchiò Henry “Era così che sarebbe morta: furono le sue scelte a portarla alla tomba e quando avvenne il momento del trao, io ero lì.”

Juliet non credeva di aver capito bene ma decise che era meglio continuare a fare domande fino a quando fosse stato possibile “Se abbiamo libero arbitrio sulle nostre scelte non è bizzarro che la mia strada e quella di Victor si siano incrociate in maniera così rocambolesca?” “Qualcuno ti risponderebbe che il sangue si chiama e si riconosce. Di voi vedo semplicemente la morte.” “E non è tua intenzione rivelarmi la mia, vero?” il cuore di Juliet sobbalzò, si era pentita di quella domanda: adesso temeva che Henry potesse davvero risponderle. “Spesso non è un male sapere quando si lasceranno le proprie spoglie mortali.” “Forse io tenterei di sfuggire alla morte.” disse Juliet “È umano.” “Sarebbe proprio questo a condurti tra le sue braccia.” le spiegò Henry “Vedi? Di noi solo due cose sono sicure, la data di nascita e quella di morte, la Vita e la fine della Vita; chiamale come vuoi: il resto è variabile.” “Avevi detto a Mathilda quando sarebbe morta, non è vero?” Henry alzò di poco il cappuccio ma ancora una volta Juliet non riuscì a scorgerne il viso. Ricordava i capelli scuri e ricci del ragazzo che aveva visto accanto a James, l’essere efebico dalla pelle bianca come porcellana e gli occhi acquosi. Si chiedeva cosa ci fosse sotto il cappuccio: odiava non poter guardare in faccia il suo interlocutore. “Mathilda aveva un dono, vedeva oltre l’umana percezione, era diversa. Lei mi ha visto fin da quando era bambina e, a differenza degli altri, non ha negato la mia esistenza. È ancora più difficile illudersi di evitare la morte se ne percepisci la presenza fisica da quando nasci.” Juliet si rese conto di essere accerchiata da ombre: ogni ombra era un gigantesco corvo che la guardava con occhi acquosi “Cosa sei tu? Qual è il tuo obiettivo? Quando scomparirai?” La voce di Juliet aumentava di tono, mentre quella di Henry era sempre più acuta e gracchiante; le ombre, invece si allungavano per tutta la stanza. Juliet avvertiva il frullare di centinaia di ali.

“Io sono il custode degli Howard. Esisterò fino a quando l’ultimo Howard avrà respiro e dopo sarò guardiano delle loro anime per l’eternità.” “Niente è eterno, questo non è possibile.” Juliet era sbigottita. “È una tua scelta crederlo.” disse Henry “Ricordi cosa ti dissi la prima volta che mi hai visto?” “Che a tutti gli Howard viene data una scelta.” disse Juliet “Hanno anche modo di rompere la maledizione?” “Non c’è alcuna maledizione. Ma anche a questo sei libera di credere o meno.” “Dimmelo tu, di che scelta si tratta?” Juliet stava perdendo la pazienza: si sentiva accerchiata, sapeva che non erano paranoie e non vedeva modo di uscire incolume da quella situazione. A meno che Henry non lo volesse. “Possono scegliere di che morte morire. Posseggono una lapide che viene scolpita con il loro nome nello stesso momento in cui aprono gli occhi. Anche per te ce n’è una, anche per tuo padre. Come vi arriverete, spetta a voi deciderlo.” “Insomma, tu decidi le date e noi dobbiamo fare gli eroi o scappare come dei codardi?” Juliet fece per arretrare ma udì forte un frullo d’ali alle sue spalle e fu costretta a fermarsi per il disgusto e lo schifo. Le ombre si erano addensate attorno a Henry e proiettavano per lui una figura oblunga e gigantesca, la parodia sul muro di un uomo gobbo e scheletrico; Juliet non riusciva a staccare gli occhi da quell’immagine. “Il mondo non è diviso tra eroi o codardi.” gracchiò Henry “Non a tutti è dato cambiare il mondo, distruggerlo o redimerlo. Tutt’altro: la maggior parte delle vite scorre e termina, e per il mondo alla fine non sarà cambiato niente. Quello che conta è ciò che si fa per se stessi, per la propria anima corrotta.” Fece un o indietro e l’ombra divenne più grossa: sovrastava la parete e proseguiva sul tetto, circondava la stanza e lui stesso ne era avviluppato. Il frullo di ali era sempre più scomposto.

“Tu non sei solo un fantasma.” Juliet ne era sicura. “Forse.” “Togliti il cappuccio.” Si era aspettata una protesta o un diniego: fu colta di sorpresa quando Henry sollevò una mano marmorea e abbassò il cappuccio. Rivelò uno scuro capo da corvo, gli occhi enormi e acquosi ai lati del viso, completamente neri; il becco era lungo e ricurvo. Juliet rimase impietrita, il terrore l’aveva sopraffatta: era come negli incubi, voleva scappare ma le gambe erano troppo pesanti e l’ombra sopra di lei così densa. “Nessun Howard muore solo.” Henry si ritirò nell’ombra che si addensò per circondarlo. Un istante dopo non era più un’ombra, ma una moltitudine di corvi, creature vive e gracchianti che si cibavano di lui e strappavano lembi di pelle candida da cui non usciva sangue. I becchi erano curvi nelle orbite di Henry. Quello spettacolo macabro non durò che pochi secondi, fino a che del signore dei corvi e degli uccelli non rimase più niente. Juliet cadde in ginocchio sul pavimento, gli occhi sbarrati. Gridò. Il primo a giungere, non dal laboratorio, ma dalla sua camera da letto, fu Victor, la camicia svoltata ai gomiti e l’aria di chi si era appena destato da un sogno orribile. “Ragazza.” si precipitò giù per le scale per afferrarla e scuoterla “Cos’è successo?” Anche Andrew e Hermann si erano svegliati e si sporgevano dal primo e dal secondo piano con aria assonnata.

“Papà, cos’ha Juliet?” “Mio Lord?” “Tornate a dormire.” ordinò Victor , prendendo tra le braccia Juliet che era in evidente stato catatonico “Qua ci penso io.” Juliet non riuscì a parlare fino a quando Victor non la fece sdraiare nel suo letto. “Dimmelo.” ringhiò seccamente “Che diamine succede?” “Ho visto Henry.” Juliet annaspò , alzando le mani per stringere le braccia di Victor. Aveva gli occhi sbarrati “Ed era un corvo, aveva un’orribile testa di corvo e c’erano tantissimi, tantissimi corvi! Ho avuto paura… non è solo un fantasma, la maledizione degli Howard..” “Chi te le ha messe in testa queste idiozie?” Victor si tirò indietro di malagrazia, sembrava fuori di se “Non esiste alcuna maledizione, te l’ho già detto.” “Sì che esiste! È cominciato tutto da Henry, aveva ragione Mathilda e anche Norfolk è morto per questo e così tutti…tutti gli altri.” Juliet aveva paura di chiudere gli occhi, di trovarsi sola e rivedere l’orrendo muso da corvo di Henry e al contempo avrebbe così tanto voluto essere in grado di spiegare tutto a Victor: sapeva di non esserne capace. “Si ammanta di corvi, lo circondano, sa perfettamente quando moriremo, lo sa dall’inizio..” “Stai farneticando.” sbottò Victor “Calmati o ti spedisco a calci fuori di qui.” Il suo sguardo non ammetteva repliche. Victor non avrebbe mai cercato di comprendere per il semplice fatto che si rifiutava di farlo. “Perché non volete vedere?” sussurrò scuotendo la testa, le gambe contro il petto e le mani tra i capelli “State facendo il suo gioco! Precipiterete.”

Victor non rispose. Le dette le spalle e uscì dalla stanza. Nonostante la paura , Juliet non tentò di fermarlo. Ormai aveva capito perché Henry le era apparso e anche perché l’aveva fatto due volte: il pericolo, sotto qualunque spoglia si sarebbe presentato, li attendeva in agguato a Norwich, dove la maledizione aveva avuto inizio; e quando i loro piedi avrebbero calpestato il suolo di quella città abbandonata, nessuno di loro sarebbe stato più lo stesso.

Parte III: Destino manifesto

Capitolo XX: Dramatis personae

Erano pochi i eggeri che si affollavano per le banchine di King’s Cross, quella domenica mattina. Al binario numero quattro, per esempio, di fronte a un treno in attesa dell’orario di partenza, c’erano solo cinque persone. Era il treno prenotato dal Conte di Leicester per una cosa speciale: era diretto a Norwich, città fantasma nel bel mezzo delle terre perdute inglesi per motivi su cui, considerate le forti sostanze che Leicester aveva versato alle ferrovie della Corona, nessuno si era sentito in dovere di indagare. Le persone in attesa si guardavano attorno e i loro stati emozionali vagavano dalla fremente eccitazione di un uomo dai ricci capelli irti e gli occhi verdi slavati, vestito di un tight nero dimesso, all’evidente preoccupazione di una bella ragazza bruna dai tratti zigani avvolta in uno scialle rosso fuoco, all’espressione di sospetto sottolineata dagli occhi gialli della terza persona, un dhampir, che abbracciava tutto con lo sguardo, quasi temesse di avere il diavolo alle calcagna. Le altre due persone non avevano valigie e nemmeno abiti da viaggio: erano vestite bene e sembravano essere lì al solo scopo di salutare i eggeri; uno indossava un abito borghese grigio, dimostrava venticinque anni e possedeva la discretezza e la postura che lo identificavano subito come un maggiordomo inglese. L’altro non era che un ragazzino: teneva la testa bassa e sembrava aver perso molto peso in poco tempo considerati gli abiti eleganti ma troppo larghi. “Aspettiamo Leicester.” stava dicendo Victor. Gettava sguardi nervosi ed esaltati all’orologio del binario. “È in ritardo. Come mai?” Dem incrociò le braccia sul petto, aveva il Grave Digger assicurato dietro le spalle e le solite due spade ai fianchi. Teneva i denti stretti e Juliet non ricordava di averlo mai visto così nervoso; ma dato che non ci teneva ad essere maltrattata e aveva ben altro a cui pensare, si era trattenuta dal chiedergli cos’avesse. “Non ne ho idea, però il suo servitore sta facendo caricare il materiale sul vagone merci.” disse Victor “Sarà andato a mollare qualche altra sterlina al capostazione.” Hermann teneva gli occhi bassi: era andato con Andrew a salutare Victor e Juliet

e, per la prima volta, si rendeva conto di quando la casa sarebbe stata vuota adesso. Non ricordava di aver trascorso una settimana piacevole come quella che era appena trascorsa: tra lui e Victor si era istaurata una sorta di scintilla che si accendeva quando erano insieme in laboratorio. Hermann faceva progressi e migliorava a vista d’occhio; era incredibilmente portato per l’alchimia e finalmente suo padre poteva dirsi soddisfatto di lui. Hermann cominciava a sentirsi apprezzato e forse, pensò, avrebbe potuto essere felice. E poi c’era Juliet, una delle poche persone che dentro casa gli avesse mai dato amore dopo la morte di Helena. Anche Juliet stava andando a Norwich: non sarebbe mancata molto, ma Hermann sapeva che gli sarebbe mancata moltissimo. “È da colazione che non dici niente.” Juliet si accovacciò accanto a Hermann, la mano sotto il suo mento. “Mi mancherai.” disse piano lui occhieggiando Victor, troppo occupato a cercare Leicester con lo sguardo: non vedeva l’ora di partire e aveva ato la notte in bianco per imballare personalmente tutto l’occorrente per l’esperimenti. Si era assicurato fino all’ultimo momento che non ci fosse niente fuori posto. Juliet fece un sorriso triste “Anche tu.” Hermann vide che la sua amica stava per piangere. “Perché le lacrime?” chiese: non sapeva spiegare perché, ma c’era qualcosa di terribilmente sbagliato in quella partenza. Avrebbe tanto voluto piangere anche lui ma si trattenne. Victor non l’avrebbe sopportato, e non voleva rovinare un momento così importante per suo padre. “Le partenze…mi commuovono sempre.” una lacrima scese lungo la guancia scura di Juliet e lei si affrettò a arci sopra la mano. Quando cercò di sorridere, non fece che peggiorare la situazione. “Stai mentendo.” rispose Hermann.

Juliet gli arruffò i capelli “Abbiamo ato tanti bei momenti insieme.” Hermann avrebbe voluto dire a Juliet che ce ne sarebbero stati altri. Ma odiava le bugie, e quella partenza sembrava quasi un funerale. “Grazie, Hermann. Di tutto.” Il bambino sorrise scoprendo denti non molto diritti, ma a Juliet non importava: voleva bene a quel bambino da quando l’aveva visto le prime volte, triste e solo, e gliene voleva ancor più adesso, così com’era, smagrito e indeciso su tutte le vie da percorrere. Lo strinse in un abbraccio. “Mi mancherai. Sei un ragazzo meraviglioso, sarai forte?” Leicester uscì dalla biglietteria, un sorriso soddisfatto sul bel viso sbarbato, il cilindro e il bastone da eggio color avorio stretti in mano. Alle sue spalle, intento a seguirlo come un’ombra, la sua guardia del corpo armata di fucile da cecchino. Dem saggiò la stazza e l’altezza del cagnolino di Leicester: se l’avessero perquisito non avrebbero trovato altre armi che il Kar, semplicemente perché era così grosso che ne aveva bisogno. “Alla buon’ora.” Victor scoccò a Leicester uno sguardo furente. “Le solite incombenze, Howard, non ti preoccupare.” Leicester fece per allungare una pacca sulla spalla di Victor, che si spostò di scatto. “Ho pensato a tutto io. Qualche volta ti invidio, i soldi ti rendono potente, ma non certo libero e felice.” sottolineò accuratamente gli ultimi due aggettivi. Poi si affrettò a salire sul treno, alle sue spalle la guardia silenziosa. “Che persona disgustosa.” commentò Juliet. “Indice del fatto che la nobiltà, Juliet, non è solo un fattore di sangue e denaro. E per fortuna!” le spiegò Andrew.

Finalmente Victor si rivolse a Hermann “Allora…” esordì, a disagio “È il momento.” Hermann annuì. Le uniche volte in cui suo padre e lui trovavano una scintilla di complicità era dentro il laboratorio; per il resto, continuavano a comportarsi come perfetti estranei. “Fa’ quello che ti dice Andrew.” “Sì, padre.” Victor cercò di sorridere: non ci riuscì. Poi si portò una mano al collo e staccò il laccio a cui era attaccata la chiave del laboratorio “Per continuare ad esercitarti.” la porse a suo figlio “Attento a quello che fai là dentro.” Gli occhi di Hermann si illuminarono “Troverete tutto come l’avete lasciato, ve lo prometto.” “Ti considero un uomo.” disse Victor “Al mio ritorno continueremo le lezioni.” “Quando?” “erà qualche giorno.” Victor teneva le braccia rigide lungo i fianchi “E forse porterò con me una sorpresa.” “La mamma?” “Forse.” Victor sfiorò appena la spalla di Hermann, che aprì le labbra in un brutto sorriso. Victor l’aveva sempre giudicato un taglio in mezzo alla faccia, repellente a vedersi, ma quel giorno non ci fece caso. Salì sul treno seguito da Juliet e Dem: il macchinista fischiò e i vagoni si alzarono di qualche metro sulle rotaie di energia Tesla. Poi, le porte si chio: Juliet vide il binario numero quattro allontanarsi e le nebbie di Londra svanire quando oltrearono le mura di Kensington, oltre cui la sua immaginazione difficilmente si era spinta. Era la prima volta che lasciava la città; aveva sentito molte storie sul mondo di fuori ed erano tutte spaventose.

Eppure, pensò ammirando il paesaggio che cominciò a stagliarsi di fronte a loro, non sembrava poi così male. In alcuni tratti il terreno era fertile, verde: la nebbia inquinata di Londra era ben lontana e le strade sterrate non esistevano. Il treno correva a mezz’aria sui binari di energia galvanica perché, stava spiegando Leicester più a se stesso per darsi un tono che altro, in questo modo si poteva viaggiare comodamente evitando gli attacchi delle creature delle terre perdute, licantropi o ghoul selvaggi che scorrazzavano per le colline attorno Londra. “..E dato che il viaggio fino a Norwich richiederà delle ore è più che probabile che ci imbatteremo in abomini del genere.” “Un licantropo potrebbe far deragliare il treno.” stava osservando Dem, accanto a lui. “Mio caro,” Leicester guardò il dhampir come una ricca signora avrebbe squadrato un’attrazione da circo “le rotaie sono a due metri da terra, e se anche un licantropo volesse prendersi la briga di arrampicarsi verrebbe fritto dall’energia galvanica che vi scorre dentro.” Dem ricambiò con odio lo sguardo di pena e disgusto di Leicester; ò accanto a Juliet, ferma a guardare, rapita, il panorama circostante. “Da qui a Norwich, secondo la tabella, ci sono quattro ore di viaggio.” disse Juliet: come aveva previsto non ebbe risposta dal dhampir. Dem si diresse oltre la porta del locale ristorante. “Dove vai?” chiese, stupita. “Non ti riguarda.” Dem scoprì i canini affilati e scomparve chiudendosi la porta alle spalle. Juliet si trattenne dalla voglia di corrergli dietro e..e cosa? Dem era più forte di lei e, per quanto Juliet lo odiasse, sapeva che la sua unica prerogativa era arrivare a Norwich. Lì avrebbe trovato ciò che stava cercando:

forse risposte, chissà. Il pensiero di Henry l’aveva atterrita nelle notti successive al loro ultimo incontro: si era svegliata più volte urlando, madida di sudore; aveva lavorato con se stessa per impedirsi di pensare a quello che aveva scoperto, ma per quanto cercasse di costringersi a elaborarlo come un incubo, era stato tutto inutile: era davvero figlia di Damon Black; ed Henry era alle spalle di tutti gli Howard. Leicester si era ritirato in uno scompartimento e la sua guardia silenziosa era appostata appena fuori. Dem non era ancora tornato. Juliet andò nel bugigattolo che fungeva da bagno e, le mani sul lavabo, si guardò allo specchio. La luce sfarfallava e, per un secondo, credette di scorgere dei buchi sul suo volto, al posto delle orbite. Juliet osservò le proprie orbite vuote, le guance cosparse di venature scure. Sulle labbra, lo specchio le restituì l’immagine del viola della morte. Ma non fu che un istante: quando Juliet sbatté le palpebre, a risponderle fu solo il suo consueto sguardo atterrito. Quando entrò nello scompartimento di Victor, vide che il marchese sembrava essere crollato in un sonno profondo. Juliet si chiuse la porta alle spalle e si sedette di fronte a lui: non l’aveva mai osservato bene. Per la prima volta notò cicatrici biancastre sul dorso delle sue mani, segno di scottature con i raggi Tesla; vide profonde occhiaie e qualche ruga d’espressione sulla fronte. I suoi lineamenti non erano bellissimi, però molto affascinanti. Victor somigliava un po’ a tutti i suoi antenati. ma era come una loro versione più dimessa, folle e stropicciata. O magari, rifletté Juliet, semplicemente erano i ritratti a non riportare la verità. Juliet si stupì nel vedere quell’uomo collerico e testardo, che qualche volta aveva persino temuto, vinto dal sonno come un bambino. Victor aveva le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa piegata su un lato. Le palpebre che fremevano erano l’unico indizio di un sonno agitato.

“Sei così innocuo mentre dormi.” Juliet si stupì di udire il suono della propria voce nello scompartimento. Parlava in maniera soffusa perché Victor non si svegliasse, come quando finiva di raccontare una favola a Mimì, quando ancora vivevano nella loro soffitta: lo faceva a voce bassa e dolce, perché lei si era addormentata già da un po’. “Credo sia una prerogativa di chiunque, torniamo tutti bambini quando dormiamo. Forse nemmeno Jack lo Squartatore sarebbe un pericolo, colto nel sonno.” ci pensò su per qualche istante “Il sonno lo renderebbe solo più grottesco.” “Non so esattamente perché ti stia parlando mentre dormi. Prendilo come uno sfogo. Non c’è nessun altro con cui posso parlare su questo treno; se guardassi il vuoto, invece, mi sentirei pazza. Quindi va così, mi dispiace.” “Ho scoperto che sei mio zio. Non so se esserne felice; posso solo ringraziare di non averti conosciuto da bambina, perché mi avresti reso la vita molto difficile. Non te l’ho detto perché mio padre è Damon Black, il tuo fratello bastardo, quello che odi. E poi…sei sempre così preso dal tuo lavoro che distrarti mi sembrava improponibile.” “Non potrei dirti cosa penso di te, per molti motivi: intanto sei un marchese; ma in fin dei conti faccio parte della famiglia, e poi stai dormendo, quindi non puoi blaterare insulti. Ci sono momenti in cui ti detesto: sei un pessimo padre. Però hai una mente scientifica geniale. Non so com’eri da marito, ma suppongo che ci debba essere un motivo se tua moglie ha deciso di non abbandonarti neanche da morta. Sai, all’inizio ti credevo pazzo però ehi, adesso mi sono ricreduta. Ammiro il tuo senso di abnegazione e, so che non te ne frega niente, però mi sono affezionata a te.” Stava per ridacchiare ma si trattenne “Ti confesso un segreto: la prima volta che ti ho visto, e mi hai portata a casa tua, a Bath Road, ho pensato che somigliavi moltissimo al signor Rochester. Lo conosci? Hai presente Jane Eyre, no? È un libro che dovresti leggere, ma che te lo dico a fare?, tanto non lo faresti.” “Te ne dico un’altra: mi affascini. Forse avrei potuto innamorarmi di te. Che stupida, vero? Però suppongo che dato che sei mio zio non sia corretto. E poi sei sposato, quindi me ne starò buona.”

Si morse il labbro. Victor si stava muovendo. “Quello che ti volevo dire” riprese Juliet, più piano “è che ho parlato con Henry, sai, il signore dei corvi? Ecco, lui. Mi ha terrorizzato. Parliamoci chiaro, Victor,” si chinò su di lui con aria confidenziale. Aveva gli occhi lucidi e si sentiva immensamente triste “non sono stupida: lui compare solo ai membri della famiglia che devono morire a breve. Da qui a dire che morirò a Norwich, il o è breve.” si tormentò le frange dello scialle “Questo è il momento in cui chiunque mi chiederebbe allora perché stai andando a Norwich?, ma tu non lo farai, perché stai dormendo e perché non ti importa. Risponderò lo stesso: Henry l’ho visto in ogni caso, è assodato che morirò comunque. Devo solo scegliere come. Dato che ne ho la possibilità, vorrei scoprire almeno il perché. Perché Henry Howard ha dovuto maledire la nostra famiglia? Perché non possiamo essere felici?” Victor scosse la testa nel sonno e farfugliò qualcosa. Suonava come un “Helena, angelo mio.” Juliet si alzò e carezzò la guancia di Victor “Non so se abbiamo un destino o cos’altro, né se sia stato Henry a dare inizio a tutto, però.. mi ha fatto piacere averti incontrato. Proteggi Hermann. Da grande sarà una persona meravigliosa” sorrise, ancora più triste “Nemmeno questo potrei dirtelo da sveglio, mi manderesti al diavolo, ma io l’ho capito che vorresti solo spronarlo e che non lo odi. Ora fa’ che lo capisca anche lui. Ci vediamo, undicesimo marchese di Norfolk.” Juliet uscì in fretta dallo scompartimento. Si ò un braccio sugli occhi. Imbrattò i polsini di lacrime e si dedicò al panorama fuori dai finestrini: percorrevano una landa brulla, attraversavano colline ingiallite; la poca terra che c’era era rossiccia. Le piante erano poche e, ad occhio inesperto, non avrebbero sfigurato tra la vegetazione dell’Inferno. Juliet aveva sentito parlare della Piaga che affliggeva i terreni delle terre perdute, ma vederla era impressionante. Rimase a guardare quel luogo brullo per molto tempo. Alla fine scorse qualcos’altro: una cittadella circondata da mura di pietra. A dominare tutto, dall’alto di una collina, c’era un fortino medievale, un cubo di mattoni su cui svettava una bandiera che Juliet riuscì a distinguere solo qualche minuto dopo,

quando superarono le mura e si fermarono dentro una stazione abbandonata: lo stemma era un’ampolla alchemica a cui era avvinghiato un serpente. “Norwich!” annunciò il macchinista dall’interfono “Stazione di Norwich!”

Capitolo XXI: Uno il tutto

Quando i eggeri scesero dal treno, i loro polmoni vennero pervasi dall’aria salubre di Norwich: erano lontane le ciminiere e le fabbriche di Londra. “Che aria.” Leicester ostentava un sorriso soddisfatto “Howard, c’è persino da chiedersi perché vivi come un recluso a Londra quando potresti fare lo stesso qui e avresti pure aria pulita.” “Ciascuno sceglie per se la tomba che preferisce.” ringhiò Victor. Dem fece un o d’avvertimento verso Leicester e lo stesso fece la guardia del corpo del Conte, ma verso Victor. Leicester fece un cenno con la testa “Manteniamo la calma, d’accordo Howard?” Victor non sembrava dello stesso avviso “Non mi dar noie, Leicester. Io a Norwich comando come Sua Maestà a Londra: nessuno mi direbbe niente se ti staccassi la testa qui per vendicare le tue offese.” Si guardarono con odio ancora per qualche istante; poi Victor dette le spalle al conte e andò ad aiutare i macchinisti a caricare i macchinari su un carretto. “Pazzo e maniaco.” Leicester teneva le labbra strette: era sbiancato sotto lo sguardo di bile “Tienilo d’occhio.” sussurrò al servitore, che annuì lentamente. Quando tutto fu scaricato, cominciarono la eggiata che li avrebbe condotti, seguendo la strada principale, dalla stazione al castello. Il paese era abbandonato: la polvere dei secoli sembrava aver lasciato inalterato il suo aspetto. Non c’era nessun rudere e le case sorgevano altere nella loro decadenza. Juliet seguiva Victor a fianco di Dem e si guardava attorno, attenta ad ogni particolare. L’aria era fresca e non ricordava di aver mai respirato a pieni polmoni; tra le case, i palazzi e le strade non ava che il rumore del vento. Juliet si strinse nello scialle: a Londra era praticamente impossibile trovare un angolo di strada silenzioso, a meno di non essere sordi.

“È bellissimo.” commentò alla fine, quando tagliarono in due una grande piazza e si trovarono di fronte all’unico edificio a pezzi. Si trattava di una grande chiesa gotica: il rosone era rotto, così come i portoni, che giacevano fuori dai cardini. Sbirciando l’interno del rudere, Juliet si rese conto che più della metà del tetto era crollato, lasciando però intatto l’altare. Statue di santi martirizzati dall’inclemenza del tempo giacevano mutilati tra i ruderi e quel che rimaneva delle navate. “È la Cattedrale.” li informò Victor, senza nemmeno guardare “Un ammasso di rovine, nient’altro.” “È l’unico edificio danneggiato.” commentò Juliet. “Fu un incendio. Lì morì il nostro capostipite, il settimo Duca di Norfolk.” spiegò Victor “Voleva salvare qualcuno, ma non ho idea di chi fosse.” “Che idiota; meglio un Duca vivo di un eroe morto.” Dem aggrottò le sopracciglia. “Questo è opinabile.” Juliet strinse le labbra. Proseguirono, più che altro cercando di ignorare i commenti velenosi di Leicester a proposito della città. Salirono sulla collina che dominava Norwich e giunsero a pochi i dal castello: la bandiera sfrangiata, divorata dalle intemperie, sventolava sul torrione più alto come a rendere saluto al marchese di ritorno; la pietra era immota e i pesanti portoni dell’ingresso principale, aperti. A Juliet venne naturale pensare Siamo attesi. “Che fate lì, fermi come degli idioti? Muovetevi!” sbottò Victor. Teneva lo sguardo fisso davanti a se. “Mandiamo avanti gli inservienti, prima.” Leicester alzò un sopracciglio. Era rimasto sull’uscio, le mani premute sul pomolo del bastone da eggio; i i di Victor, invece, risuonavano già all’interno della sala principale. “O magari va’ avanti tu e dimmi. Tanto sei il padrone qui, no?” riprovò il conte.

Per tutta risposta Victor aprì con una spallata una grande porta sulla parete sinistra della sala “Rimani lì, Leicester.” sbottò “Fatti sbranare dai licantropi, non hanno mai provato la carne di un conte.” “Scarica tutto, segui Howard.” concluse Leicester, in fretta, affrettandosi a seguire Victor mentre il suo servitore si caricava in spalla le attrezzature imballate. “Entriamo anche noi?” chiese Juliet. Dem annuì, non senza essersi prima guardato alle spalle. Juliet si meravigliò della maestosità della sala principale: non aveva mai visto un’architettura più bizzarra e insieme armonica. Camminavano su un pavimento cosparso di simboli geometrici legati insieme; le pareti erano interamente coperte da una galleria di ritratti identica a quella della magione di Londra: ma questi erano molto più grandi, e raffiguravano pure le donne e i cadetti della famiglia Howard. Ai lati della sala si dipartivano quattro scale a chiocciola che portavano alle torri e ai piani superiori. C’era poi un enorme caminetto, spento da secoli, accanto a un’altra porta chiusa uguale a quella dietro cui Victor era scomparso. Juliet alzò la testa e rimase a bocca spalancata: sopra di lei, un affresco raffigurante un cielo azzurro zaffiro. Sovrimpresso, in rosso rubino, il motto della famiglia Howard: Uno il tutto, racchiuso entro un gigantesco serpente alato che si mordeva la coda. “Che roba è?” la voce di Juliet era soffusa. “Che te ne frega?” Dem le era accanto. Juliet notò che i suoi occhi gialli erano fissi sulla sua scollatura; si affrettò a coprirsi con lo scialle. “Vado a fare un giro qua attorno.” tagliò corto Dem salendo sulla scala a chiocciola più vicina. Juliet lo guardò con disgusto fino a che non scomparve al piano superiore. Se lo conosceva bene era andato in giro alla ricerca di qualcosa da rubare con l’intento di rivenderla come bottino delle Terre Perdute: gli oggetti strappati alle antiche magioni nobiliari abbandonate erano molto ben pagati dai borghesi della North Side.

Si stava apprestando a seguire il dhampir, quando fu attratta da un particolare che prima non aveva notato: sulla parete destra, quella occupata dai marchesi, le cornici vuote erano solo tre. Dopo, lo spazio sarebbe finito. Si avvicinò per leggere: già impressa sul legno lavorato, la didascalia della prima cornice: Victor Howard-Norfolk II, Undicesimo Marchese di Norfolk. La seconda invece portava il nome di Hermann Howard-Norfolk II, Dodicesimo Marchese di Norfolk. Juliet si portò le mani al cuore nel leggere il nome di Hermann, nel pensare che un giorno la maledizione degli Howard avrebbe colpito anche lui. La maledizione l’avrebbe piegato, nell’animo e nel fisico, e se avesse provato a lottare sarebbe stato finito. Pensava a questo quando poggiò le spalle contro la terza cornice: lì non c’era ancora un nome, ma la didascalia recitava già _____Howard-Norfolk, Tredicesimo Marchese di Norfolk. “È già tutto pianificato meno che il nome.” Juliet sentì le viscere contorcersi: non era una sensazione piacevole “Non è vero, Henry?” Alle sue spalle, il servitore di Leicester continuava a portare le attrezzature dal carro al laboratorio. Juliet gettò un’occhiata rapida agli altri dipinti: c’era Mathilda, una ragazza giovane dai corti capelli neri, gli occhi verdi esageratamente grandi e l’aria spaurita; e c’era un bell’uomo biondo, James Howard, Duca di Norfolk e Cambridge e primo Generale della Deathwatch. E della Deathwatch aveva la divisa nera con i bottoni d’argento, il petto guarnito di medaglie e mostrine. Stretta al fianco destro, la maschera antigas a forma di teschio; e poi c’era Norfolk, con un nostalgico mezzo sorriso; e c’era Hermann I, il padre di Victor – E mio nonno, pensò Juliet - , un uomo dal naso importante e dagli occhi profondi da cui però non si denotava che gola per i piaceri carnali; e infine c’era Henry, il gobbo dal viso imperscrutabile; e c’era Helena, avvolta in un voluttuoso abito rosso carminio, i capelli ricci lunghi sulle spalle, bella e sicura di sé. Juliet salì le scale: di fronte a lei cinque stanze. Le porte erano tutte spalancate; all’interno di una di queste, una camera da letto sontuosa, Juliet vide Dem. Il dhampir era intento a frugare con rabbia tra i cassetti, alcuni dei quali erano già stati sbalzati via dai cardini e giacevano a terra. “Che diamine stai combinando?” Juliet sentì montarle addosso una rabbia

improvvisa. “Aveva ragione Victor.” ruggì Dem “In queste dannate rovine non c’è assolutamente niente.” “Allora vattene, dannazione, hai già fatto abbastanza danni!” Di rado Juliet aveva urlato: mostrò a Dem le mani strette a pugno. Sapeva che non gli avrebbe mai fatto paura, ma non poteva farci niente. Non poteva lasciargli correre quella condotta, proprio in quella casa, proprio a Norwich. Il dhampir era sorpreso “Povera pazza, come se quello che faccio ti riguardasse.” “Questo è un luogo importante, non ti permetterò di saccheggiarlo! Schifoso… viscido…verme.” Juliet si sentiva terribilmente fuori di se. Per questo, prima che se ne fosse resa conto, Dem era balzato su di lei. La spinse con le spalle al muro; le mani del dhampir erano serrate attorno alle sue braccia. “Ripeti come mi hai chiamato.” “Lasciami, mi fai male.” Juliet raccolse la saliva e sputò; colse in pieno l’occhio di Dem. Il dhampir fu veloce a colpirla con uno forte schiaffo che la lasciò intontita per qualche secondo, giusto il tempo che il sangue ebbe di scorrere fuori dalle gengive. “Mi fai schifo.” Juliet cercò di far forza per liberarsi. “Ripeti come mi hai chiamato.” la voce di Dem era poco più di un sibilo. Juliet si sentì addosso il suo sguardo lascivo e giallognolo. Voleva vomitare. Sbiancò: Dem sapeva quanto la sua presenza la mettesse in soggezione; Juliet era vulnerabile tra le sue mani. “Non sei mai stata così vicina alla morte lo sai?” Il dhampir lasciò la presa sulle braccia; ò il dorso della mano sul collo di

Juliet e si fermò lì, sulla vena pulsante di sangue. “Potrei tranciarla adesso.” congiunse le mani sul collo della ragazza “Potrei ucciderti qui.” Dem strinse e, nel dolore, le pupille di Juliet si mossero con il terrore di scorgere Henry alle spalle del dhampir, venuto a presenziare alla sua morte. Ma Henry non c’era. Provò ancora a divincolarsi; Dem staccò solo una mano. “Non puoi fare niente.” sibilò, gli occhi gialli fissi sulla scollatura di Juliet “Povera Juliet” Juliet non poteva gridare. Stava soffocando silenziosamente: si rese conto che nessuno sarebbe arrivato a salvarla. Dem spalancò la bocca mostrando i canini. Pensa alla favola di Cappuccetto Rosso, pensò Juliet, cercando affannosamente una via d’uscita, Il lupo aveva la bocca e i denti terribilmente grandi. Se no non sarebbe stato il lupo. La mano del dhampir scese dal collo ai seni di Juliet: strappò la camicia, li scoprì. Lei avrebbe voluto muoversi ma il suo corpo era schiacciato contro quello di lui che era esile, ma involucro di una forza bestiale. La mano proseguì lungo i fianchi e le cosce. Juliet sentì il vestito sollevarsi. Non c’è via d’uscita, pensò. I denti di Dem erano vicinissimi ai suoi seni. Ho paura. Si trovò a pensare a quello che aveva letto sul morso dei vampiri: il piacere era esagerato, il dolore arrivava dopo. “Lo sai” i canini di Dem si arrestarono. Il dhampir conficcò le unghie sulla coscia della ragazza e sfilacciò la pelle a graffi.

Juliet voleva urlare, ma Dem fu pronto a schiacciarla ancor più tra il suo corpo e la parete; le coprì la bocca con la mano “non è tanto il sesso che mi eccita” I suoi occhi erano colmi di lussuria: si muovevano frenetici e le unghie tagliavano la carne; lei non si era mai accorta di quanto fossero lunghe “quanto il sangue; e il tuo voglio provarlo.” Dem ò le dita imbrattate di sangue sulla bocca di Juliet. La ragazza sentì il sapore del ferro mentre le labbra si tingevano di rosso. “Così caldo…” sibilò Dem avvicinando le labbra a quelle di Juliet “Mi piace.” La sua eccitazione era quella di un animale. Juliet rimase immobile, terrorizzata, mentre lui succhiava il sangue dalle sue labbra. Lo sentiva gemere, mentre si sfregava premuto contro di lui, e lo odiò. Si stupì a pensare a Victor e a quello che avrebbe potuto dire se avesse saputo Dem le stava facendo; ancor più disperata, si rese conto che a Victor non sarebbe importato nulla. Era sola. Il suo viso era bagnato di lacrime e sangue; ormai aveva rinunciato a muoversi e gemeva silenziosamente di dolore, quando un rumore improvviso fece staccare Dem dalle sue labbra: un corvo aveva sbattuto contro il vetro della finestra e vi stava scivolando tramortito. “Stupido uccello.” ruggì il dhampir che, scattando in avanti, terrorizzato, aveva mollato la presa su Juliet. Quando si voltò, vide la ragazza fuggire dalla stanza e chiudersi alle spalle e poi a chiave la porta della stanza più vicina. La stanza in cui Juliet era entrata sapeva di chiuso e polvere. L’aria era soffocante ed era serrata da pesanti tende azzurre che la ragazza si affrettò a tirare via per far entrare la luce. Juliet era in un ambiente molto grande, sgombro di mobili. Le pareti erano tinte dello stesso zaffiro della sala principale; ma, questa volta, si trovava di fronte

all’albero genealogico affrescato della famiglia Howard. Non si curò dei graffi sotto la gonna; avanzò sfiorando le pareti. Due volti erano stati grattati via dall’albero: quello di Rodney Howard, al suo posto un buco completamente nero, e quello di Damon Black. Scorrendo con il dito la di suo padre e stupita che un bastardo fosse ritratto nell’affresco, Juliet vide che si intrecciava con quello di sua madre Mallory: di lei non era stato segnato né il cognome, né il viso. La ramificazione culminava in Juliet Black. Juliet crollò indietro, di colpo la gamba prese a dolerle. Si sentì terribilmente sola: qualcosa raschiava alle sue spalle, e tornò la sensazione che l’aveva colta sul treno, quella di essere osservata. Avrebbe voluto correre da Victor, avvertirlo: forse avrebbe dovuto sapere della sua vera identità e del fatto che Henry era vivo e lì in giro, libero di muoversi come voleva e giocare con loro; eppure sapeva che avrebbe potuto rivelarsi un grosso errore. Dem era ancora dietro la porta: sentiva il suo respiro, sapeva che i suoi occhi gialli la fissavano dalla serratura. Juliet era una preda e Dem la cacciava. La ragazza si rannicchiò contro il muro freddo, il viso rivolto al viso cancellato di Damon Black; perse la nozione del tempo. Il sole tramontava dietro le colline giallognole di Norwich e lei, colta dal sonno, chiuse gli occhi. Dall’altra parte della porta, Dem si aggirava per il piano come un’anima in pena: si sentiva un’animale in gabbia, ma non voleva scappare, perché là fuori suo padre, il pericolo, sarebbe stato troppo grosso per affrontarlo. Dem temeva davvero Denis Plant. Scosse la testa mentre scendeva la scala a chiocciola con l’intenzione di prenderne una seconda: almeno qualcosa avrebbe voluto rubarla. Dopo avrebbe pensato a un buon posto per nascondersi, ci sarebbe rimasto tutta la notte e, se le cose si fossero messe male, avrebbe fatto carte false pur di sopravvivere: come aveva sempre fatto.

Capitolo XXII: Lo scambio equivalente

Victor era in laboratorio. Controllava che i valori della macchina galvanica fossero corretti e che le braccia che si dipartivano dall’apparecchio girassero sulla stessa frequenza. Aveva estratto dall’Als il corpo che avrebbe dovuto fungere da involucro per lo spirito di Helena e l’aveva posto su una barella; a qualche metro di distanza aveva collocato una seconda barella, tra le due la macchina. Stava attendendo che la sua macchina galvanica arrivasse a un livello di carica sufficiente per dare il via all’esperimento. “Quanto ci vorrà?” Leicester non aveva fatto altro che fumare da quando erano scesi in laboratorio. Victor avrebbe volentieri sfogato la tensione contro di lui, un buono a nulla che si sarebbe preso i meriti di qualcosa che nemmeno nelle sue fantasie più perverse avrebbe potuto ideare, un avvoltoio che stava speculando sulla sua felicità e quella di Helena. Ma non l’aveva fatto. Non poteva permettersi di venir distratto da alcunchè. Victor si dedicò al corpo che avrebbe fatto da involucro all’anima di Helena. Ne saggiò i legamenti: le ricuciture dovevano essere abbastanza resistenti da resistere a una grande quantità di energia Tesla. Si girò verso un piccolo tavolo alchemico, afferrò un ago e ruppe un filo con i denti. Si avvicinò di nuovo al corpo. “Howard, ho fatto una domanda.” era Leicester. Victor si bloccò “Non mi seccare, buono a nulla.” “Sono io che ti finanzio.” Leicester scattò in piedi, innervosito. “Ma bravo” ringhiò Victor “allora perderai molti soldi se l’esperimento dovesse andare male. Vorresti essere la causa?” Gli lanciò uno sguardo fiammeggiante: era arrivato a quel punto e nessuno si sarebbe frapporto tra lui ed Helena.

“E va bene, ho capito.” Leicester fece un cenno al suo servitore “Vado fuori a prendere un po’ d’aria. Qui c’è un tanfo terribile.” “Si chiama inizio di decomposizione.” ringhiò Victor “Tra poco questo corpo non sarà più buono. Ragion per cui devi farmi lavorare da solo.” Si chinò su una cucitura sul polso del cadavere: si era leggermente allentata durante il viaggio. Affondò l’ago dentro la pelle verdastra. “Che orrore.” Leicester digrignò i denti “Ricordo che a tua moglie piaceva stare in Società, Howard: sarà un’attrazione divertente, quando sarà tornata.” Gli occhi di Victor lo fulminarono. Il marchese teneva i denti serrati; aveva i capelli irti per il caldo soffocante del laboratorio, le unghie listate di nero e la camicia sudicia e strappata. Tese una mano per afferrare il bastone galvanico “Leicester, è l’ultima volta...” “Colpiresti chi ti ha dato i soldi per portare a termine il tuo sogno?” Leicester era sicuro di se. La sua guardia del corpo gli sta con il fiato sul collo. “Non ho attaccato tua moglie, va bene? Solo mi chiedo come si sentirà Lady De Vere quando, riportata in vita, si troverà nel corpo di un cadavere ricucito dall’aria idiota e si vedrà negate innumerevoli possibilità e le persone che amava avranno schifo di lei.” parve rifletterci un attimo “Tranne te, Howard, certo.” E con un ultimo sorriso soddisfatto scomparve, lasciando Victor all’interno del laboratorio, le spalle frementi di rabbia. Victor batté un pugno contro la fredda parete di pietra: a lui sembrava rovente. Socchiuse gli occhi “È quello che vuoi, vero? Vero?” Mi fido di te, rispose Helena. A Victor bastò come assenso. Finì di ricucire il polso, poi si dedicò alle caviglie: bucò la pelle del cadavere con il lungo ago ricurvo. Aveva l’aria concentrata, quasi stesse rammendando il vestito di un arcangelo.

Ci mise un po’ a rendersi conto del fatto che, alle sue spalle, qualcuno gli stava parlando e che no, non era la voce di Leicester. “Non funzionerà.” Di fronte a Victor c’era un uomo vestito completamente di nero: nera la giacca sdrucita, nero il mantello da viaggio, neri la camicia strappata e il bastone da eggio in legno d’ebano. Era alto e magro più o meno quanto lui. Dimostrava quarant’anni, anche se i capelli lunghi, bianchi come la neve, e il viso sbarbato, non aiutavano. Anche le sopracciglia corrugate erano bianche e gli occhi di un verde vivido. Portava al collo un grosso medaglione d’oro che raffigurava un quadrato racchiuso da un cerchio. Osservava Victor con atteggiamento altero. Victor era sicuro di aver già visto quell’uomo che ora camminava verso di lui; ma in quel momento, tra i vapori del laboratorio e il caldo asfissiante delle fiammelle accese, non riusciva proprio a ricordare. Afferrò il bastone galvanico e lo portò dietro la schiena “Che diavolo vuoi?” sbottò: non lo impressionava che uno sconosciuto fosse penetrato nella sua proprietà nel bel mezzo delle Terre Perdute. Era infastidito perché era stato interrotto, ancora una volta. L’uomo dai capelli candidi venne alla luce. Victor riconobbe i suoi tratti somatici. Portò una mano alla tempia che cominciava a premere. “Dov’è Juliet?” chiese l’uomo. Victor si portò davanti al cadavere su cui stava lavorando “Che vuoi da lei?” “Ucciderla.” Le labbra dell’uomo tremarono: anche quelle erano cianotiche, bianche come la neve. “Perché?”

Il cuore di Victor prese a battere più forte: adesso sapeva con chi stava parlando. Ricordava il suo viso, anche se era molto cambiato da quando vivevano sotto lo stesso tetto, a Londra. Ricordava come aveva odiato la persona che adesso era di fronte a lui; di come si era sentito disgustato dal magnetismo che quell’uomo esercitava su suo padre, e dei momenti trascorsi con lui in laboratorio, momenti che Victor non riusciva a condividere. Ricordava che sua madre piangeva troppo e che qualcuno doveva assisterla. L’uomo che aveva davanti era la prova di tutte le mancanze del marchese Hermann I, suo padre. Come marito. Come genitore. Come nobile. L’uomo davanti a lui misurò la grande stanza con gli occhi “In verità, Victor, questo laboratorio doveva essere usato da me. Sono arrivato qui da qualche settimana, vedo che hai distrutto le mie ampolle.” occhieggiò ai cocci di vetro che Victor aveva spinto via dal tavolo per far posto ai suoi arnesi “Per fortuna non era niente d’importante. Allora, dov’è Juliet? Juliet mi serve per condurre il mio esperimento; sai a cosa mi riferisco.” “Lo stesso che voglio fare io.” “Sei un grande alchimista, Victor, lo sei sempre stato, ho sperato che tu mi dessi finalmente una risposta al mio più grande dolore: come riportare in vita la mia Mallory? Anche tu ti proponi la stessa cosa con tua moglie. Siamo uniti nella sventura, fratello. Il nostro è un sangue maledetto.” “Taglia corto.” Victor strinse di più il bastone dietro la schiena, i denti digrignati. Era stretto tra la voglia di continuare ad ascoltare e il desiderio di friggere il cervello all’uomo che aveva di fronte, per continuare l’esperimento. “Ti seguo da molto, Victor. Avevo deciso di tentare il tutto per tutto e mi sono privato di ciò che avevo di più caro, il mio quaderno nero.” fece un cenno verso il tavolo dove l’oggetto svettava “L’ho dato a Wagner che l’ha ato a Charles Deville. Sapevo che l’avresti trovato. Non potevo permettere che mi scoprissi, non avresti mai lavorato sapendo che ti tenevo d’occhio. Ma se non così, come avrei fatto a carpire i tuoi segreti? So che mi odi: se non mi era chiaro da prima l’ho capito il giorno della morte di nostro padre, quando mi hai cacciato di casa.”

“Sanguisuga, è colpa tua se mia madre..” Damon Black scosse la testa “Povera, povera Lady Anna. Che Dio l’abbia in gloria. Non è questo il punto, Victor: tu hai trovato il quaderno e hai avuto l’idea che ti ha portato a questo” indicò la macchina “ma il problema è che un attimo dopo averti ato il mio più grande tesoro, già non mi servivi più. La strada che dovevo seguire non era quella medica e nemmeno quella galvanica: le mie teorie iniziali erano corrette, la rivitalizzazione di un corpo a partire dall’anima è faccenda di sola alchimia.” “Serve un corpo ma non uno qualunque, Victor: il sangue che vi scorre, i tratti somatici, tutto deve ricordare la persona che si vuole riportare in vita. Io e Mallory abbiamo avuto una figlia: l’hai letta quella parte, o ti è sfuggita? Che sciocco, è ovvio che non ti interessa. Ho girato molto per ritrovare la mia bambina: era uscita dall’orfanotrofio dove l’avevo abbandonata; ma per fortuna avevo una chiave: il medaglione che le avevo lasciato. Anche se non conoscevo il suo aspetto, ero sicuro che, se lo indossava, quel medaglione non asse inosservato. E cos’è che scopro?” socchiuse gli occhi verdi, così simili a quelli di Victor “Che non solo lei è il ritratto vivente della mia Mallory, ma che lavora come domestica per l’uomo che più di tutti ho amato e odiato quando ero un ragazzo; scopro che per incredibile coincidenza Juliet lavora proprio per te.” Allargò le labbra cianotiche in un sorriso; Victor notò che aveva la pelle così bianca che, attorno alle tempie, le vene disegnavano un reticolato tanto preciso da sembrare disegnato. La struttura anatomica di Damon era visibile ad occhio nudo. Victor non replicò: non ricordava che la tempia gli avesse mai fatto così male. Si limitò, per il resto, a ricambiare lo sguardo folle di Damon. “Ovviamente non lo sapevo!” la voce di Damon cresceva di tono “Rimasi sconvolto e divertito dalla rivelazione; quando poi scoprii che sareste venuti a Norwich, mi dissi: - Vediamoci tutti lì, sarà una bellissima riunione di famiglia! Che ne pensi Victor? Sei contento di vedermi?” Il suo tono era quasi isterico; gli occhi luccicavano di rabbia e ossessione “Oh,Victor, tu non ti eri accorto di niente. Non ti sei completamente interessato a Juliet. Sei completamente cieco.” Damon storse la bocca in una smorfia “Proprio per questo non sono intervenuto e ho aspettato che venissi tu a Norwich. Ti ho

preceduto. Sei contento?” “E ora che farai?” ringhiò Victor “Vuoi vendicarti?” “Vuoi che lo faccia? Vuoi che lo faccia, fratello? No, no! Tutto quello che voglio è Mallory.” Damon non mentiva; i suoi occhi furono attraversati da un lampo “Si chiama scambio equivalente, Victor: dai qualcosa che ami per ottenerne un’altra. Ci ho messo un po’, ma adesso ho trovato l’illuminazione: sono disposto a sacrificare la mia stessa carne. Juliet è mia e sarà l’involucro che conterrà mia moglie. Mallory mi parla, Victor, lei vuole vivere.” si sfiorò le tempie e venne scosso da un tremito estatico “Sai cosa significa, vero? Mi puoi capire?” “Sacrificare un figlio per riavere una moglie?” Victor digrignò i denti “Sei un barbaro.” “E tu un egoista.” la voce di Damon si assottigliò “Vuoi tutto. Ma la vita non è così semplice, nessuno ti da niente senza un tornaconto. Si deve scegliere, fratello.” “Io sono Victor Howard e sono un medico, un ingegnere galvanico, uno scienziato.” Victor odiava il mentecatto che aveva di fronte, e più notava le somiglianze tra loro, più sentiva le mani desiderose di impregnarsi del suo sangue “E tu, tu Damon Black, cosa sei? Nient’altro che un macellaio senza scrupoli.” “Io sono un alchimista, Victor.” Damon ò un dito su uno dei tavoli sgombri, catturando una scia di polvere di secoli “E l’alchimia non ammette mezzi termini.” “Io dimostrerò che l’alchimia, unita alla scienza, può sconfiggere la morte. Che si può…avere tutto. Senza dover scegliere.” “Ma non farmi ridere! Alchimia, galvanica, rivoluzioni scientifiche...” Damon sorrise a denti stretti “Nemmeno a te importa niente di tutto questo. Cos’è, Victor, non accetti che siamo uguali, in fin dei conti? Io l’ho sempre saputo.” “Non siamo uguali.” “Forse contigui” continuò Damon “Ti ho ammirato davvero tanto, e tu mi hai

sempre respinto, fratello.” “Non sei mio fratello.” “Condividiamo sangue e carne del padre. Io sono un Howard quanto te.” Victor gli dette le spalle: aveva ascoltato abbastanza. Non aveva più voglia di sentire i vaneggiamenti di un pazzo; poco gli importava che Juliet fosse la figlia di Damon Black: che i problemi familiari se li risolvessero da soli. Lui aveva da lavorare, sua moglie non poteva aspettare. E nemmeno Hermann. “Va’ via, Black.” Sentì il fiato caldo del fratello sul collo “Stanno arrivando.” gli sussurrò all’orecchio “Metti la maschera antigas.” Victor sentì i che scendevano le scale. “Leicester.” ringhiò. Poi lanciò uno sguardo a Damon, che teneva la mano dentro una tasca del cappotto, e corse a indossare la maschera. Non aveva ancora finito di sistemare i legacci quando Leicester entrò con il suo solito sorriso esasperante. Ebbe appena il tempo di dire “Victor?” prima che Damon stape la linguetta da un’ampolla che aveva estratto dalla tasca e del fumo, grigiastro e denso come nebbia, si propagasse per la stanza. Leicester smise di sorridere. Assunse un’aria terrorizzata. Poi cadde a terra portandosi le mani alla gola, seguito a ruota dal servitore alle sue spalle. “Fosgene. Cloro e ossido di carbonio. Un mezzo piuttosto antiquato.” commentò Victor. “Ma efficace.” rispose Damon “Pulizia è stata fatta. Possiamo dare il via alla nostra sfida.” Damon stava dritto di fronte al cadavere, ma Victor non lo stava più ascoltando.

Per un istante si era crogiolato al pensiero che l’ultima parola di Leicester fosse stata proprio il suo nome, ma poi era tornato a controllare i valori corporei del promettano. “Che diamine dici?” ruggì quando finalmente le parole di Damon Black lo raggiunsero. “Voglio una sfida senza esclusione di colpi tra noi due. Solo una persona riuscirà a concludere l’esperimento: il pegno è questo laboratorio. Howard contro Howard, il bastardo contro l’erede. Che ne dici, Victor? Un tempo l’avresti ardentemente desiderato: l’occasione per dimostrare la superiorità del tuo sangue e il mio essere indegno è arrivata. Il momento di vendicare la morte della povera Lady Anna.” Damon fece un o verso di lui; la mano che stringeva il bastone d’ebano tremava “Nessun colpo escluso.” “Lo sai, fratello, se accetto sarà solo per un motivo.” “Quale?” “Mi stai facendo perdere tempo.” Victor si scagliò contro Damon. La rabbia lo divorava e i sospiri di Helena si erano trasformati in urla: lei soffriva. Fece mulinare il bastone galvanico e sperò che Damon non fosse troppo forte. Damon parò il primo colpo e si portò indietro, in difesa, in tempo per estrarre dal bastone una lama sottile che, Victor notò, era impregnata di un liquido rossastro. Victor caricò il bastone galvanico per sprizzare la scossa e, quando anche Damon si era lanciato contro di lui, lo fece mulinare contro l’avversario. La mano di Victor venne inondata di scintille bluastre, ma Damon schivò il colpo con la sua lama, che diventò elettrostatica. Damon fu costretto a lanciare l’arma di lato. Victor poteva vincere.

Lottò per non ascoltare le urla disperate di Helena: si preparò a sferrare il secondo colpo che però non venne. Si rese conto troppo tardi che il bastone aveva esaurito le sue cariche. Damon se ne accorse e gli si gettò contro: atterrandolo, lo mandò a sbattere contro un tavolo di pietra al centro della stanza. Victor sentì la durezza della pietra contro la colonna vertebrale. Poi, un dolore atroce: la gamba cedette sotto il peso di Damon. Victor avvertì un CRAC e urlò di dolore. Cadde a terra e tossì un rivolo di sangue: aveva sugli occhi un velo tinto di rosso e non sentiva altro che rumori ovattati. Per la prima volta sentì che stava per morire. “Non è ancora finita.” Damon lo strattonò per il bavero della camicia e lo portò alla sua altezza. “Potrei ucciderti adesso, ma non voglio negarti il piacere di assistere al momento del mio trionfo: sacrificherò Juliet e riavrò mia moglie. Per allora, tu non avrai lingua né occhi. Non sarai che un povero, triste animato. Non so se i morti provano disperazione, ma te l’assicuro, fratello: spero di sì.” Il viso di Damon era vicino. Victor provò a dargli una testata, ma era troppo debole, così paralizzato dalla schiena in giù. Il dolore era lancinante. Damon lo lasciò sul tavolo di pietra. Victor lo sentì salire le scale, senza fretta: si stava preparando a giocare al gatto con il topo. Damon Black aveva tutto il tempo del mondo, mentre Victor stava per morire. Victor non riusciva a vedere altro che un velo opalescente: si sentiva già avvolto nel sudario. Avvertì il pianto impotente di Helena dentro di lui, e poi qualcosa che strisciava per terra, un gorgoglio che ogni abitante di Londra conosceva bene: seppe che Leicester e il suo servitore si erano appena risvegliati, e che

bramavano la sua carne.

Capitolo XXIII: La benedizione degli Howard

Juliet aprì gli occhi. Era in una stanza diversa da quella in cui si era addormentata: era più che sicura di non essersi addormentata su un letto a baldacchino dalle cortine di broccato. Sbatté gli occhi un paio di volte per sincerarsi che quello non fosse un sogno. Quando ne fu sicura si mise a sedere e si guardò attorno: la stanza era arredata sontuosamente. Le tende erano scostate, e rivelavano una magnifica giornata di sole. La luce si stendeva dalle colline di Norwich: ricordava che stesse per calare il buio, doveva aver dormito tutta la notte. Fu guardando fuori che Juliet si rese conto che le colline non avevano più il colorito giallognolo tipico delle Terre Perdute. Questa volta erano verdissime. Inoltre qualcuno le aveva cambiato il vestito: ne indossava uno nero molto elegante, in organza e seta, con la scollatura in stile impero e stretto lungo i fianchi. Fu sfiorando le trame dell’abito che Juliet fu presa da un dubbio atroce: si guardò in giro per la stanza. Cercava uno specchio, ma non ne trovò. Agli Howard non piacciono gli specchi, pensò senza nemmeno sapere perchè. Frugò tra i cassetti: notò che la sua pelle era molto più chiara del normale. C’era qualcosa di terribilmente sbagliato nel luogo dove si trovava in quel momento. Juliet sperò che fosse un sogno, per quanto fosse estremamente impossibile. Aprì la porta con mani tremanti: il corridoio del secondo piano del castello di Norwich era inondato dal sole. Tutte le tende erano sollevate e ogni angolo era abbellito da fiori freschi variopinti.

Juliet sentiva i ovunque; si girò più volte per cercare di capire da dove provenissero e dove fossero diretti. Da una porta uscì un maggiordomo in marsina scura e postura ineccepibile: portava un vassoio d’argento con il tè. “Milady...” si inchinò con reverenza a lei. A me? Doveva avere un aspetto deplorevole, perché il maggiordomo parve preoccupato “Ma voi siete molto pallida! Non vi sentite bene?” “No, io..” Juliet balbettò “Scusatemi, sono solo...molto confusa. Non avrò dormito bene, sì…volevo solo sapere la data di oggi. E l’anno, sì, l’anno è molto…importante.” Il maggiordomo alzò le sopracciglia e Juliet temesse che cominciasse a urlare che era pazza. Poi si affrettò a rispondere “È il 25 giugno del 2035, Milady. Siete davvero molto confusa, volete che faccia chiamare il vostro medico personale?” “No!” esclamò Juliet, forse un po’ troppo veementemente “Ho solo un brutto vuoto mentale. Credo di aver avuto un incubo. Sto bene. erà.” “Ero venuto a portarvi il tè e a riferirvi che vostro marito vi attende in giardino.” “Mio..marito?” Il maggiordomo, chiunque fosse, era seriamente convinto del labile stato mentale di lei perché , la voce alterata , annuì “Vostro marito, il marchese.” “Ah.” Juliet poggiò entrambe le mani al corrimano della scala a chiocciola “Ah.” ripeté mentre cominciava a scendere senza badare nemmeno a dove andava. “Milady, il vostro tè?” “Bevetevelo voi…cioè, lo berrò dopo.” Juliet non sapeva cosa stesse accadendo, né perché fosse piombata di colpo in

una realtà diversa dalla sua, con più di un secolo di differenza. Scese le scale più in fretta che poteva. Sentì i piedi scivolare nella seta a strascico dell’abito troppo stretto. 2035…2035…vale a dire, settantacinque anni dal 2103, pensò. Che cos’era successo di importante nel 2035, secondo la storia della famiglia Howard? Non me lo ricordo, pensò Juliet, disperata. Adesso era nella sala d’ingresso, che era sempre la stessa, non fosse stato che la galleria non era ancora piena, tutt’altro. Le cornici con le didascalie di Victor e Hermann non esistevano. Non poteva essere un’allucinazione. Non così reale. Il pesante portone del castello era aperto: in tutta la magione sembravano fervere i preparativi per qualcosa. C’erano moltissimi inservienti intenti a salire e scendere le scale veloci come formiche. E c’erano fiori, tantissimi fiori. Juliet socchiuse gli occhi e ne respirò il profumo. Poi uscì. Era sulla collina che dominava la città di Norwich: ne vide le vie brulicanti. Scorse persone ovunque. La cattedrale era sempre un rudere, ma c’era vita in città. Juliet si stupì di vedere quanto in realtà tutto sembrava essersi conservato in stasi un secolo dopo, nella sua epoca. “Guardi Norwich?” Una voce malinconica alle spalle di Juliet testimoniò l’arrivo di qualcuno. Lei si affrettò a guardarlo in faccia. Scoprì con stupore di trovarsi di fronte un viso che più volte aveva visto mentre spolverava la sala dei ritratti di Victor a

Londra. Il viso era quello di Norfolk Howard. Era esattamente come l’aveva immaginato: un uomo non molto alto che somigliava a Victor, ma era più bello. Norfolk aveva un’aria ordinata e il portamento studiato; portamento che, tuttavia, non riusciva a mascherare l’ansia fremente che portava dipinta negli occhi verdissimi. Indossava una pesante giacca di velluto viola e portava un monocolo all’occhio destro. Norfolk si fermò quando fu accanto a Juliet. Come se niente fosse, le cinse le spalle con un braccio. Lui fece un cenno ai cittadini di Norwich “Guardali, Juliet, sono così ignari...qualche volta mi chiedo chi sia più fortunato: chi può capire, o chi non capirà mai?” Norfolk sospirò , un sospiro malinconico come le sue parole “Da una parte c’è il castello, il nostro potere: ce lo siamo guadagnato goccia per goccia. Tutti si aspettano che noi siamo felici. Dall’altra parte, beh, ci sono loro.” fece un cenno alle viuzze brulicanti “Gli abitanti di Norwich. Ce ne dobbiamo prendere cura. Alcuni ci amano. Altri ci invidiano. Non sanno, non sanno quanto darei per stare dalla loro parte.” “È per la maledizione?” Norfolk le lanciò uno sguardo in tralice “Mi dispiace.” disse più piano “Sono diventato insopportabile, è solo che..” “Non ti preoccupare.” non erano questioni che la riguardavano, ma Juliet si sentì in dovere di interromperlo. Bloccò le sue parole con un dito sulle labbra. “Lo fai per una buona causa. Vuoi parlarmi di qualcosa?” Norfolk strinse più forte il braccio attorno alle sue spalle. Tremò. “Strano da parte tua chiedermelo. Credevo fossi troppo presa dai preparativi, per occuparti dei vaneggiamenti di un povero pazzo nostalgico.” “Preparativi?” “Il matrimonio di James.” Norfolk alzò un sopracciglio “Va tutto bene ?”

“Sì certo, ma…chi ha detto al marchese di Norfolk che è un povero pazzo nostalgico?” “Fai la spiritosa?” Norfolk si morse le labbra “Sei stata tu. Ieri poco dopo pranzo.Vieni, facciamo una eggiata.” Si addentrarono all’interno di un piccolo traforo di rampicanti verdi: alcuni avevano persino dato dei boccioli, ed erano boccioli di rose. Juliet squadrò bene Norfolk mentre gli camminava accanto: sembrava al più confuso, ma ignaro. Lei però non sapeva se dirgli o no la verità: non era sicura che Norfolk avrebbe retto il colpo, né che avrebbe capito; quindi vide bene di continuare a saggiare il terreno. “Hai scoperto qualcosa sulla maledizione?” “Niente di più di quello che già non sappia. È difficile reperire su Henry informazioni che non siano frammentate da leggende. Quelli che vorrei sono i semplici fatti, ma tutto ciò che lo riguardava sembra essere andato perduto.” “Non sono ati così tanti anni.” “Dio solo sa quanto tutto sia diventato vago da quando è arrivata la Piaga.” Norfolk si accese una sigaretta sottile. Rimase in silenzio mentre aspirava la prima boccata di fumo “Lo sapevi che a Londra è stato fondato una cosa che si chiama Ministero della Reclamazione?” Ma Juliet non aveva certo intenzione di cambiare discorso “Mathilda dove sapere qualcosa..” “Lo sai, Mathilda possedeva un senso che a molti è precluso.” Norfolk si rabbuiò “A lei era stato concesso il dono di vedere un’altra parte della realtà. Di guardare il regno dei morti. Ma poi si può parlare di dono?” “Era una privilegiata.” “Ed è stata dichiarata pazza.” rispose lui, laconico “A cosa serve vedere un’altra parte della realtà se poi nessuno ti crede?”

“La si tiene per se.” “È stato quando ha deciso di tacere che Mathilda è impazzita. È stata lasciata sola con i suoi fantasmi e alla fine ha deciso di uccidersi. Non è un suicidio, questo! È un omicidio legalizzato, Juliet.” “Dicono che fu colpa di Rodney Howard.” Norfolk scosse piano la testa “Zio Rodney non è che un disperato, come me, come lei. Mathilda è stata assassinata quando è stata internata ad Arundel, lontano da me che ero l’unico a poterla capire. Ci hanno divisi, Juliet. Insieme avremmo potuto pensare a un modo per distruggere la maledizione, per allontanare da noi l’ombra di Henry.” “Com’è avvenuto?” Juliet sentì sudore freddo lungo la schiena: non capiva come né perché stesse rivivendo un evento di più di un secolo prima nei panni di quella che aveva capito essere la moglie di Norfolk, né aveva idea di come potesse tornare indietro; ma già che c’era, voleva sapere tutto “Perché Henry ha dovuto fare tutto questo?” “Credo c’entri qualcosa con ciò che è avvenuto all’interno della torre dei corvi.” “Il giorno in cui Henry è morto?” Norfolk alzò le spalle “È la chiave di volta, l’unico pezzo che mi manca a completare il mosaico: eppure, per quanto l’abbia cercata, non l’ho mai vista.” sospirò “Buffo, vero? Posso intervenire sui sintomi ma non sulla causa del male. Sono patetico.” Nei suoi occhi c’era ione, ma era meno infuocata di quella di Victor. In Norfolk, Juliet avvertiva solo tanta pressione nostalgica. “Una testimonianza importante però” continuò a parlare il marchese “parla di una torre nascosta appena fuori dal castello. E quella torre non è stata murata, né è crollata come supponevo. Semplicemente non si vede.” vedendo che Juliet seguitava a non capire, le carezzo una guancia con un mezzo sorriso “Compare solo a determinate persone in determinati periodi della loro vita: devono essere bambini o in procinto di morire.”

“Tu sei cresciuto qui, allora l’avrai vista.” Juliet aggrottò le sopracciglia. Norfolk scosse la testa “Non lo ricordo. La torre è visibile nei primi tre anni di vita, età di cui generalmente non conserviamo che un vago sentore. Arrivati in età adulta la maggior parte delle esperienze che ricordiamo di aver fatto in quell’arco di tempo è fittizia o corrotta, com’è che ti chiami davvero?” La domanda la colse impreparata. Juliet sobbalzò e fece un o indietro di scatto. Nello stesso momento, un refolo di vento le o sulla nuca facendole rizzare i capelli “Cosa dici? Sono tua moglie.” “Ti prego.” Norfolk alzò un sopracciglio: era chiaro che aveva mangiato la foglia “La Contessa di Rochester sa che sono cresciuto ad Arundel. Allora?” “Non ha senso continuare a mentire. Mi chiamo Juliet Black. Sono una tua parente...parecchio alla lontana.” spiegò Juliet molto piano, tenendo gli occhi bassi “Vengo da un altro secolo.” Se voleva attirare l’attenzione di Norfolk c’era riuscita; ma si era aspettata un urlo, l’incredulità del suo interlocutore: non certo che lui la afferrasse per le braccia. Il viso di Norfolk era a una spanna dal suo: Juliet notò che le pupille erano dilatate; era eccitato, come se per tutta la vita avesse atteso un momento simile. “Dal futuro, non è mai venuto nessuno dal futuro! Dimmi tutto, che notizie mi porti? Sono riuscito a distruggere Henry? Cosa vuole veramente?” “Speravo che a queste domande potessi rispondere tu a me.” Juliet sospirò delusa. E deluso fu anche Norfolk “Se Henry esiste ancora nel futuro, come hai potuto pensare di trovare risposte dal ato? Dunque è così…” alzò gli occhi verso il torrione più alto del castello, dove ondeggiava la bandiera degli Howard “Alla fine fallirò anch’io. Non spezzerò la maledizione. Non sarò che uno dei tanti illusi che hanno tentato.” “Mi dispiace.” Juliet si scostò dalla presa di Norfolk “Io vengo dal 2103. Ho visto Henry, ma non so quali siano le sue motivazioni: lui non me le ha spiegate.

Però ho letto il biglietto che ti ha lasciato Mathilda.” Norfolk non le rispose. Ormai non la guardava più, si mordeva in silenzio il labbro inferiore. Juliet non si dette per vinta “Una maledizione si perpetua fino a quando c’è qualcuno a crederci. Hai idea di cosa significhi? Nel tuo diario dicevi di sì, ma..” “Non è semplice.” Norfolk riprese a camminare per il giardino. Juliet non ebbe altra scelta che andargli dietro “Gli unici che sono a conoscenza della nostra maledizione siamo noi Howard e gli abitanti più antichi di Norwich. Gli altri non vedono che al di fuori dell’incantesimo, non capiscono la correlazione tra le morti precoci delle nostre mogli, le scomparse o la follia dei nostri figli cadetti, la perdita di tutto ciò che è caro. E alla fine? Alla fine, Juliet, ne rimarrà solo uno. Siamo sempre di meno, abbiamo perso intere parti di famiglia affogate nel baratro della corruzione e, quando è accaduto, Henry era sempre lì.” “Ma allora…se non ci fosse più peccato..” “E che tipo di uomo è, chi raggiunge tanta purezza?” le rispose Norfolk con un sorriso amaro “Forse ancora più impuro e disumano di un peccatore.” “Ma allora cosa hai intenzione di fare?” Norfolk alzò le spalle “Forse aveva ragione Mathilda: non c’è scappatoia, dobbiamo solo accettare. Mi dispiace tu abbia viaggiato a vuoto.” Un fruscio di vento dalle colline attorno Norwich fece piegare gli steli delle rose nel giardino. Juliet sentì le guance sferzate dalla brezza fredda e, forte, il desiderio di piangere. “Non ho chiesto io di venire qui. E comunque, perché tu lo sappia, Norwich non esiste più. Sarai tu a guidare i superstiti a Londra quando questa città verrà colta dalla Piaga.” Una vasta gamma di espressioni ò sul viso di Norfolk. Solo dopo qualche secondo, il nono marchese di Norfolk annuì “Grazie per avermi avvertito. A questo punto ti chiederei quanto manca alla mia morte, ma non sono sicuro di volerlo sapere.”

“La curiosità è umana.” “Ma uccide.” concluse Norfolk con uno dei suoi sorrisi a mezza bocca “Questa conversazione è stata proficua. Mi dispiace tu non possa dire lo stesso, Juliet Black.” “Tutt’altro. Sono felice che riuscirai a salvare gli abitanti di Norwich.” Norfolk si mise accanto a lei “E ora?” “Mi chiedo cosa possa essere successo alla torre.” Juliet si rabbuiò “Se solo riuscissi a trovarla…” Norfolk stava per risponderle ma, in quel momento, Juliet sentì uno strappo all’ombelico. Serrò gli occhi e si raggomitolò su se stessa: si sentiva arpionata, come se qualcosa la stesse risucchiando. Strizzò gli occhi per il dolore. Quando tutto finì e le si schiarì la vista, di fronte a Juliet c’era Henry, con le sue orrende deformità. Attorno a loro, il buio. “Hai conosciuto uno dei fantasmi di Norwich.” gracchiò il signore dei corvi. “Sei stato tu?” gemette Juliet. “Forse.” “Pensi che servirà a qualcosa? Pensi che smetterò di cercare di rompere la maledizione?” “A cosa servirebbe, dal momento che non esiste alcuna maledizione?” Henry era orribile a vedersi, il becco che si apriva e chiudeva producendo suoni solo vagamente umani. “Perché ci tormenti? Possiamo morire anche senza di te.” Juliet scattò in piedi, era furibonda “Possiamo esistere anche senza di te.”

“Capirai, capirai presto.” Henry inclinò la testa di lato. “Cosa? Cosa capirò?” Juliet era al buio e voleva uscirne. Tutto quello che riusciva a vedere era la figura del signore dei corvi, una figura che la disgustava e terrorizzava. “Ciascun Howard ha Norwich nel cuore: la porterà sempre con se ovunque vada, e se scappa Norwich lo troverà. Puoi mettere il mondo a ferro e fuoco, ma non puoi combattere con ciò che hai dentro.” spiegò Henry “Non puoi combattere contro il potere del sangue. Per questo servo io.” Juliet non capiva il senso delle parole di Henry. Ma sempre più cosciente che nel buio ci fosse qualcosa che non andava. Quando si rese conto di cosa, era troppo tardi: quella in cui era immersa, non era oscurità, ma centinaia di migliaia di corvi che volavano in circolo attorno a lei ed Henry. Adesso riusciva ad avvertire il fruscio delle ali: i corvi si avvicinavano sempre di più. Juliet ne sentiva il frullo, il vento contro le braccia. Tra lei e Henry caddero piume nere. Il signore dei corvi aprì il becco per raccoglierne alcune che ingurgitò. Juliet urlò di orrore: seppe che sarebbe stata coperta dai corvi; i loro gracchi le sconquassavano le orecchie “Che cosa mi stai facendo?” “Hai dormito abbastanza.” Henry aprì il mantello: Juliet vide che la pelle bianco marmorea del petto era sbocconcellata, aperta in più punti, e tanto bianca da confondersi con le ossa che si intravedevano tra le beccate mortali inferte dai corvi “Svegliati Juliet, lui non dorme mai.” I corvi la circondarono. Juliet serrò gli occhi e sentì le loro ali, i becchi e le zampe artigliate sulla pelle: fu come se le strapero ogni organo, come se le tirassero via lembi di pelle.

Urlò come non aveva mai urlato prima. Un istante dopo era tutto finito: si svegliò di soprassalto. Di fronte a lei, la finestra la informava che su Norwich era scesa l’oscurità. La gamba le bruciava nel punto in cui Dem l’aveva ferita. Juliet si alzò in piedi e uscì velocemente dalla stanza: non aveva molto tempo, voleva scappare e il più velocemente possibile.

Capitolo XXIV: Un veloce cambio di prerogative

Dem girava per i corridoi del castello: non c’era una stanza che non avesse perlustrato alla ricerca di ricchezze da rivendere; poi, era del parere che fosse meglio conoscere ogni angolo delle quattro mura in cui ci si rinchiudeva: per nascondersi meglio. E qualcosa diceva al dhampir che presto l’avrebbe dovuto fare. Teneva i sensi affinati da quando era salito sul treno. Annusò l’aria e rinvenne l’inequivocabile olezzo della paura. Si infuriò quando capì che ad esserne impregnato era proprio lui. “Maledizione.” ringhiò; gli mancò il respiro quando prestò attenzione all’oscurità che avvolgeva il corridoio da parte a parte e si accorse che si avvicinava qualcuno. Il cuore cominciò a rimbombargli, sordo, per le pareti della cassa toracica. Dem non parlò, si limitò a puntare il fucile mentre arretrava a distanza di sicurezza. “Non sparare.” La voce era maschile, ma con gioia di Dem non si trattava di suo padre: a venire fuori fu una persona con i capelli bianchi, vestita tutta di nero “Voglio sapere qualcosa da te.” “Che cazzo vuoi?” Dem fiutò l’aria attorno all’uomo: sentiva il pericolo, ma non proveniva da lui. Fece un altro o indietro, gli occhi puntati verso il suo interlocutore. La bestia era braccata, la bestia era in pericolo “Dov’è Juliet?” chiese Damon Black. Sorrise a labbra strette. “Per chi cazzo mi hai preso, per il tuo fottuto informatore?” sbottò Dem: non gli importava di chi fosse quell’uomo, né di cosa volesse da Juliet. Che morissero tutti e due, che andassero all’Inferno.

Quell’uomo lo stava rallentando: Denis l’avrebbe trovato. Damon gli allungò una sterlina d’oro “Il mio informatore? Forse lo sei.” Gli occhi gialli di Dem luccicarono “Stanza dell’albero, scala est.” “Grazie.” Damon gli lanciò la moneta e, con un fruscio del mantello, superò il dhampir verso la direzione che gli era stata indicata “Che tu possa trovare la pace.” “Cosa?” “Quella con tuo padre è stata una proficua collaborazione.” E, con un ultimo sorriso a labbra strette, Damon Black scomparve. Allora Dem lo sentì forte: l’odore di sangue e bile di suo padre. Era stato stupido, quell’uomo l’aveva condotto da lui. Adesso era davvero in pericolo. “Hai paura?” Questa volta la voce era proprio quella di Denis Plant: Dem cercò di capire da dove provenisse, ma tutte le mura sembravano parlare. Aprì la bocca, atterrito, i canini mostruosamente estratti; poi lasciò cadere il fucile e cominciò a correre. ** Victor ascoltava le unghie dei due animati che, fino a qualche minuto prima, erano stati Leicester e il suo servitore: le loro unghie grattavano sul lastricato e venivano verso di lui. Victor avrebbe voluto affrontarli; ma era steso su un tavolo di pietra e non riusciva a muovere che un braccio. Il resto era rimasto paralizzato dalla botta. La vista gli si schiarì. Ottimo, pensò mentre una furia animalesca si impadroniva di lui, potrò guardare le due fecce che mi mangeranno il cuore! Bella consolazione!

Era davvero tutto finito? Proprio ora che l’esperimento era pronto per essere avviato? Il corpo che avrebbe dovuto far da involucro all’anima di sua moglie non era che a un o da lui, che invece era su un freddo tavolo di pietra in attesa della morte. No! Doveva trovare un modo per uscire da quella situazione. Gli animati erano lenti, ma Victor non avrebbe avuto che venti secondi di vantaggio: si sentì come il protagonista di un racconto di Poe; un condannato in bilico tra sonno e veglia. Quando apriva gli occhi, il pendolo scendeva inesorabile dal soffitto; quando dormiva, la tortura smetteva per riprendere solo da sveglio. E il pendolo era sempre più vicino al suo stomaco. Victor si guardò attorno: sulle scaffalature c’era una dose di adrenalina. Se fosse riuscito a iniettarsela sarebbe scattato in piedi senza badare al dolore. Victor ondeggiò fino a cadere giù, la faccia premuta contro il pavimento freddo e duro. Gli animati erano dietro di lui. Si trascinò per qualche metro, cercando di muovere l’unico braccio che poteva usare: il suo corpo era come morto. Tese il braccio e avvertì dolore. Quello che era stato il servitore di Leicester era quasi addosso a lui. Victor si frugò in tasca: ringraziò di tenere sempre una scorta di fuoco alchemico. Stappò la linguetta con i denti e lanciò l’ampolla contro l’animato: immediatamente, le sue vesti sprizzarono fiammate smeraldo. Il morto gorgogliò cadendo indietro: si contorse.

Chissà se riesci a capire che la tua non vita è finita ancor prima di cominciare? , pensò Victor, mentre si reggeva alla scaffalatura, le gambe inerti. “Adrenalina, adrenalina..eccola.” Gettò a terra molte ampolle; non aveva il completo controllo della mano che, alla fine, si chiuse sulla siringa con un ringhio di soddisfazione: ne aveva preparata una in caso servisse a Helena per alzarsi in piedi a esperimento concluso. Victor si portò la siringa al collo e iniettò endovena; tenne gli occhi socchiusi, e una scarica lo attraversò da capo a piedi. Ringhiò, più che respirare. Un attimo dopo, Victor era in piedi, il dolore scomparso. Le fiamme verdi si estinsero. Leicester arrancò verso di lui, la lingua nerastra penzoloni sul viso giallognolo e le unghie tese per ghermirlo. Victor afferrò il bastone: aveva sempre odiato quell’inutile pomposo ignorante che gli aveva procurato solo guai. Non riusciva a credere di essere finalmente libero di colpirlo, di distruggerlo. Gli si avventò contro e, con la forza della disperazione, lo colpì alla cieca: perso tra furia e dolore, non riusciva a mettere per bene a fuoco il suo avversario. Quando si riprese, si rese conto che Leicester era ridotto ad una poltiglia sanguinolenta: le ossa sporgevano dalla sua carcassa, e quello che restava del suo corpo non era che un miscuglio di pelle e nervi che cercava ancora di ghermirlo. “Mi facevi schifo.” commentò Victor; aveva le guance e la camicia chiazzati di sangue. Torreggiava su di lui “Me ne hai sempre fatto. Ma non potrai dire che sono stato ipocrita: non te l’ho mai nascosto. Vuoi sapere perché, Leicester?” ringhiò “Perché tu rappresenti quello che mi ha sempre disgustato della società: tu sei stato un ipocrita, un inetto e un vigliacco. Fossi sadico, ti terrei qui a guardare il mio trionfo. Per tua fortuna, invece, non me ne frega niente.” Si chinò a segare la testa di Leicester: sangue scuro arterioso gli inondò le mani. Il camice si tinse di rosso, ma Victor non si fermò: non poteva rischiare altri contrattempi, poco importava cosa avrebbe detto alla famiglia del conte, una

volta tornato a Londra. Probabilmente avrebbe guardato Thomas Arwen, il figlio dell’inutile canaglia a cui stava staccando la testa, e gli avrebbe detto che suo padre se l’era cercata. Victor ringhiò perché la carotide era rigida da segare; ormai l’animato non dava che in deboli sussulti, così come il tizzone umano che prima era stato il suo servitore. Victor tornò da quello che sarebbe stato il corpo di sua moglie: lo fissò con amore, ò la mano sulle sue gambe. “Lo sai” sussurrò, mentre avvertiva il cuore calmarsi: i dolori tornarono, ma Victor rimase in piedi. Era imbrattato di sangue dalla testa ai piedi, ma vivo “se questo corpo non ti piacerà ti farò quanti più interventi possibile, Helena: tornerai bella come un tempo.” La mano di Victor salì dalle cosce al ventre; saltò le vistose cicatrici e si arcuò al aggio sul seno, disegnandone i confini. “Te lo prometto: tornerai a fare ciò che amavi. Niente ti verrà strappato, avrai la tua vita e insieme cresceremo Hermann.” Lanciò un rapido sguardo alla porta: doveva muoversi. Black aveva detto che, una volta trovata Juliet, avrebbe dato inizio al suo esperimento. Aggrottò le sopracciglia e si diresse al bastone galvanico: cercò le cariche e lo pose sul tavolo operatorio, accanto al cadavere. “Qualunque cosa accada, non permetterò che ti facciano del male. Questo è il nostro momento, nostro e di nessun altro.” Mi fido di te, rispose la voce di Helena nella sua testa. Victor annuì: carezzò i radi capelli del cadavere. “Ti amo.” rispose. Si chinò sulla creatura, la baciò sulle labbra “Ora vivrai.” Controllò la carica della macchina: ancora pochi minuti e tutto sarebbe stato perfetto.

Poi udì i cadenzati che scendevano le scale; Juliet entrò correndo nel laboratorio. Era scarmigliata, il viso imbrattato di sangue. “Devi aiutarmi.” esclamò lei, il tono isterico “Qualcuno mi insegue! Me l’ha detto Henry , credo sia Dem, ha cercato di..di..” le mancò la voce; piangeva. Victor non si stupì di quello che stava pensando: che non gli importava niente della sorte di Juliet. “Esci.” mormorò. La ragazza quasi inciampò sul corpo di Leicester, che non aveva notato subito. Sbiancò per il disgusto “Ma cosa..” “Vattene.” questa volta Victor ringhiò “Comprometterai l’esperimento.” Juliet scosse piano la testa mentre arretrava “Ti prego! Dem sta cercando di uccidermi, lui mi ha spinto contro il muro e..” “Idiota.” sbottò Victor; batté una mano sul tavolo operatorio “Vattene via.” Juliet era in evidente stato di choc, ma non sembrava intenzionata ad andarsene “Ti prego, ascoltami! C’è Henry qua in giro, credo voglia portarci tutti via, dobbiamo fare qualcosa per fermarlo!” Victor afferrò un bisturi e se lo ò da una mano all’altra. Le unghie erano listate di sangue e sporco “Io non mi muovo da qui, venisse anche il diavolo in persona.” “Ma non puoi lottare contro di lui.” gridò Juliet “Non è giusto strappare uno spirito alla morte, non è giusto! È Henry che comanda qui, è lui che decide chi muore e chi vive.” “Che lo venga a dire a me.” ringhiò Victor. “Ci stai trascinando nel baratro.” Juliet cadde in ginocchio ai suoi piedi “Ascoltami..zio. Io sono la figlia di Damon Black, faccio parte della famiglia: ho visto Henry come lo vide Mathilda. È colpa di Henry se è successo tutto questo. Se tu ridai vita a quel corpo, ci distruggerà tutti, non capisci?” Victor non rispose: già non gli prestava più attenzione.

Juliet si attaccò a un lembo della sua camicia sozza di sangue “C’è una torre, la torre dei corvi! Dobbiamo cercarla: lì avremo le risposte! Se mi aiuti, tutto questo potrebbe finire per sempre.” “Vattene. Subito.” la voce di Victor aveva di nuovo cambiato tono: ora era gelida. La mano si strinse convulsamente sul bisturi. “Victor..” Juliet si frappose tra lui e il tavolo operatorio. Victor la spinse via con forza “Non provare a metterti tra me e mia moglie.” urlò. Juliet si tirò indietro “Non lo fare.” Era sconvolta, fuori dal castello si sentiva il gracchiare dei corvi: non era una sua impressione, erano circondati. Henry li stava stringendo nella sua morsa, e lei non poteva farci niente. “Stai firmando la nostra condanna a morte.” “Morirai subito, se non esci adesso.” rispose Victor. Juliet guardò prima lui, poi il bisturi nella sua mano: capì che doveva andar via di lì subito. “Troverò un modo.” balbettò, più a se stessa che a lui “Troverò un modo, lo so.” Victor le dava le spalle. Juliet sentì l’impulso di correre da lui e abbracciarlo: era un desiderio morboso che non riuscì a comprendere, lo stesso che avvertiva tutte le volte che vedeva che qualcuno era triste; ma sapeva che sarebbe stato inutile. Il tormento di Juliet stava proprio nel fatto che non era lei a poter rendere felice l’uomo che aveva di fronte; e questo la faceva impazzire e, insieme, la attirava a lui. “E, Victor..” sussurrò. “Cosa? Cosa? Cosa?” ringhiò lui senza nemmeno girarsi. Juliet era giunta all’imboccatura delle scale “Ti amo.” Poi corse via, lasciandosi il laboratorio alle spalle.

Capitolo XXV: La torre dei corvi

Juliet corse fuori dal laboratorio. I suoi i rimbombavano nei corridoi vuoti della magione dei Norfolk; la ragazza si portò verso la sala d’ingresso e poi dritta all’uscita. Voleva scappare e raggiungere il treno. Voleva tornare a Londra, a casa sua. Imboccò il vialetto per scendere la collina sulla quale sorgeva la magione, quando si fermò: dinanzi a lei si proiettava una nuova ombra, lunga e oscura. Quando Juliet alzò lo sguardo non ebbe dubbi: la torre dei corvi era proprio davanti a lei, oblunga, storta, sfocata come se la stesse vedendo dietro un velo patinato. Non sentiva più il battito del proprio cuore: ormai a cosa sarebbe servito dargli ascolto? Solo i bambini e le persone in procinto di morire possono vedere la torre dei corvi.. Juliet aveva varcato la soglia della paura e sapeva di avere le ore contate: tutto quello che voleva era sapere a che gioco Henry stesse giocando. Salì di corsa le scale della torre: alla fine, si trovò all’interno di una stanza la cui unica finestra era stata murata. Si guardò attorno: non vide che un mozzicone di candela per terra e un mucchio di stracci neri ammassati in un angolo. Sentì freddo e si strinse nello scialle; quando abbassò lo sguardo, si rese conto che stava camminando su un tappeto di piume di corvo, nere come la pece. Tra gli stracci, invece, biancheggiava qualcosa di fin troppo simile alle ossa di una mano umana. Trattenne il respiro: afferrò i lembi degli stracci e li tirò con decisione verso l’alto. Con un violento scrocchio di ossa che sbattono le une contro le altre, sotto quel sudario improvvisato, Juliet rivelò uno scheletro.

La colonna vertebrale era oscenamente arcuata: ricordava il dorso di un dinosauro più che quello di un essere umano, e terminava in un teschio piccolo e compatto. Le orbite erano vuote come due pozzi oscuri e profondi. Juliet si tirò indietro: tremava. Quello attraverso cui stava guardando non era un cranio svuotato. Era il vuoto. “Vorrei solo sapere perché.” sussurrò. Un attimo dopo, quella stanza era cambiata: le piume di corvo erano scomparse; al loro posto c’erano grandi voliere piene di corvi. Gli uccelli non sembravano far caso a lei che , le spalle frementi, si voltò per scorgere una figura. Dall’altra parte della stanza c’era un Henry d’aspetto umano: era gobbo, vestito di uno sdrucito saio nero. Aveva i capelli ricci, neri come la pece, e la pelle chiara così sottile che pareva potersi rompere da un momento all’altro. Henry aveva occhiaie fonde; la sua bocca non era più di un taglio sulla faccia. “Henry?” Juliet lo chiamò e lui non si voltò: per qualche ragione non poteva sentirla. Henry aveva un’aria grave; era chino a cercare qualcosa all’interno di un baule: una croce dalle punte di metallo. Si tolse la tunica esponendo il torace e la schiena deformi. Le ossa della colonna vertebrale premevano sulla pelle fragile. Henry si inginocchiò: Juliet lo sentì mormorare preghiere incomprensibili mentre premeva sulla pelle con il bordo affilato della croce. Il tono si alterò di poco, come se non provasse davvero dolore. Juliet si morse le labbra vedendo i segni rossi sulla pelle squarciata di Henry. Lui continuò la tortura fino a quando le gocce di sangue che gli scorrevano lungo il corpo non raggiunsero il pavimento di pietra. Solo quando ai suoi piedi si

formò una pozza, Henry poggiò la croce sulle labbra, in un silenzioso bacio. Poi la ripose delicatamente dentro il baule. “Hanno bisogno di un pastore.” esordì mentre era ancora in ginocchio. Juliet non sapeva se si stesse rivolgendo a lei, ai corvi o a se stesso. “La mia famiglia è preda delle perdizioni da sempre, e oggi più che mai.” Henry si rialzò. Si avviò zoppicando verso l’unica finestra della torre “ Il mio corpo è fragile, sì, ma non lo è il mio spirito.” Chiuse la finestra con tutta la forza di cui disponeva; poi si avvicinò alla prima delle quattro grandi gabbie. Ne aprì la porticina con uno scatto. “ A volte è necessario un sacrificio affinché gli altri possano essere guidati lungo la retta via. Qualcuno deve subire le pene dell’inferno per salvare le persone che più ama.” I corvi sciamarono in circolo fuori dalla voliera mentre Henry apriva la seconda, e poi la terza. “Per permettere a Gesù di compiere il suo destino, era necessario il sacrificio di Giuda.” Per un lungo attimo, i corvi sembrarono calmarsi. Si addensarono fuori dalle voliere e fissarono Henry. che nel frattempo aveva aperto la quarta gabbia. “I veri martiri sono quelli che nessuno conoscerà come tali.” Il gobbo aprì le braccia, e Juliet capì. I corvi non stavano guardando un amico. Scrutavano la preda. Gli uccelli planarono su di lui e lo avvalsero in una nube nera. Tra il gracchiante frastuono delle ali e l’osceno rumore dei becchi, Juliet poté chiaramente sentire, per alcuni secondi, le preghiere che Henry elevava a Dio mentre veniva divorato vivo.

“Così sia.” furono le sue ultime parole. Quando i corvi si scostarono, di lui non rimaneva che lo scheletro. Juliet fece qualche o indietro: non sapeva cosa pensare ed era vinta dal disgusto. Non si meravigliò di sentire la presenza di Henry, dell’Henry mostruoso, alle sue spalle. “Hai capito, adesso.” non era una domanda “Gli Howard sono benedetti e io sono il loro custode, colui che condurrà tutti loro alla redenzione quando anche l’ultimo avrà lasciato la sua spoglia mortale.” “Sei uno psicopompo.” “Forse.” Henry teneva il becco basso “Io non giudico i vostri peccati: mi limito ad accompagnarvi lungo la vostra vita. Mi vedete quando siete bambini, ma poi iniziate a negare la mia esistenza e vi avviate lungo una via di perdizioni più o meno grandi e terribili. Ma quando il vostro tempo sta per giungere” gracchiò “ tornate tutti qui. Da me.” “Facciamo tutto da soli.” sussurrò Juliet. “Sì.” “Per via dei nostri peccati.” “Sì.” Juliet si voltò verso Henry “Cosa devo fare?” balbettò. Henry chinò la testa di lato “Adesso devi correre. Juliet: i fantasmi di Norwich ti stanno aspettando.” “Cosa succederà a Victor?” Henry le dava già le spalle “Esiste un solo un modo per salvare la propria anima, e tu non fai parte della redenzione di Victor: non puoi fare niente per lui.” “E a chi spetta la redenzione di Victor?”

“Ad un’anima che lui stesso ha voluto separare da se con un muro più spesso della pietra.” rispose Henry. “Helena?” “No. Suo figlio.” Juliet si diresse all’imboccatura della scala a chiocciola “Chi mi sta cercando?” Gli occhi di Henry erano terribilmente grandi e acquosi “Va’.” Juliet seppe che poteva essere completamente sincera, perché di fronte alla morte non c’era altra scelta “Cercherò di scappare.” “Lo so.” anche Henry era sincero. “È umano.” “Lo so.” “Fa male morire?” “Sì.” Gli occhi di Henry erano imperscrutabili; Juliet si rese conto che era impossibile cercare di sondare i suoi pensieri, sempre che ne avesse. Era all’imboccatura delle scale quando si voltò ancora verso di lui: trasalì, non riusciva ad abituarsi a quella testa di corvo, era mostruosa. “Perché mi hai permesso di vedere?” “Perché era quello che volevi.” “Mi hai tolto la speranza.” disse Juliet. “Anche Norfolk me lo disse, quando arrivò il suo momento.” gracchiò Henry “E io gli risposi che allora non avrebbe mai dovuto chiedere.” “Ci sarai quando morirò?”

Juliet non voleva andar via dalla torre, e questo era palese a lei e pure a Henry. “Io ci sono sempre, per tutti gli Howard. Sono io che vi conduco alla fine.” gracchiò “Nessun Howard muore solo.” Juliet non aveva più bisogno di alcuna risposta, le aveva avute tutte: scese le scale. Di fronte a lei c’erano il castello di Norwich e il suo destino.

Capitolo XXVI: Fine della caccia

Solo i suoi i lo accompagnavano per i corridoi vuoti e spettrali della magione. Tutte le porte erano chiuse, ed ognuna poteva celare il suo nemico. I suoi sensi erano affinati al massimo, le pupille e le narici oscenamente dilatate. Dem sapeva che non sarebbe bastato. “Hai paura ?” La voce di suo padre era simile alla sua, solo più acuta. Dem sfondò una porta con una violenta spallata. “Un maledetto sgabuzzino.” urlò senza fermarsi. Continuò a correre, saltò scope e rastrelli abbandonati da tempo, e si lanciò dalla finestra. Atterrò con una capriola e si voltò. Lo vide. “Hai paura ?” Denis Plant aveva il volto affilato, i canini estratti e il sorriso malato. Dem ricominciò a correre: non importava dove, contava solo la corsa. Finché correva, finché poteva farlo, era vivo. Vedeva le cripte, alte e cupe. Ne aprì una con un calcio, e poi saltò dietro una siepe. “Un buon diversivo.” pensò. Non ansimava, tratteneva il fiato come un gatto, e affinò i suoi sensi: suo padre era vicino. Troppo vicino. “Hai paura.” Questa volta non era una domanda.

Dem fece appena in tempo a gettarsi di lato per evitare un colpo di spada che tranciò in due il cespuglio. Rotolò a terra ed estrasse la lama: non parlava, non c’era niente da dire. Dem si scagliò contro il suo avversario con cieca ferocia. Un fendente a cui subito dopo seguì il rumore dell’acciaio che sbatteva contro l’acciaio; le lame sfrigolavano mentre Denis, con forza bestiale, cercava di sbilanciare il suo avversario. Dem saltò indietro appena in tempo per evitare un affondo. Stava prendendo le distanze, indietreggiava. “Sono sulla difensiva. Sono fottuto” “Sento la puzza del tuo terrore, figliolo.” “Lo odio.” Accecato dalla rabbia e dalla paura, Dem si lanciò ancora all’attacco. Suo padre si spostò di lato e, di colpo, fu alle sue spalle. “Oh cazzo” Dem si voltò di scatto. Un guizzo d’argento alle sue spalle, Denis Plant era veloce con la sua spada. Un istante dopo, la gamba di Dem cedette. Il dhampir sentì il sangue colare lungo la coscia. “Fine della corsa, figliolo. Ora fammi vedere cosa sai fare.” I canini di Denis erano mostruosamente estratti; la sua lama, sporca del sangue del figlio. Mi ucciderà.” Dem strinse i denti. Restò immobile e lasciò cadere la spada. Sentiva il risucchio familiare che emetteva suo padre quando respirava: artificioso e disgustoso, ricordava quello di una pompa o di un soffietto per il

camino. Lo odiava: odiava tutto di lui. “Ma come ? Hai già finito ?” Denis gli si avvicinò, la lama tra le mani: gliela ò sul volto, ma Dem non si mosse. Non era il momento. “Dì a papà che gli vuoi bene. Diglielo, e lui non ti farà del male, non troppo.” “Ti voglio bene, papà.” docile, un agnellino. Era così che doveva fare. “Bravo figliolo.” Denis si avvicinò ancora di più; adesso sentiva il suo alito: sapeva di bile e sangue “Ora prega papà di risparmiarti una lunga agonia.” “Papà..” Dem teneva sempre un coltello di scorta, proprio per momenti del genere “…Non ci mettere troppo a morire.” Il dhampir affondò il coltello. La pelle di Denis era morbida, malgrado tutto. “Bastardo!” Le mani di Dem erano piene di sangue; la lama, conficcata nel petto di suo padre. “Parla ancora, quindi ho mancato il cuore. Sono morto.” Dem estrasse il pugnale; lo conficcò nuovamente dentro. Sentì altro sangue, questa volta a schizzi, sul viso. Era come acido. Il dolore lo accecò: il sangue gli colò sugli occhi. Affondò la lama senza pietà. Una volta, due, tre volte. E ancora. E ancora. Rotolò nella polvere. Scostò il sangue dagli occhi. “Ho bisogno di sangue.”

Dem si guardò intorno: il corpo di suo padre stava già diventando polvere. “Devo raggiungere Juliet.” Cercò di mettersi in piedi, ma la gamba cedette. “Perdo troppo sangue. Maledizione.” Allungò le mani: cercava qualcosa per tamponare la ferita. Dem sentì il frusciare di una tonaca. Annusò l’aria. Nessun odore. Si voltò. Alle sue spalle, una figura vestita di nero. Ma la vide solo per un istante: un fruscio, ed era scomparsa. Quando gli animali si rendono conto che è davvero finita, smettono di lottare: si accasciano e lasciano che la natura faccia il suo corso. Dem invece si alzò in piedi e cominciò a correre. Verso una cripta. “Dopo tutto, Dem, non sei un animale.” Era la voce di suo padre. La sentiva nel cervello. Dem entrò dentro la cripta. La fioca luce fu oscurata dalla figura in nero sull’uscio. Con una spinta secca ai cancelli di pietra, l’uomo gobbo vestito da monaco lo chiuse dentro. Nel buio.

Capitolo XXVII: La famiglia Black

Quando Juliet finì di scendere le scale fece qualche o verso il castello. Si voltò: la torre dei corvi era scomparsa. Al suo posto, la terra giallognola colta dalla Piaga. Ormai Juliet non poteva più tornare indietro; forse non aveva mai potuto. Si guardò attorno, ma non notò niente di diverso: nessuno le era alle calcagna, nessuno la attendeva. Cercò di riordinare i pensieri: Henry non aveva mentito. Chiunque fosse stato, il suo inseguitore sarebbe arrivato presto. Quindi doveva fuggire. Fece per scendere dalla collina, quando avvertì i alle sue spalle: dal portone principale era uscito un uomo in abiti e mantello da viaggio completamente neri. Notò che era pallidissimo: anche i capelli erano tutti bianchi. L’unica nota di colore erano gli occhi verdi e nervosi. “Figlia mia.” esordì l’uomo, avvicinandosi a lei. Juliet spalancò gli occhi: chi le stava venendo incontro era suo padre. Si chiese perché mai avrebbe dovuto volerla uccidere, eppure era questo che Henry le aveva detto. “Damon? Sei Damon Black?” “Somigli tanto a tua madre, la mia Mallory.” Il tono di Damon era acuto, venato da note di isteria. Solo pochi metri lo separavano dalla figlia. Tese le braccia “Potrai perdonarmi per averti abbandonato? Avrei tanto voluto starti vicino..” “Sta’ lontano.” Juliet scattò indietro, terrorizzata: negli occhi di Damon poteva cogliere venature di bramosia che non riusciva a comprendere, e questo la annichiliva “Non mi toccare.” “Sono tuo padre, Juliet! Non fare la sciocca, insieme potremo ridar vita a tua madre.”

“Cosa stai dicendo?” Juliet alzò un sopracciglio. Fece un o di lato. “Ti ho cercato per tutto questo tempo.” Il tono di Damon era di supplica: sembrava un padre preoccupato o un animale ferito, o entrambe le cose “Non sfuggirmi adesso, non ora: non sono stato mai così vicino alla realizzazione del mio sogno.” “Perché mi vuoi fare del male?” Juliet continuò a camminare di lato, mentre Damon faceva i nella sua direzione. “Te lo giuro, non sentirai niente.” il tono di Damon cambiava: balzava da toni alti a toni bassi. Juliet capì che suo padre era pazzo: doveva fuggire, il più lontano possibile da lui. “Ti ucciderò, ma sarà una cosa temporanea. Dopo aver riportato in vita tua madre, insieme ridaremo vita a te. È una questione di priorità: lei è morta per darti la vita; adesso tocca a te ricambiare il suo sacrificio. Aiutami.” “Lasciami stare.” Juliet gli dette le spalle e corse, corse quanto più velocemente le consentivano le sue gambe martoriate: non avrebbe potuto continuare per molto, e lo sapeva; la ferita che Dem le aveva inferto bruciava terribilmente. Ma strinse i denti e continuò ad arrancare. Sentiva Black alle sue spalle: le stava alle costole. “Non scappare, non rendermi le cose più difficili di quanto non siano.” gridò suo padre. Juliet era braccata: non sapeva dove andare. Corse verso il labirinto che aveva visto nella visione con Norfolk, ma sembrava essere scomparso. I suoi i la condussero lungo la cinta muraria, verso un portone semiaperto sul retro del castello.

Piangeva e non aveva quasi più fiato: sapeva che correva ed era inutile; sapeva che stava per morire ma, come aveva detto Henry, scappare dalla morte era umano. “Bambina mia, ti prego, vieni fuori. Non obbligarmi a diventare cattivo. Non ti accorgerai di niente.” Damon svoltò l’angolo subito dopo di lei. Juliet si affrettò a imboccare una stretta via tortuosa che, scoprì, conduceva al cimitero degli Howard. C’erano cinque cripte disposte a semicerchio. Al centro, la statua del signore di corvo faceva da guardia. “Cosa devo fare?” sussurrò Juliet: guardò la statua, ma non ebbe risposta “Cosa devo fare?” Damon stava arrivando. Non aveva altra scelta che entrare nell’unico luogo accessibile, una delle cripte, l’unica aperta. Non trovò che tre troni vuoti e qualche lapide che non ebbe il tempo di leggere: molte lapidi erano sigillate senza avere sopra nemmeno un nome. Tranne un loculo, ancora vuoto. Juliet vi si infilò e chiuse la lastra di marmo dietro di sé. Poi rimase in attesa: Damon sarebbe arrivato presto. “Juliet, dove sei? Mamma ha bisogno di te.” Black entrò nella cripta. Juliet avvertì il suo stesso sudore: seppe qual era l’odore della paura, della disperazione di cui una volta le aveva parlato il dottor Wagner, a Stepney. Quand’era successo? Lei e Dem erano andati a prendere dei pezzi anatomici per Victor.

Juliet cercò di concentrarsi su pensieri che la portassero lontano dal loculo in cui era rinchiusa. Damon girò per la cripta; Juliet pensò che se non fosse andato via subito, a breve avrebbe rischiato di morire soffocata. I i di Damon si arrestarono “Buon vecchio Victor.” disse “Così è qui che riposerai. Te la prendi se ti rubo il posto sul tuo fottuto trono, almeno una volta? Tanto i morti sono tutti uguali.” Trascorse qualche minuto: Juliet respirava a fatica; il loculo era troppo stretto, presto sarebbe dovuta uscire e allora Damon l’avrebbe presa. Fu mentre faceva queste considerazioni che si rese conto di non sentire più il respiro di suo padre: dov’era andato? Lasciò trascorrere del tempo: non poteva dire quanto, forse pochi minuti; a lei erano parsi secoli. Quando finalmente provò a spingere la lastra di marmo per uscire, non ci riuscì. Provò, provò ancora, ma quella non cedette. Gridò: il suo respiro si faceva irregolare, affannato. Ricordò come una suora della Gilda le parlava della morte per soffocamento come della peggiore. Poi pensò a Mimì, all’orfanotrofio, alla prima volta che era entrata nella soffitta che per un po’ era stata il nido felice suo e della sua sorellina, un luogo ormai abbandonato nell’East End. Pensò all’odore dei biscotti appena sfornati, al sorriso della suora che si occupava di lei; pensò al tappeto da poco smacchiato di casa Howard. Non l’aveva ancora rimesso al suo posto. Probabilmente nessuno l’avrebbe più sistemato. Tutto questo le sembrava incredibilmente importante. Quando chiuse gli occhi era rilassata. Seppe che Henry era lì e quando, dopo aver annaspato in cerca di aria, i suoi polmoni gonfi di anidride carbonica cedettero, si rese conto di essere morta, e

che era davvero finita. Poco prima di chiudere gli occhi le sembrò di sentire il gracchiare di Henry che le sussurrava all’orecchio “Nessun Howard muore solo.”

Capitolo XXVIII: Helena

Niente avrebbe potuto distrarre Victor dall’esperimento. Il corpo era al centro del laboratorio, sul tavolo di pietra: Victor aveva già intinto le sue estremità di tintura di iodio e a ciascuna aveva attaccato un cavo conduttore di energia Tesla collegato alla macchina: quel cadavere immoto sarebbe presto diventato Helena. Victor avrebbe coronato il suo sogno. Aveva già posizionato il composto di zolfo e rubidio sul tavolo ed era pronto a berlo dopo aver imprigionato lo spirito di sua moglie all’interno della palla contenitiva che sfrigolava dentro la macchina. Si stava asciugando le mani con un panno sporco quando udì una voce alle sue spalle. “Ne sai una più del diavolo.” Damon Black avanzava verso di lui, sulle labbra un sorriso tremante. Tra le mani, stringeva un coltello seghettato. “Chi l’avrebbe detto che saremmo rimasti solo noi due?” Victor si muoveva freneticamente intorno al corpo: collegava cavi ai tendini e alle tempie della sua creatura; sentiva Helena fremere dentro di lui. Non rispose che con un ringhio. “Esatto” continuò Black “il conte, il dhampir, il padre del dhampir, la mia piccola Juliet. Tutti morti. Noi invece siamo ancora qui.” Victor continuò a lavorare: gli dava le spalle e lo lasciava parlare. Non doveva farsi distrarre; ogni movimento poteva risultare fatale al buon esito dell’esperimento. “Non sai quante volte ho visto questa scena.” Black incrociò le braccia sul petto, la voce si era fatta melliflua.

“Ti guardavo lavorare: ti muovevi, frenetico, in una strana danza che capivi solo tu. Eri terribilmente affascinante, circondato dai lampi bluastri delle luci galvaniche. Io ti ammiravo. Ti veneravo. Avrei voluto essere come te, non come nostro padre: lui non era che un mediocre.” Non gli importava di essere ascoltato o meno. Che Victor lo volesse o no, Demon Black gli avrebbe detto tutto quello che restava da dire, prima di farla finita. “Eppure tu non l’hai mai capito che volevo solo starti accanto, fratello; volevo imparare tutto il possibile da te e lavorare insieme, fianco a fianco. Volevo che mi svelassi tutti i misteri della tua mente, il perché tu eri così geniale e io così dipendente da ogni tuo movimento. Volevo ogni segreto, ma se cercavo una soluzione tu l’avevi già trovata, così !” schioccò le dita “Eri sempre un o avanti a me. Cercavo di raggiungerti, e invece mi trovavo sempre solo.” Victor sentiva la sua voce alle spalle, sempre più vicina: serrò una mano sul bastone galvanico che aveva posto accanto al cadavere. Si preparò, i battiti del suo cuore erano tutto ciò che riusciva a sentire “Sai perché ero il preferito di papà, Victor?” continuò Black “Perché ero mediocre: ero il più debole, il figlio bastardo, l’unico a cui lui potesse insegnare qualcosa. E tu? Tu sei un genio. Gli facevi paura.” “Quando papà è morto mi hai cacciato di casa: pensavo che la mia vita sarebbe finita. Fu per miracolo che, a Stepney, incontrai mia moglie. Era una zingara, lavorava per un circo itinerante, un posto oltremodo squallido. Però io la amai dal primo momento.” “Poi anche lei morì nel dare alla luce la nostra Juliet. Io le parlavo tanto di te, lo sai, Victor? Le raccontavo spesso di mio fratello che voleva cambiare il mondo e rivoluzionare la scienza.” Victor sbuffò “Quel ragazzo non esiste più.” “Al suo posto c’è un uomo disperato. Un folle pericoloso, secondo alcuni; un semplice idealista, secondo altri.” Black si fermò a pochi i da Victor “Si cambia; si cresce: si affinano le

proprie arti. Anche io sono cambiato. Ho studiato da Machno, sai? Anche io sono disperato, folle quanto te.” La sua voce era isterica “Ma adesso siamo qui: di nuovo vicini, fratello mio. Tu e io, due anime corrotte e inscindibili, stesso sangue e stessa carne di nostro padre.” Black doveva fare ancora un o. Uno solo. “Stesso fuoco.” Victor si voltò: Damon sembrava pronto ad abbracciarlo. Il fratello maggiore sorrise al suo fratellino, e tese le labbra in un orribile ghigno quando la punta del bastone galvanico colpì Damon dritto nelle budella. Le urla di Black si mischiarono all’odore di urina e feci. “È così che se ne deve andare un bastardo come te.” disse semplicemente Victor. Poi gettò l’arma a terra e tornò a lavorare. ** “Fratricidio. È un crimine terribile.” A parlare era stata una voce gracchiante che Victor non conosceva. Si voltò a fatica per vedere chi fosse: da un angolo buio del laboratorio, come fosse sbucato fuori dall’oscurità, vide uscire un uomo gobbo avvolto in un lungo saio nero. Il cappuccio non lasciava intravedere alcun tratto del suo volto, ma Victor non aveva bisogno che si presentasse. “Mi chiedevo quando ti saresti fatto vivo.” sbottò “Mancavi solo tu, santone.” Henry si chinò di fronte al cadavere di Black; gli pose sugli occhi una mano bianchissima. Quando si rialzò, le palpebre di Damon erano chiuse. Il cadavere aveva assunto un’aria serafica e tranquilla. Per la prima volta, sembrava in pace. “Non ti chiederò di desistere dai tuoi propositi.” si avvicinò a Victor.

Lui lo respinse “Taci.” ululò di dolore: strinse le mani sulla sua macchina galvanica, come a volerla proteggere. “Riportare in vita uno spirito, Victor, legandolo a un corpo non suo, è la peggiore delle violenze che gli si potrebbero fare. La negazione di un ciclo naturale.” spiegò Henry. “I cicli si possono riscrivere.” “Sbagli.” disse Henry “Un ciclo non è che una sequela di eventi reiterati già scritti.” “Un ciclo può essere spezzato.” “Forse. Ma cos’hai tu di tanto speciale per farlo?” la voce di Henry era sottile e gracchiante. Victor la detestava. “Non sei poi tanto diverso dagli avi che disprezzi.” “Non mi interessa.” sbottò Victor alla fine “Ho sofferto per anni per arrivare fin qui; ora né tu, né chissà quale altro ripugnante spirito della mia famiglia potrete fermarmi.” “Tu non vai contro il loro volere, né contro Norwich.” disse Henry; per la prima volta, la sua voce si incrinò pietosamente “Tu vai contro l’ineluttabilità della morte.” “Taci!” Victor si girò di scatto, si trovò vicinissimo a Henry: credette di intravedere qualcosa di deforme sotto il cappuccio, ma nemmeno quello gli importava. “Si fottano Norwich, la morte, la mia famiglia. Fottiti anche tu.” fece per spingerlo via, ma la mano attraversò il corpo di Henry; per Victor fu come oltreare una corrente gelida. Ringhiò di dolore stringendo l’arto a se: non riusciva a muoverlo; il suo viso era una maschera di dolore.

“Devo finire il mio lavoro. Lasciami solo.” “Firmi la tua condanna.” “Di’ piuttosto che ricomincerò a vivere.” “A tuo figlio non pensi?” “Io posso” Victor saltò sul tavolo di pietra, collegò cavi alla macchina galvanica e a se stesso. Aveva aghi alle mani, ai piedi, e alle tempie. Ignorò il dolore atroce. Ignorò il sangue. “erà”, gli disse la voce di Helena, “erà tutto” “Io posso…pensare a mio figlio…” Si stese sul tavolo; tese la mano verso la macchina: doveva solo premere un tasto e bere la pozione accanto a lui “…e anche a mia moglie.” Guardò Henry come a sfidarlo: per la prima volta si sentì pazzo. Ma era sicuro, sicuro che alla fine avrebbe vinto lui. “Hai detto che Norwich decide chi vive e chi muore?” “Sì.” Henry era imibile. “Non più. Adesso lo decido io.” Victor bevve la pozione e premette il bottone. Scariche di energia bluastra si sprigionarono dalla macchina, corsero lungo i fili e raggiunsero prima lui, poi il cadavere. Sprofondò subito, schiena al tavolo, come in trance: nella sua mente, sconquassata da scariche elettriche, correvano immagini confuse. Non vedeva altro che il volto e la voce di Helena. Poi ricordò di un sogno che aveva fatto, un monaco aveva preso Helena, l’aveva portata via. Adesso invece stava vincendo lui.

Provò rabbia, gioia feroce e spasmodico desiderio, e li provò tutti insieme. Nessuno di quelli che gli si erano opposti era sopravvissuto: non riusciva a ricordare i loro nomi; sembravano così piccoli e poco importanti, in quel momento. Ricordava di un nobile, di un licantropo che lo odiava per qualche motivo, di un dhampir che lo aveva servito. Come si chiamavano ? Aveva importanza ? No. Quando le scariche cessarono, Victor stramazzò inerte per alcuni secondi. Godette solo del suo respiro. Non aveva la forza di guardare cosa avveniva alla sua destra, sull’altro tavolo operatorio. Con le poche forze che gli rimanevano, a occhi chiusi, cominciò a staccare gli aghi conficcati nel suo corpo. Victor tremava. Se l’esperimento fosse fallito, non sarebbe riuscito a perdonarselo. “Ghhrg…” Un rantolo; una voce che proveniva da corde vocali non utilizzate da troppo tempo. Victor spalancò gli occhi e balzò in piedi. Ruppe tutti i cavi: la sua creatura aveva gli occhi aperti e lo guardava con aria non completamente cosciente, un po’ spaventata. “Helena. Helena?” Victor si mise in ginocchio. Non poteva credere a quello che vedeva. “Tu ce l’hai fatta, Victor.” Le labbra della creatura erano ferme, ma sentiva ancora la sua voce, la voce della

sua Helena. Per un attimo pensò che qualcosa fosse andato storto; poi capì. “Non puoi ancora parlare. Ma il nostro legame è così forte che comunichi nella mia mente. Stai tranquilla, ti insegnerò tutto io, amore. Sei bellissima.” La creatura si ò una mano sui capelli radi: la cute costellata di cicatrici sembrò spaventarla. Emise un piccolo grido. “Possiamo lavorarci, amore mio.” Victor la prese tra le braccia “Ti darò un viso bello, il tuo viso. Ti fidi di me, non è vero?” “Mi fido di te.” Le labbra della Creatura non si muovevano, ma Helena riusciva comunque, in qualche modo, a comunicare con lui. “Ti porto al treno. Andiamo a casa.” La Creatura rantolava rincantucciata contro il petto di Victor, l’aria confusa e terrorizzata. “Oh, amore mio, avremo tempo per parlarne, ho così tanto da raccontarti.” Victor uscì dal portone principale, gli occhi solo per Lei. Se non fosse stato per l’urlo strozzato della sua Creatura, non si sarebbe neanche accorto delle decine di corvi che erano appollaiati ovunque, fuori dal castello di Norwich. “Victor Howard-Norfolk” A chiamarlo non era la voce di Henry: sembrava piuttosto che tutti i corvi avessero parlato insieme in un coro macabro e gracchiante. “Tu, l’uomo che sfidò Norwich; colui che si frappose al ciclo della vita e della morte macchiandosi della superbia di volerlo distruggere; tu sarai giudicato.” “Helena” la voce di Victor era flebile. Helena era stretta a lui “Ti fidi di me?”

La Creatura urlò di paura. Lui la abbracciò più stretta. Percepì le sottili vibrazioni di energia galvanica che la tenevano in vita: avrebbe fatto di tutto per proteggere il fragile corpo della sua Creatura. No, non era una Creatura. Era Helena. “Nessuno porta via un’anima dall’Oltretomba.” strillarono i corvi. Victor iniziò a correre nello stesso momento in cui gli uccelli planarono contro di loro. Erano troppi: presto gli sarebbero piombati addosso. Ma Victor non poteva permettere che fero male a Lei. Si guardò alle spalle, girò attorno al castello. I corvi dietro di lui sbattevano lungo i vetri rotti delle finestre gracchiando di dolore mentre i cocci recidevano piume e carne. Quando raggiunse le cripte, Victor era esausto. Helena non parlava da tempo. “Ora scegli, Victor Howard.” I corvi erano tutti sopra di loro, oscuravano il cielo su cui si cominciavano a disegnare, pallide, le luci del giorno. “Scegli se entrare e lasciare lei ai corvi. Scegli se rimanere.” “Lei non ha alcuna colpa.” ringhiò Victor. “Lei ha le Tue colpe.” fu la risposta da ogni lato. Victor seppe che non aveva altra scelta: con che coraggio avrebbe potuto veder morire la donna che amava più della sua vita, colei per cui aveva sacrificato dignità, rispetto, ricchezza e persino l’amore del suo unico figlio? “Tutto questo per i tuoi occhi; per riaverti indietro, amore mio. E credimi, lo

rifarei mille altre volte ancora.” le disse, perdendosi negli occhi terrorizzati della Creatura. “Salvati amore mio.” disse la sua Helena. A parlare non era quella Creatura, la voce proveniva dalla testa di Victor, che però non sembrò farci caso. “Salvati almeno tu.” “No.” Victor si strinse contro la Creatura. La sua stretta sicura sembrò calmarla: aveva la sua attenzione. I due si guardarono, fronte contro fronte. “Ho scelto.” “Rimarrai con me?” disse Helena, mentre il gracchiare dei corvi era sempre più vicino. “Sempre.” “Ti amo, Victor.” Non era la Creatura a parlare. Ma cosa importava? “Ti amo, Helena.” Victor baciò la Creatura. In quel momento i corvi piombarono su di loro, gli artigli protesi, i becchi ricurvi semiaperti. Loro due rimasero uniti nel bacio della morte. Le labbra scottarono. Victor sentì il dolore della sua pelle, già martoriata, che veniva graffiata via: la carne, i muscoli, le ossa erano esposte. Era proprio così: tutto veniva e tornava da Norwich. In quel momento non avrebbe saputo dire se soffrisse più per se o per Helena, o per la loro triste, oscura vita. Era impossibile comprendere dove iniziasse il suo dolore e dove quello della

donna che amava. Nel turbine nero di ali, Victor Howard pensò a Helena, stretta tra le sue braccia. Poi pensò a Hermann, pensò a suo figlio e si rese conto che l’avrebbe lasciato solo. Quando volle mordersi le labbra, si rese conto che non le aveva più. “Hermann..” Prima di chiudere gli occhi incrociò quelli della Creatura. Non era la sua Helena. Aveva fallito, di nuovo. Helena. “Hermann, perdonami..” ringhiò, stramazzando a terra.

Capitolo XXIX: L’incubo

Victor aprì gli occhi e si stupì di trovarsi nel suo laboratorio. Lo colse una sensazione di gelo: ricordò il gracchiare dei corvi che pasteggiavano con le sue carni. “Amore mio.” chiamò a voce alta. Non rispose nessuno, la sua testa era completamente vuota, i sospiri di sua moglie erano svaniti. “Dove sei?” Cadde in ginocchio, batté una mano sul pavimento e fu una sensazione strana: per un attimo gli parve di essere incorporeo, come a casa dei Deville. Esaminò la pelle e notò che pareva più viscida, rivestita di una sostanza traslucida. Sapeva cos’era: la certezza ineluttabile della fine lo attanagliò come una morsa. “Ectoplasma.” sillabò a voce bassa. Allora era morto davvero. I corvi si erano cibati della sua carne e di quella della Creatura. No, non era una Creatura. Era Helena. “Ma che senso ha?” battè ancora la mano sul pavimento di pietra: non ne avvertì la compattezza, né la freddezza “Perché sono ancora qui? Perché..?” E ricordò dei suoi ultimi momenti: si era reso conto del motivo per cui, adesso che Helena stava morendo, avrebbe dovuto continuare a esistere; per stare accanto a una persona che l’aveva atteso a casa e che per la prima volta avrebbe davvero voluto abbracciare e non poteva, non avrebbe più potuto. Che genere di padre sarò così? , pensò Victor con rabbia. La tua non è una condanna, una voce gracchiò all’interno della sua testa, e

Victor sapeva a chi appartenesse: era uguale a quella di Helena, identica a quella di Henry. Era la voce della sua follia. Victor rimase in ginocchio e capì che non avrebbe più sentito Henry fino a che non sarebbe tornato a prenderlo. C’era Hermann alle sue spalle, gli occhi colmi di sorpresa e un’ampolla in mano, fermo a metà dei gradini “Sei tornato.” disse. Era contento. “Sì.” Victor si affrettò ad alzarsi in piedi e non seppe cosa dire: avrebbe dovuto mantenere le distanze, Hermann non doveva sapere quello che era diventato. Hermann scese le scale di corsa e si fermò a pochi i da lui. Victor arretrò, avesse avuto ancora un cuore avrebbe battuto all’impazzata contro la cassa toracica. “Mi sei mancato.” disse Hermann “Ti voglio bene.” Il bambino tese le braccia e cercò di abbracciarlo, ma Victor fu veloce a tirarsi indietro, si rifugiò a un tavolo di distanza da lui e sentì qualcosa, un’ondata di gelo che si frapponeva tra lui e Hermann: anche suo figlio la sentì; le sue spalle tremarono e scosse piano la testa mentre abbassava le braccia. Fu come rendersi conto che c’era un muro tra loro e solo Victor sapeva che era il velo che divideva i morti dai vivi, il meno visibile, impossibile da superare. Lottò per non gridare di rabbia e fissò Hermann con l’espressione più dura che gli riuscì “Andiamo.” disse indicandogli il tavolo alchemico “È ora di metterci al lavoro.”

Cronologia di Londra dalla morte di Vittoria I (1901) al 2182

1901 Muore la regina Vittoria, Edoardo VII regna in Inghilterra.

1905 Primi casi di risveglio durante l’epidemia di spagnola che ha attanagliato l’intera Europa. I governi rispondono in maniera indecisa e contrastante mentre i risvegli diventano sempre più numerosi di giorno in giorno. Milioni di morti si animano in tutto il mondo. Gli esseri umani rimangono impietriti di fronte alla furia degli animati.

1906 Il tasso di risvegli triplica in gennaio per quadruplicarsi in marzo. Il morso degli infetti diventa contagioso. Milioni di morti in poche settimane. I grandi imperi iniziano a vacillare sotto la spinta di migliaia di animati.

1908 Edoardo VII muore e diventa il primo regnante risvegliatosi come animato. Edoardo VIII sale al trono senza venire mai incoronato ufficialmente. Regnerà sempre da Buckingham Palace, dove vivrà come un recluso in una Londra perennemente in fiamme.

1909 Dalle città sopravvissute in tutto Europa cominciano vari e sporadici tentativi di contrattacco. A Berlino l’esercito prussiano affronta orde di animati in una serie di battaglie campali che vedranno la morte dello stato maggiore, del Kaiser e di gran parte della famiglia reale. La Gran Bretagna resta inerme.

1916 Muore Edoardo VIII, Giorgio V diventa Re e insiste per essere incoronato nella distrutta abbazia di Canterbury. La situazione della Gran Bretagna è disperata: non esiste più una produzione industriale e le città sono quasi tutte completamente invase da orde di animati che spesso hanno eliminato qualunque essere vivente nel raggio di decine di chilometri.

1917 Giorgio V scioglie il parlamento e proclama l’Home Defence Act. Crea i reggimenti Deathwatch e ordina di distruggere gli animati con qualunque arma, a costo di bruciare con loro l’intera Inghilterra “Dobbiamo fermarli, a costo di regnare su un regno di cenere.”

1923 Vengono utilizzati estensivamente gli Zeppellin per gli sforzi di Reclamazione. Viene varato il Security Act che impone la distruzione di qualsiasi corpo infetto prima della morte, tramite il fuoco.

1925 Viene fondato il Ministero della Reclamazione, a capo del quale è posto il Re.

1931 Il sedicesimo reggimento Deathwatch, scomparso in azione nel Cumberland, viene ritrovato preda di orribili mutazioni. L’intero gruppo di uomini, costretto al cannibalismo, era stato infettato da una nuova forma della Piaga: erano stati scoperti i primi ghoul.

1933 Inizia la Reclamazione di Londra, che viene letteralmente distrutta quartiere per quartiere con armi esplosive, alchemiche e lanciafiamme.

1935 Il West End di Londra è reclamato, vengono alzate alte mura per proteggerlo mentre i primi cittadini, quasi tutti eroi della Reclamazione, vengono a stabilirsi lì. Molti di loro saranno successivamente insigniti di titoli nobiliari più o meno grandi per riempire gli enormi vuoti lasciati dalla Piaga nelle file degli aristocratici.

1941 Il professor James Ferd della London University propone per primo l'uso dell'energia Tesla.

1942 La North Side viene Reclamata interamente grazie all’aiuto dei ghoul, che si rivelano cacciatori di animati realmente dotati e quasi infallibili. Umani e ghoul collaborano fianco a fianco e molti quartieri del settore vengono lasciati ai ghoul.

1946 La prima Torre Tesla è completata nella city di Londra.

1948 Gli sforzi per la Reclamazione dell’East End sembrano inutili mentre dalle fogne e dall’abbandonata rete metropolitana sembrano fuoriuscire sempre più animati. I reggimenti Deathwatch vengono decimati.

1949 Un violentissimo Outbreak della Piaga mette in rotta i reggimenti Deathwatch dall’East End, gli animati sciamano ovunque. Il Duca di Norfolk James Howard, responsabile della disfatta, si sacrifica insieme al suo intero reggimento per permettere la fuga della famiglia Reale da Backingham Palace.

1950 Muore Giorgio V, risvegliandosi immediatamente come animato. Il funerale si tinge di sangue e il cadavere del Re viene massacrato dalle guardie della sua scorta. Sale al trono Anna II.

1959 Londra è interamente reclamata. Viene sciolto il ministero della Reclamazione e i Reggimenti Deathwatch vengono uniti in un nuovo corpo: La Deathwatch.

1961 Primi casi di Vampirismo. Gli studi sul campo sono pochi e sporadici a causa del bassissimo numero di infetti e della sfuggevolezza degli stessi.

1968 Muore Anna II senza risvegliarsi come animato. Sarà pianta per giorni dal popolo e sua figlia, Vittoria II, imporrà a Londra di tenere il lutto per un anno intero.

1971 Il Dottor F. Thompson studia per la prima volta approfonditamente i fenomeni del vampirismo.

1973-1986 I vampiri iniziano a diventare numerosi a Londra e molti sono i casi di abbattimenti e di omicidi. Viene formata la prima comunità vampirica che batte per dimostrare che i vampiri sono solo una derivazione dell’umanità e che vanno trattati alla stregua dei ghoul. Le discussioni in parlamento sono numerosissime e accese. Nei dibattiti, che continuano con comizi in strada, la violenza aumenta e gli scontri tra bande non sono infrequenti.

1986 A sorpresa il Parlamento vara una mozione che rende i vampiri pari agli umani in materia di diritto di successione e di famiglia. Al codice civile e penale viene aggiunto un intero libro dal nome “Vampire Laws”.

1987 Il parlamento vara le “Ghoul Laws” che obbligano i Ghoul ad abbandonare i quartieri della Northside per renderli colonie vampiriche. I ghoul insorgono e iniziano scontri per tutta la città che termineranno in altri Outbreak della Piaga.

Il 1988-1989 è noto come il Bienno Rosso. I ghoul vengono lentamente ricacciati nelle fogne ma non senza combattere con forza, distruggendo gran

parte della Northside.

1990-2001 Il governo Micheals normalizza la situazione a Londra e crea i ghetti per i ghoul che vengono lentamente trasferiti in apposite “riserve” costruite nel sottosuolo londinese. La guerriglia è continua ma meno violenta e la popolazione di ghoul diminuisce sensibilmente. Il governo Micheals sarà noto anche come governo Ombra e si vocifera che molti dei suoi componenti, primo ministro compreso, fossero vampiri.

2001- Il generale della Deathwatch Horace Grey entra dentro il parlamento con il benestare della Regina e scatena un massacro, uccidendo tutti i parlamentari sospettati di essere vampiri. La regina scioglie le camere mentre la Deathwatch rastrella le case dei parlamentari.

2004 Nasce il primo centro per le cure antiagapiche, Vittoria II vi si sottopone, riuscendo ad allungare a dismisura la propria vita. Qualcuno la accusa di essere peggio di un vampiro.

2012 Primo attentato anarchico ai danni di Vittoria II.

2014 Secondo attentato anarchico ai danni di Vittoria II.

2017 Terzo attentato anarchico ai danni di Vittoria II, vengono uccisi i suoi due pronipoti Enrico e Giorgio. La Regina emana il “Monarchy Security Act” e isola i quartieri considerati non fedeli, ordinando alla Deathwatch di trattarli come se fossero sotto Outbreak.

2022 L’economia di Londra è paralizzata. Scoppiano le prime rivolte per il cibo. Migliaia di persone vengono uccise.

2031 Londra è ancora paralizzata, in due attentati diversi muoiono il primo ministro e il suo entourage e il nipote della regina Vittoria II.

2038 Anarchici attaccano Backingham Palace con la connivenza delle forze di polizia e vengono fermati dalla Deathwatch. Inizia l’epurazione dei ranghi di Scotland Yard.

2042 Sventata una cospirazione parlamentare per deporre Vittoria II.

2053 Inventate le prime armi galvaniche

2058 Le cure Antiagapiche smettono di avere effetto sulla Regina Vittoria II che degenera presto in una forma di avanzata senilità. La pronipote Vittoria III diventa reggente.

2059 Vittoria II muore, sale al trono Vittoria III con la promessa di cedere il comando della Deathwatch al parlamento. Viene emanato il “Monarch Antiagapic Law” un atto secondo il quale nessun membro della famiglia Reale o di famiglie nobiliari potrà più far uso di cure antiagapiche se ricoprirà incarichi pubblichi.

2066 Un violento out break rischia di radere al suolo Londra, i morti documentati sono ventiduemila.

2068-2088 È un periodo di Revival per l’Impero. La Royal Navy viene inviata a riprendere contatto con le colonie abbandonate secoli prima. Vengono ritrovate colonie inglesi in Sudafrica, in India e ad Hong Kong. Vengono riprese le relazioni con il sopravvissuto impero germanico, con la Svezia, il Regno d’Italia e il Regno di Francia. La Gran Bretagna colonizza nuovamente l’Egitto, caduto nell’anarchia, con l’aiuto del regno d’Italia..

2090 I Rapporti con la Germania si deteriorano quando il governo tedesco, in guerra con la Svezia, inizia una guerra sottomarina indiscriminata per fermare i commerci tra Inghilterra e Svezia.

2091 La Royal Navy sconfigge la Kriegsmarine nello Jutland.

2094 Seconda vittoria della Royal Navy e armistizio prussiano.

2099 I rapporti con la Prussia si normalizzano.

Glossario dei nomi e dei termini

Alchimia È la para-scienza che precede la chimica e le scienze naturali e che crede nella trasmutazione. Molto sviluppata in questo mondo, è in grado di portare a stupefacenti risultati come la creazione della vita in laboratorio o di straordinari sieri. Un alchimista non scrive mai, tenendo a mente tutti i suoi appunti, per essere considerato tale.

(Ri) Animati È il nome con cui sono noti i morti viventi, la maggior parte non in grado di pensare ed animati, per l’appunto, solo da una cieca fame di carne umana. Si pensa che l’animato sia un costrutto di natura virale ma non si sono mai fatte grandi scoperte in tal senso. È certo però che colpendolo alla testa e distruggendo il cervello, torna ad essere un normale cadavere.

Antiagapica (Cura) Cure molto costose che sfruttano il sangue di vampiro per ringiovanire i tessuti epidermici e i centri nervosi, grazie ad esse è possibile prolungare il tempo di vita rimanendo esteriormente giovani, l’unico organo a invecchiare è il cervello.

Arundel (Castello di) Castello sito nel West Sussex, residenza storica dei Duchi di Norfolk. Distrutto da un incendio appiccato nel 1992 da Rodney Howard, suo ultimo occupante.

Bastone galvanico (Tesla) Un bastone da eggio con all’interno delle cariche di energia galvanica. Si

scarica dopo una determinata quantità di raggi Tesla utilizzati: è possibile calibrarne la potenza, ma più alta la si regola, prima il bastone si scaricherà.

Bullet, Maxwell (Generale) Generale della Deathwatch. Valido esorcista, uomo dalla ferrea disciplina famoso per la fede incrollabile e la lotta contro le eresie.

Cacciatori Persone che, spinte dalla fame o dal fanatismo, intraprendono la rischiosissima carriera di cacciatore per le strade terribili di Londra. La maggior parte di loro non sopravvivrà un anno dall’inizio del suo nuovo lavoro. In ogni caso non saranno più gli stessi.

Cattedrale di St Paul È una cattedrale gotica nella City e, per dimensioni, il secondo edificio di culto più grande del mondo dopo San Pietro a Roma.

Dhampir È una creatura sopravvissuta al morso di un vampiro che, invece di diventare un vampiro anch’essa, tramuta divenendo immune a tutti i veleni e lo smog e posticipando la sua maledizione. A tutti gli effetti ha molti tratti soprannaturali ma al momento della sua morte si tramuterà certamente in vampiro.

Deathwatch La branca delle forze armate che difende Londra da pericoli interni come Out Break di animati, attacchi di vampiri o di altri mostri. Ha un suo quartier

generale a Knight’s Cross e risponde solo alla Regina.

Deville Famiglia di origine se impiantata a Londra; il capofamiglia Charles, farmacista, ipotizzò un metodo per sigillare un fantasma dentro un corpo ridonandogli la vita.

Durbany Isaac (Sir) Più volte Primo Ministro nel corso del regno di Victoria III. È già al suo terzo mandato.

Durbany Isaac Jr. Figlio del Ministro degli Interni Durbany, è stato da poco nominato Ministro della Salute. Fece parte della sfortunata serie di esperimenti che, con lo scopo di creare soldati perfetti da inviare contro gli animati, dette vita alla “maledizione” dei licantropi.

Ectoplasma Sostanza rilasciata dai fantasmi più potenti quando si spostano o toccano qualcosa.

Energia Tesla/Galvanica Utilizzata al posto dell’energia elettrica e inventata da Nikola Tesla: risucchia energia dal terreno, non richiede cavi per funzionare, è gratuita e non ha costi per i cittadini.

Esorcista Figura ecclesiastica votata alla lotta contro i mostri ed alla distruzione di creature impure. Grazie alla sua fede, che lo sostiene, è uno degli avversari più temibili degli psichici e dei fantasmi.

Fantasmi Creature che non hanno trovato riposo dopo la morte. La loro volontà e l’attaccamento verso qualcosa li tiene ancora nel nostro mondo e spesso i loro obiettivi sono molto negativi. In ogni caso esistono di un’esistenza profondamente morbosa e monomaniaca.

Fuoco alchemico È un prodotto alchemico. Si può tenere dentro una fiala, se utilizzato genera lingue di fuoco verde che ardono un organismo dall’interno, consumandone poi i tessuti.

Gilda Organizzazione ecclesiastica il cui compito principale è addestrare suore e monaci combattenti ed in grado di affrontare gli animati e di vegliare sui cadaveri durante i riti funebri, impedendo loro di rialzarsi.

Ghoul Sono esseri umani mutati dalla Piaga e dal consumo di carne umana. È una razza glabra e tozza vagamente simile a grosse scimmie e mediamente meno intelligente dei normali esseri umani. Ha una struttura sociale di tipo tribale ed

una profonda religiosità che ruota intorno alla carismatica figura del capo ghoul.

Howard, James Ottavo Duca di Norfolk e Cambridge, eroe della Reclamazione. Fonda la Deathwatch e ne diventa il primo Generale.

Howard, Rodney Nono e ultimo Duca di Norfolk e Cambridge, tristemente famoso per aver perso il titolo, la ricchezza e la bellezza in una sola notte; a nessun Howard piace ricordarne la storia.

Howard, Henry Settimo Duca di Norfolk; inizialmente non in linea di successione, acquista il ducato nel 1908 a seguito dello scoppio della Piaga e alla conseguente morte degli altri primogeniti e cadetti della famiglia.

Leicester-Arwen, George (Conte di) Nobile con la ione per la medicina e l’alchimia, ricco e astuto, cerca con fervore l’idea che possa portare il suo nome all’interno dei più importanti trattati di medicina del suo secolo.

Licantropo I primi licantropi furono creati in laboratorio da un progetto presieduto dal Ministro della Salute Isaac Durbany Jr che si riprometteva di creare i soldati perfetti per combattere la minaccia degli animati, purtroppo l’esperimento andò male e i soggetti utilizzati per la ricerca fuggirono, alcuni si dispersero nelle

Waste Lands, altri rimasero in città. La licantropia si trasmette tramite il morso di un contagiato o la somministrazione del siero. Il licantropo può mantenere la propria umanità ma dopo una serie ben precisa di trasformazioni ciò diventa sempre più difficile ed è impossibile che il licantropo alla fine non faccia qualcosa di sconsiderato sotto l’effetto della sua bestialità.

Machno Forse il più grande alchimista che abbia mai vissuto nella Metropoli; possiede una torre che sbuca dalla vecchia Metro 17 e lì addestra le menti più brillanti di Londra.

Mallory La moglie defunta di Damon Black.

Metropoli Altro nome utilizzato per designare Londra.

Norfolk-Howard (Marchesi di) Antica casata nobiliare inglese nota per l’ambizione dei propri membri; dopo la Piaga sono diventati grandi alchimisti. Spesso colpita da gravi sciagure e sfortune, si dice che la famiglia sia maledetta.

Norfolk-De Vere, Helena Figlia del Conte di Oxford, sposa Victor Howard-Norfolk II , la sua vita finisce brutalmente il giorno in cui viene assassinata dal serial killer noto come Smiling Jack.

Norfolk-Howard, Hermann I Decimo marchese di Norfolk, non ebbe meriti particolari, solo la fama di spirito mondano e carismatico e la nomèa di libertino. Fu un mediocre alchimista.

Norfolk-Howard, Mathilda Sorella di Norfolk I, viene dichiarata incapace e segregata ad Arundel a seguito di scoppi d’ansia e di un forte esaurimento isterico dovuti a quelle che lei chiamava “visioni”. Muore suicida. Probabilmente possedeva poteri psichici extrasensoriali.

Norfolk-Howard, Norfolk I Nono marchese di Norfolk, fece costruire nel West End la magione che è tuttora dimora degli Howard. Fu un’icona di stile, amante dell’arte, del giardinaggio, un bravo alchimista e, ai suoi tempi, pure rinomato come poeta.

Norfolk-Hyde, Juliet Contessa di Rochester, sposa di Norfolk I.

Norwich ( Città ) È un sepolcro, un luogo abbandonato da secoli nel quale si celano antichi mali ed obiettivi mai portati a compimento. Zona maledetta che non potrà mai essere riscattata le cui rovine punteggiano una campagna malata ed oscura.

Out Break

È il rialzarsi simultaneo o a poca distanza di tempo di numerosi animati che creano quindi una grande minaccia all’interno o all’esterno delle mura di Londra. Un out break generalmente viene sventato in poche ore o diventa una vera e propria minaccia alla salvezza di Londra.

Ouroboros Il serpente che si morde la coda, è un simbolo alchemico. Indica il ciclo della vita, una sua raffigurazione si trova affrescata nella sala principale del castello degli Howard-Norfolk, a Norwich, sotto il motto di famiglia “En to pan” (Uno il tutto).

Paracelso Alchimista del 1500, teorico di grandissima parte delle invenzioni del mondo dopo la Piaga.

Piaga Malattia il cui primo focolaio è datato 1908, nessuna zona della Terra ne è rimasta immune, a causa della Piaga il terreno si impoverisce , le piante mutano e i cadaveri si rialzano come animati. Ad ora, non esiste cura. Mutazioni della Piaga sono, ad esempio, il ghoulismo e il vampirismo (mutazione negativa del dhampirismo).

Plant Denis Padre di Dem; vampiro.

Prometeano

Detto comunemente “creatura di Frankenstein”: è un cadavere ricucito partendo da pezzi di altri cadaveri fatto rivivere grazie a scariche potentissime di energia galvanica al cervello.

Psicopompo Secondo le leggende è un essere che svolge la funzione di nocchiere per determinati tipi di spiriti, accompagnandoli nel loro viaggio verso l’aldilà.

Poltergeist È la specie più violenta di fantasma, una creatura di solo odio, nata per distruggere.

Red Chamber La camera dei Lord, sita nel palazzo di Westminster, nella City di Londra.

Sfera contenitiva Si tratta di una sfera fatta di energia ectoplasmatica e galvanica il cui compito è intrappolare uno o più spiriti al suo interno. Tanto più grande è la sfera, tanti più spiriti può contenere.

Tesla ( Nikola ) Scienziato che ha gettato le basi per l’energia Tesla e per centinaia di altri ritrovati elettromagnetici nei primi del ‘900.

Territori di Londra

- North Side I quartieri borghesi, a volte divisi per religione dei soggetti altre per ceto sociale. Ai quartieri più centrali come quello di Islington si affiancano quartieri satellite spesso confinanti con l’East End in cui vivono i domestici e tutti i lavoratori proletari che fanno funzionare la città.

- South Side Zona residenziale in costruzione, sede della nuova borsa di Londra, abitata da moltissime persone e molto pericolosa per via dell’alta presenza di vampiri e ghoul nel sottosuolo. Alcune zone sono ancora completamente abbandonate e solo recintate come le Fingers.

- West End Il quartiere più ricco in cui molti dei nobili vivono ed hanno le loro magioni. È uno dei pochi dove si vede di frequente il pallido sole londinese, è il meno inquinato e grossi mulini con pale larghe tengono lontani i fumi delle industrie dai giardini e dai parchi di questo piccolo idillio.

- East End Una delle zone più vaste di Londra, diviso per etnia in alcuni casi e completamente casuale come disposizione in altri è un posto pericoloso ed abitato da proletari, criminali e disoccupati. Sede di moltissimi bordelli e di tantissime attività criminali oltre che delle industrie più pesanti ed inquinanti è un luogo dove vivere non è affatto facile.

Vampiro Noti anche come “Il più grande mostro del nostro secolo” sono un’evoluzione della Piaga spesso senziente e che per sopravvivere ha bisogno di nutrirsi di sangue e non di carne. Pericolosi e con notevoli poteri mentali la taglia sulla loro testa è elevatissima e vengono considerati un pericolo maggiore. Tendono ad essere sadici e ad avere molti alleati o schiavi mentali. Il sole fa loro male riducendoli, se colpiti da raggi diretti, ad una sorta di torpore.

Victoria III Regina d’Inghilterra della dinastia Windsor, nel corso del suo lungo regno combatte e vince due guerre navali contro la Prussia.

Wagner (Dottore) Gestisce una bottega della carne a Stepney; è improbabile sia davvero laureato e l’appellativo “dottore” sarebbe improprio, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di farglielo notare.

Waste Lands Le terre al di fuori delle principali città, grandemente contaminate dalla Piaga ma non ancora giunte al punto da divenire sepolcri.

Westminster Palazzo che ha sede nella City di Londra, lì si tengono le riunioni della Camera dei Comuni e della Camera dei Lord (Red Chamber).

Whitechapel Hospital

Ospedale sito nell’East End e gestito dalle suore della Gilda, al suo interno vi sono degli internati adibiti a laboratori che è possibile affittare.

Epilogo: I peccati dei figli (Norwich, 2125)

“Quindi era questo il tuo segreto?” Riconosco la sua voce: è diventato un uomo il mio Hermann. “Sei sempre stato qui, prima con il corpo, poi con la mente, hai pensato così tanto alla morte da esserti dimenticato di vivere, da non aver mai fatto vivere le persone accanto a te. Quante ne hai portate alla tomba?” Tante, figlio mio. “Juliet è qui, vero, sepolta da qualche parte? O l’hai lasciata ai cani? Tu l’avresti fatto: nella tua ossessione non ti importava di niente, neanche di me. Neanche della mamma.” Ha la voce rotta, straziata. Non è vero! Io amavo tua madre e amo anche te, l’ho solo capito troppo tardi. “Ti odio. Hai distrutto la mia vita. “ Sento che mi abbraccia, sta abbracciando lo schifoso cadavere che sono diventato. Io ti voglio bene Hermann. Mi dispiace; non vale niente, ma mi dispiace. Hermann, non diventare come me, ti prego. Hermann… Mi abbraccia. Io l’ho abbracciato una volta sola in vita mia. Sento che mi abbraccia, sta abbracciando lo schifoso cadavere che sono diventato. Io ti voglio bene Hermann. Mi dispiace; non vale niente, ma mi dispiace. Hermann, non diventare come me, ti prego. Hermann…

Mi abbraccia. Io l’ho abbracciato una volta sola in vita mia. Sento le sue lacrime scorrermi sulla pelle. Anche dal mio occhio sta fuoriuscendo qualcosa. Credo sia un verme. “ Papà...ti odio...” È tutta colpa mia. Resta abbracciato a me per alcuni minuti. Poi, i singhiozzi diventano rantoli, ringhi. Mi ricordano qualcuno che ho imparato a odiare. Ricordano me. No, Hermann, no! “Tu devi pagare per quello che hai fatto.” Mi solleva. Mi porta da qualche parte. Mi mette seduto, lega il mio corpo, inchioda mani e piedi, mi crocefigge alla sedia e fa strazio di me. Ti prego, Hermann, non cedere alla crudeltà. “Ti odio. Resta seduto per sempre qui, sul tuo stupido, fottuto trono.” Puoi ancora tornare indietro. Seppellisci qui il tuo odio. Seppelliscilo con me, dentro questa cripta. “Ora sono io il marchese papà. Non ripeterò i tuoi errori.” Li stai già ripetendo. “Addio, papà.” Hermann... La porta si chiude di scatto. Sono solo.

Anche io mi odio.