Luna 306j11

LUNA

by sca Verginella

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A Davide

INDICE

PROLOGO DANZA DELLE LUNE CAPITOLO 1 CAPITOLO 2 CAPITOLO 3 CAPITOLO 4 CAPITOLO 5 CAPITOLO 6 CAPITOLO 7 CAPITOLO 8 CAPITOLO 9 CAPITOLO 10 CAPITOLO 11 CAPITOLO 12 CAPITOLO 13 CAPITOLO 14 CAPITOLO 15 CAPITOLO 16

CAPITOLO 17 CAPITOLO 18 CAPITOLO 19 EPILOGO

PROLOGO

Il principio di tutto segnò la fine di ciò che, fino ad allora, era stato il Tutto. Il Grande Oceano dominava solitario il Pianeta. Ma venne il tempo in cui il cuore caldo della Terra ne mosse il corpo, fino ad allora sommerso e dormiente. Dalla battaglia sorse, vittorioso, il primo Continente, Varus. L'incontro tra Cielo e Terra fu prolifico e la vita, fino ad allora relegata in un mondo solo acquatico, si sbizzarrì creandosi nuove forme, adatte alla terraferma. La guerra tra Acqua e Fuoco non era ancora giunta ad una conclusione. Uno dopo l'altro nacquero Kzeros, Antus e Dobi, il più grande dei Continenti. La storia del Pianeta si mosse in molteplici direzioni, mentre la conformazione dei Continenti cambiava continuamente. Attorno a questi grandi sconvolgimenti, l'Universo, illimitato ed immutabile, guardava imibile gli eventi. Il grande disco solare brillò ogni giorno di quella rivoluzione e gli occhi delle due lune si aprivano e si richiudevano sulle scene, sempre diverse, delle battaglie. Varus e Kzeros furono i primi Continenti a scontrarsi e ad unirsi; dal loro intreccio si elevò la Catena Montuosa. La vetta più alta, il Monte, pianse per il dolore provato dalla Madre Terra e le lacrime divennero il Grande Fiume. Dobi corse incontro a Kzeros-Varus, trascinandosi dietro il piccolo Antus che, nella fretta, perse un frammento. Mentre Antus e Dobi si legavano creando la Nuova Catena, la Vena di Magma, che tagliava a metà Dobi, iniziò a sanguinare spaccando in due quella terra; la parte meridionale era ormai lontana quando Antus-Dobi si unì a Kzeros-Varus. Ora un grande Continente sedeva su quel trono che era il Grande Oceano: il suo nome era Solamia. Ciò che Antus aveva dimenticato divenne il Continente che porta il nome di Caabia, mentre la porzione dolorosamente amputata a Dobi divenne il Continente Ghiacciato. La vita, nata sulla terra dell'antico Varus, si moltiplicò, diversificandosi, sopra la neonata Solamia. Caabia perse tutto ciò che di vivo c'era in lei; nella sua incontrollata deriva era

giunta nella zona più calda della Cintura di Fuoco, la linea che divideva il Pianeta in Nord e Sud. Il Continente caabiano divenne così un'enorme isola con le coste protette da alte montagne rocciose e con il cuore bruciato dal torrido sole che aveva trasformato tutto in un deserto di sabbia. Il Continente Ghiacciato migrò nella parte più fredda del Pianeta, là dove la Lancia dell'Universo aveva perforato e traato il globo, diventando il perno della sua rotazione. Anche qui, dove il sole non baciava mai la terra, non vi era più un fiato che non si fosse ghiacciato o un battito di cuore che non si fosse congelato ed arrestato, per sempre. Solamia era un'unica terra, ma non era una terra unita. Si estendeva, mutevole ed irregolare, da Ovest ed Est. Dall'alto il cielo poteva ancora riconoscere i confini dei quattro antichi Continenti. A sud-ovest di Solamia c'era la Caabia: perennemente arsa dal sole e distratta custode dei Venti che si concentravano all'interno della Cintura Montuosa. Nella Stagione delle Tempeste, i venti, riscaldati dal sole sfuggivano al controllo degli alti crinali ed andavano a scontrarsi con i venti freddi del Nord e del Sud. Le coste della Solamia che guardano la Caabia venivano così imperversate da tifoni e maremoti. Dall'alto, là dove nessun uomo era ancora salito, si vedeva ancora come la protuberanza nord-est della Caabia si inserisse perfettamente nell'insenatura sud-ovest del Continente solamico. Sembrava quasi che la Caabia bruciasse dall'odio che provava nei confronti di chi l'aveva abbandonata; le tempeste che scatenava erano quindi un modo per tormentare la terra che l'aveva lasciata indietro, lontana dalla vita. Leggendo da ovest ad est quel grande libro che è Solamia, il primo mondo che si incontrava era Deosnobi. I suoi confini erano bagnati a nord dal freddo Oceano Nord e a ovest dal Mare di Kesho, mentre a sud-ovest c'era il Serpente Caabiano, il canale d'acqua che separava Deosnobi dalla Caabia. Le coste a sud si affacciavano sull'Oceano Sud, mentre il confine sud-est si amalgamava con i piedi lavici della Barriera di Fuoco, le cui bocche eruttanti si trovavano a oriente. La parte est di Deosnobi si innalzava, nella zona meridionale, nei Monti Kobit, alti e perennemente innevati, anticamente chiamati Nuova Catena. Il monte più alto, il Ko, volgeva il suo sguardo verso ovest, dove lontano ondeggiava il Serpente Caabiano, e verso est, dove la vista si perdeva sull'Altipiano dei Cobritti, terra di nessuno. Proseguendo verso nord, seguendo la linea di fusione tra i due antichi Continenti

(Antus e Dobi), si poteva vedere come il tempo avesse modificato la catena montuosa. Il vento e la pioggia avevano eroso i monti puntuti della parte settentrionale, trasformandoli in dolci declivi e valli rotonde: la Cordigliera Andodica. Ultimi ricordi dell'aguzza creatura del ato erano le Vette Gemelle, tra le quali sprofondava la Valle Ululante che terminava in un sottile ed angusto aggio tra i piedi ravvicinati dei due monti. Il vento che sospirava ando attraverso quella fessura gridava il nome della valle. Nella zona centrale della Solamia, a nord-est di Deosnobi, c'era la Terra Abbandonata e corrispondeva pressappoco al vecchio Continente Kzeros. La costa affacciata sull'Oceano Nord crollava a picco sull'acqua ed i fiordi si inoltravano fin nel più profondo entroterra. Uno di questi, l'Artiglio del Mare, era il più imponente e pericoloso: tre cascate gigantesche vi si gettavano mescolando le acque del fiume Lenk con quelle dell'Oceano. A sud di questa terra inospitale si innalzava l'Arco di Tedo, una catena montuosa sorta nello scontro di Antus-Dobi con Kzeros-Varus. Le montagne segnavano il confine nord di Atranobi. L'ovest di questo mondo era rappresentato dall'inospitale Altipiano dei Cobritti. A sud c'era la Barriera di Fuoco, un lungo e massiccio blocco di lava solidificata che sprofondava direttamente nell'Oceano Sud. I suoi vulcani erano sempre in eruzione. Il confine est era meno marcato essendo segnato dal fiume Ra, nato dal Monte Rano dell'Arco di Tedo, che si gettava nel Lago Gòlias; poi il fiume riprendeva il suo nome e sfociava direttamente nell'Oceano Sud. Il lago cristallino si confondeva, spingendosi verso est, con la melma della Palude di Melsh. La palude racchiudeva un altro mondo, misterioso e ricco di sorprese: Undnobi. La melma si spingeva verso sud fino a confondersi con le acque oceaniche mentre a nord si solidificava nel Bassopiano Kzerobi, sull'antica giuntura tra Antus-Dobi e Kzeros-Varus. A est di questo mondo si distendeva il Grande Fiume che ne delimitava i confini. La parte est di Solamia era detta Terra del Muslim, ricoperta in gran parte dalla Foresta Greetes. La Terra del Muslim si estendeva su tutto ciò che una volta era stato il continente Varus. A ovest di questa terra si poteva infatti vedere la Catena Montuosa, sorta dal preistorico scontro tra Kzeros e Varus. L'erosione del tempo aveva lavorato senza sosta ed aveva trasformato i monti in colline.

Il Monte era riuscito a conservare un'altitudine ragguardevole e dal punto più alto continuava ad alimentare il Grande Fiume. Il fiume più grande della Solamia, nel corso della storia, aveva costruito la Pianura di Ferso, ricca e fertile. La penisola di Savra, tozza propaggine nel sud-est del continente solamico, apparteneva al mondo di Nimnobi. Questa terra era separata dal resto del continente dalla Rocca Salina, una roccaforte costruita dalle Potenze della Terra, con inespugnabili mura di sale che cingevano un deserto anch'esso di sale. Questo mondo si estendeva vastamente nelle profondità dell'Oceano di Savra.

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DANZA DELLE LUNE

La notte di Solamia è accompagnata dalla danza delle lune, due satelliti gemelli che hanno vite separate eppure identiche. Il loro ciclo vitale si ripete sempre uguale e scandisce le ore notturne di Solamia. Il tramonto rosso sangue tinge il cielo azzurro del giorno; col are del tempo il sangue diventa livido fino a virare nel viola, blu ed infine nero. Le stelle già brillano nel cielo e le cinque costellazioni maggiori sono al loro posto, al centro dell'universo. Deos, terra e potere, costellazione della Famiglia Deoscuridi. Atra, aria e forza, costellazione della Famiglia Atralidi. Und, sottosuolo e spirito, costellazione della Famiglia Underidi. Nim, Acqua e mistero, costellazione della Famiglia Nimferidi. Infine Imm, fuoco e speranza, costellazione di coloro che non posseggono e che, proprio per questo, sono in cerca. Quand'ecco arriva lei, la luna. E' solo un graffio nel cielo che poi si squarcia in una falce affilata, poi si apre come l'occhio del gatto per accendersi infine in un globo argentato. A metà della notte la luna diventa un disco nero al centro del girotondo delle cinque costellazioni. Solo in seguito appare l'altra luna, gemella rimasta nascosta dalla sorella. Faro nella notte, la seconda luna oscura la sorella dietro di sé, poi si chiude come l'occhio del gatto. Si affila come una falce ed alla fine è solo un graffio lucente nel cielo. A chiudere il sipario sull'uscita delle due ballerine notturne giunge frettolosa la rosa alba. Due gemelle dallo stesso nome: nascono insieme, ma solo una si mostra, poi scompare e si nasconde dietro la sorella identica. La seconda luna prosegue la danza sempre a braccetto con l'ombra della sorella finché, insieme, vanno a

morire ma solo per levarsi in cielo, ancora insieme, la sera successiva. Stessi i per danze diverse, vite parallele che si sfiorano: luna e luna, differenti eppure uguali.

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CAPITOLO 1

"Guarda che cielo." disse l'uomo guardando fuori dalla finestra. Lo aveva sussurrato, quasi temesse di disturbare qualcuno; ma era solo in quella stanza. Lo sguardo si perse in quel cielo grigio e l'uomo cominciò a pensare. 'Chissà come sta Lòren. E la bambina? Oppure sarà un maschietto! Vorrei esserle vicino in questo momento così delicato... Che schifo di guerra.' Ledon prese a guardare il cielo che fino a quel momento aveva fissato senza vedere. Delle grosse e dense nubi si spostavano velocemente, spinte dai venti che dalla Caabia si dirigevano verso Ovest, fino a raggiungere Aruni. Si era ormai nel pieno della Stagione delle Tempeste e sembrava che di lì a poco se ne sarebbe scatenata una di grandi dimensioni. Ledon riusciva ancora a vedere il luccichio di qualche stella, mentre la luce della luna era già stata spenta dalla pesante coperta di nuvole cariche di pioggia. Ancora una volta il suo pensiero andò a Lòren, ma la rivide come in quella notte stellata, quella in cui si conobbero in riva a quel lago: 'dov'era?' Non se lo ricordava più. "Se sapesse che non ricordo più dove ci siamo incontrati per la prima volta... che scenate farebbe." Continuava a parlare da solo, mentre anche le ultime stelle soccombevano dietro la coltre tempestosa. "A volte vorrei essere un uomo comune per non avere tutte queste responsabilità, per essere libero di assistere mia moglie durante il parto. Forse no. Io amo i miei doveri e le mie preoccupazioni almeno quanto amo lei." I fulmini incendiarono l'aria e pareva che legassero il mantello scuro del cielo al mare nero. L'atmosfera era scossa dai tuoni e dal vento che fischiava ando tra le strette torri della postazione di Aruni. I forti e veloci candù, al riparo nel cortile interno, percepivano l'aria farsi pesante ed elettrica; Ledon li sentiva strattonare le briglie e stringere nervosamente i morsi. Cominciarono a scendere le prime gocce che poi si fecero sempre più fitte. La pioggia scrosciava sulla finestra e sembrava che riuscisse a spaccare il vetro,

tanta era la violenza con cui veniva spinta dal vento. Le gocce scendevano dolcemente invece sul viso di Ledon seguendo le piccole rughe intorno agli occhi: 'chissà perché chi ha tanti pensieri invecchia così in fretta.' A Lòren erano sempre piaciute quelle piccole crepe sul volto del suo sposo: continuava a dire che gli donavano un'aria interessante. Lei trovava affascinante anche quella cicatrice che gli tagliava lo zigomo e che saliva fino a dividere in due il sopracciglio sinistro. Ledon aveva rischiato di perdere l'occhio in quello stupido duello . "Sbagli di un giovane troppo ionale." Così Lòren aveva giustificato l'accaduto. Era proprio innamorata. "Ed io ti amo per come mi ami tu." Le aveva detto una volta, strappandole una lacrima illuminata da un sorriso. La tempesta ormai si era scatenata e anche il turbamento che era nato nel suo cuore non accennava a smettere. Le lacrime continuavano a bagnare l'occhio grigio come il metallo che lo colpì e l'occhio verde come i prati dell'Ausolia... 'Ecco! Fu lì che ci incontrammo, sulla riva del lago Sonders.' Ledon lasciò scendere il bruciante ghiaccio salato fino al collo, anche se la sensazione di umido lo irritava. "Perché sto piangendo?" Si guardò intorno con la vista ancora appannata. "Perché gli uomini si domandano perché piangono?" La stanza buia era semivuota: un lungo scaffale pieno di carte arrotolate, documenti, messaggi; una grande scrivania ed una poltrona larga e comoda. Una stanza fredda come lui, guerriero di ghiaccio impegnato in battaglie tattiche al comando di soldati di piombo su un campo di carta. Anche lui avrebbe voluto lottare nelle battaglie disumane, ascoltando l'assordante vociare delle armi straniere e il clangore del vento nei campi di battaglia. Ma ognuno aveva un posto nella guerra e quello era il suo. C'era un caminetto a riscaldare l'ambiente ma a lui non bastava. Il fuoco era vivo e ardente, ma lui sentiva freddo. Ledon allora aggiunse un grosso legno che incominciò subito a bruciare; la fiamma cambiò di forma e mutò la danza sulle braci nere.

Il calore così sprigionato bruciava il viso dell'uomo, che socchiuse gli occhi e sorrise dimenticando chi fosse. Improvvisamente aprì gli occhi, di scatto, come se l'avessero chiamato da un sonno profondo. Fissò il balletto del fuoco per trovare la fonte di quel richiamo. Le fiamme si riflettevano nei suoi occhi e la mente incominciò a vagare seguendo il ritmo del ballo infuocato. E incominciò il suo 'volo'. Ledon vide la sua sposa, Lòren, in una grotta le cui pareti erano incrostate di cristalli trasparenti, ma che colpiti dalla luce da lei stessa irradiata risplendevano di mille colori. Il viso di lei grondava sudore e i delicati lineamenti erano abbruttiti da una smorfia di dolore. Lui era lì, con lei, avrebbe voluto aiutarla, ma poteva solo guardare. Non poteva fare nulla. Poi un grido, era Lòren che gridava come se gli si fosse squarciato il cuore. Un altro grido, ma diverso dal primo. Lei aveva le labbra serrate. Una luce rossa, abbagliante, poi la rivide con più chiarezza: Lòren aveva il viso rilassato, gli occhi chiusi e una lacrima le scorreva solitaria sulla guancia. Ledon sentì un peso sulla spalla e, subito dopo, del calore come se vi si fosse posato un tizzone ardente; si guardò la spalla e vide una mano. Quando si voltò completamente vide la scrivania, la poltrona, la finestra, la tempesta. Era il suo appartamento nella postazione di Aruni, sulle coste del Mare di Savra. Al suo fianco il giovane soldato assegnato al suo servizio lo guardava con gli occhi sgranati. "Comandante!" Evidentemente era lì da diverso tempo, doveva aver cercato di svegliarlo da quello strano sonno più volte perché quella parola veniva pronunciata dal ragazzo con voce tremante. Solo allora il comandante Ledon Adram si rese conto di aver 'volato' e capì che stava spaventando quel giovane con i suoi occhi arancio e la lacrima di sangue. Si rialzò di scatto e si voltò verso il caminetto, chiudendo gli occhi. Quando rivolse nuovamente lo sguardo al soldato i suoi occhi erano fermi e decisi, in qualche modo anche rassicuranti nella loro normalità. Questo scosse il ragazzo che si rianimò, un po' imbarazzato per essersi spaventato inutilmente: sapeva che il comandante era un Deoscuridiano e che, come tale, aveva il potere di 'volare'.

Ledon Adram sedette sulla poltrona dietro la grande scrivania dopo aver risposto al saluto militare.

La notte di Deos era illuminata dalla fredda luce della luna ed era riscaldata da una calda brezza. Lòren aveva aperto la finestra per specchiarsi nel laghetto artificiale che luccicava sotto il davanzale della sua camera da letto. "Una stella tra le stelle." Le aveva detto così il suo Ledon quando la chiese in moglie. Sorrideva, Lòren, ripensando a quei momenti e intanto si accarezzava la pancia; erano ormai nove mesi e sette giorni che portava quel dolce peso, ma la bambina (sì era certa che fosse una femmina) non si decideva a nascere. Lòren tuttavia non si preoccupava, sapeva che l'evento sarebbe giunto presto, forse quella notte stessa. Sola. Lòren si sentiva sola, avrebbe voluto Ledon vicino, ma la guerra li aveva allontanati. "Forse riuscirò a mettermi in contatto con lui, grazie anche alla bambina." Lòren si allontanò da quei tempi lugubri e ripensò ai momenti felici ati con il suo amore. L'incontro sulle rive del lago Sonders, nelle verdi campagne dell'Ausolia. La regione era il corpo germinante del loro mondo, distendeva un braccio di terra sull'Oceano di Kesho e là dove la penisola terminava inabissandosi nelle spumose acque oceaniche, proprio nel punto in cui la salda roccia fortificava la terra, quello era il luogo in cui sorgeva l'imponente Deos. "Era una notte come questa." La luce della grande luna affievoliva quella tremolante delle stelle; era la notte del suo compleanno (come poteva dimenticarlo) e lei era appena scappata dalla noiosa festa allestita per l'occasione. Aveva intravisto il giovane Ledon che nuotava nel lago notturno, guardava curiosa e divertita il corpo nudo di lui... quando venne scoperta. La mente di Lòren ritornò ancora alle notti che li avevano accompagnati nelle loro fughe da innamorati, spiati dagli occhi delle due lune, testimoni silenziose di numerosi baci e di tenere carezze. Poi ci fu la richiesta di matrimonio.

"Ledon Adram, figlio di Adram e Raimis, vuoi tu sposare Lòren Agor, figlia di Agor e Nevra?" A questa domanda Ledon aveva fatto seguire una lunga pausa che la fece quasi impazzire e che fece tremare entrambe le famiglie. Poi disse un vigoroso sì, con il tono di voce che di solito usava per impartire un ordine ai suoi soldati. "Lòren Agor, figlia di Agor e Nevra, vuoi tu sposare Ledon Adram, figlio di Adram e Raimis.?" Anche Lòren attese in silenzio, cercando volutamente di fare una pausa più lunga di quella di Ledon. "Si meritano l'un l'altra." avevano sempre detto tutti. "Giocate e vi punzecchiate come due bambini." li aveva spesso rimproverati Nevra. Poi anche Lòren rispose di volerlo come sposo, in un fil di voce. Come dimenticare infine l'ultima notte trascorsa insieme, durante la quale lei gli disse di aspettare un figlio. Ledon allora, per la felicità, la fece ballare senza musica, sotto una luna così gialla e così grande che mai ne aveva vista una simile. La notte per loro aveva un significato particolare. Entrambi dormivano poco e durante le ore più buie riuscivano finalmente a stare da soli, lontani dai rispettivi impegni che li dividevano nelle ore diurne. Un lampo irruppe nei suoi pensieri ed il tuono che ne seguì la fece tremare. Si era così persa nel ricordo delle sue serate serene che non si era neppure accorta che delle nuvole frettolose avevano ormai coperto la luna, giunta quasi nel suo punto più buio. L'alternarsi repentino di sereno e nuvoloso era tipico di quella stagione: da quando era iniziato quel giorno si erano scatenate già tre tempeste e la quarta dava i suoi primi segni di impazienza. Ma l'attenzione di Lòren si spostò sulla fitta che la colpì all'unisono con il fulmine. La contrazione provocò un dolore intenso e acuto, ma di breve durata. Era il momento. Mentre si incamminava verso la Grotta delle Stelle Cadute, Lòren sorrideva: un po' per non pensare al dolore ma soprattutto perché tra poco avrebbe abbracciato sua figlia; la notte le sarebbe stata ancora una volta complice in un momento così importante per la sua vita. Lòren si spogliò ed entrò nella piccola grotta; le sembrava di essere ritornata nell'utero materno. Era rilassata, raggomitolata nel ristretto spazio vuoto racchiuso tra le pareti della grotta. Intorno a Lòren brillavano i cristalli

incastonati nella roccia: erano piccoli e trasparenti. Per nulla fragili, erano invece appuntiti e affilati. Ma lei galleggiava incolume senza neppure sfiorarli. Una seconda contrazione, più intensa e prolungata, un dolore molto più acuto e poi un attimo di riposo. Sospirò. Lòren cercò disperatamente uno spazio nella sua mente non ancora occupato dalla sofferenza, per mettersi in contatto con Ledon. Era completamente bagnata di sudore mentre sentiva che la bambina voleva uscire. Lòren gridò il nome del suo amato ed insieme a lei anche la bambina invocò il nome del padre. Sì. Entrambe sentirono la rassicurante presenza di Ledon; circondato da nubi e pioggia lui era lì, con loro. Un dolore indescrivibile assalì Lòren che urlò come se le avessero squarciato il cuore, poi un altro grido, ma questo era di sua figlia. Il respiro di Lòren era affannoso, ma era sollevata: ormai era finita, la bambina era nata. La madre aprì i suoi occhi viola: nessun 'volo' tinto di arancio le aveva infuso potere, quella notte era intervenuta solo la magia della nascita. La figlia, sporca di sangue e congestionata per lo sforzo, riposava distesa sul caldo ventre materno. Prima di uscire dalla grotta la bambina doveva essere battezzata; il nome venne scelto dagli avi e dai discendenti, dal cielo e dalla terra, dal sole e dalle stelle. Lòren abbracciò la piccina ed uscì. Ad aspettarle c'erano le Donne che subito tagliarono il cordone ombelicale e si affaccendarono per lavarle e vestirle. Madre e figlia, sfinite per il parto, si addormentarono subito sperando di sognare Ledon, il loro amore. La piccola, figlia di Ledon e Lòren, era nata proprio quando la prima luna si era nascosta dietro il girotondo delle costellazioni. La seconda luna si tinse di rosso e l'alba tardò a venire. Le Anziane cominciarono a tessere la trama che scaturiva dalla lettura di questi segni. "La sua venuta ha placato anche la tempesta. E' la Feteh, la terza luna." Erano ate solo poche ore da quando la piccola creatura aveva respirato per la prima volta l'aria di Deos. Era mattina già inoltrata, il sole riscaldava gli animi e la vita nel palazzo ferveva ormai da tempo. Fu allora che le Donne e le Anziane bussarono alla porta di Lòren. Si era alzata tardi ma, grazie al potere che le alleviava i dolori post-parto, si era data da fare in fretta per vestirsi e preparare la figlia al rito dell'accettazione. Le Donne e le Anziane entrarono in processione nella stanza per dare il

benvenuto alla neonata; Lòren le aspettava seduta vicino alla finestra che dava sul lago dalla quale penetrava il profumo dell'erba tagliata e dei fiori che avevano dischiuso le corolle al sole, sprigionando le loro essenze: il dolce profumo dei semoae e quello più speziato dei carrìdi quasi coprivano la fragranza fresca e leggera dei limuli. Lòren circondava con un braccio la piccola e le teneva la manina; nell'altra mano aveva un fazzoletto vermiglio con il quale asciugava le lacrime di sangue che bagnavano le guance della bambina. Per l'occasione aveva indossato un vestito blu notte che le lasciava le spalle scoperte e scendeva fino ai piedi, coprendo gli inestetismi che la gravidanza le aveva lasciato. I lunghi ricci castani incorniciavano il volto dolce e forte. Il corteo tutto femminile rese omaggio alle due donne baciando prima la mano con cui Lòren teneva il fazzoletto e poi la guancia della piccola nata. Formarono infine un cerchio attorno alla poltrona per abbracciarle entrambe ed intonarono il canto rituale dell'Accettazione che, con la sua dolcezza e con il suo andamento pacato, cullò la bambina. Anche la neonata portava un vestito blu notte che le lasciava scoperti viso, mani e piedi. Era incantevole. Aveva la pelle incredibilmente bianca ma le guance avevano acquisito una colorazione rosata che le donava vivacità al volto. Non era molto grande; aveva le dita delle mani affusolate e sempre in movimento, come se cercasse di prendere qualcosa che l'attraeva particolarmente. Continuava a scalciare: era impaziente e vitale come suo padre, voleva già muoversi per conoscere il mondo intero. I lineamenti del viso erano ancora simili a quelli di tutti gli altri bambini, ma già si riconoscevano i delicati lineamenti ed il naso regolare della madre, la bocca carnosa del padre. Anche sul taglio degli occhi non c' erano dubbi, l'aveva preso da nonna Raimis: grandi, allungati, con le ciglia lunghe e folte. Il colore reale degli occhi non si poteva ancora vedere perché, per ora, manteneva sempre la tonalità dell'arancio con al centro la pupilla nera a forma di ellisse affilato. Nel primo anno di vita, infatti, i membri della Famiglia Deoscuridi rimanevano in uno stato di 'volo' perenne. Durante questo periodo apprendevano la conoscenza e venivano dotati di straordinari poteri, a cui potevano far ricorso una volta raggiunta la maturità. Per non disturbare il loro viaggio nessuno conosceva il nome del bambino; esos rimaneva segreto fino a che il nato stesso lo annunciava, presentandosi a Sad,

Dio della vita, e ad Aar, Dea della Morte. Mentre le Donne e le Anziane continuavano a cantare la nenia ricca di potere, Lòren guardava la bimba come una semplice mamma, e pensava: 'La mia piccola è senza capelli, chissà di che colore li avrà. E gli occhi? Forse saranno come quelli di Ledon.' Lòren sospirò tristemente e si aggrappò alla sua piccola stella caduta dal cielo.

"Ledon!" Il generale Agor alzò il tono della voce come per attirare l'attenzione del comandante. Era preoccupato, attento ad ogni parola dell'amico. "E' tutta la notte che discutiamo, dobbiamo decidere! Nuove armate sono in avvicinamento; noi siamo numericamente inferiori e gli strateghi ritengono che un combattimento sarebbe per noi fatale, ma se non ci muoviamo la guerra è già perduta... Ledon, io non so più che cosa fare. Migliaia di soldati, la Famiglia, l'intera Solamia sono in pericolo e tutto dipende da questa decisione." Disperato, Agor, si mise le mani nei capelli appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Ledon guardava il suo vecchio amico e padre di Lòren; nessuno, vedendo quest'uomo rannicchiato su se stesso, avrebbe riconosciuto il generale che all'epoca dell'Affermazione della Famiglia Deoscuridi guidò uomini e mezzi, sfidando eserciti e catastrofi naturali. Un uomo tutto d'un pezzo, coraggioso, forte e molto intelligente. Ma neppure lui, neppure il Grande Generale (come tutti lo chiamavano) sapeva più che cosa fare di fronte ad un nemico di quella natura. Ledon ricordò quando, da bambino, vide lo stesso uomo entrare con o fragoroso nell'alloggio di suo padre Adram e parlare di Cron. In realtà quella di Cron era una storia antica, che tutti i bambini avevano sentito raccontata dai padri e dai nonni durante le notti in cui la tempesta scuoteva l'aria ed i brividi per il freddo si confondevano con quelli della paura. Cron, il Deoscuridiano oscuro, il Cattivo figlio di madre Deos e di Dio padre Sad. La storia annegava nella leggenda: si raccontava che circa mille millenni prima che le genti imparassero a contare il tempo, Cron scappò da Deos e si ritirò su un'isola sperduta in mezzo all'Oceano di Savra. Battezzò quella terra senza nome chiamandola Lubra, le diede un popolo e ne divenne così il Signore e Padrone. La leggenda diceva più precisamente che Cron creò il suo popolo: dedito a riti occulti e in possesso di misteriosi poteri concepì l'Acqua di Rasia, che

somministrata ai neonati poteva plasmarli e mutarli in esseri mai generati in natura. Nella sua fuga, si raccontava, Cron trascinò con se un gruppo di neonati con i quali creò i primi Mutati. Ormai la fuga di quell'uomo primordiale veniva ricordata solo attraverso le storie che avevano riempito di incubi le notti dei bambini: "Se non stai buono chiamo Cron che ti porterà via!" Minacciavano le madri esasperate ai più capricciosi. Quando Agor parlò di Cron ad Adram sembrava ancora una favoletta; mai sbaglio produsse effetti così catastrofici. Lo stesso uomo che ora si disperava, con la testa stretta tra le mani, anni prima aveva fatto seguire al nome di Cron una fragorosa risata. Con i suoi occhi di bambino Ledon rivide ancora la scena vivida di colori e di presenze. "Ah! Ah! Ah! Pensa, Adram, che quegli ignoranti immelici della costa SudOvest stanno spaventando l'intera Solamia. Al porto di Aruni non si può girare l'angolo di una strada senza trovare una donna in lacrime o in piena crisi isterica." Agor parlava degli immelici come qualunque nobile della sua e delle altre Famiglie. "Quei bastardi senza sangue raccontano a tutti che Cron ha spedito i suoi Mutati per prendere i loro bambini appena nati. Pensa al caos che sono riusciti a provocare! Certo tutti sanno che sono dei bugiardi nati e ormai nessuna persona degna di essere chiamata tale dà più ascolto alle loro farneticazioni, ma questa volta hanno esagerato. E' vero che sono scomparsi dei bambini anche se, visto che non tutti sono segnati nel censimento, è praticamente impossibile stabilirne il numero esatto, ma li avranno mangiati i lepori, quelle schifose bestiacce che vivono nello stesso luridume in cui sguazzano gli immelici.” Ledon aveva preso il posto del padre dopo la sua morte prematura ed ora toccava a lui consigliare al meglio l'amico generale in questo momento di pericolo. "Ledon, l'allarme è scattato in tutta Solamia. Il cielo di Atra sarà presto oscurato dalle ali dei Ramib. La forte roccia che abbraccia Und sarà scossa dai Lorbati. Le limpide acque della cristallina Nim diventeranno torbide al aggio dei Seluvi. Il potere di Deos sarà soggiogato dai Carmid e dai Leda." Nel discorso concitato del Generale Agor i nomi delle capitali delle quattro Famiglie si mescolavano ai nomi di mostri mitologici, fuggiti dal loro mondo di

fantasia per diventare reali e terrificanti. "Le armate di Mutati di Cron porteranno ovunque distruzione." "Risponderemo all'attacco, impegneremo tutte le forze a disposizione." Rispose infine Ledon. "Cron non vuole contrattare la nostra resa, vuole distruggerci. L'unica cosa che possiamo fare è rendere questo suo fine più difficile da raggiungere." I due militari si guardarono negli occhi, entrambi annuirono. Questo era il loro ultimo incontro, ma si strinsero semplicemente la mano legando la promessa di rivedersi. Quando Ledon restò solo il suo primo pensiero fu per Lòren e per la figlia che, forse, non avrebbe mai conosciuto.

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CAPITOLO 2

Il suono della sveglia le fece fare un salto. Narciso stava dormendo profondamente, sognava. Quel fastidioso bip-bip continuava a chiamarla, ma lei non riusciva ad alzarsi; sentiva ancora la testa appesantita dal torpore del sonno. Finalmente allungò un braccio e dopo aver annaspato nell'aria un paio di volte riuscì a spegnere l'infernale ordigno. Compiuta l'erculea fatica, la ragazza ripiombò nel letto caldo e si avvolse nelle coperte, richiudendo gli occhi. Narciso continuava a rigirarsi tra le lenzuola come se tra quelle pieghe potesse ritrovare i brandelli del sogno che la sveglia aveva bruscamente interrotto. Volava sopra una città molto strana, i palazzi altissimi e vicini l'uno all'altro erano simili a cattedrali gotiche con guglie ricamate, contrafforti che elevavano i maestosi muri e torri che indicavano un cielo verde. Poi un occhio gigantesco di colore arancio con la pupilla nera e allungata come quella dei serpenti si sostituì al sole. Una luce azzurrina invase l'intero campo visivo, penetrando e squarciando i palazzi. I pianti e i lamenti che seguirono cessarono immediatamente, seguiti dal buio e dal silenzio. Un alone di luce delineò l'ombra di una persona sullo sfondo nero. Si avvicinava lentamente. Narciso era rassicurata da questa presenza ma ne era anche incuriosita e voleva conoscerla. Ma la sveglia aveva suonato. Narciso aveva già fatto sogni simili, ma non era mai riuscita a vedere il volto della persona dall'aura luminosa. Questa volta però era riuscita a distinguere in quell'ombra una figura femminile. Si alzò dal letto svogliatamente; appoggiando i piedi nudi sul pavimento freddo un brivido le percorse la schiena. Cercò con lo sguardo le pantofole. Non vedendole si piegò in due e le trovò nel posto meno accessibile. Distesa sul pavimento, Narciso cercava di raggiungere le pantofole mentre l'umidità del mattino le entrava nelle ossa. Infilò la vestaglia di lana e uscì dalla stanza ancora buia. Erano le sei e mezza, tutti in casa dormivano ancora. Narciso preferiva svegliarsi presto e prepararsi con calma la colazione prima di andare al lavoro. Faceva la commessa in una fioreria, un piccolo negozio non molto frequentato, ma

simpatico. Cinque giorni alla settimana prendeva l'autobus per raggiungere il quartiere residenziale poco distante da casa sua. Il negozio era collocato proprio dove la via principale incrociava il viale pedonale. Di fronte c'era un bellissimo giardino pubblico che era meta, già la mattina presto, di mamme con carrozzine, di anziani solitari e di ragazzini che non avevano voglia di are una giornata di sole nelle buie aule delle scuole. La fioreria sopravviveva grazie soprattutto ai clienti abituali. Il nome le era sempre parso azzeccato: EDEN. Era un vero paradiso. Si entrava da una porta di legno con i vetri all'inglese; ci si trovava così su un piccolo pianerottolo rialzato. Appena entrato, il cliente veniva sommerso dal profumo delle rose e delle camelie, rimanendo abbagliato dai colori delle orchidee e delle gerbere. Si scendevano poi i tre scalini di pietra della scala abbellita dalla ringhiera in ferro battuto. Il pavimento della sala quadrata era di semplici tavole di legno, le pareti ruvide e grezze erano di colore bianco ingrigito dal tempo. Tutto ciò contribuiva a rendere l'ambiente un po' selvaggio e rustico. I fiori erano sistemati per terra, in vasi si vetro opaco verde e blu; nelle nicchie scavate nelle pareti trovavano posto le piante interrate in vasi di terracotta. Il bancone, proprio in mezzo alla stanza, era stato ricavato da una lastra di marmo bianco appoggiata su due capitelli in stile barocco. Sotto il banco c'erano nastri colorati e coccarde, carte vivaci e trasparenti, scatole e sacchetti per impacchettare i fiori dai colori ione, candore, gelosia e dalle fragranze sogno, speranza, bugia. Sopra, invece, un registratore di cassa cercava di mettere, da solo, un po' di ordine in quel caos. L'enorme stazza di metallo sbalzato, il cassettone per i soldi, i grossi tasti con i numeri che saltavano fuori a formare il prezzo facendo un gran rumore di ferraglia e un grazioso 'ting' finale; tutto contribuiva a creare l'atmosfera. La luce era diffusa, oltre che dal lampadario in ottone con le gocce di vetro trasparente, anche dai finestroni posti in alto, su tre delle quattro pareti che formavano la stanza. Ma quello che le era sempre piaciuto, fin dalla prima volta che entrò nel negozio, era il rosone di vetro colorato, come quello delle chiese. Posto sulla quarta parete, proprio di fronte all'entrata, raccoglieva la prima luce del mattino e animava le pareti bianche di mille riflessi.

"Ciao. Vi ho messo il caffè sul fuoco." Sua madre la stava guardando con gli occhi semichiusi, infastidita dal timido sole che entrava dalla finestra della cucina: il suo viso assumeva così un espressione corrucciata e severa ma con il pigiama sgualcito e i capelli arruffati assomigliava molto ad una bambina. "Non ho dormito niente." Disse dopo aver bevuto un sorso di caffè. "Non ho proprio voglia di andare a lavorare, oggi... con quelle pesti!" La mamma lavorava come insegnante in una scuola elementare e le 'pesti' erano, ovviamente, i suoi alunni di sei-sette anni. Stropicciandosi i capelli già spettinati continuò a parlare tra uno sbadiglio e l'altro. "E' una vera impresa riuscire a farli stare fermi, figurati insegnar loro a leggere e a scrivere. Narciso, metti a posto quello che hai usato... e dovresti andare a fare la spesa." Se c'era una cosa in cui sua madre riusciva veramente bene era mescolare i discorsi in modo da confondere la mente dell'interlocutore, specie la mattina presto. "Sono sicura che tu riuscirai a metterli in riga... e guarda che sto già mettendo a posto. Non posso fare la spesa perché oggi sono tutto il giorno al negozio." Ricevette solo un grugnito come risposta. Narciso decise allora di andarsene; fin da bambina aveva imparato che era meglio lasciare la mamma da sola quando era nervosa. Andando verso la sua camera, Narciso ò vicino al bagno dove c'era suo padre. "Dov'è la camicia?" chiese papà orso. "Cosa vuoi che ne sappia. Sarà dove l'hai lasciata tu ieri sera!" gridò mamma orsa dalla cucina. Sì! Narciso si era svegliata nello stesso mondo in cui si svegliava ogni mattina, quando tornava dal 'suo' mondo dei sogni. Come ogni mattina (da circa vent'anni era così) assisteva al solito rituale di musi lunghi e occhi spenti, di sonori sbadigli e domande e risposte urlate da una stanza all'altra. Ma ogni volta trovava tutto questo davvero divertente. Fermandosi di fronte alla camera di suo fratello, aprì la porta: 'Ma guardalo, già maggiorenne e si addormenta ancora con la TV accesa.' Narciso spense il televisore per evitare che lo vedessero i genitori e per evitare discussioni che, soprattutto la mattina presto, le erano indigeste.

"Svegliati pigrone, sono già le sette!" Le coperte si mossero come risposta e lei lasciò la porta aperta perché il fratello non si riaddormentasse. Finalmente raggiunse la sua camera, aprì le finestre lasciando che il vento freddo depurasse l'aria oppressiva della stanza. Il sole entrò prepotente ad illuminare la confusione prima celata dall'oscurità. La sera prima, spogliandosi per andare a dormire, aveva lanciato i vestiti per terra; ora li stava raccogliendo ma solo per abbandonarli disordinatamente sul letto: non voleva arrivare tardi al lavoro. Entrò nel bagno; fortunatamente ne avevano due perché suo padre occupava ancora l'altro per farsi bello. "E' peggio delle donne!" lo prendeva spesso in giro la mamma. Lavata e vestita, Narciso prese il giubbotto pesante; fuori tirava il vento e la temperatura si era abbassata ancora. "Ciao!" Altri tre 'ciao' un po' distratti le risposero. Uscendo in fretta non si era ancora abbottonata il giubbotto e l'aria gelida del primo giorno di febbraio le congelò il petto. Non si curò di coprirsi e corse velocemente verso la fermata dell'autobus. Smise di correre solo quando vide l'autobus fermo al capolinea, senza l'autista che era sicuramente al bar vicino a prendersi un caffè. Incontrò le solite facce. Sorrisi, brevi cenni con la testa che potevano essere interpretati come un saluto ma anche come un tremito per il freddo. Ad ognuno di quegli estranei, Narciso aveva cucito addosso una storia: i due fratellini che andavano a scuola con la cartella più grande di loro; le tre amiche adolescenti starnazzanti (non le sopportava); l'impiegata, sua coetanea, sempre ben vestita ma che sembrava così vecchia; l'anziana signora che scendeva in centro per fare la spesa e per spettegolare con le amiche al bar; l'uomo sempre vestito di scuro, un quarantenne dalla faccia truce e sempre arrabbiato con il mondo. Finalmente l'autobus partì; percorreva il solito tragitto ma un po' più in fretta degli altri giorni: era evidentemente in ritardo e ad ogni frenata ed accelerata faceva sobbalzare i poveri eggeri. Le vie ed i negozi erano i soliti di ogni mattina come anche le stesse erano le persone che salivano alle diverse fermate. Le vedeva fare le stesse cose da circa un anno e si sorprese ad accorgersi di far parte anche lei di quel rituale. Aggrappata alla rassicurante quotidianità, ma in un certo senso vincolata dalla stessa, Narciso pensava: 'Chissà dove va tutta questa gente! Chissà a che cosa pensa! Com'è la loro vita? E loro pensano a

com'è la mia vita? Viviamo vite così vicine ma così distanti. Non ci conosciamo eppure viviamo nello stesso tempo e nello stesso spazio.' Narciso si burlò di sé stessa e sorrise a quei pensieri 'filosofici' voltandosi verso il finestrino per non essere vista dagli altri. Non c'era mai un giorno diverso dagli altri: qualche volta si aspettava proprio che qualcosa di nuovo accadesse, ma ne rimaneva sempre delusa. Così si aggrappava con tenacia alla quotidianità e contemporaneamente ne era infastidita. Aprì la saracinesca ma la lasciò alzata a metà come sempre prima dell'orario di apertura al pubblico. Chiuse la porta con i vetri all'inglese dietro le spalle; era tardi e doveva ancora preparare i fiori. Narciso si prese un attimo per annegare nei riflessi colorati che balenavano nel rosone dalla luce bianca del sole. Uno sguardo al polso e l'orologio le fece da ammonimento. Aprì le finestre e mise nel registratore una cassetta di musica classica: non le piaceva lavorare nel silenzio ed aveva notato che sia le piante che i clienti apprezzavano il sottofondo musicale. Una frenata stridente annunciò l'arrivo del camioncino proveniente dal mercato dei fiori. "Ciao." "Ciao! Bella giornata." "Un po' fredda." Il ragazzo scaricava le piante e lei le disponeva una per una nei vasi. La porta principale si spalancò fragorosamente, spinta dalla corrente d'aria alimentata dall'uscio sul retro ancora aperto. Era la signora Rosa, la padrona del negozio. Aveva ottanta anni ma era sempre vivace, aveva un luccichio negli occhi come quello dei bambini quando scoprono il mondo. "Buongiorno tenero fiorellino, il sole ha già asciugato i tuoi candidi petali dalla rugiada del mattino?" Narciso, sorridendo, rispose con un semplice 'buongiorno'. Ogni giorno, Rosa, l'accoglieva con saluti del genere: "Piacevolmente pazzi" amava definirli l'arzilla signora.

Poco meno di un anno prima Narciso si era presentata per il lavoro di commessa. Era uscita di casa infuriata con la mamma: c'era stata la solita discussione sulla scuola e sul futuro che non portava mai a niente; poi erano iniziate le critiche sugli amici, le preoccupazioni perché non aveva ancora un ragazzo e altre cose che non avevano niente a che vedere con il discorso di partenza. Erano cose che facevano impazzire Narciso che, immancabilmente, infilava la porta e usciva per scaricarsi un po'. Quel giorno, camminando di fretta, arrivò di fronte alla fioreria 'EDEN' dove era esposto un cartello: 'cercasi commessa'. Narciso non ci pensò due volte e decise di entrare. Il profumo dei fiori la stordì, mentre i suoi occhi non potevano fare a meno di fissare estasiati il rosone che brillava con splendidi colori; Narciso si perse in quel mondo. Non si rese subito conto di essere impalata sul pianerottolo e non si accorse neppure che la padrona del negozio la stava fissando con aria interrogativa. Finalmente Narciso si ritrovò. "Sono venuta per il posto di commessa... " L'anziana signora non la lasciò terminare la frase. "Io sono Rosa, un nome adatto al lavoro che faccio, vero? E tu, come ti chiami?" "Narciso..." Rosa, entusiasta, la interruppe nuovamente. "Narciso! uno splendido fiore. Al giorno d'oggi è così raro trovare persone con nomi così belli. Tua madre adora forse i narcisi?" "Veramente il mio nome è stato scelto dalle infermiere dell'ospedale. Mi abbandonarono all'età di un anno, dentro una di quelle case degli specchi che arrivano in città con la fiera. Il proprietario dell'attrazione mi trovò una sera, dopo la chiusura. Disse all'infermiera di turno che me ne stavo tranquilla e assorta nel contemplare la mia immagine allo specchio. Penso mi abbiano chiamato Narciso per il mio comportamento narcisista e non pensando al fiore. Quando i miei genitori mi adottarono decisero di lasciarmi questo nome perché era strano per una bambina. A loro piacciono le cose strane, le considerano speciali." "E tu devi essere una persona molto speciale. Sei proprio la persona che fa al caso mio, ti assumo."

Rosa le era sempre sembrata una persona adorabile e curiosa allo stesso tempo. Si erano piaciute all'istante e da allora la loro amicizia non faceva che crescere. Giorno dopo giorno si erano conosciute imparando i desideri dell'una e i rimpianti dell'altra. Era arrivato il momento di aprire il negozio. I primi clienti, i soliti clienti. Poi la pausa per il pranzo. Il pomeriggio trascorse senza fretta ed alla fine Narciso fu felice che anche l'ultimo cliente se ne fosse andato. Chiuse finalmente il negozio. Rosa era già andata a casa e Narciso puliva con attenzione ma cercando di finire al più presto: era sabato sera e doveva prepararsi per uscire con gli amici. Rientrata in casa venne salutata dagli spari di una guerra lontana, avvicinata solo grazie ai potenti mezzi della TV; i suoi genitori erano in salotto mentre suo fratello era certamente già uscito. "Mangi qualche cosa prima di andare?" "No mamma, lo sai che poi quando ballo mi resta tutto sullo stomaco!" Sempre di fretta Narciso entrò nella doccia. L'acqua tiepida le bagnava i capelli, gli occhi, le braccia, la schiena, le gambe; sentiva scorrere via tutta la stanchezza. In questi momenti, quando il suono dell'acqua copriva i rumori della sua vita, Narciso pensava. Pensava a come erano monotone le sue giornate, una la copia dell'altra. La cosa peggiore era che le sembrava di recitare una parte seguendo rigorosamente un copione scritto da qualcun altro. Però era anche spaventata dalle cose nuove ed alla fine si ritrovava a desiderare che nulla cambiasse. Aveva vent'anni e le pareva di non aver combinato nulla nella sua vita: sua madre alla sua età era già sposata e con le pratiche per l'adozione già in corso. Un paio di anni dopo era anche rimasta sorprendentemente incinta di suo fratello. Come sarebbe stato avere un bambino? Ora, una tragedia. Adorava i neonati, ma si sentiva ancora troppo bambina per prendersene cura. Narciso si considerava molto immatura anche rispetto alle sue coetanee che vedeva più cresciute e sicure. Tutte sembravano sapere perfettamente cosa volevano dalla vita. Lei ancora non sapeva che strada prendere: certo aveva un lavoro che la soddisfava, molti amici con cui si divertiva, una famiglia che adorava, una giusta dose di sentimenti e storie appena abbozzati che promettevano di rendere

interessanti i prossimi anni di vita e che avevano la possibilità di espandersi, in un futuro non troppo lontano. Eppure le sembrava tutto così temporaneo, sentiva che era solo di aggio su quella strada e che probabilmente quello che cercava (che non sapeva ancora cosa fosse) era da qualche altra parte. Le mancava qualcosa. Questo senso di vuoto l'aveva avvertito fin dall'infanzia; come se fosse senza un braccio o una gamba, si sentiva incompleta. L'assistente sociale che l'aveva seguita nei primi anni della crescita, dopo l'adozione, diceva che probabilmente c'era in lei il desiderio, mai confessato, di scoprire l'identità dei genitori naturali. No! Era convinta che non fosse questo il suo caso. Perché cercare chi l'aveva abbandonata quando aveva una famiglia che l'aveva seguita e amata per anni? Il tempo era scivolato via e non ne era rimasto che una goccia, così spinse le sue domande impossibili in un angolino per tirarle fuori, disordinatamente, un'altra volta. Il camlo suonò prima di quando avesse voluto. Un rapido sguardo allo specchio: aveva la faccia così seria, la cancellò con una smorfia. Sorridendo corse verso la porta. Fuori, sulla strada, due macchine aspettavano con i motori accesi. Erano gli amici con i quali era solita andare in discoteca o ai concerti rock. Narciso salì sulla macchina di Eva. "Ciao, come va?" Chiuse in fretta la portiera, era poco vestita e il giubbotto non le copriva le gambe. Eva era bellissima, come sempre. Aveva i capelli lunghi di un rosso caldo e fiammeggiante, mossi da morbide onde. Di statura alta, aveva un fisico atletico ma molto femminile. La sua bocca sottile non smetteva mai di parlare e guardando nei suoi grandi occhi azzurri potevi capire che diceva sempre la verità. A Narciso piaceva molto: se fosse stata un uomo, Eva sarebbe stata la sua donna ideale; visto che era una donna avrebbe voluto essere come lei. Eva studiava per diventare medico e intanto faceva volontariato in diverse associazioni. L'aveva sempre ammirata per questo suo coraggio. A volte Narciso ava interi pomeriggi in silenzio, si sentiva un'incapace perché sapeva che non sarebbe mai riuscita a prendersi una simile responsabilità. "Ciso…" di solito Eva la chiamava così per prenderla in giro e per sdrammatizzare "…non devi sentirti inutile solo perché non fai quello che faccio

io. Ognuno ha la sua strada da seguire, la mia è questa. C'è un tempo giusto per ogni cosa, quando sarà il momento anche tu capirai qual è la strada da percorrere. Credimi, da quel momento tutto ti sembrerà più chiaro e sarai soddisfatta di te stessa. Non fare quello che ti dicono gli altri e anche se ti sembra solo di perdere tempo, tu continua a pensare con la tua testa, altrimenti rischi di camminare su una via sbagliata che non ti porterà in alcun posto." Tra le due ragazze c'era un'amicizia così profonda che non serviva parlare per capirsi, non serviva vedersi ogni giorno per dimostrarsi l'affetto che entrambe provavano e ogni volta che si incontravano erano così affiatate da sembrare un'unica persona. Nella macchina, con Eva, c'erano anche Davide e Ares. Davide era il buffone del gruppo, faceva sempre ridere tutti, ma per certe cose era un tipo molto serio. Era convinto che l'amicizia fosse tutto nella vita e, proprio per questo, era troppo possessivo nei confronti degli amici. Ares era un tipo strano, sembrava che non avesse molto a che vedere con loro. Molto silenzioso e decisamente solitario, sapeva essere un vero amico nel momento opportuno. Non lavorava, aveva beneficiato di un'ingente eredità e viveva di rendita. Rimasto solo al mondo si era trasferito da poco più di un anno in quella piccola città solo perché gli era piaciuto il nome. Era un artista e dipingeva splendidi quadri che poi per lo più regalava agli amici. "Dipingo paesi che non esistono, persone che non ci sono ma che vivono più di noi." Ares entrò nella vita di Narciso con l'irruenza dei colori dipinti sui suoi quadri e con il mistero del loro significato. Si incontrarono per la prima volta ad una mostra; non servì parlarsi e non servì conoscersi, perché entrambi sapevano tutto dell'altro, perché erano così simili che credettero di trovarsi di fronte ad uno specchio. La loro era un'amicizia fatta di innocenza, ma fin dall'inizio il sentimento che li legava cominciò a spostarsi verso altri luoghi del cuore trasformandosi in qualcosa di nuovo. I due ragazzi non gli dettero un nome e non gli trovarono uno scopo, lasciarono tacitamente tutto in mano al tempo e continuarono a vivere la loro storia in perenne evoluzione. Narciso ammirava il pittore che era in lui. Una volta Ares le disse che si sentiva molto ispirato da lei, che nei quadri dipingeva ciò che vedeva riflesso nei suoi occhi. Effettivamente, i dipinti grandi quanto una parete sembravano fotografie delle misteriose città

gotiche che Narciso sognava e le persone-ombra dall'aura luminosa che vagavano in quelle città erano riportate fedelmente nei quadri. Finalmente videro le luci della discoteca. Le due auto trovarono parcheggio a pochi metri di distanza l'una dall'altra. Dalla seconda macchina scesero Anna, Sara, Alex e Luca. Anna era una ragazza molto introversa che si nascondeva dietro le lenti degli occhiali. Aveva paura della gente, soprattutto dei ragazzi, ma nonostante questo aveva fiducia nel prossimo e credeva che nessuno volesse fare del male a qualcuno solo per il gusto di farlo. Narciso, fin dall'inizio, si era sentita in dovere di proteggerla e le era sempre stata vicino. Sara al contrario era molto frivola; a volte si comportava da egoista perché si credeva migliore degli altri. Ma non faceva la saccente e non provava a cambiare gli altri per renderli simili a lei. Sapeva essere anche simpatica e, in fondo, non era una cattiva ragazza. Alex (Alessandra) e Luca erano la coppietta del gruppo. I perenni fidanzati stavano insieme dai tempi dell'asilo; fin dal primo giorno non facevano che litigare e non sembrava volessero smettere: forse era proprio questo il segreto del loro amore. La notte senza lampioni della strada di periferia si lacerò in un abbaglio: erano i fasci di luce dei riflettori che dalla discoteca puntavano dritti verso il cielo. In discoteca Narciso poteva finalmente liberarsi. I suoni fragorosi le impedivano di sentire gli altri, in questo modo riusciva ad ascoltare il ritmo tribale che le risuonava nella cassa toracica. Le luci stroboscopiche non le permettevano di vedere gli sguardi degli altri, solo così poteva fare ciò che voleva senza essere toccata da ciò che la circondava. Ed era così che Narciso avrebbe voluto vivere: are attraverso la vita senza essere sfiorata, andare dritta verso la meta senza essere fermata. Invece ogni parola pronunciata da altri e ogni evento esterno avevano il potere di scalfirla e il dolore provocato risuonava a lungo in lei. Nella sua pur breve vita il cristallo si era ormai incrinato perdendo la purezza che aveva alla nascita e l'affresco che aveva dipinto per riparare il danno non riusciva più a nascondere le crepe.

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CAPITOLO 3

Il primo impulso fu quello di scaraventare la sveglia troppo rumorosa per terra; poi Narciso decise semplicemente di spegnerla ed alzarsi: era domenica mattina, ma non poteva dormire ancora, doveva incontrare Rosa. Pensò di andare a piedi fino alla casa della sua amica, dopotutto non era poi così distante. Il tiepido sole invernale non riusciva a scaldare l'aria di quella giornata; Rosa le aveva chiesto questo favore, doveva parlarle di questioni di lavoro e così aveva approfittato per invitarla a colazione. Rosa non aveva neppure immaginato che la sera prima Narciso avesse fatto le ore piccole ma alla ragazza dispiaceva non rispettare un impegno e quindi, anche se ancora assonnata, stava percorrendo frettolosamente le strade quasi deserte. Narciso si incamminò lungo il viale alberato; il freddo la costringeva ad accelerare l'andatura eppure le sembrava che ogni o fosse più lento di quello precedente. I neri rami scheletrici dei tigli si stagliavano contro il cielo bianco formando un grande ricamo sopra la sua testa. Sulla destra una rete metallica separava il marciapiede da una boscaglia informe, a sinistra della via invece si apriva un piazzale in cemento. Attraverso la nube di vapore che le usciva dalla bocca riuscì a scorgere una lunga fila di TIR parcheggiati: era arrivato il Luna Park. Vedeva gli uomini lavorare per allestire i prefabbricati che, una volta montati e addobbati, avrebbero attirato tutte le persone che vivevano in città e nei dintorni. "Tra due giorni incomincerà la fiera e così, per almeno una settimana, questa città così piccola da sembrare un paese crederà di essere il centro del mondo." Parlava da sola. "La gente uscirà dagli uffici-formicai e dalle case-tane per precipitarsi in massa a vedere le bancarelle colme di cose inutili ai prezzi migliori, di benessere venduto a etti, di felicità a basso costo. Poi ci saranno le giostre: le attrazioni per bambini, cavallini e macchinine; quelle per i più grandi, giri della morte e centrifughe interstellari." Una pausa che durò meno di un respiro bastò a Narciso per rendersi conto che quelle parole erano cariche di un odio che lei non riconosceva. A lei piacevano le

giostre 'sconvolgistomaco', non vedeva l'ora di mangiare una buona frittella e sapeva già dove si fermava la bancarella dalla quale ogni anno acquistava almeno un paio di orecchini. "Mi domando perché da qualche giorno vedo tutto nero… di solito sono così ottimista e fiduciosa." Camminava soprappensiero, così che quasi sbagliò strada. Si trovò di fronte alla casa di Rosa e suonò il camlo quasi senza rendersene conto. Nessuno rispose al citofono, ma Narciso sapeva che Rosa era in casa. Visto il prolungarsi del silenzio cominciò a temere che le fosse successo qualche cosa, dopotutto aveva una certa età. Scavalcò il muro di cinta arrampicandosi sul bidone della spazzatura; la porta posteriore che dava sul giardino era aperta: Rosa non la chiudeva quando era in casa. Appena entrata si ritrovò in cucina e vide Rosa seduta al tavolo. La donna le dava le spalle e perciò non la vide entrare. Narciso cercò di fare rumore con le scarpe perché l'amica non si spaventasse nel vederla arrivare come un fantasma, ma appena le fu di fonte capì che non avrebbe fatto differenza. Rosa alzò la testa e guardò nella direzione di Narciso. I lunghi capelli bianchi, di solito intrecciati in una crocchia, erano raccolti in una coda frettolosa e molti ciuffi uscivano spettinati dall'acconciatura. Gli occhi erano lucidi e piccolissimi, annegati nelle lacrime che scendevano lentamente seguendo le rughe del viso, lungo le scie lasciate dalle tante lacrime che già le avevano bagnato il volto. Gli occhiali, che solitamente Rosa non si toglieva mai, ora erano abbandonati sul tavolo accanto alla bottiglia di vino. Non era un'alcolizzata, ma quando i problemi prendevano il sopravvento e lei si sentiva sola e fragile, per sopportare l'impatto con gli eventi doveva uscire dalla realtà. Narciso si avvicinò e si sedette per terra appoggiando la testa sul grembo della donna; sapeva che in quel momento, più che di comprensione, Rosa aveva bisogno di sentirsi utile e necessaria. La signora le accarezzò i lunghi ricci. "Mio piccolo bocciolo, cosa è successo?... Ti ho sempre detto che, ogni tanto, dovresti tirare fuori le spine, altrimenti tutti ti metteranno i piedi in testa." La sua voce sembrava provenire da un posto lontano. In quale luogo sconosciuto si era persa? Narciso non sapeva bene come aiutarla e rimase ad ascoltarla sperando che la soluzione venisse da Rosa stessa.

"Non è colpa tua se hai paura della gente, ma non dovresti continuare a nasconderti dietro una maschera." Con chi credeva di parlare? Forse parlava solo con sé stessa. "Nessuno ha colpa se Viola è morta." Seguì una lunga pausa durante la quale Narciso poté rendersi conto di quello che era accaduto. Viola era la figlia della signora Rosa: ricordò che una volta l'anziana donna le aveva raccontato che l'aveva cacciata di casa, senza però spiegargliene la ragione. Ora, evidentemente, si sentiva in colpa perché mai più avrebbe potuto tornare sui suoi i. Un errore non è mai troppo grande se c'è la possibilità di rimediare, ma la morte non lascia scampo: fa sorgere dubbi là dove prima c'era solo certezza, imprigionando una persona nel proprio dolore. "Cara ragazza, non aspettare. Prendi ciò che vuoi ora e fai quello che vuoi fare, perché se ci pensi troppo l'occasione a e non torna più. Credimi se ti dico che, alle volte, l'istinto vede meglio della ragione. E' questa la via giusta. Avrei dovuto chiamarla subito e perdonarla invece di pensare troppo. Più si pensa e più si ha paura di sbagliare, di ferire sé stessi e gli altri. Io ho paura di apparire come sono, debole. La paura è la peggior ragione per cui non fare qualcosa." Quando uscì da quella casa Rosa non piangeva più, ma Narciso aveva un grande peso sul cuore e un'angoscia che la soffocava. Di fronte alla porta di casa sua, Narciso fece un gran respiro, si dipinse un sorriso sulla faccia ed entrò. Per tutto il pomeriggio Narciso rimase chiusa in camera, con il volume della musica più alto del solito; voleva evitare di pensare e sperava, in quel modo, di spazzare via ogni ricordo di quella mattina. Aspettò impaziente che giungesse la sera come se questo evento avesse il potere di rigenerarla e di rassicurarla, ma la sera venne e non portò soluzioni di sorta. I suoi amici la vennero a prendere e dopo i soliti giri e i soliti locali capitarono dalle parti della fiera e decisero di fare una eggiata. L'aria era frizzante e tra i baracconi si incanalavano le raffiche di vento. Non tutti gli spazi del piazzale in cemento erano stati occupati e le attrazioni già montate avevano un aspetto lugubre con le loro braccia meccaniche immobili e le luci colorate spente. Camminando per le vie di quel 'Paese dei Balocchi' itinerante ancora deserto risentirono le risate e ricordarono le esperienze degli anni ati: il ragazzo che

si era fatto male su quella giostra, gli occhiali rotti su quell'altra, i guanti persi, i soldi rubati. Narciso a volte si stupiva di quanto nostalgici fossero i ragazzi; avevano pochi ricordi eppure parlavano di quando erano piccoli come i vecchi parlano della loro gioventù perduta. Forse la loro generazione era corsa così velocemente verso la maturità che ora si era fermata per riprovare l'ebbrezza di essere incoscienti e irresponsabili. Oppure erano rimasti così immaturi fin da allora. Poi qualcuno disse: "Giochiamo a nascondino?" Tutti ne furono entusiasti, ma non Narciso che aveva sempre odiato quel gioco, fin da piccola. E come quando era piccola anche adesso disse che per lei andava bene, perché il gruppo è forte e non si può abbandonare. Stette sotto Luca: mentre contava tutti si sparsero correndo in diverse direzioni. Mentre si allontanava Narciso sentiva i i frettolosi degli altri sul cemento della piazza e i colpi sulle pareti metalliche delle baracche. Il suo scopo era quello di non farsi prendere per prima, così al giro successivo non sarebbe toccato a lei cercare gli altri. Correva senza un'idea precisa, girava a destra e poi sinistra, intrufolandosi negli stretti spazi tra i baracconi, scegliendo d'istinto. Sembrava stesse scappando per salvarsi la vita e quasi riusciva a sentire il respiro del suo aggressore. Poi il fiato le mancò e la testa incominciò a girarle, infine i muscoli delle gambe non risposero più efficacemente agli stimoli nervosi. Si fermò di botto e si guardò attorno disorientata. Baracche, giostre, giochi elettronici, tutto era uguale ai posti che aveva già attraversato, solo che non sapeva dove si trovasse. Solo il silenzio era diverso: non sentiva più i i dei ragazzi, la voce di Luca… anche il vento era cessato. Non avrebbe potuto trovare nascondiglio migliore, infatti era così nascosta che si era persa. Non riusciva a crederci eppure era così. Una paura che aveva il sapore delle più terribili fantasie infantili la colse ed improvvisamente l'idea di non essere trovata non le suonava più così bene. Un sussurro. Era il suo nome quello che aveva udito? Si voltò sperando di vedere la faccia soddisfatta di Luca, ma non c'era nessuno. Era solo il vento che aveva ricominciato a soffiare e che fischiava ando tra le inferriate dell'attrazione che le stava di fronte. Narciso si sentì stranamente incuriosita da

quel baraccone. Era solo la 'casa degli specchi', una di quelle in cui non andava mai perché, di solito, o ne usciva troppo presto oppure non ne usciva affatto. Eppure questa era diversa, non le sembrava di averla mai vista gli anni precedenti. L'attrazione non aveva le solite pareti di metallo con le luci al neon colorate e con il solito nome d'effetto a caratteri cubitali. Era fatta di legno e aveva un'insegna di ferro scuro su cui si stagliavano delle lettere dorate: SOLAMIA. Si avvicinò ma guardando oltre le sbarre di ferro vide solo un buio più scuro della notte. Poi udì il rimbombo dei i pesanti della corsa sul cemento del piazzale. "Narciso! Vieni fuori, il gioco è finito." Quella notte Narciso sognò di risvegliarsi rannicchiata in una scatola con le pareti fatte di specchi. Lei guardava la propria immagine ripetersi all'infinito e allontanarsi sempre di più. Le pareti si deformarono e lei con loro. Gli specchi si sciolsero infine come neve al sole e lei si ritrovò a galleggiare sul mare. Il sale le bruciava gli occhi e le seccava la pelle, l'acqua le copriva le orecchie e lei non riusciva più a sentire nulla di quello che avveniva in superficie: udiva solo il rumore delle correnti marine e il suono dei movimenti dei pesci. Poi un tonfo, un altro, cento, mille. Una pioggia di sassi incandescenti seccò il mare e sotterrò il corpo di Narciso. Lei avvertiva il peso delle pietre e si sentiva soffocare. Si svegliò gridando senza emettere alcun suono. Per tutto il resto del giorno non pensò ad altro che a 'Solamia'. La sera non riuscì ad addormentarsi e rimase sveglia a pensare tutta la notte. Con la luce spenta e la finestra aperta poteva vedere la luna restando distesa sul suo letto: era gialla e aveva la forma dell'occhio del gatto. La ragazza si lasciò traare dall'aria fredda sperando che le portasse via dal cuore il peso dei pensieri che le vagavano per la mente. Non fu così e continuò a fissare quell'occhio indagatore che si apriva nella notte senza stelle. Mentre nasceva il sole un sorriso sorse sul suo viso: quella sera sarebbe andata a visitare 'Solamia', l'oggetto dei suoi desideri (e dei suoi incubi). La fiera aveva aperto i battenti già la mattina, ma lei poté andarci solo dopo il lavoro. Aveva appuntamento con i suoi amici e, come tutti gli anni, andarono su tutte la giostre possibili, affamati di brivido e di divertimento. Narciso però era pensierosa e gli altri se ne accorsero. Voleva andare alla casa degli specchi che l'aveva tanto frastornata, ma non voleva condividere questa esperienza con nessuno. Nascose il proprio turbamento con il silenzio e rimase in attesa. La

serata finì presto perché il giorno dopo c'era chi doveva lavorare e chi doveva studiare. Narciso aspettò che tutti si avviassero verso casa, rifiutò la proposta di Ares che voleva riaccompagnarla a casa e si diresse finalmente verso la giostra di nome Solamia, da sola. Non c'era nessuno in fila per fare il biglietto ed entrare nella casa degli specchi; alla cassa c'era un uomo che la stava fissando. Era sulla cinquantina, forse più. capelli piuttosto lunghi striati di bianco, carnagione olivastra, sguardo che perforava le pupille. Sembrava fuori posto e anche la cabina che fungeva da cassa era troppo piccola per lui che nonostante l'età aveva un fisico da lottatore con le spalle larghe e le braccia muscolose. Narciso si decise ad entrare; sentiva che a 'Solamia' avrebbe trovato le risposte alle domande che la tormentavano. Una volta comperato il biglietto (l'uomo non le rivolse mai la parola e lei capì solo da un suo cenno della testa che l'aveva salutata ed invitata ad entrare) si trovò di fronte ad una massiccia porta di legno. Girò la maniglia di ferro brunito e la porta si aprì scricchiolando: era molto pesante e Narciso dovette tirare verso di sé con tutta la sua forza. Al di là c'era solo il buio. Entrò in quello che immaginò essere un corridoio; procedeva lentamente e con le mani tastava le pareti, così si accorse che queste ultime si stavano lentamente stringendo attorno a lei. Ad un certo punto il aggio divenne così stretto che fu costretta a mettersi di fianco per sgusciare fuori dal corridoio. Narciso cercò allora a tentoni il muro ma non lo trovò: evidentemente era entrata in una stanza più grande. Si sentiva a disagio, non sapeva dove si trovava, aveva paura. Ma si fece coraggio perché sapeva (come lo sapeva?) che presto sarebbe successo qualcosa. Improvvisamente ciò che stava aspettando si materializzò sotto forma di punto luminoso. La luce si alzò da terra accendendosi sempre di più. Narciso poté finalmente vedere la candela che con la tremante luce gialla illuminava tutta la stanza. Era appoggiata in equilibrio sopra un tavolino di pietra; lei la prese e l'avvicinò al viso. Il tepore della fiamma era rassicurante e decise di dare un'occhiata in giro. Si spostò lentamente tenendo la fiamma di fronte a sé e stando attenta a non

spegnerla. Quella flebile luce era l'unica cosa che le impediva di cadere nel buio che la circondava e che minacciava continuamente di inglobarla. Si accorse che la stanza non era così grande come aveva immaginato in un primo momento; era esagonale e quattro delle pareti erano fatte di un materiale molto simile all'ebano: erano nere, lucide e molto fredde. Uno dei lati era costituito dall'apertura attraverso la quale era entrata mentre l'ultimo lato, che le stava di fronte, non poteva che essere l'uscita. La seconda stanza era a base ottagonale e vi erano sette specchi che ne delimitavano il perimetro: sembrava quindi che fosse un vicolo cieco. Doveva tornare indietro? Ma non c'era nessuna altra porta nella stanza precedente. Percorse lo spazio delimitato in senso orario e si fermò a specchiarsi di fronte ad ogni specchio, ma nell'ultimo non vide la propria immagine riflessa: vide invece una figura coperta da una lunga veste nera, simile a quella dei frati, con il cappuccio che gli copriva il volto. L'immagine teneva con una mano una candela (in maniera speculare rispetto a Narciso) e con l'altra un vecchio libro rilegato in pelle e con delle grosse borchie in metallo agli angoli. Narciso appoggiò il palmo della mano al vetro che la separava dalla strana figura; il contatto fu di breve durata perché la superficie si sciolse aprendo un varco. Le stavano accadendo cose molto strane, ma Narciso non sembrava sorprendersi: era così presa dalla ricerca che non riusciva a fermarsi neppure di fronte ad eventi che avevano del soprannaturale e che avrebbero dovuto spaventarla o per lo meno indurla a farsi delle domande. In realtà sentiva dentro di sé una grande forza che le premeva le viscere e che la spingeva ad andare avanti e nello stesso tempo la rassicurava che andava tutto bene; Narciso non trovò altro nome che 'curiosità' per descrivere ciò che provava, ma il termine era improprio e limitato perché mai aveva provato qualcosa di simile. Narciso seguì l'ombra incappucciata e si ritrovò in un buio corridoio. La ragazza aveva la mano destra impegnata a reggere la candela ma con la sinistra continuò a tastare le pareti ruvide: si accorse così che c'erano molte aperture nel muro e ce ne dovevano essere altre sull'altro lato. Dove conducevano? L'ombra continuava il suo lento ma incessante cammino girando prima a destra e poi a sinistra, ancora a sinistra e poi a destra. Si stavano addentrando in un

labirinto e di colpo Narciso fu assalita dal timore di non poter tornare più indietro e contemporaneamente dal terrore di non riuscire a proseguire se avesse perso di vista la sua guida. Per un attimo la ragione ebbe il sopravvento e Narciso incominciò a farsi delle domande razionali: quanto tempo era ato da quando aveva aperto la porta della casa degli specchi? Non poteva stabilirlo anche perché si accorse in quel momento di non avere più l'orologio al polso. E soprattutto come era possibile comprimere un labirinto così complesso in uno spazio ristretto come le era sembrato il baraccone dall'esterno? La risposta era semplice e nello stesso tempo contorta: era impossibile. Ma neppure queste riflessioni logiche riuscirono a fermarla. L'ombra che stava seguendo affrettò l'andatura; il cuore di Narciso accelerò il battito seguendo i i sempre più frettolosi della sua guida. Infine perse di vista la figura incappucciata ed anche il suono dei suoi i si spense nel silenzio assoluto. La speranza si riaccese tenue ed incerta in fondo al corridoio; Narciso si diresse verso la luce, unica presenza a farle compagnia in quel mondo. Entrò in una sala con dieci lati; il pavimento, le alte pareti e il soffitto erano lisci pannelli di vetro nero. Al centro della stanza c'era uno scranno di legno e, di fronte, un leggio tutto intarsiato. Sparse per tutta la stanza c'erano migliaia di candele accese: alcune incrostavano il pavimento concentrandosi soprattutto intorno al trono, altre formavano delle colonne alte fino al soffitto, come stalagmiti di cera. Tutte le fiammelle si riflettevano sulle pareti nere che ne moltiplicavano la luminosità. Narciso guardò ogni lato della stanza facendo il giro su sé stessa e scoprì che la porta attraverso la quale era entrata era scomparsa: al suo posto un merletto di cera decorava il lucido vetro nero incorniciando la sua immagine riflessa. Il pulsare della luce, quella reale delle candele e quella virtuale dei loro riflessi, creava movimenti vitali negli oggetti inanimati. Ricordi di incubi notturni si risvegliarono nelle ombre dondolanti che infestavano la stanza e Narciso non trovò più alcun conforto nelle sottili lingue luminose. Un blocco di cera, proprio dietro il pesante scranno, cercò di uscire dalla stalagmite che lo conteneva. La cera mutò più volte forma durante la lotta per l'indipendenza ed alla fine si trasformò nelle semplici forme dell'oscuro incappucciato. Narciso non sapeva se era contenta per aver ritrovato la sua guida

o se era arrabbiata con sé stessa perché sentiva di non poterne fare a meno. Ma nessuno dei dubbi che la tormentavano sembrava disturbare l'ombra nera: pareva che non si fosse neppure accorta della sua presenza oppure non la considerava importante. La figura appoggiò molto delicatamente il pesante libro sul leggio che scricchiolò sotto il peso dell'antico volume, lo aprì con solenne lentezza e incominciò a sfogliarlo dalla prima pagina. Muoveva la testa da sinistra a destra come se stesse leggendo, ma Narciso sentiva i suoi occhi (che non aveva ancora mai visto) puntati dritti su di lei. Le stava leggendo l'anima. Nel silenzio più assoluto si sentivano solo il crepitio delle pagine ingiallite e il respiro irregolare di Narciso. Era imbarazzata e impacciata, non sapeva cosa fare e non voleva commettere errori, ma si rendeva conto che non poteva continuare a restare immobile: doveva avere coraggio ed agire. "Salve! Che cosa sta leggendo?" Con questa frase molto sciocca ruppe il mistico silenzio. "Il ato." Rispose l'ombra con voce ferma e calma. Questo la rincuorò: l'ombrosa figura non sembrava infastidita dalla sua presenza e questo era certamente un fatto positivo. "Il ato di chi?" Continuò, sforzandosi si sorridere per apparire rilassata ma ottenendo solo un ghigno sofferente. La figura misteriosa fece una lunga pausa che fece tremare l'anima di Narciso, poi si tolse il cappuccio svelando il volto fino ad ora celato. Fu questione di pochi secondi: Narciso vide che la faccia dietro l'ombra del cappuccio era la sua. Era lei: i suoi occhi, la sua bocca, i suoi capelli, ed era la sua voce che le rispondeva (con una sicurezza che non riconosceva): "Il tuo!" Le parole si abbassarono su di lei come una valanga e la schiacciarono; stremata e confusa cadde a terra e la candela che stringeva ancora le cadde di mano e rotolò lontano, sul pavimento. Ad un tratto, con un gran frastuono di vetri rotti, il pavimento si infranse in sottili frammenti e lei precipitò nel buio con le schegge luccicanti che le piovevano intorno. Narciso continuava a cadere, stava fluttuando vorticosamente mentre mille lampi le abbagliavano gli occhi e le

frustavano il cervello. Un mare di luce azzurra la sommerse, così intensa e dolorosa che dovette coprirsi gli occhi con le mani: fu un gesto inutile. Quando Narciso scostò le mani dal viso e riaprì gli occhi si ritrovò seduta su una vecchia poltrona di velluto rosso, di fronte ad un caminetto . Non era sola, sentiva il respiro di un'altra persona dietro l'immenso schienale contro il quale si era abbandonata.

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CAPITOLO 4

Narciso dovette appoggiarsi al bracciolo della poltrona e sporgere la testa per vedere oltre l'enorme schienale di velluto rosso. Vide un uomo, o meglio la schiena di un uomo: era seduto ad un tavolo illuminato da una lanterna. Si piegò di più in avanti per cercare di vedere meglio e il legno della poltrona scricchiolò. "Finalmente sei tornata." La voce calda e calma dell'uomo non la tranquillizzò affatto. Narciso sentiva il cuore batterle forte nel petto, il respiro era irregolare come dopo una lunga corsa e le impediva di parlare. L'uomo (era il giostraio che le aveva venduto il biglietto, ora lo riconosceva) dovette accorgersi di questo perché si voltò e la guardò. A metà tra il preoccupato e lo stupito l'uomo le disse: "Cerca di rilassarti. Chiudi gli occhi e respira profondamente, pensa al rumore del mare e al soffio del vento. La prossima volta sarà più facile ritornare allo stato di quiete dopo il 'volo'." Narciso non capì di cosa l'uomo stesse parlando, ma dal modo in cui la guardava era certa che la risposta fosse scritta proprio sulla sua faccia. Con lo sguardo cercò uno specchio e ne trovò uno appeso alla parete che aveva alle spalle. Si alzò di scatto e corse in quella direzione. Inciampò in una sedia che stava attorno al tavolo e solo in quel momento si accorse di non vedere bene: distingueva perfettamente i colori ma solo quelli puri e intensi, le sfumature erano irriconoscibili; riusciva a vedere i minimi particolari anche se la stanza era poco illuminata ma non percepiva la profondità e la posizione degli oggetti nello spazio. Ogni cosa aveva solo due dimensioni, tanto che le sembrava di essere intrappolata in un dipinto. Tenendo le mani di fronte a sé cercò di arrivare allo specchio. Vide i propri occhi. Erano molto grandi, l'iride occupava tutto il globo oculare ed era di colore arancio con riflessi ambrati. La pupilla ricordava quella dei serpenti: un ellisse affilato si apriva, nerissimo, come una ferita. Narciso si sorprese perché non era affatto spaventata da tutto quello che le stava accadendo. Fiduciosa seguì i consigli dell'uomo. Raggiunta la piena fase di rilassamento percepì delle contrazioni all'interno dell'occhio ed un bruciore intenso espandersi su tutta la parete interna della cavità orbitale. Sopportò. Le lacrime inondarono la zona

sofferente e sciolsero il colore alieno. Quando riaprì gli occhi, questi erano rossi e irritati come dopo tutti i pianti della sua vita ma una lacrima di sangue scese lungo la guancia a ricordare la straordinarietà di quell'evento. "Io sono Lutor." L'uomo le stava porgendo un fazzoletto di stoffa rosso (il suo fazzoletto). "Dove sono andata?" Narciso si pulì il viso dal sangue ancora caldo. Lutor rispose, sorpreso da tale domanda: "Nel tuo ato, non ricordi?" Queste parole colpirono Narciso come il fulmine che abbatte e brucia un albero, sentiva divampare il sangue nelle vene e i ricordi affiorarono alla coscienza. Quando aveva aperto la pesante porta di legno era entrata nella stanza in cui si trovava ora e si era seduta sulla poltrona di velluto dalla quale si era appena alzata. Tutto quel che aveva visto erano solo percezioni mentali, niente di quello a cui aveva assistito era accaduto nella realtà. Si trattava di immagini metaforiche che la sua mente aveva usato per spiegarle il cammino da percorrere per raggiungere il luogo (la stanza) dove erano chiusi i ricordi rimossi. Il corridoio, così stretto, era il percorso obbligato che l'inconscio aveva tracciato perché lei ritrovasse sé stessa. La stanza simboleggiava semplicemente la sua apertura mentale alle nuove, ma in realtà antiche, conoscenze. La candela - il bagliore della consapevolezza - cercava di illuminare qualcosa di veramente profondo e nascosto. Le pareti nere della prima stanza diventavano, nella seconda, specchi che riflettevano l'immagine di Narciso, ma anche la sua anima bramosa di incominciare la ricerca di sé stessa. Occorreva darle una guida, una figura amica anche se sconosciuta, che la portasse attraverso il labirinto della mente. Il dialogo con la guida misteriosa era in realtà un monologo: parlava con la parte più nascosta di sé, con la parte di sé che conosceva ciò che lei aveva dimenticato. Infine, la rottura di ogni inibizione e di ogni tabù poste dalla vita che aveva conosciuto fino ad allora. Ogni lampo era un ricordo che si palesava violentemente alla coscienza. La nascita, sua madre, le Donne e le Anziane, tutte immagini dolci e commoventi. Poi ricordi più vaghi dei suoi 'voli' di neonata, ma era ancora troppo presto per ricordare anche tutto quello che vi aveva appreso.

Ricordava perfettamente l'ombra minacciosa di Cron su tutta Solamia, su Deos e sulla Famiglia. Non aveva neppure un anno di vita quando accadeva tutto questo ma lei, neonata Deoscuridiana, era vigile e consapevole fin dai primi giorni del suo concepimento. Fu così che poté riconoscere la sua vera madre nella donna che in tutti questi anni aveva continuato a sognare; la vide che la spogliava con amore e che la depositava delicatamente nella grotta degli specchi. Il contatto con la superficie fredda le aveva gelato l'anima e le era venuta voglia di piangere (aveva poco più di un anno, se lo ricordava bene), ma si calmò immediatamente tra le calde braccia dell'uomo che, in questo mondo, la portò all'orfanotrofio. Lo stesso uomo che l'aveva raccolta quasi venti anni prima ora la stava guardando con aria paterna. "Ricordi tutto?" "Io sono Luna, figlia di Ledon e di Lòren. Mi presento a Sad, Dio della vita, e ad Aar, Dea della morte." Non sentiva come propria la sicurezza che l'aveva fatta parlare in quel modo, ma sapeva che qualcuno, lontano nel tempo e nello spazio, l'aveva riconosciuta e l'attendeva da molto tempo. "Quando terminò il periodo in cui ero costretta nel perenne stato di 'volo', mia madre decise di farmi fuggire dalla guerra che sconvolgeva la nostra terra." Lutor proseguì il racconto: "A trasporto avvenuto, Lòren ha provveduto a distruggere lo specchio nella grotta, a Deos, ed io ho fatto lo stesso qui." Detto questo si alzò e armeggiò in silenzio in un angolo buio della stanza. Ritornò con una caraffa di tè fumante e due tazze; il tempo delle spiegazioni pareva finito. Eppure ciò che aveva appena scoperto non poteva non essere l'inizio di qualcosa di grande, forse troppo grande per lei sola. Confusa come non lo era mai stata prima, Narciso (o Luna?) si sedette e bevve il tè in silenzio. Sentiva il liquido caldo scendere fino allo stomaco mentre in bocca aveva il sapore aspro del limone e quello speziato del tè. Nonostante il suo desiderio di conoscere cosa sarebbe giunto di nuovo da tutta questa situazione fu contenta di perdersi nella convinzione che tutto fosse come prima. Aveva paura; era trascorsa appena mezzora da quando era entrata in quella stanza ed il viaggio negli eventi ati era durato solo pochi minuti, eppure quei brevissimi istanti erano bastati per sconvolgerle la vita. Non era tardi, se si fosse incamminata subito verso casa vi sarebbe giunta in orario e sua madre non le

avrebbe tenuto il muso. Un pensiero affiorò in superficie e Narciso si spaventò per la naturalezza con cui ciò avvenne: 'In quale casa devo tornare? Quale madre devo riabbracciare? Quale vita è realmente mia?' Era terribile. Ora che conosceva la sua vera natura le avrebbero chiesto di fare ritorno al suo paese d'origine? Probabilmente questa richiesta non le sarebbe stata fatta perché ci si aspettava che fosse lei stessa a desiderarlo. Era peggio di quanto immaginasse: il fatto di essere giunta da sola a questa conclusione significava forse che lei, Narciso, aveva accettato con tanta leggerezza il fatto di essere Luna la Deoscuridiana? La visione di tutto ciò che avrebbe perso e di tutti coloro che avrebbero sofferto per la sua partenza (inspiegabile e definitiva) fece crollare il suo già precario equilibrio; la ragazza dal ato oscuro e dal futuro incerto scoppiò a piangere sulla spalla di Lutor. Ormai l'uomo rappresentava l'unico anello di congiunzione tra le sue due vite; Narciso-Luna si aggrappò a quel punto fermo mentre tutto quello che era stata a Deos le pioveva addosso e quello che aveva vissuto in seguito si polverizzava di fronte ai suoi occhi. In quel momento avrebbe voluto non sapere nulla; se la conoscenza faceva così male preferiva ignorare ogni cosa. Arrivò al punto di desiderare di non essere mai nata. Lutor avrebbe voluto lasciarla piangere e sfogarsi, ma il tempo stringeva e doveva parlare. "Luna, lo so che vorresti che tutto questo non fosse mai successo ma è solo perché ti sei abituata a vivere come una di questo mondo e ricordi poco o nulla di quello che hai perso abbandonando Deos. E necessario che tu, Luna, ti ritrovi; molte vite dipendono dal fatto che tu sei una Deoscuridiana e non la commessa di un negozio. La tua fuga da Solamia è stata concepita al fine di farti ritornare, un giorno, per ristabilire l'equilibrio." Luna-Narciso chiese allora bruscamente: "Perché mi hanno salvato la vita? Perché dovrei tornare a Deos? Ma soprattutto, che cosa potrei fare io, laggiù?" Lutor abbassò gli occhi e il tono di voce si fece più grave. "Le Donne e le Anziane decisero di salvarti da Cron perché, almeno a sentire loro, tu sei la Feteh." Si vedeva che lui non era della stessa opinione e non cercò affatto di nasconderlo. "A Solamia c'è una leggenda, o meglio, la leggenda appartiene alla Famiglia Deoscuridi. Essa racconta che in una certa notte con un'insolita luna nascerà una bambina pura. Verrà al mondo in tempo di guerra e

subito dopo scomparirà. Solamia soffrirà e la Famiglia Deoscuridi soccomberà. Ma dopo molto tempo, in una notte uguale a quella che la vide nascere e con la stessa luna, la Feteh ritornerà e salverà Solamia, rigenerando la Famiglia Deoscuridi." Lutor raccontava tutto questo come chi racconta una storiella. Per tutto il tempo aveva continuato a sorseggiare il tè senza mai alzare la testa; dopo una breve pausa fissò intensamente Luna e disse: "Io credevo a tutto questo, una volta. Ora sono scettico, è ato tanto tempo e temo che le cose siano andate troppo avanti perché una persona possa cambiarle. Non credo più negli Dei e nelle eroine inviate da essi per salvare il mondo, ma sono sempre stato fedele alla Famiglia e lo sono ancora anche se sono solo un immelico." Solo alla fine del discorso Lutor si accorse dell'assurdità di quello che stava facendo: stava dicendo alla spaventata Narciso di essere Luna, il messia guerriero, e nello stesso tempo stava cinicamente demolendo le fondamenta su cui lei avrebbe dovuto ricominciare a costruire la sua vita abbandonata da circa vent'anni. "Però, lei mi ha aiutato... E' venuto a cercarmi." "Erano gli ordini." "Allora è questo che devo fare, tornare a Solamia." "Sì!" Narciso (aveva paura di essere Luna) attese un istante, come se l'ultima frase di Lutor non fosse finita e come se le parole che non aveva ancora detto avessero il potere di sollevarla dall'afflizione in cui era caduta. Senza neppure guardarla in faccia l'uomo si alzò e aprì la porta di legno. Il vento invernale penetrò nella stanza vanificando in un solo momento il lungo lavoro del caminetto. "Torna a casa. Tutto quello che devi sapere sarai tu stessa a scoprirlo, ora conosci le tue potenzialità e potrai sfruttarle. Quando sarà il tempo sarai tu a trovarmi, quello sarà il momento giusto per partire." Narciso si incamminò verso casa sperando che Luna non la seguisse. Camminava senza rendersi realmente conto di dove fosse. Non riusciva a pensare o forse non voleva farlo perché aveva paura di scoprire che era tutto

vero. Ma era difficile sfuggire a sé stessi. Arrivò a casa (Luna l'aveva raggiunta? Dove si era nascosta?) e si chiuse in camera. Accostò la sedia alla finestra aperta e incrociò le braccia sul davanzale di marmo: la testa appoggiata sulla spalla, gli occhi fissi sulla grande luna gialla. Era una serata molto fredda e il cielo era stupendo: lontano dall'alone di luce che circondava la luna le stelle brillavano di pungente luce bianca. Quella sera l'astro notturno rendeva Narciso più malinconica del solito e non la lasciò addormentare. Tutta la notte Narciso non fece che pensare: 'come posso credere ad una simile follia?' Si tormentava le mani e chiudeva a pugno le dita dei piedi, come faceva sempre quando un problema la tormentava. 'Deoscuridiani, guerre, occhi di serpente e poteri sovrumani, sono cose che non esistono quindi non c'è bisogno che mi scervelli per decidere quale vita vivere perché questa è l'unica vita reale e possibile. E perché Solamia non esiste.' Ora si attorcigliava una lunga ciocca ricciuta attorno all'indice, come faceva sempre quando non era soddisfatta dalla soluzione che aveva trovato. 'E tutti i ricordi affiorati alla mente? Allucinazioni! Quel pazzo, quel Lutor forse mi ha drogata.' Con la mano libera si massaggiò la pancia con un movimento circolare, così come le aveva insegnato di fare sua madre quando, da bambina, stava male. Anche se nulla le aveva causato dolore i muscoli di tutto il corpo si erano contratti, forse per difendersi da un male subdolo: era persa nella spirale dei dubbi e aveva bisogno di essere rassicurata anche solo con una tiepida carezza. 'Forse è stato solo un sogno. Come posso credere a cose tanto pazzesche, come posso essere così... stupida. D'accordo che ti sei sempre sentita diversa e per questo motivo anche un po' speciale, ma non credi di esagerare?' Quando tentava di darsi dei consigli parlava sempre rivolgendosi alla sé stessa che si rifletteva nello specchio, per vedere le cose con distacco ed equilibrio. Questa volta dall'altra parte dello specchio c'era davvero un'estranea, c'era Luna. "Luna." Era appena la seconda volta che pronunciava quel nome e il suono le esplose nel cuore e le scosse le membra. Si mise a piangere, mordendo il cuscino per non far sentire i singhiozzi agli altri che dormivano. I due fiumi di lacrime traboccarono dagli occhi e inarrestabili furono anche i pensieri che le avano per la mente. 'Ma chi voglio prendere in giro? Io sono convinta che questa storia sia tutta vera. Io so chi sono e so cosa fare. Per la prima volta in vita mia ho delle certezze, ma sono così assurde da sembrare la trama di un libro fantasy. Voglio scappare! Non voglio vivere una vita normale a cui credo di non appartenere ma ho paura di affrontare il cammino che credo giusto anche se fuori dalla realtà.'

Il sole sorse silenzioso ma inarrestabile. Il bisogno di trovare le risposte e la soluzione venne seppellito dal ritmo e dalle scadenze di una giornata come le altre. Era davvero una giornata come le altre? Oppure era lei che si sforzava di farla sembrare tale? Eppure anche il semplice gesto di versare l'acqua calda nella tazza si trasformò in un rito quasi magico. La quotidianità che le era sempre stata così a cuore aveva forse il potere di trattenerla il quel luogo che le era tanto caro? Sicuramente no! Era un appiglio troppo poco sicuro, e forse proprio per questo ne faceva uso: per riuscire a liberarsi al momento opportuno. Mai provò sentimenti così discordanti e incoerenti come quando vide sua madre. Non sapeva se abbracciarla e piangere per scacciare via per sempre lo spettro di Solamia o se rimanere fredda e imibile per abituarsi (e abituarla) all'imminente distacco. 'Figurati! Se me ne vado come minimo entra in depressione; se non dovessi tornare mai più ne morirebbe.' "Narciso, ami il caffè." Lei sorrise dolcemente nel risentire quel nome che l'aveva definita per quasi vent'anni, ma era un sorriso triste come quando si ripensa ad un ato sereno che farà sempre parte di noi, ma che è trascorso e che non tornerà più. "Perché sorridi?" Continuò la mamma con il tono burbero di chi non si sveglia mai con abbastanza energia per essere anche gentile, almeno non prima di aver bevuto il caffè. "Niente, mamma. Ecco il tuo caffè." Narciso (sì, per sua madre era e sarebbe rimasta per sempre Narciso) non parlò per tutta la colazione, aveva la gola stretta in una morsa ed era inutile inghiottire il tè caldo per sciogliere quel nodo che le impediva di parlare ma, fortunatamente, anche di piangere. E intanto pensava: 'Come faccio ? No, non lo farò... non me ne andrò da qui, dalla mia casa. Non posso lasciarla per avventurarmi... nel Nulla.' Eppure il pensiero della sfida la elettrizzava. Lei che non superava mai il limite di velocità; lei che non beveva più del dovuto; proprio lei che non credeva negli eccessi e che non era eccitata all'idea di varcare il limite più estremo che la sua mente potesse concepire. Uscì di casa prima del solito e cercò accuratamente di non incontrare suo padre e suo fratello: per quel giorno non avrebbe potuto sopportare ancora la pressione

dei sentimenti di amore e rispetto che provava per loro. I giorni e le settimane arono senza che lei prendesse una decisione. In realtà non si era neppure messa nella condizione di pensarci. Come avrebbe potuto? Era impossibile per lei scegliere freddamente di abbandonare le persone che amava. Ogni volta che incontrava i suoi amici si sentiva morire e quando rivedeva Ares le pareva di essere in sella ad un cavallo selvaggio senza morso e redini. Non avrebbe mai potuto lasciarli. Rimase semplicemente in attesa, senza scegliere alcuna condotta. Gli avvenimenti le erano piovuti addosso e avrebbero continuato a farlo sia che lei optasse per questa o quella soluzione. Neppure la primavera sapeva se arrivare o meno. Il sole iniziava a rimanere più a lungo nel cielo e le serate erano meno fredde, ma poi ritornava il maltempo con il vento gelido e la pioggia. Il sereno accendeva il giorno di colori più vivaci, ma poi il cielo tornava grigio e con lui tutta la città. Per tutto questo tempo lei aveva continuato a vivere le sue giornate come aveva sempre fatto, ma bastava il bagliore del sole su un vetro o i giochi brillanti di una pozzanghera per farla cadere in un 'volo' mentale. Volava nei suoi ricordi e in questi riconobbe molte immagini che negli anni ati erano vissute nei suoi sogni. Riconobbe sua madre Lòren nella donna che aveva sempre sognato: era amata da tutti perché sincera e risoluta ed era anche bellissima, con la pelle chiara come la sua. Vide suo padre Ledon, ma solo riflesso nei pensieri della madre; loro due non si erano mai incontrati se non in quel luogo fatto della stessa sostanza dei sogni, il luogo in cui i Deoscuridiani entravano grazie ai loro poteri. Era un uomo forte e generoso, un uomo affascinante dai capelli neri, neri come i suoi. Ricordò gli insegnamenti appresi durante il suo primo anno di vita, quando il 'volo' era un mezzo per scoprire il potere. Poi il clima divenne più mite, il paesaggio più verde, il vento si caricò di nuvole gialle di polline e la gente incominciò a mettere i cappotti sotto naftalina. Era arrivata la primavera. Sotto un cielo blu con un grande sole giallo, distesa su un bel prato all'ombra di un salice, in una splendida giornata di maggio Luna capì

che era giunto il momento di partire. E non c'erano dubbi a riguardo. Narciso aveva terminato la sua pausa pranzo e stava gustando una mela sotto il suo albero preferito, nel parco di fronte al negozio. Quello sarebbe stato l'ultimo giorno di Narciso. E non ci furono ripensamenti di sorta. Quel giorno (il primo giorno) Luna uscì di casa alla solita ora, ma non andò al lavoro. Si diresse alla stazione e prese il treno che l'avrebbe portata lontano, da Lutor. Il treno correva con il suo ritmico o e la portava verso un futuro incerto e pericoloso allontanandola da ciò che amava e che la proteggeva. Non aveva lasciato messaggi: non sapeva che cosa scrivere e certamente non sarebbe servito a consolare coloro che abbandonava. Narciso se ne andava lasciando tutto e tutti ma anche Luna sentiva un peso sul cuore: sapeva quello che lasciava e aveva paura di non avere il coraggio di affrontare quello che l'aspettava al di là del muro. Un pensiero andò a mamma e papà, al fratello, ad Ares e agli amici, eppure nulla la tratteneva. L'amore per la famiglia, la voglia di coltivare il sentimento che provava per Ares per vedere quale fiore ne sarebbe sbocciato: niente era abbastanza forte da legarla a quella vita.

Rosa si sorprese nel vedere che il negozio era ancora chiuso. Non era mai successo prima e decise di telefonare a casa di Narciso, ma non c'era nessuno. Solo all'ora di pranzo riuscì a contattare i genitori e fu allora che tutti cominciarono a preoccuparsi: dove era Narciso? Seguì una frenetica ricerca telefonica, in breve tempo tutti quelli che la conoscevano furono chiamati, ma nessuno sapeva dove fosse. Non era neppure all'ospedale. Infine venne informata la polizia. Dopo ventiquattro ore, l'attesa aveva trasformato l'apprensione in paura e angoscia. Narciso era scomparsa da una settimana, la polizia svolgeva le indagini e seguiva diverse piste: la fuga d'amore e il rapimento, il suicidio e l'omicidio. Tutti quelli che la conoscevano non riuscivano a credere a quello che era successo. Nelle botteghe di quartiere le vecchie signore discutevano con le

casalinghe. "Conosco bene la famiglia, era una brava ragazza." "Chissà che cosa è successo, veramente." "In che brutti tempi viviamo!" "Dovrebbero cercarla quelli di quel programma televisivo." Narciso non fece più ritorno. Lasciò una profonda e inguaribile ferita nella vita di chi l'aveva conosciuta. Non ci fu una tomba su cui piangere e i genitori non si diedero mai pace. Qualche volta la sognavano e provavano molta felicità nel rivederla, ma al risveglio si rattristavano ancora di più perché sapevano che in realtà lei non era più lì con loro.

Luna sapeva cosa fare, sapeva dove rintracciare Lutor e sapeva anche come raggiungere Solamia. Tutta questa sua sicurezza, improvvisamente, la spaventava. Era sempre stata una ragazza poco decisa, non per mancanza di ideali ma piuttosto per una forma di pigrizia dovuta al fatto che non aveva mai creduto fino in fondo alle mete che si era prefissa. Almeno fino ad allora. Il treno scivolava velocemente tagliando le campagne e costeggiando le città. Ogni tanto si fermava tra due stazioni a causa del traffico ferroviario e dal finestrino si poteva vedere un bel prato, ondeggiante e splendente al sole. L'ombra fresca degli alberi la invitava a distendersi lì sotto ad ascoltare le cicale e gli uccelli. Il locomotore entrò fischiando nella stazione mentre il cielo cominciava appena a scurirsi. I dieci binari si fermavano lì; per dirigersi alla stazione seguente il treno avrebbe dovuto fare inversione di marcia. Luna non aveva intenzione di fermarsi e tanto meno di tornare indietro, ma questa sua determinazione era dettata solo dall'istinto (o dal potere che ancora non sapeva usare e che la possedeva totalmente) mentre la ragione continuava a tormentarla con i soliti buoni consigli. Le banchine che si alternavano parallele ai binari confluivano nell'ampio atrio della stazione. Quando si aprirono le porte un mare di pendolari si riversò fuori

dai vagoni e venne fagocitato proprio dal grande atrio che, come fosse stato un imbuto, convogliava tutta la gente verso l'uscita: la maggior parte si dirigeva verso l'uscita Sud che si apriva in direzione del centro della città, altri deviavano verso l'uscita secondaria ad Est. La città era in fermento. Fiumi di macchine percorrevano velocemente le strade nere illuminate dalla luce grigia dei lampioni. Luna prese un taxi per andare in periferia, dove era stata allestita la fiera. Allontanandosi dal centro l'aria pesante e lo smog appiccicoso lasciarono il posto al profumo dell'erba tagliata e a quello dolce e caldo delle frittelle. La notte, ormai scura, era illuminata dai bagliori del laser e dalle luci colorate delle giostre. Il timido luccichio delle stelle era accompagnato dalle musiche assordanti e dai suoni computerizzati dei videogiochi. Luna eggiava lungo le strade della 'città dei balocchi' e guardava in faccia tutti quelli che incontrava, come se volesse imprimersi nella memoria come si viveva nel mondo che presto avrebbe lasciato. Ridevano, scherzavano. Un bambino piangeva perché si era perso, una madre rimproverava severamente il figlio, le coppie si baciavano, gli amici si raggruppavano in branco ostruendo il già stretto aggio. Non riuscì a trattenere la commozione per quei semplici e famigliari comportamenti che, per lei che partiva, diventavano invece dolorosi perché appartenevano ormai definitivamente al ato. Una lacrima andò a bagnarle la guancia e la pelle bruciò da quanto era salata. Luna si fermò di fronte alla casa degli specchi e si sorprese nel vedere che la luna era scesa, immensa e brillante proprio sopra 'Solamia'. Era venuta a salutarla. Lutor stava guardando Luna e un angolo della bocca si piegò, accennando un sorriso. Appoggiò sulla cassa il cartello 'CHIUSO' ed uscì da quella cabina troppo piccola per lui. Non parlò finché non furono entrambi seduti al tavolo di legno, illuminati dalla fiamma della lanterna. "Ti stavo aspettando. Sei pronta? Sai quello che devi fare?" In quell'istante Luna si accorse di quello che stava per fare e l'idea la colse stranamente impreparata: un istintivo senso di terrore la abbracciò come se intendesse proteggerla dalle sue stesse azioni. Scacciò tutto questo dalla mente e dal corpo e si alzò di scatto. Senza bisogno di pensare, con voce ferma e decisa Luna parlò.

"Muoviamoci, altrimenti sarà troppo tardi!" Lutor si alzò con lo stesso impeto con cui un soldato si accinge ad eseguire un ordine. Si avvicinò al caminetto che continuava a scaldare la stanza e aprì una porticina nascosta nella parete di legno. I due si guardarono e si salutarono senza parlare, dopodiché Luna attraversò da sola la soglia. La luce della stanza che aveva appena abbandonato penetrava pallidamente attraverso le fessure che si formavano tra la porta e la sua cornice. Luna si ritrovò a risalire una scala stretta e ripida scolpita nel buio che puntava verso il nulla; era sicuramente una scala reale, costruita dall'uomo e non dalla mente di Luna ma l'oscurità, il silenzio e il vuoto facevano apparire tutto come se fosse un'illusione. La lentezza con cui percorreva la scala aveva dilatato il tempo all'infinito e l'ascesa pareva davvero interminabile; infine una debole luce delineò i contorni di una porta. La stanza era molto piccola e non aveva finestre o altre aperture all'infuori della porta di ingresso; di fronte a lei c'era solo un'apertura circolare scavata nel muro. Nella nicchia sferica c'era appena lo spazio sufficiente per una persona, ma solo se si raggomitolava su sé stessa. Sul fondo luccicavano i frammenti dello specchio che una volta aveva ricoperto le pareti della nicchia e che Lutor aveva infranto dopo l'arrivo di Luna neonata. Luna si spogliò completamente ed entrò in quel buco: era un luogo ancora più angusto di quanto aveva immaginato. Appoggiò i piedi sui resti dello specchio che crepitarono sotto il suo peso, senza però che le schegge affilate la ferissero; allora si accoccolò raccogliendo le ginocchia tra le braccia e piegando la testa verso il basso. I frammenti appuntiti sembravano brillare di luce propria, come fossero pezzi di una stella, e Luna si perse nel loro gioioso sfavillio. Come se lo specchio volesse ricomporsi, le schegge si ricongiunsero aderendo al corpo di Luna come una seconda pelle e si fo tra di loro fino a che la coprirono completamente. Lei, racchiusa nel guscio, sentì il suo corpo fremere per il freddo, poi il gelo divenne fuoco e la pelle si bagnò di sudore. Quando Luna riaprì gli occhi si trovava rannicchiata in posizione fetale, abbandonata sulla superficie liscia dello specchio sferico che la circondava. La pelle si era liberata dall'involucro riflettente, ma non ricordava come e quando fosse successo.

Luna cercò di muovere la testa ma i muscoli non risposero ai suoi richiami. Provò a muovere il braccio e poi il piede, ma tutto rimase immobile, insensibile. Rimase in quello stato per molto tempo, pareva che la mente si fosse dimenticata dell'esistenza del corpo che rimaneva così inutilizzato. Poi un vento gelido le accarezzò la schiena; le membra ancora sopite si risvegliarono e Luna riuscì a rigirarsi sull'altro fianco. C'era una piccola apertura circolare dalla quale entrava l'alito freddo ed era proprio da quella piccola apertura che lei doveva uscire. Infilò nel buco la testa e il braccio destro e cominciò a far forza su quest'ultimo mentre spingeva con entrambe le gambe. Far are le spalle fu la parte più difficile. Più volte dovette fermarsi per riprendere fiato. Poi il busto scivolò fuori, madido di sudore, mentre i fianchi opposero maggiore resistenza. Infine arono anche le gambe. Luna cadde a terra sfinita da quella fatica paragonabile solo a quella che ogni bimbo deve affrontare per venire al mondo. E infatti era rinata: aveva lasciato la vita rassicurante che per anni l'aveva protetta come l'utero materno e si era buttata in quel mondo freddo e sconosciuto ma ricco di nuove promesse che era Solamia. Luna si alzò facendo un profondo respiro; l'ossigeno le schiarì la mente e lucidamente decise che era tempo di cominciare a conoscere il nuovo mondo ed il suo destino. Il pavimento sul quale poggiava i piedi, ancora insicuri, era una roccia tormentata da spaccature più o meno profonde. Sollevando la testa vide la volta rocciosa della grotta che la sovrastava senza opprimerla. Forzò lo sguardo per permettere alla vista di abbattere l'oscurità e vide altre aperture, simili a quella che aveva appena attraversato, che conducevano a diverse nicchie e grotte minori. Riconobbe quella con le pareti incrostate di cristalli che le aveva abbagliato gli occhi appena nata, conducendola per la prima volta nello stato di 'volo'. La scala che scendeva in quel luogo pregno di potere era illuminata da una luce metallica che scivolava sui gradini come fosse l'acqua di una cascata. Luna non si curò di essere nuda e indifesa in un luogo estraneo (e pericoloso) e corse verso quel chiarore che saliva verso il cielo. Cominciò ad arrampicarsi sulla scala di pietra e più saliva, più il suo campo visivo si ampliava. Di fronte agli occhi di Luna sorse la figura dai contorni rotondi e perfetti, circondati da un alone di luce pura ed intatta: la luna. L'immenso astro la inondava, la dominava e Luna cadde sulla ginocchia sopraffatta. Ammirando la compagna che non l'aveva

abbandonata, Luna si sentì più sicura e tutto le parve meno ostile.

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CAPITOLO 5

Quella sera la prima luna sorse grande e splendente mentre la seconda si tinse di rosso. Fu come la notte che vide nascere la sua bambina e Lòren capì che la sua piccola era tornata. "La Feteh potrà finalmente volare su Solamia." Luna si guardò attorno. Era inginocchiata sul pavimento di pietra levigata e lucida, alcune piastrelle erano rotte e altre erano letteralmente saltate fuori dal mosaico. Attorno c'erano pareti appena abbozzate; un tempo dovevano essere state alte e imponenti ma ora si presentavano come un nudo scheletro, lontano ricordo di ciò che furono. Il soffitto non c'era più, i suoi pezzi giacevano inerti sul pavimento. Luna si avvicinò alla parete dalla quale sporgeva un davanzale orfano della sua finestra. Si affacciò sul cortile interno di forma pentagonale: ad ogni angolo si elevava una torre a base pentagonale; lei si trovava in una delle cinque. I lati del cortile erano delimitati da cinque edifici che si fondevano con le alte torri. Nella mente di Luna il Palazzo di Deos ritornò ad essere quello di un tempo. La struttura di base, di per sé piuttosto semplice e statica, era movimentata da fregi e bassorilievi. L'intera costruzione era spinta verso l'alto da colonne sottili e da guglie appuntite. Nonostante l'imponenza, il Palazzo aveva un aspetto arioso e leggero grazie agli archi rampanti che foravano il muro. Ma, dissolto il velo dei ricordi, Luna riuscì a vedere come in realtà era ridotto il Palazzo di Deos. Tutti gli elementi, di struttura e di decoro, parevano divorati da una bestia feroce; gli avanzi erano un triste monumento ai caduti. Delle cinque torri solo una, quella alla sua destra, aveva conservato la forma originaria, appuntita e svettante. Al di là delle mura del palazzo aveva riconosciuto la città dei suoi sogni. La città dalle torri sottili che salivano alte fino al cielo, la città dei palazzi con i tetti spioventi e le statue poste a guardia di ogni contrafforte. Molte cicatrici segnavano la città, a perenne ricordo dello stato di assedio, tuttavia Deos non aveva perso nulla della sua grandiosità. Luna sentì alle sua spalle le onde del Mare di Kesho srotolarsi lentamente e infrangersi sulla scogliera. Lo sguardo le cadde a strapiombo nell'acqua

spumosa. Il vento increspava la superficie del mare distorcendo il riflesso della luna rossa. Luna percepì improvvisamente una presenza e si voltò di scatto. Vide l'ombra separarsi dal buio e avvicinarsi alla zona illuminata. La riconobbe subito e corse incontro a Lòren perdendosi nel profumo dolce e fresco delle sue vesti. Entrambe le donne lasciarono scorrere le lacrime, felici di essersi ritrovate.

***

Le palpebre tremarono scosse dalla coscienza, il torpore del sonno si sciolse come nebbia al mattino lasciando gli occhi liberi di aprirsi. La nuova oscurità che ora vedeva venne invasa da una presenza. "Caro, ti sei svegliato?" Lei cercava di dare un tocco vellutato e suadente alla voce tentando di rendersi desiderabile, ma in lui suscitava solo noia. "Lei è qui." Scostando le pesanti coperte rivelò il corpo allenato e virile. Lei, soffocante come sempre, piagnucolò. "Cron, sei veramente cattivo. Lo sai che non sopporto che mi si parli di Lei. Sei ritornato da poco e mi trascuri già. Non è giusto!" Katrisha era oppressiva e sapeva diventare davvero insopportabile, ma Cron poteva dare la colpa dell'esistenza di quell'essere solo a sé stesso. Ora il corpo perfetto della 'donna' aderiva al suo, in cerca di attenzioni. Certo Cron era riuscito a plagiare il corpo della sua amante in modo da renderla eccitante e desiderabile ai suoi occhi, ma non era riuscito a fare altrettanto con la sua mente: come tutti i Mutati anche Katrisha era dotata di una psicologia semplice ed elementare, priva delle infinite sfaccettature proprie della mente umana. Cron conosceva i limiti delle sue creature, la loro chiusura mentale li rendeva sciocchi e poco sensibili all'evoluzione (fisica e cerebrale) ma proprio per questo erano fermi e determinati: il loro scopo nella vita era seguire le istruzioni predeterminate geneticamente e proseguire fino a che ogni ostacolo (in questo caso le genti di Solamia) non fosse superato (o schiacciato). Grazie ai Mutati,

Cron aveva definitivamente trascinato Solamia nell'oscura trama del mantello della Dea Aar, la dea della morte. Ma Lei era arrivata. Forse qualcosa sarebbe cambiato. Non ci sarebbe certo stata una rivoluzione, ma la sua presenza non poteva are inosservata. Luna avrebbe potuto modificare ciò che era ormai un dato di fatto, cioè la sua superiorità rispetto a tutti gli altri esseri. Forse Cron avrebbe potuto finalmente incontrare un avversario degno. Ancora una volta la lingua della Mutata cercò qualche cosa nella bocca di lui. Katrisha si comportava così per svolgere il ruolo di amante che lui stesso le aveva predestinato; sarebbe arrivata a togliersi la vita se questo avesse potuto soddisfare un desiderio del suo padrone. Il completo controllo e il soggiogamento totale degli altri lo eccitava, ma Katrisha riusciva a rendergli nauseante persino questo suo stato di grazia. Cron si concesse (senza impeto né ione), rendendo immensamente felice la sua schiava. Quando si separarono da un'unione solo fisica, lei stava ancora ansimando con in corpo madido di sudore; lui, ancora annoiato, guardò il cielo dalla finestra e vide una terza luna comparire nell'universo. "Luna, sarai mia!"

***

Lòren accompagnò Luna nella sua camera. "Lavati e poi va a dormire. Sarai stanca." Luna avrebbe voluto restare con la madre ritrovata, ma era davvero sfinita e non si ribellò. Si accoccolò tra le coperte del grande letto nella stanza illuminata dal fuoco del caminetto. Un sonno senza sogni la accompagnò per quel che rimaneva della notte. Lòren entrò nella stanza in silenzio, voleva ascoltare il respiro di sua figlia e cercare di vedere quali sogni le facevano visita: 'Dorme proprio come quando era piccola. Ha i capelli corvini come il padre e sono sue anche le sopracciglia folte

ed espressive. Gli occhi invece li ha come nonna Raimis, un po' allungati, il colore invece l'ha rubato alle chiare notti dell'Ausolia. Il naso perfetto e i ricci ribelli però sono i miei. E quella bocca?... Oh! Ledon, dovresti vedere come si è fatta grande la nostra piccola stella.' Lòren trattenne a stento la commozione, poi scosse la testa e si rimproverò dell'improvvisa debolezza. Quando Luna riaprì gli occhi Lòren era ancora nella stanza, con la luna che le illuminava il volto. Era seduta sulla stessa sedia, di fronte alla finestra, sulla quale soleva riposarsi tenendola in braccio neonata. Come allora stava cantando una ninna nanna. Si alzò dal letto e attraversò la nuda stanza, appoggiò la testa sulle ginocchia della madre e si lasciò accarezzare i lunghi ricci neri. "Bimba mia, hai dormito molto, è ato un giorno intero ed è ritornata la sera." Luna si sentiva felice, ma qualcosa le impediva di esprimere tale sentimento. Non era difficile definire quello che le stava accadendo: dopotutto non poteva pensare di poter dimenticare la sua vita ata con la stessa semplicità con cui aveva abbandonato i suoi vestiti nella casa degli specchi di Lutor. Quanto le pareva strano accovacciarsi ai piedi di una donna che non era più quella che l'aveva coccolata per quasi vent'anni. Provò immediatamente l'istinto di scappare, ma si rese subito conto di non poter più tornare indietro. La sua (sua?) scelta irrimediabile la rese debole e vulnerabile, così si aggrappò disperatamente alla gonna di quella donna estranea che era sua madre. Lòren si accorse dei tormenti e delle debolezze che infestavano la mente di sua figlia e ne fu alquanto sorpresa, addirittura delusa. Decise di non dare troppo peso all'accaduto e lo considerò una spiacevolezza senza alcuna importanza, dopotutto nulla poteva essere più importante della salvezza di Solamia e sua figlia non poteva non essere pronta ad affrontare tutto quello che l'aspettava. Credette di fare un favore a Luna ignorando la sua debolezza e incominciò a parlare in tono pacato e conciliante. "Abbiamo poco tempo, figlia mia. Deos ha atteso per molto tempo il tuo ritorno e non è più possibile rimandare la sua rinascita." Luna voleva replicare, voleva essere ascoltata e confortata. Ma negli occhi di Lòren vide lo sguardo di chi ha già deciso cosa fare della propria vita e di quella degli altri. Luna invidiò tale sicurezza e, facendosi coraggio, si ripromise di imparare da quella donna. Non poteva in nessun modo tirarsi indietro e non

l'avrebbe fatto. Lòren parlò con voce suadente, come se dovesse corteggiare la sua ascoltatrice, e in effetti voleva conquistarsela come un buon comandante si conquista il rispetto dei suoi soldati. "Tu non puoi immaginare quanto mi ha fatto piacere udire il tuo nome. La tua voce ha attraversato gli ostacoli del tempo e dello spazio e mi ha dato nuova forza." Ma subito il tono si fece più deciso. Da vera Deoscuridiana, Lòren conosceva il significato dell'onore, del dovere e dell'obbedienza; e così parlò come se questi valori fossero insiti anche in Luna, come il patrimonio genetico. "Prima di partire devi sapere molte cose. Se per te sono ati vent'anni sappi che per Solamia è trascorso un tempo molto più lungo, reso infinito dalle sofferenze e dal terrore. Ma incomincerò dal principio così potrai capire meglio. Le Famiglie e le religioni hanno sempre diviso Solamia almeno quanto la dividono i deserti, i fiumi e le montagne. I rapporti tra le Famiglie, prima della Soppressione attuata da Cron, erano caratterizzati da puro spirito di sopportazione. La convivenza era più o meno pacifica, e ciò accadeva non per desiderio di pace ma solamente perché ogni Famiglia si credeva superiore alle altre e quindi reputava indegno lordare le proprie armi con il sangue degli 'inferiori'. A volte però accadeva che due Famiglie si scontrassero. Esisteva il Consiglio di Solamia in cui erano riuniti i rappresentanti delle quattro Famiglie, ma si discuteva quasi esclusivamente di ragioni economiche e di scambi commerciali. Ogni Famiglia restava un nucleo a sé stante, credeva nei propri Dei e rispettava la proprie leggi; la Legge Comune, deliberata dal Consiglio di Solamia, aveva un unico articolo (l'unico su cui si ebbe l'approvazione all'unanimità) che proibiva incroci di sangue tra le Famiglie. Ma alla fine neppure questa unica norma venne rispettata. Gli impuri vennero così considerati immelici e non degni di appartenere a nessuna delle Famiglie: erano i figli illegittimi dei nobili di diverse Famiglie oppure quelli nati dalle notti libertine tra un Famigliare ed un appartenente alle diverse tribù sparse per l'intero continente. Insomma i lati peggiori di Solamia sono concentrati nel sangue di questi... immelici." A questo punto i delicati lineamenti di Lòren si contrassero in una smorfia di

disgusto. "Il nobile e puro sangue di noi Deoscuridiani non ha potuto cancellare il sangue annacquato dei Nimferidiani, così inclini a perdersi in cose futili. Il potere che scorre nelle nostre vene non ha potuto modificare l'indole violenta degli Atralidiani. La ragione donataci dal Dio Sad e dalla Dea Aar non ha corretto l'ottusità degli Underidiani. Oggi esistono molti immelici, non si può più parlare di Deoscuridiani puri. La lotta contro Cron ha disperso il popolo; come semi estranei hanno germinato in terre straniere, creando nuove specie. Grottesche piante contorte, con radici al posto dei rami e rami al posto delle radici." I primordiali pregiudizi che infestavano la mente di Lòren vennero accantonati quando la donna incominciò a raccontare di Ledon. "Tuo padre ha combattuto contro le armate dei Mutati e, all'inizio, la lotta pareva possibile. Poi il numero di quelle creature crebbe a dismisura. Le tattiche militari vennero dimenticate e la guerra venne combattuta con ogni mezzo, ad ogni costo. La disperazione era l'unica forza che ci faceva continuare. Le Famiglie (ottuse) continuavano ad essere divise anche se il nemico era comune, ognuno combatteva la sua guerra personale contro Cron. Molti capi dei diversi eserciti si resero infine conto che era necessario unire le forze per lottare contro un nemico così potente. Ledon non fu l'unico a capire che era impossibile uccidere tutti i Mutati, ma fu lui che decise di partire alla volta di Lubra, l'isola di Cron, per impedire che altri Mutati prendessero la via per raggiungere Solamia. Tuo padre riuscì, con il suo carisma e la sua forza, a formare un esercito perfetto, riunendo i migliori combattenti delle diverse famiglie. Partì per non fare più ritorno." Le lacrime scendevano copiose, ma la voce di Lòren rimase ferma. "No! Non è morto." Lòren aveva anticipato Luna rispondendo alla domanda che la ragazza non avrebbe mai avuto il coraggio di fare. "Qui c'è solo morte e distruzione, te ne devi andare." La calma di Lòren si perse in queste parole. Poi la donna proseguì con lo sguardo immerso nel delirio. Luna capì solo alcune parti del discorso perché altre appartenevano ad una vita che non era la sua. Capì che doveva cercare un certo Sargon che si era unito al gruppo di immelici insediato nel sottosuolo di

Deos. "Una volta erano ribelli che combattevano contro i maligni Carmid e Leda, ora considerano questi Mutati come appartenenti al nostro mondo. Come i lepori, roditori rognosi che resistevano alle nostre disinfestazioni e che hanno sopportato meglio di noi la presenza dei Mutati, così gli uomini cercano di sopravvivere agli attacchi dei servi di Cron... Che mondo! Ma ora tu sei qui, la Feteh è tornata per portare le speranza e per salvare Deos. La Famiglia Deoscuridi è nelle tue mani. Devi ricostruire Deos. Feteh, risveglia l'animo sopito di Solamia, è questo il tuo compito, è per questo che sei sopravvissuta. Sargon è uno dei pochi Deoscuridiani puri superstiti. Lui ti aiuterà. Il potere di Deos sarà sempre con te e non avrai bisogno di altro. Tu appartieni a questo mondo e presto il mondo ti apparterrà, devi solo credere in quello che sei, la Feteh." Gli occhi viola come anemoni di sua madre la stavano fissando senza guardarla. Luna poteva distinguere in quegli occhi la visione del futuro ipotetico auspicato da Lòren: il ritorno e la supremazia della Famiglia su ogni avversità. A monte di tutto questo non si poteva non vedere i millenni di pregiudizi e gli anni di sofferenze, ma anche l'infinito amore. Amore per la Famiglia, per Ledon e per lei. Luna indossò una tuta di pelle nera che le aderiva al corpo senza però impedirle i movimenti. La divisa dell'esercito di Deos le dava un aspetto marziale e fiero, peccato che fosse solo apparenza e che tutta quella sicurezza cucitale addosso non potesse penetrarle la pelle e fissarsi nel suo midollo. Sembrava davvero un nobile soldato ai tempi del Grande Potere, quando la Famiglia era libera e vitale, ma questo era prima della guerra contro Cron, era prima della Soppressione. A questo indumento Luna aggiunse un paio di stivali e un mantello di stoffa pesante con il cappuccio per coprirsi il volto. Lòren osservò attentamente Luna mentre questa si preparava in silenzio. L'orgoglio di averla messa al mondo si mescolava al piacere di vederla preparata per compiere la sua impresa. Luna era pronta. Doveva credere solo in sé stessa: nella Deoscuridiana più potente che Solamia avesse mai conosciuto. Luna era pronta? Non c'era più tempo per domandarselo e lei non si diede alcuna risposta. "Devi essere molto prudente. Quando arriverai alla Deos sotterranea dovrai cercare di are inosservata. Laggiù le persone si infiammano per un nonnulla

e qualche tagliagole potrebbe tentare di ucciderti solo perché lo hai guardato negli occhi." Luna sentiva che non c'era della reale apprensione da parte di sua madre e se ne dispiacque, ma subito la stessa Lòren ne diede la spiegazione. "Non devi preoccuparti, non sarai sola, il potere della nostra famiglia ti accompagnerà e ti guiderà. Sarà come avere una persona sempre al tuo fianco che ti sussurrerà all'orecchio la cosa giusta da fare." "Perciò tu non ci sarai. " Luna si pentì subito delle parole che aveva appena pronunciato perché riconosceva in loro un'insicurezza che non avrebbe dovuto (e voluto) lasciar trapelare. Lòren non cercò di rassicurarla come avrebbe fatto sua madre adottiva, semplicemente perché non concepiva l'idea che Luna non fosse più che orgogliosa di partecipare al grande disegno che il destino le aveva riservato. Non fece altro che affrontare la cosa in modo realistico e oggettivo. "Ora dobbiamo salutarci." Luna abbracciò la madre con forza, come se la stretta potesse trasmettere alla donna le sensazioni confuse che la tormentavano, ma Lòren non comprese nulla del complesso universo che esisteva dentro la figlia. Il bacio che le due donne si scambiarono fu tanto dolce per l'amore innato che reciprocamente provavano quanto amaro per l'inevitabile separazione. Mentre si allontanava Luna guardò la madre per un'ultima volta e, per la prima volta da quando era tornata, la vide come realmente era e non come il potere la faceva apparire. Osservò la pelle trasparente come porcellana creparsi in una ragnatela di rughe, gli occhi di cristallo viola si scheggiarono, la seta dei capelli divenne opaca. Vide così dissolversi l'immagine di Lòren che fu il suo ultimo ricordo prima della fuga in un altro tempo e in un diverso spazio. Era diventata vecchia e portava scolpita nel cuore tutta la sofferenza di una grande famiglia ormai sterminata. Luna richiuse gli occhi per aggrapparsi al ricordo della donna forte che aveva salutato molto tempo addietro e riconobbe la donna determinata che oggi salutava per l'ultima volta.

Non più smarrita nel castello diroccato, ritrovò con facilità la grotta che le aveva dato il benvenuto nel suo vecchio mondo. Una delle aperture nella parete rocciosa era un aggio segreto che le avrebbe permesso di uscire dall'edificio senza are dal portone principale. Il piano le era chiaro: sfuggire ai Carmid e ai Leda che pattugliavano le strade, trovare l'ingresso per la Deos sotterranea, non farsi ammazzare dagli immelici poco ospitali e riconoscere Sargon tra tutti quegli sconosciuti. Conoscere il piano non la aiutava molto a realizzarlo, ma Luna non si perse d'animo: non aveva rimpianti e credeva ancora nella scelta che aveva cambiato la sua vita. Ma tutto doveva ancora incominciare e lei nulla sapeva di quello che l'attendeva.

***

Un suono improvviso, diverso da quelli che solitamente vagavano in quei luoghi, si diffuse turbando l'immobilità del tempo. Impossibile descriverlo, forse non era neppure un rumore quanto piuttosto una sensazione. Quando questa idea si insinuò nella sua mente primitiva la creatura ebbe un fremito. Per la prima volta, dopo un tempo così lungo che nemmeno la filosofia dell'universo riuscirebbe a misurare, uno stimolo partito dal cervello raggiunse un muscolo, contraendolo. L'evento sconvolse per un attimo la bestia, poi la creatura usò la mente, dono del suo creatore, e ragionò: 'Potrebbe essere un frammento di roccia staccatosi dalla parete. Mi sembra di ricordare un rumore simile, molto tempo fa.' Dopodiché il respiro ritornò sottile e il movimento del torace si fece impercettibile mentre la mente ritornava al torpore originario. La figura si avvicinò. La sua presenza in quel luogo era indifferente a tutto quello che lo circondava e tutto gli era indifferente. Il suo potere era totale. Si fermò di fronte alla sua creatura: sebbene non superasse in altezza neppure l'artiglio della bestia era lui il dominatore. "Lei è giunta." L'oscurità venne lacerata e lo squarcio obliquo si incendiò."Tra poco potrai entrare in azione." A queste parole anche la seconda palpebra della creatura si alzò e una strana luce illuminò dall'interno i due occhi enormi.

"Mio creatore." Ruggì. In quelle parole, la bestia racchiuse tutta la devozione per il suo padrone e la bramosia di servirlo. Voleva compiacerlo, avrebbe fatto qualsiasi cosa per colui che l'aveva messa al mondo. Per l'eccitazione i muscoli della creatura si gonfiarono fino a far vibrare le pareti della caverna che lo contenevano e il respiro si fece tanto affannoso da incendiare l'aria. "Calmati Lio! Non è ancora il momento. Ma presto... Vedrai... Ti divertirai!"

***

Il aggio segreto si apriva in un vicolo stretto, fiancheggiato da una parte dalle alte mura del Palazzo e dall'altra dalle costruzioni che formavano quel grande labirinto che era la città di Deos. La via correva rettilinea tra i muri neri che permettevano di vedere solo una sottile striscia di cielo. Nessuna luce illuminava il cammino di Luna: nella notte scura poteva contare solo sulle proprie forze. Ma non era facile sfuggire ai Carmid e ai Leda, Mutati al servizio di Cron che giorno e notte perlustravano ogni angolo della città. Lubra, il nascondiglio introvabile di Cron, era la fucina che forgiava tutti i Mutati. I Manipolatori annegavano i neonati nell'Acqua di Rasia e con ciò che rimaneva di loro davano forma ai diversi Mutati. Leda e Carmid erano compagni inseparabili: i primi, grazie alle loro ridotte dimensioni, si intrufolavano ovunque e osservavano, percepivano, spiavano ogni cosa. Poi andavano a riferire sotto forma di impulsi nervosi ciò che avevano scoperto ai Carmid. Alti il doppio di un uomo e forti dieci volte di più erano delle vere macchine distruttrici: una volta ricevuto l'ordine di agire dai Leda nessuno poteva più fermarli. Luna era sola, in una città che non le apparteneva più. Il potere ereditato dai suoi genitori le permetteva di vedere gli spiriti dei Deoscuridiani morti tragicamente e di riconoscere i palazzi e le vie che ora erano confuse tra le macerie; questo le era senz'altro utile per trovare la strada giusta, ma non le poteva essere d'aiuto contro un Mutato.

Camminava con le spalle attaccate al muro; aveva i nervi tesi e si aspettava di incontrare la morte dietro ogni angolo. Doveva raggiungere l'Olaf, il palazzo dove quotidianamente (al tempo in cui il giorno si levava tra le risa dei bambini e la sera calava sui racconti degli anziani) i credenti del Dio Sad si riunivano per ascoltare le prediche e per pregare insieme. Nello stesso luogo ed allo stesso modo i Sadini, i religiosi che celebravano i riti, veneravano anche la Dea Aar, tetra figura, padrona del Nulla il cui potere poteva distruggerli. Luna, infinitamente piccola nell'immenso mosaico formato dai palazzi di Deos, vagava nel silenzio assoluto e intanto pregava qualunque dio potesse ascoltarla di aiutarla a sfuggire ai guardiani della città. Improvvisamente un frastuono si propagò nell'aria e le esplose nell'anima. Si nascose, tremante, dietro ad un muro precipitato in mezzo alla strada da qualche edificio lì intorno. Guardò con gli occhi blu come la notte lo stretto vicolo che le stava di fronte: il rumore metallico che l'aveva spaventata proveniva proprio da lì. Vide uscire dall'oscurità un uomo dalla faccia grigia e con gli occhi infossati e lividi. Con le scheletriche mani cercava di ripararsi dalla fredda umidità che gli entrava nelle ossa. Barcollava nelle vesti troppo grandi per essere le sue ed inciampava in ogni ciottolo; continuava a borbottare parole che non avevano senso in alcuna lingua. Per un istante Luna fu tentata di andare a soccorrere l'uomo. In quelle condizioni non poteva certo essere un pericolo per lei, ma subito dopo si rese conto di quanto fosse rischioso avvicinarsi a qualcuno che non faceva nulla per are inosservato. Infatti Luna intuì una presenza. Nonostante lo stesse cercando con lo sguardo, quando lo vide dovette strozzare in gola l'urlo di terrore che le nacque dal cuore. Viscido e grottesco nelle sue forme, un Leda stava osservando l'uomo come un predatore fissa la preda prima di attaccare. 'Osservare' era un termine non appropriato perché i Leda non avevano veri e propri occhi, ma i loro sensibili recettori potevano vedere ciò che sfuggiva all'occhio umano e udire il suono più lieve. Luna era certa che da quella posizione il Mutato non potesse vederla, nascosta com'era dalla parete crollata sul bordo della strada; inoltre l'uomo non la smetteva di muoversi e di fare rumore attirando su di sé l'attenzione del Leda. Eppure lei non si sentiva al sicuro. Con un rapido movimento dei tentacoli (proprio nulla in lui ricordava il neonato che era stato) il Leda strisciò sul muro sul quale era rimasto attaccato e scivolò via come un incubo colpito dalla luce

del risveglio. Ma questa volta l'incubo doveva appena incominciare. Ciò che Luna si aspettava di vedere non tardò ad arrivare; con la sua pesante ma per niente goffa andatura entrò in scena il compagno forte e cattivo del Leda. Sotto lo sguardo incredulo di Luna l'uomo venne smembrato dal Carmid. Il breve massacro avvenne così vicino a lei che una parte delle interiora della vittima schizzarono fino ai suoi piedi, spruzzandole addosso il sangue ancora caldo di vita. Nessun suono uscì dalla bocca aperta per il dolore; solo le ossa, i tendini e la carne parlarono e fu come un concerto di sofferenza e di morte. Lentamente il Carmid lasciò il luogo del massacro ando a pochi i da Luna, ma non poteva vederla essendo per natura quasi completamente cieco. La ragazza si mosse con cautela ma anche con prontezza: voleva andarsene al più presto e sempre più bramava di raggiungere il sottosuolo. Vagò sonnambula per le vie dell'enorme città, seguendo degli impulsi che non riconosceva come propri ma che accettava di buon grado visto che le promettevano di guidarla fuori da quel brutto posto. Deos era veramente ridotta ad un corpo martoriato; anni di dolore erano racchiusi in ogni rovina ed in ogni palazzo scarnificato. Ed eccolo lì, l'imponente struttura dell'Olaf si delineò davanti a Luna come un'enorme montagna in mezzo al deserto. Quasi a ribadirne il significato mistico, l'Olaf non era stato intaccato dalla furia distruttiva delle battaglie: sfoggiava ancora le alte e levigate pareti nere puntellate dai contrafforti decorati. Le costruzioni che lo circondavano erano accasciate ai suoi piedi, quasi prostrate in una profonda riverenza. Il tempio dedicato a Sad si trovava proprio al centro della città: la sua base esagonale richiamava la forma delle mura fortificate che circondavano l'intera città di Deos. Entrò. Lo spazio era diviso in sei aree triangolari da sei file di colonne. Facendo partire sei linee dalle rette formate dalle colonne e facendole poi attraversare idealmente i muri dell'Olaf, queste linee avrebbero percorso esattamente le sei vie principali di Deos. Le colonne di pietra salivano sottili in verticale, all'apice ognuna di esse si separava in sei rami che si intrecciavano e si sfuggivano creando un suggestivo ricamo sopra la testa di Luna. La notte scura trapelava tra le trame nere della pietra: non c'era soffitto e la costellazione di Deos brillava sicura al centro dell'intarsio. Non c'erano barriere

tra l'aria sacra del tempio e il cielo, non ce n'era bisogno perché nessuna forza, naturale e non, avrebbe potuto penetrare in quel luogo. Al centro del tempio, là dove i sei vertici si incontravano, c'era la Fonte di Sad. Da una coppa, costruita con un materiale che non apparteneva a quel mondo e intarsiata come nessun uomo avrebbe saputo fare, zampillava l'acqua cristallina dai riflessi multicolori. La Fonte adorata aveva continuato nel tempo la sua danza di allegri riverberi e di dolci note, incurante della distruzione che la circondava e insensibile alle sofferenze dei suoi fedeli ed al loro sterminio. Ora la Fonte di Sad accoglieva la paura e lo stordimento di Luna con il suo gorgoglio cinico ed eterno e, ormai, privo di significato. Le lucide pareti ed il pavimento del tempio erano completamente ricoperte dalle Sacre Scritture, scolpite dalla voce stessa di Sad. In tutto il testo il nome del Dio compariva una sola volta e Luna doveva trovarlo: avrebbe così scoperto la via d' accesso per la città sotterranea. Gli occhi di Luna si tinsero di ambra senza che lei ne fosse pienamente consapevole. Come l'alba accende la notte, così le lettere del nome del Dio si illuminarono oscurando tutto il resto. Appena Luna appoggiò le dita sulla parola 'SAD' una botola si aprì nel pavimento proprio ai piedi di una colonna. Ripide scale a chiocciola scendevano e si perdevano nel buio. Luna dovette procedere a tentoni, seguendo la curva costante delle scale; l'istinto le diceva di scappare ma lei sapeva che fuori di lì c'erano i Carmid pronti a smembrarla. Là sotto avrebbe trovato altri nemici ma il fatto di non conoscerli ancora li rendeva meno terrificanti. Il suo cammino proseguì lungo un corridoio; le pareti erano viscide e una melma maleodorante le bagnava gli stivali fino alle caviglie. Più di una volta sentì qualcosa guizzare nel liquido putrido (forse erano lepori) ma Luna proseguì senza indagare. Un tonfo sordo, anzi, una serie di tonfi si propagava con andamento ritmico, lento e costante. Luna si mise allora ad inseguire il rumore che rimase immobile ad attenderla. Man mano che si avvicinava (ma non sapeva a cosa si stesse avvicinando) il suono si faceva sempre più forte e più distinto: una nota grave, come suonata da un tamburo, breve e quasi bisbigliata sottovoce era seguita da una seconda nota più alta, come di un flauto, prolungata e suonata mezzoforte. La terza nota era di un timpano percosso con vigore fino a che la vibrazione non

si spegneva da sola. Infine un fischio acuto e breve. La sequenza si ripeteva uguale, all'infinito. Il cunicolo percorso da Luna sboccò in una grande grotta naturale; le lampade a etel appese alle pareti le consentivano una buona visione anche se tutto si era tinto di rosso e tremolava seguendo le oscillazioni della fiamma. La grotta era interamente occupata da un macchinario fatto di metallo e legno, di tubi e ingranaggi, di mantici e stantuffi: il movimento delle diverse parti di cui era composto produceva la litania che Luna aveva inseguito. Era arrivata. Quell'immenso aggeggio era la pompa che faceva entrare l'aria esterna nella città sotterranea e che faceva fuoriuscire quella viziata. Era giunta nell'ultimo rifugio degli uomini di Deos. Luna camminava con il cappuccio del mantello calato sul viso: era un'estranea e da quelle parti non erano molto socievoli con i nuovi arrivati. Si muoveva lentamente ma non troppo da intralciare il aggio e teneva lo sguardo basso per non attirare l attenzione. La Deos sotterranea non era altro che un lungo tunnel scavato nella roccia bianca. L'ampio scavo attraversava mezza città: dalle fondamenta dell'Olaf si allungava fino al muro esterno della città che guardava il continente. Le pareti di pietra della Grande Via erano forate da nicchie e aggi di diverse dimensioni. Le prime erano veri e propri rifugi che venivano usati come abitazioni, i secondi erano gli ingressi per raggiungere altre grotte. Il cuore di Deos era la Grande Via ed era lungo i suoi margini che pulsava la vita. Ma nella roccia di Deos un cancro aveva allargato le ferite già inferte da Cron. La malvagità di un demone non è paragonabile a quella di un uomo. Ma quale uomo rinuncerebbe ad essere malvagio solo perché c'è qualcuno più temibile di lui? Criminali, truffatori, spacciatori, ogni tipo di delinquente aveva trovato il suo posto nell'ambiente sotterraneo di Deos. I luoghi in cui si ritrovavano erano facilmente riconoscibili. L'ingresso alla grotta infatti non era coperto da una tenda, come per i rifugi dei mendicanti, ma era chiuso da pesanti porte di legno ed era sempre sorvegliato da uomini massicci che, con la loro sola presenza, mettevano in guardia chi andava in cerca di guai o disturbava colui che li pagava.

Al centro della via fioriva invece il commercio. Chiunque poteva mettersi lì con il suo tavolino per contrattare il prezzo di qualunque merce: armi, droga, prostitute o più semplicemente cibo, vestiti e medicine; tutto poteva essere acquistato e venduto. Gli affari si facevano in silenzio, usando solo le mani. Queste si muovevano velocemente, con rapidi gesti appena accennati a volte accompagnati da significative tamburellate sul tavolino. Luna rimase stregata dalla danza fatta solo di mani che seguiva il ritmo della pompa dell'aria ed era sovreccitata da tutta quella gente che incrociava il suo cammino senza neppure accorgersi di lei, come se fosse invisibile. I suoi occhi erano tanto colmi di immagini in movimento che non videro l'unica cosa alla quale doveva prestare attenzione, ma l'omone contro cui andò a sbattere la vide benissimo. Luna sentì il sangue gelarsi nelle vene e temette di mettersi ad urlare e si spaventò ancora di più quando l'uomo lanciò uno sguardo ammiccante al suo compagno che, come lui, era immobile di fronte alla porta chiusa di un locale malfamato. Fortunatamente i due soggetti si limitarono a guardarla in malo modo e ad allontanarla con uno spintone che la fece ruzzolare a terra. Il livido che le bruciava la coscia, proprio nel punto su cui era caduta, prometteva di ricordarle di fare più attenzione. Era un miracolo che avesse avuto una seconda occasione, ma quello non era il luogo in cui sperare di poter beneficiare di due miracoli nella stessa vita. Doveva rintracciare Sargon in uno di questi ritrovi. Molti di questi luoghi erano sorti quando gli uomini pensavano ancora al modo di sconfiggere Cron; lì dove ladri e drogati si incontravano per i loro loschi affari, una volta si parlava di ribellione e di gruppi uniti per l'indipendenza. Luna doveva trovare l'ultimo residuo della resistenza e risvegliarne la sete di libertà, prima di venire uccisa da uno squallido borseggiatore. Si rasserenò solo quando sentì il calore dell'antico potere scioglierle il sangue. In quell'istante seppe dove andare e come muoversi. Si compiacque di sé stessa, le 'intuizioni' datele dal potere le potevano salvare la vita: quello infatti non era certo il luogo più sicuro per chi faceva troppe domande. Altri due uomini minacciosi erano a guardia di un'altra porta, ma questa volta era la porta giusta. Osservata con ostilità dai due colossi Luna attraversò la soglia dopo averli corrotti. Venne subito investita dai fumi e dagli odori che ammorbavano la semioscurità. L'aroma dell'etas era insopportabile: la droga bianca che rendeva felici e disinibiti veniva fumata da chi credeva che il coraggio (ci vuole coraggio anche semplicemente per vivere) si comprasse un

tanto al grammo; a lungo andare però il corpo si ammalava e la mente si indeboliva ed i consumatori di etas dovevano continuamente aumentare le dosi semplicemente per reggersi in piedi. Le stanze più piccole, che comunicavano con la sala centrale del locale, erano illuminate ciascuna da una candela posta sull'unico tavolo che poteva trovare posto in quello spazio angusto. Attorno a quei tavoli si stava discutendo di rapine, truffe e omicidi; a commetterli sarebbero state solo delle ombre perché il flebile cerchio di luce non lasciava vedere altro. Altre ombre la sfiorarono mentre si avvicinava al bancone dove servivano i liquori; tremendi intrugli amari, distillati dalle cose più svariate, persino i rifiuti della cucina. Luna prese il liquore della casa per non attirare i sospetti del gestore; il bicchiere in mano era una specie di legame, un punto di contatto tra estranei, lanciava un messaggio: sono una di voi. Non si azzardava neppure a trangugiare un sorso di quel liquido giallastro, appoggiava solo le labbra al bicchiere e fingeva di deglutire. L'alcool che evaporava dal boccale scheggiato bastava a farle girare la testa e a darle la nausea. Sopra al bancone erano appese una decina di lampade che ben illuminavano la zona per scoraggiare i più furbi ad imbrogliare sul conto. La luce azzurrina dipingeva inumani colori sui volti di uomini e donne. I visi estranei si accartocciavano ad ogni movimento e le pieghe naturali venivano accentuate e plasmate come creta trasformando le persone in grottesche maschere. Cicatrici e amputazioni erano segni guadagnati in diverse battaglie (più o meno nobili): più segni un uomo poteva esibire e più alti erano i compensi da lui richiesti per una sua prestazione. Luna non riconobbe in quei volti i tratti caratteristici della Famiglia Deoscuridi, ma non c'era nulla di cui meravigliarsi: la sua Famiglia aveva subito la sconfitta più pesante nella battaglia contro Cron e l'intera popolazione era stata sterminata. Era in grado di percepire la presenza di altri due o tre Deoscuridiani puri in tutta Solatia. Gli altri erano tutti morti e lei si sentiva addosso tutto il peso opprimente del potere che si era liberato dall'anima dei deceduti. Il popolo di Deos adesso era vario e colorato. Immelici, sanguemisti, avevano cancellato in poche generazioni millenni di purificazione razziale imposta dalle Famiglie. Nessuno parlava quasi più il deosnos e per comunicare la gente si esprimeva in immnos, una brutta copia delle lingue parlate da ciascuna Famiglia alle quali aveva rubato qualche termine (subito imbastardito) e poche regole

grammaticali. Luna si accorse di attirare troppo l'attenzione, stava guardando troppo intensamente gli uomini attorno al bancone e già qualcuno dava segni di nervosismo. Distolse lo sguardo e fissò il bicchiere ancora pieno che stringeva in mano. Ma era troppo tardi. "Sador, non ricordo di aver visto questa femmina prima d'ora. E tu?" La voce profonda proveniva da un punto molto (troppo) vicino, alle sue spalle. "Non ne sono sicuro, non la vedo bene in faccia." Luna non aveva il coraggio di voltarsi, chiuse gli occhi e sperò che la sua indifferenza scoraggiasse i due uomini (sperava fossero solo in due). Ma fu una pura illusione. Sentì una mano prenderla per la nuca e stringerla. Non poté fare a meno di piegare indietro la testa e il cappuccio le scivolò via. Riaprì gli occhi e due volti si affacciarono sopra di lei. L'uomo che aveva parlato per primo, che continuava a tenerle la testa con una mano e che con l'altra le serrava i polsi immobilizzandola contro il bancone, era altissimo. Era completamente calvo e perciò si potevano vedere bene le cicatrici e i tatuaggi che gli adornavano il cranio. Gli occhi, piccoli e distanti, si muovevano freneticamente sul viso di Luna e poi si spostavano per cercare lo sguardo del suo compagno. "No, non l'ho mai vista. Forse è una delle nuove ragazze che ha comprato Taeron." Era stato Sador a parlare e il suo fiato puzzava più dell'aria chiusa in quel locale. Non era alto e con il lungo mento aguzzo sfiorava la bocca di Luna. Una benda di cuoio gli copriva l'occhio destro mentre l'altro era gonfio e arrossato, segni inconfondibili che appartenevano a tutti i consumatori di etas. I due uomini cominciarono a parlare tra di loro, facendo apprezzamenti pesanti e volgari. Ne discutevano come se Luna non fosse ancora lì, schiacciata tra i due. Era sconvolta, non riusciva a pensare, tuttavia la sua mente continuava a funzionare e le faceva vedere le immagini dei comportamenti più raccapriccianti che i due individui avrebbero potuto attuare. I ricordi dei film violenti visti in ato si mescolavano alla visione del presente e lei continuava a sovrapporre il proprio volto sulla faccia della vittima e quella dei due uomini che l'avevano catturata su quella degli aggressori. Non poteva chiedere aiuto perché nessuno si

sarebbe mosso per salvarla, anzi, era probabile che qualcuno avrebbe approfittato per aggregarsi ai due uomini; e lei non riusciva a trovare la calma interiore e la sicurezza necessaria per usare il potere. Si sentiva perduta. Sador fissò Luna per un istante che pareva interminabile; sembrava che non ascoltasse più le battute dell'altro ma che leggesse i pensieri della ragazza. Allora prese il bicchiere che Luna teneva ancora in mano, leccò il bordo come per assaporare l'aroma delle labbra di lei e subito dopo bevve il liquido infuocato in un unico sorso. Entrambi risero fragorosamente quando videro l'orrore dipingersi sul volto della ragazza. Quando ormai aveva perso ogni speranza, i due aggressori si fermarono, come i lupi che interrompono a metà l'azione di azzannare solo perché qualcosa di insolito o di più importante distoglie la loro attenzione. "Gor, Sador." Il capobranco li aveva richiamati all'ordine. Oppure voleva essere il primo a cibarsi della preda? Luna non si sentiva ancora in salvo; anche se i due uomini non la opprimevano più schiacciandola tra di loro e non la guardavano, nessuno aveva ancora mollato la presa. Si aspettava ancora il definitivo colpo alla giugulare. "Dobbiamo andare. Non abbiamo più tempo." Lei non riusciva a vedere l'uomo che parlava e non era completamente sicura che quello che diceva fosse un bene. Forse invece di 'giocare' con lei l'avrebbero uccisa in fretta. Poi il silenzio; lei continuava a non vederli in viso ma era probabile che i due chiedessero con gli occhi il permesso di continuare ancora un po' ed era altrettanto probabile che il capo si prendesse il tempo per decidere. Per decidere della vita di Luna. "Lasciatela andare!" L'ordine era chiaro e perentorio. Venne eseguito all'istante. Liberata finalmente della pesante mano di Gor, si voltò per dare un volto alla voce che aveva deciso la sua sorte. Si sorprese subito della figura che uscì dall'ombra fumosa; l'altezza e la massa muscolare da gladiatore non nascondevano il fatto che doveva essere sicuramente più giovane di Gor e Sador e lo sguardo severo mal celava i bagliori irrequieti tipici della sua età. Il

mantello, la spada che gli pendeva da un fianco e i lunghi capelli castani lo facevano somigliare ai guerrieri disegnati sulle copertine di certi libri. Questo particolare, ininfluente in quella situazione così tesa, ebbe il potere di tranquillizzare Luna che riprese il controllo dei propri nervi e incominciò a percorrere la strada mentale che la conduceva al luogo in cui dimorava il potere. Fu questione di un battito di ciglia e gli occhi arancio di Luna penetrarono quelli verdi del giovane scrutando la sua anima. Avvenne in modo così naturale che non ci volle alcuna formula, il potere scorreva fluido e indipendente attraverso di lei e le permetteva di decifrare il mondo interiore di Arat (questo era il suo nome). La semplicità con cui tutto ciò accadde non la rassicurava perché non era affatto sicura di essere capace, in futuro, di rifarlo. Arat era mezzo Deoscuridiano e mezzo Immelico, nessun potere albergava in quel corpo ed era per questo motivo che non si accorse di essere stato scrutato così affondo. Era la persona di cui Luna aveva bisogno. "Io... " "Io, fossi in te, non sfiderei ancora la fortuna." Luna era partita con il piede sbagliato. Doveva cambiare mentalità, visto che aveva cambiato Mondo; doveva perciò essere più autoritaria e far credere di essere sicura si sé, non doveva lasciarsi intimidire. "Non permetto a nessuno di interrompermi quando parlo, figuriamoci poi da uno come te." Luna si rese subito conto di aver esagerato e già sentiva il metallo della spada di Arat alla gola. Infatti il giovane guerriero appoggiò la mano destra sull'elsa dell'arma che era ancora celata sotto il mantello. "Mi dispiace, non era questo che volevo dire. Ma i tuoi amici mi hanno spaventata, sono molto nervosa in questo momento." Arat si rilassò e con un ampio movimento diede le spalle a Luna, fece un o verso l'uscita e subito si mossero anche Gor e Sador. "... Ma io devo incontrare Sargon!" I tre uomini si fermarono immediatamente. Non le servì guardare in faccia Arat

per vedere il suo stupore, anche gli altri due erano sorpresi e subito Sador si innervosì. "Come fai a conoscere Sargon, nessuno sa che lui... " "Taci! Parli sempre troppo." Poi Arat si rivolse a Luna, cercando di nascondere la sua curiosità e scrutando le reazioni della ragazza. "Chi è Sargon?" "Io non lo conosco, ma ho un importante messaggio per lui. E' stata Lòren Agor a mandarmi da voi." Non sapeva se era stata una buona strategia nominare la madre, ma non sapeva in che altro modo convincere quell'uomo ad aiutarla e senza di lui le cose si sarebbero complicate terribilmente. Quando Arat, in modo secco e autoritario, le ordinò di seguirlo, a lei non parve vero. I tre non dissero più una parola e si allontanarono con o frettoloso mentre Luna cercava di stare loro dietro, con grande difficoltà. Dalla Grande Via si spostarono verso i cunicoli laterali che conducevano ai 'sobborghi' della città che erano solo molto più bui e più sporchi delle zone più centrali. La gente viveva per strada: cucinava su falò collettivi (ma ognuno mangiava ciò che riusciva a procurarsi) e dormiva in loculi scavati nella parete rocciosa. Le famiglie per riposare stabilivano dei turni di guardia, per impedire agli estranei di entrare e rubare gli stivali, i mantelli, le poche provviste o una figlia. I tre uomini entrarono in una porta che si apriva sul vicolo. Luna non aveva neppure visto quella soglia tanto era mimetizzata con la roccia di Deos. arono lungo stretti corridoi e attraverso botole nascoste, stanze dagli odori acri e pungenti si alternavano nell'oscurità. Per un momento credette di essere ritornata nella dimensione che le aveva fatto conoscere Lutor e di percorrere i meandri della mente perversa di un losco figuro, ma si ritrovò in una stanza illuminata dal tepore del caminetto; un uomo anziano era seduto su una sedia di legno grezzo, sembrava un nonno in attesa dei suoi nipotini. Dopo che gli occhi si adattarono alla penombra Luna vide altre persone sedute in terra, agli angoli della stanza asimmetrica. Visto che l'anziano era seduto in posizione privilegiata (sulla sedia e vicino al fuoco) era chiaro che lui era l'uomo

più importante e Luna sentiva che era stata condotta da colui che poteva cambiare la sua sorte. L'anziano continuava a fissarla; tutti gli altri erano usciti dalla stanza, Gor e Sador si erano piazzati ai lati della porta mentre Arat restava fermo alle spalle dell'uomo importante. Gli occhi blu di Luna presero in prestito le tinte dell'arancio e la pupilla si affilò come una falce. La mutazione durò il tempo di un battito di ciglia e nessuno se ne accorse. Poi lei si rivolse direttamente ad Arat. "Lui non è Sargon." La reazione di Arat fu tanto imprevedibile quanto fulminea: Luna si sentì colpire dal buio e la sua mente venne avvolta nel silenzio. La risalita fu dolorosa. Nonostante bramasse di uscire dal buio, Luna non provava alcun sollievo mentre la luce si risvegliava tra l'oscurità. Mentre il chiarore aumentava il dolore alla tempia cresceva rapido e inesorabile. Quando fu completamente cosciente, Luna si strinse la testa tra le mani, sperando di far cessare il tormento che le fracassava il cranio. "Ti sei svegliata, finalmente." Luna riconobbe la voce gracchiante di Sador. L'immelico continuò in tono mellifluo e lascivo, avvicinandosi sempre di più al viso della ragazza. "E' stato bellissimo restare solo con te, in questa piccola cella." Luna non capiva se trovava più insopportabile quello che il porco stava dicendo o il suo alito pestilenziale; entrambe le cose contribuirono a ributtarla nella cruda realtà. "Lasciala stare!" Arat aveva fatto irruzione nella cella: non lo aveva fatto per 'salvarla' dalle grinfie di Sador ma solo perché aveva fretta. Infatti il guerriero strinse il polso di Luna e la trascinò giù dalla panca di legno sulla quale era distesa. L'equilibrio già instabile di Luna subì un crollo e la ragazza rischiò di finire a terra. Arat si fermò solo un istante; non c'era traccia di comione nei suoi occhi, solo un leggero fastidio per il ritardo che Luna provocava. Il carceriere continuava a serrare la presa nonostante lei non opponesse alcuna resistenza. La prigioniera

aveva un gemito di dolore che le esplodeva nei polmoni, ma con orgoglio lo chiuse nel suo cuore. La stanza in cui entrarono non era molto diversa da quella da cui erano usciti. Appesa al soffitto c'era una lampada a olio che illuminava fiocamente solo uno stretto spicchio di aria in cui vibrava un pulviscolo animato. Solo una sedia di legno era bagnata dal chiarore rossastro, il resto della stanza era completamente buio. Guardando negli occhi furiosi di Arat, Luna immaginò che quell'oscurità nascondesse strani marchingegni degni della più terrificante sala delle torture. "Sargon! Se credi di spaventarmi con questi metodi... Credimi se ti dico che a me basta molto meno per entrare nel panico." L'uomo uscì dall'angolo più nero della stanza. Non si sentì il fruscio delle vesti o il respiro trattenuto: Sargon aveva celato la sua presenza grazie al potere che ancora riusciva a richiamare.

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CAPITOLO 6

Solo una Deoscuridiana forte e dal sangue puro poteva vedere al di là dello schermo creato da Sargon. "E' tanto tempo che non vedo una della Famiglia, una con il sangue puro." Sargon fissava Luna con gli occhi illuminati dai resti del vero potere. Luna rispondeva con lo splendore del potere giovane e vigoroso, attingendo senza difficoltà alla Fonte. Dopo che Luna ritornò allo stato di quiete, poté osservare con occhi umani l'uomo che era stato amico e compagno di suo padre e che, secondo quello che le aveva detto Lòren, avrebbe guidato i suoi i fino alla vittoria. Sargon aveva mantenuto una certa prestanza fisica, aveva il petto largo e sarebbe parso ancora più imponente se non fosse stato per il bastone a cui si appoggiava. Era ancora forte e desideroso di buttarsi in prima linea, lo rivelavano i suoi occhi. "Chi sei?" Non c'era curiosità nella domanda di Sargon mentre i suoi occhi, ancora colorati dal potere, interrogavano Luna. "Tu lo sai chi sono!" Ma lo disse con minore sicurezza di quanto avesse voluto. "Volevo essere sicuro che anche tu ne fossi convinta ." L'uomo non la stava canzonando e l'osservava con gli occhi di chi è disposto ad ascoltare e a comprendere. Arat era rimasto nella stanza, in un angolo. Non si muoveva e non parlava ma fissava intensamente ogni movimento di Luna. Lei si sentiva legata e imbavagliata dal suo sguardo, non riusciva a pensare alla cosa più importante: parlare con Sargon. Questi se ne accorse e si rivolse al guerriero con tono autoritario: "Non credo di correre pericoli se resto solo con lei. Puoi anche andartene, Arat."

"Ma... potrebbe essere più pericolosa di quanto non sembri." "Temi forse che sia una Mutata di Cron? Non lo è. Di questo sono più che certo." "Forse è una spia." Arat pronunciò quella parola con rabbia e frustrazione, mentre gli ritornavano alla memoria gli eventi della sua infanzia tormentata dall'oscuro Cron. "Ora smettila... " Il guerriero se ne andò senza aspettare l'ordine che Sargon stava per impartirgli. Era stato ripreso di fronte ad un'estranea, una probabile nemica, e questo gli aveva scaldato il sangue fino a fargli dimenticare i regolamenti militari che Sargon imponeva ai propri allievi. Sapeva che terminato il colloquio con la ragazza Sargon lo avrebbe chiamato a rapporto, ma era sicuro che nessuna spiegazione gli avrebbe fatto capire il perché dello strano comportamento del suo superiore. Luna non si sentiva affatto sollevata dopo l'uscita di Arat: la stanza era ancora invasa dal suo scetticismo. Tutto ciò era scoraggiante. Quando era partita per Solamia, anche se ancora confusa e destabilizzata dalla quantità di episodi che le si erano scaricati addosso, in cuor suo aveva creduto di essere l'evento che avrebbe segnato la storia di quel mondo. Immaginava che non sarebbe stato facile ma contava sull'appoggio delle genti che avrebbero creduto in lei. Il comportamento di Arat (che in quel momento incarnava tutti gli abitanti del pianeta) fu come una doccia gelata e Luna si svegliò in un incubo che non era più il sogno che aveva incominciato in un luogo disperatamente lontano e in un tempo definitivamente finito. "Queste non sono le solide basi su cui dovrebbe poggiare la nuova Deos." Sargon aveva letto il suo pensiero, senza usare alcun potere se non quello dato dalla sua esperienza e Luna si sentì in imbarazzo, ma solo per essere stata rimproverata: si mise a piangere come una bambina, disperata non perché aveva capito che era sbagliato rubare le caramelle, ma solo perché era stata scoperta. Solo dopo una lunga pausa Sargon poté nuovamente parlarle. Anche lui riconobbe in lei la donna della profezia, ma al contrario di Lòren si rese conto di quanto fosse impreparata. Da buon capo quale era, non si scoraggiò e decise che la leggenda che Dio Sad aveva scritto per loro doveva verificarsi e lui avrebbe

fatto tutto quello che era in suo potere per far sì che il miracolo avvenisse.

Arat e Sargon erano seduti attorno ad un tavolo. Da quando il giovane era entrato nell'ufficio (dietro ordine di Sargon) tra i due uomini era sceso un gelido silenzio: l'orgoglio ferito del giovane guerriero si scontrava con la fiera convinzione dell'anziano capo. Ma bastò un calice di liquore sorseggiato nella quiete, disturbata solo dal crepitio del fuoco nel caminetto, per far sì che le due 'belve' si ritirassero nella propria tana, assopite ma non placate. "Non posso credere che quella sia la Feteh. Ad essere sincero non riesco a pensare che tu creda a questa leggenda." "Lo so che non fa parte della tua natura, ma devi fidarti di ciò che dico. Il corso della storia che stiamo vivendo è prossima ad una svolta." "Vuoi abbandonare la strada che per lunghi anni hai percorso per seguire una donna senza ato e dal breve futuro. Quanto tempo sopravviverà?" "E' ata indenne attraverso i blocchi dei Carmid e dei Leda. E non venirmi a parlare di fortuna, da quando ci sono quei mostri quella parola è stata cancellata e il suo significato è stato dimenticato." "Il fatto è che non riesco a capire come lei possa rientrare nei progetti che sono in discussione già da tempo... " "E' proprio questo il motivo. Quei progetti sono vecchi di anni e sono ancora solo delle utopie discusse tra vecchi stanchi e giovani incapaci." Arat si sentì offeso per questa affermazione, ma poi ripensò alla sensazione di disagio e di impotenza che aveva provato durante le ultime riunioni dei Giovani Guerrieri. Si era accorto di come i dibattiti si perdevano in futili e puerili disaccordi mentre vedeva sempre più lontano la possibilità di entrare in azione. Quasi seguendo il suo stesso ragionamento, Sargon continuò: "Sembra che tutti si siano abituati all'idea di vivere quaggiù e che si siano assuefatti alla mortale esistenza dei Mutati. Lei è la nostra speranza di sbloccare la situazione. Guidata da noi Luna diventerebbe il simbolo della nostra resurrezione."

"Sei davvero sicuro che la cosa si risolverà così velocemente ora che c'è lei?" "Non sono così sciocco da mettere la mia vita e quella dei miei uomini nelle mani di un'antica leggenda, ma sono convinto che la sua presenza si rivelerà un vantaggio, per noi." I due uomini parlarono ancora di colei che era giunta e di quello che sarebbe dovuto avvenire in seguito a questo evento, ma nessuno comprese le spiegazioni dell'altro ed entrambi rimasero delle proprie convinzioni.

Sargon condusse Luna nel sotterraneo di un bordello (anche in quel buco c'era un buco più profondo) e la ragazza si ritrovò al centro di un processo. Quella era la Camera Comune. Dopo che la Soppressione aveva spazzato via le vecchie tradizioni e le antiche regole, qualcuno sentì il bisogno di dare una certa stabilità al nuovo modo di vivere. La comunità aveva perso tutti i suoi nobili rappresentanti e al loro posto erano comparsi diversi gruppi etnici costretti a nascondersi nelle viscere di Deos. Le diversità venivano spesso a scontrarsi e la Camera Comune era sorta proprio per mitigare gli attriti, in risposta alle richieste delle persone più deboli; era uno strumento di difesa delle persone che volevano vivere in una società contro coloro che sguazzavano nell'anarchia e si comportavano da criminali. Alla Camera Comune si parlava dei problemi attuali e delle speranze future. I più saggi prendevano le decisioni e la maggioranza ne seguiva le disposizioni, conscia di essere in buone mani. Pochi guerrieri avevano messo le loro capacità al servizio della comunità e Arat era uno di loro. Luna si trovava lì, spiata da molti occhi spaventati e da qualche occhio diffidente: lei era un'estranea e quindi rappresentava un possibile pericolo. Sargon rimase in silenzio, con le mani appoggiate sulle spalle di Luna. Con lo sguardo frugava nelle menti dei pochi che ancora credevano nell'utilità di quelle riunioni. Da quando nella città di Deos erano giunti banditi provenienti dal continente l'unità del gruppo si era indebolita, tanto che l'iniziale motto 'aiutiamoli che poi ci aiuteranno' era diventato 'pensiamo a noi stessi perché nessuno ci aiuterà'. Quando il brusio cessò Sargon iniziò a parlare. "La giovane donna che vedete qui, al centro della stanza, non è venuta a chiedere di entrare nella mostra piccola comunità. Lei è venuta ad offrirci la possibilità di entrare in una comunità più ampia: quella del libero popolo di Solamia. Lei è

Luna, la Feteh che risveglierà la rivoluzione abbandonata da troppo tempo da tutti coloro che si sono persi nella pigra melma della corruzione." Il brusio riprese appena Sargon ebbe terminato di parlare. Anche se erano tutti immelici erano cresciuti all'ombra della cultura Deoscuridiana e perciò conoscevano la leggenda della Feteh. "E voi credete veramente che una sciocca ragazzina possa riunire le diverse forze della rivoluzione e indirizzarle in un'unica direzione? Guardatela bene. Vi sembra lei il condottiero che la leggenda vuole vincitore sulle potenze del male?" Il secondo oratore rappresentava l'opposizione. Possedeva una lingua più tagliente della demo che portava al fianco, ma ancora più pericoloso (per le argomentazioni di Sargon e quindi anche per Luna) era il fatto che nei pochi anni che aveva trascorso a Deos era riuscito a conquistare il rispetto di quanti ora lo stavano ascoltando. Era Arat e in poche frasi si era già accattivato la platea. Il guerriero era dunque anche un uomo di cervello e di grande carisma; Luna non poté che rimanerne affascinata, anche se non le piacevano affatto le parole che uscivano da quella bella bocca. "Ma prima di tutto come potete credere a quella leggenda?" Arat usava frasi semplici in modo che tutti potessero capirlo, eppure non era al loro livello: li dominava totalmente. "La Feteh. La creatura talmente vicina agli dei da nascere al centro dell'universo, tra due lune. Due nascite, due vite ed un'unica sorte, proprio come i due astri nel cielo di Solamia. La Feteh che abbraccerà tutto il popolo e lo porterà alla vittoria contro le tenebre. Tutto ciò è molto suggestivo e anche io vorrei credere che sia tutto vero." Una pausa per raccogliere le idee e l'attenzione del pubblico. "Ma non sono più un bambino. Questa è la vita vera e non è un gioco quello che facciamo tutti i giorni quando cerchiamo di sopravvivere a Cron." "Non ti fidi di Lòren?" Sargon era ato al contrattacco e lo sfidava usando la persona che, anche se nobile, era rispettata anche dagli immelici che continuavano a considerarla la regina di Deos. "Credi che si sia sbagliata nel riconoscere Luna, sua figlia, in questa ragazza? Credi che le abbia svelato l'ingresso segreto per i sotterranei di Deos per gioco?"

Questa volta la platea sembrava parteggiare per Sargon, le persone fragili e in difficoltà sono anche molto malleabili. Arat invece non si scompose e con tono irriverente rimbeccò. "Posso anche non mettere in dubbio che lei sia Luna, la figlia di Ledon e Lòren, ma permettimi di dubitare se poi mi si dice che sarà lei a guidare l'esercito contro Cron." La folla cominciò a commentare animatamente a favore delle parole di Arat. "Silenzio!" Finalmente i membri anziani della comunità, quelli che prendevano le decisioni, uscirono dal silenzio in cui si erano chiusi. Era stato Zarbo a parlare: il vecchio Sadino non era solo il capo spirituale di quella comunità, era anche il saggio, il maestro ed il giudice. Tutti gli obblighi di questo potere pesavano sulle spalle scheletriche di un vecchio dalla pelle secca e cadente, con i capelli bianchi che ricoprivano a ciuffi la testa rugosa e ricamata da vene bluastre. Solo gli occhi ingialliti dal tempo ma profondi e penetranti rivelavano la forza racchiusa in quel corpo ormai in decomposizione. Ottenuto il silenzio della sala e l'attenzione dei due oratori, Zarbo indicò con il dito bianco e ossuto il cuore di Luna. "Lei è la Feteh". Un respiro che sembrava fosse l'ultimo e poi proseguì. "Lei è colei che porterà alla vittoria e alla salvezza." Il giovane e irruento Arat stava già per contestare quello che il saggio aveva appena declamato con tanta solennità quando, con voce tonante, il Sadino continuò. "E chi non crede si perderà tra le pieghe del nero mantello della Dea Aar, andando incontro alla morte dell'anima." Questo anatema non spaventò Arat ma servì a zittirlo. Il giovane conosceva l'influenza che Zarbo aveva sulla gente comune e sapeva bene che andare contro le sue parole lo avrebbe reso impopolare. Per tutto questo tempo Luna era rimasta in silenzio e con il capo chino, come chi fa penitenza. Sentiva su si sé gli sguardi della gente; occhi rabbiosi che celavano il desiderio di una speranza. Loro volevano credere che lei fosse la Feteh perché desideravano essere salvati,

ma avevano paura di lei perché rappresentava tutto ciò di cui avevano più paura: il cambiamento e l'ignoto. Come poteva convincere quella gente che lei poteva aiutarli? Non era facile, considerato che non sapeva ancora cosa fare di preciso. Sapeva però che al momento giusto avrebbe saputo tutto, era certa che il suo istinto guidato dal potere l'avrebbe aiutata, come era già avvenuto fino a quel momento. Ma come poteva chiedere fiducia ad un popolo che conosceva solo l'inganno e il dolore? Come poteva aspettarsi che la seguissero in un'avventura che, a volte, sembrava assurda anche a lei? Luna scacciò questi pensieri che sapevano solo confonderle la mente e si aggrappò al pensiero che la sua natura di Deoscuridiana l'avrebbe aiutata ad affrontare la difficile impresa. Si alzò lentamente dallo sgabello e gli sguardi dei presenti si fecero taglienti come coltelli. Li guardò con i suoi occhi color arancio e dipinse nelle loro menti il quadro della vittoria usando le tinte della speranza. Con gli occhi del serpente tentava la piccola comunità offrendo la libertà e, senza inganni, parlando di grandi sacrifici. Quel popolo senza più il sole aspettava solo una tenue luce per risvegliarsi e Luna illuminava tutti i loro sogni, ma con sé portava anche molte ombre. Gli occhi diffidenti e dubbiosi brillavano, accesi dalla speranza che Luna aveva piantato nei loro cuori. Oppure era solo il seme dell'illusione? Difficile distinguerlo. Ad ogni modo Luna li aveva conquistati, loro confidavano di poterla seguire, anche solo per il piacere provato nel credere a quell'illusione. Zarbo guardò soddisfatto Arat, ma il giovane non se ne curò e spense l'entusiasmo appena nato con un debole soffio. "Credi di riuscire e unire le Famiglie e le tribù di Solamia? Credi di cancellare al tuo solo aggio millenni di pregiudizi e di incomprensioni? Credi veramente di poter comandare un esercito di uomini contro le armate di Cron grazie ai tuoi occhioni arancio?" Arat continuò, ironico e irresistibile: "Tutti quelli che credono alla Feteh sono qui di fronte a te, ma sono solo questi. La leggenda non ha oltreato i confini delle terre della Famiglia Deoscuridi, perciò il resto del continente non ti conosce. Nessuno ti darà ascolto, figuriamoci se morirà per te." Sargon intervenne con l'irruenza del buon padre di famiglia e la ragionevolezza dell'alto ufficiale.

"Lei è lo strumento ma sarà suo padre Ledon a guidare gli uomini in battaglia e il suo valore di uomo e di capo è riconosciuto da tutte le diverse comunità." Subito un brusio animò la sala. Il nome di Ledon, anche dopo molti anni dalla sua scomparsa, riusciva ancora ad accendere una fiamma nel cuore della gente. "Ledon una volta riuscì a creare un piccolo esercito di uomini divisi dalla razza ma uniti da un unico scopo. Con la nuova forza che scorre nelle vene di sua figlia, Ledon unirà tutta Solamia." "Ledon è morto!" replicò Arat senza curarsi di essere al cospetto della figlia. "No!" Riprese Sargon. "Ledon è vivo e ci aspetta ad Imm." Una fragorosa risata interruppe l'accorato discorso del grande condottiero. Era sempre lui, Arat il ribelle: il giovane irrispettoso incominciò a canzonare Sargon. "Certo, Imm. Capitale fantasma di un popolo di cadaveri. Neppure io che sono immelico credo nella sua esistenza." "Imm è stata fondata, uomo senza fede. Si trova oltre l'Oceano di Savra, proprio nel cuore di Lubra, la terra contaminata dall'anima nera di Cron." Una luce maligna guizzò negli occhi di Arat. "E come ha fatto Ledon a fondare Imm sotto gli occhi di Cron senza subire devastanti attacchi da parte di questo mostro?" "Ledon è Imm e Imm è Ledon." La voce di Luna vibrò per la prima volta tra le pareti della scura stanza e fu come un fresco vento che spazzava via l'aria avvizzita. "Il potere lo ha protetto per tutti questi anni dall'odio di Cron. Ora il potere è il laccio che mi lega a lui e questo nostro legame ci porterà nel cuore di Lubra ed è lì che colpiremo. Sarà allora che vinceremo." "Ma questa di cui parli non è Imm, è la città di Utopia." Gli occhi di Arat erano carichi di rabbia e non si sforzava di celarlo. Era in collera perché amava quella gente e non voleva vederla oppressa e spaventata da un pazzo onnipotente, ma non voleva perderla per i vaneggiamenti di un vecchio soldato e di una bambina sprovveduta.

Improvvisamente, Zarbo si sollevò dal silenzio mortifero nel quale si era celato e con voce flebile decantò la formula risolutiva. "I membri anziani hanno acquisito sufficienti elementi per poter giudicare. Dichiaro sciolta la riunione." Le persone che avevano esultato e acclamato questo o quell'altro oratore si ritirarono in buon ordine: le parole che erano state dette li aveva scossi, ma non era loro il compito di decidere quale futuro era loro destinato. Gli anziani avrebbero scelto per il meglio. Sargon ritornò verso il centro e prese Luna per un braccio; lei era ancora disorientata e non capiva se e quale risultato si era raggiunto. Arat era visibilmente innervosito dalla sospensione affrettata della riunione. Poi un uomo parlò all'orecchio prima di Sargon e poi di Arat, infine accompagnò Luna nella stanza che le avevano assegnato mentre i due uomini si allontanavano insieme. Zarbo era irritato. Quando aveva indetto l'apertura della Camera Comune non sapeva che si sarebbe trovato di fronte ad una disquisizione sul destino di Deos. "Sargon, è con te che sono più in collera. Avresti dovuto dirmi prima che si trattava di una questione così delicata. Avrei indetto una seduta speciale interdetta al pubblico. Tengo molto a questa gente e non voglio che il suo delicato equilibrio venga scosso da fantasticherie..." "E' per questo motivo che non te ne ho parlato in privato: tu vuoi che tutto rimanga così, in questo limbo che non è ancora morte ma che non è neppure vita. Non avresti indetto nessuna riunione, invece ora che il popolo sa sei costretto a prendere in considerazione questo nuovo elemento." Arat era più sconvolto di Zarbo, nessuno aveva mai parlato al Sadino in quei termini, e meno che meno lo aveva fatto Sargon. Il vecchio raccolse con pazienza tutta la calma che aveva a disposizione e rispose all'attacco. "Non parlare di cose che non conosci. Se pensi che io possa darti il permesso di portare tutti gli uomini validi in questa avventura sei più stupido di quanto pensassi."

"Non tutti, ma solo un piccolo gruppo. Ti porterò le prove che Luna può fare quello che dice e che Ledon la guiderà nel compiere le opere di cui ancora non ha parlato." "Vedo che con te non si può ragionare. Ti lascerò partire ma non avrai alcun aiuto, potrai contare solo sugli uomini del tuo gruppo. Nessuno saprà neppure del vostro incarico, non voglio alimentare speranze che potrebbero dissolversi con la vostra morte." Zarbo li aveva congedati senza neppure rivolgere la parola ad Arat. Eppure la decisione presa dal vecchio lo riguardava molto da vicino, infatti lui era uno degli uomini legati a Sargon. Era condannato a partire senza discutere e senza credere allo scopo della missione.

Arat era ritornato alla Camera Comune, ormai vuota. Si era seduto sulla sedia che era stata occupata da Luna durante l'assemblea e fissava il pavimento irregolare con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la faccia presa nelle mani. "Un vero peccato. Vero?" L'inconfondibile voce gracidante di Sador trascinò Arat lontano dai suoi pensieri. "Cosa?" "Niente, stavo solo dicendo a Gor che è un vero peccato che tu ti sia rammollito di colpo. Come hai potuto perdere il confronto con Sargon? Anche io sarei riuscito a convincere gli anziani che questa è un'impresa assurda." "Infatti gli anziani non hanno deciso nulla. Anzi nessuno ha preso alcuna decisione... " "Il risultato è lo stesso: Gor ed io dobbiamo seguirti come 'volontari' in questa ricerca suicida." "Forse non è del tutto negativo. Avremo la possibilità di arrivare a Samas e di incontrare altri gruppi di resistenza. Forse possiamo unire le nostre forze agli altri sopravvissuti e sperare finalmente di vivere alla luce del sole."

"Ho già capito! Gor, è meglio che ce ne andiamo, questo qui ha già la testa a Samas e si è dimenticato che non sarà così facile portarci anche il resto del corpo. Andiamo a bere qualcosa finché abbiamo ancora uno stomaco da riempire, perché dopo l'incontro con il primo Mutato non so quanto rimarrà di noi." Gor, in silenzio, annuì mentre uno sciocco sorriso piegò il volto asimmetrico di Sador. Rimasto nuovamente solo Arat si perse in pensieri troppo grandi e ancora troppo confusi.

Luna non sapeva quanto tempo aveva trascorso nel sottosuolo di Deos e non riusciva a ricordare se fosse giorno o notte, ma era molto stanca e si rannicchiò in un angolo della grande stanza. Non fu un sonno tranquillo, la pace che da molto tempo cercava venne turbata da visioni: visioni di un viaggio. Vide le alte torri gotiche di Deos alle sue spalle, nere contro un cielo di fiamma. Lei correva su un prato, c'erano fiori e grilli e tutto intorno a lei avrebbe dovuto rasserenarla, ma non era così. Poi udì dei i. Qualcuno la stava inseguendo. Si vide cadere lentamente, diritta in avanti, e il suo corpo aderì alla terra e la faccia cadde sulla roccia. Sentì le pietre seccarle la gola e soffocarle la vita. Poi vomitò viscere e intestini. Alzando gli occhi vide dei palazzi bianchi stagliarsi in un cielo azzurro punteggiato di uccelli neri, ma una pioggia di fango la coprì ed allora vide solo il buio. La corrente del fiume di melma la trascinava verso il fondo (se c'era un fondo) e Luna percepì la disgustosa fanghiglia entrarle nella bocca e nel naso. La lenta caduta venne fermata dalla dura pietra; era in una grotta e sentiva il bisogno fisico di riposarsi, ma neppure lì trovò pace: mille bestie dalle mille zampe le camminavano sulle gambe, sulla schiena, sulla testa. Lei cercava di cacciarle ma erano troppe. Luna scappava, correva, ma le radici degli alberi le legavano i piedi e stringevano le loro spire attorno al suo corpo finché la carne divenne legno e la pelle corteccia. Luna volava. Attraversava i venti infuocati e sorvolava deserti di sale, finché giunse in riva all'oceano. Globi semisommersi imperlavano l'acqua e la luce del sole si rifletteva sulle superfici di vetro. Lungo il bagnasciuga qualcuno aveva scritto una parola sulla sabbia nera 'SAVRA'. Un'onda azzurra cancellò la scritta e subito dopo ci fu un'esplosione. Il cielo si era fatto verde e sulla linea dell'orizzonte si vedeva chiaramente la forma triangolare di un colle rosso dalla cima nera e dai piedi blu.

'Lubra... ' Luna parlava nel sogno e diceva '... il colle rosso, nero e blu è un quadro di... ' "Ares!" Il nome che apparteneva alla sua vita ata era riemerso con violenza e Luna aveva urlato quel nome nel mondo reale e non in quello dei sogni. Aveva la fronte bagnata dai sudori freddi e sentiva dolerle tutti i muscoli del corpo come se all'improvviso si fossero irrigiditi tutti nello stesso istante. Arat era nella sua stanza e la guardava con gli occhi che da verdi erano mutati in un nocciola più severo. "Preparati che tra poco si parte." Sargon non le aveva spiegato come e perché aveva ottenuto il consenso di Zarbo, le aveva semplicemente detto che i preparativi per la partenza erano già incominciati e che anche lei doveva essere pronta. "Tra poco spunterà l'alba, è l'ora migliore per partire. Infatti solo nel momento in cui la notte volge al termine i sensi dei Leda sono più deboli: devono gradualmente adattarsi alla presenza della luce e sono praticamente inoffensivi. Per uscire dalle mura di Deos avremo il tempo di un respiro. Abbiamo caricato viveri sufficienti per arrivare al porto di Samas, da lì partiremo con una nave. Usciremo dalle strette acque del Serpente Caabiano ed entreremo nel grande Oceano del Sud, poi dritti verso Est, verso Aruni che si trova all'altro capo del continente. Ma dobbiamo arrivare a Samas prima delle tempeste altrimenti sarà impossibile prendere la via del mare." Sargon aveva continuato a camminare lungo i cunicoli che foravano il sottosuolo di Deos, orientandosi con sicurezza in quel grande labirinto. Finalmente i cunicoli soffocanti terminarono e Luna si sentì meglio nell'ampio spazio che le stava di fronte, ma i suoi polmoni non respirarono l'aria del continente e sopra la sua testa non ritrovò il cielo infinito. Si trovavano ancora sotto terra, in una grotta naturale tanto ampia da non riuscire a percepirne la fine. Era lì che la comunità sotterranea teneva carri e candù: sia quelli da tiro che quelli più pregiati da cavalcatura. Ma quella era soprattutto l'unica via che gli abitanti avevano per uscire dalla città (se ne avevano il coraggio) e che gli stranieri avevano per entrare (se erano sopravvissuti al viaggio). Lampade a olio erano appese ad alti pali sparsi per tutta l'area occupata dai

preparativi per la loro partenza. Dalla zona illuminata in cui fervevano ancora gli ultimi lavori partiva una lunga fila di pali con l'apice da una fiamma rossa: la linea punteggiata si perdeva in un punto non ben definito. Quella era la strada che dovevano percorrere per uscire dal ventre di Deos. L'attenzione di Luna venne richiamata da un cupo suono metallico. Era Arat, aveva indossato sopra alla casacca aderente una mezza armatura che gli copriva le spalle e il petto e terminava proprio dopo aver protetto lo sterno. Il giovane coprì con il mantello scuro il metallo bluastro che sotto il sole lo avrebbe fatto brillare come una stella e l'avrebbe reso troppo visibile. Dietro a lui camminava una donna armata come un guerriero, seguita da un uomo disarmato ma carico di borse di cuoio. Giunsero anche Sador e Gor e il gruppo fu al completo. "Allora! Si parte?" La voce di Arat irruppe prontamente. Luna non perse tempo e saltò in groppa al candù con l'abilità dei soldati di Deos, vero vanto per la Famiglia Deoscuridi. Guardando il giovane dalla nuova posizione conquistata, Luna si divertì a sfidarlo. "Aspettiamo solo te!" Arat non si scompose, ma per Luna fu comunque una vittoria: almeno per una volta era riuscita a zittirlo.

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CAPITOLO 7

Cavalcare quello strano quadrupede dall'andatura ondeggiante era divertente. Il candù era la cavalcatura usata in tutta Solatia: ce n'erano diverse razze e ognuna di queste era più adatta ad un diverso tipo di terreno. Alto poco più di un cavallo, ma molto più muscoloso, il candù riusciva a trasportare il cavaliere e tutta l'attrezzatura necessaria anche per lunghi spostamenti e senza bisogno di eccessive cure. In testa al gruppo appena formato c'era Sargon che, seduto sulla sella, aveva riacquistato la postura eretta e imponente di un tempo. Dietro a lui Gor e Sador martoriavano le loro cavalcature saltellando sulla sella e modificando continuamente la normale andatura dell'animale: incitavano la bestia nella corsa e poi la frenavano bruscamente prima di superare Sargon. Luna era proprio dietro a loro. Si teneva a debita distanza ma non abbastanza da non accorgersi che i due parlavano di lei: dagli sguardi di intesa che si lanciavano non ne parlavano certo in maniera ortodossa. Al fianco di Luna c'era l'uomo disarmato. Era un uomo di mezza età, dai capelli biondo paglia schiariti da ciocche bianche. Continuava a fissare Luna cercando goffamente di non farsi scoprire, ma lei lo coglieva regolarmente in flagrante. Dopo un paio di sguardi imbarazzati e sorrisi accennati, Luna decise di rompere il ghiaccio. "Salve, io sono Luna." "Lo so... Si è parlato molto di te, prima della partenza ... io sono Bind Nebus." "Piacere di conoscerti. Non so che cosa ti hanno detto gli altri ma se vuoi farmi qualche domanda sarò felice di risponderti." Il modo di parlare di Bind Nebus, particolarmente cortese e sottolineato da modi delicati, aveva conquistato Luna che, presa da una spirale di domande e risposte, raccontò all'uomo appena visto tutta la sua vita. Parlando ad alta voce, Luna si rese conto quante difficili decisioni aveva preso e nei suoi pensieri si fecero strada numerose incertezze. Non era lo sguardo del suo ascoltatore che la faceva dubitare delle sue scelte; era il suo io più profondo che si sentiva insicuro e

quindi spaventato. Cercò di difendersi dalle perplessità che la stavano opprimendo semplicemente evitando il problema e cambiando discorso. "E tu invece? Che cosa ti ha spinto in questa avventura? Non sei armato e quindi non puoi essere un guerriero." Bind Nebus si mise a ridere dopo tale affermazione e, tra i singhiozzi, riuscì a dire solo. "Sono un Nebus." Quando l'ilarità generata da Luna si placò, l'uomo le fece notare le numerose sacche di qui era fornito e gli speciali recipienti assicurati alla sella del suo candù: tutto ciò era indispensabile per il trasporto dei medicinali. Il titolo di 'Nebus' infatti veniva attribuito solo ai medici-ricercatori più brillanti. Il nome era molto antico e si riferiva ai medici Deoscuridiani, anche se i Nebus che esercitavano prima della Soppressione di Cron erano molto diversi. Le ricerche che effettuavano gli antichi Nebus puntavano esclusivamente a scoprire le connessioni tra il potere Deoscuridiano e le forze della natura: uno squilibrio tra questi due elementi causava i sintomi della malattia. Compito del Nebus era raggiungere il nodo di connessione tra la specifica fase del potere e l'annessa forza naturale; portare il tutto all'equilibrio originario significava la guarigione del paziente. Questa metodologia era la più potente e la più sicura, ma aveva grossi limiti: i Nebus erano tutti Deoscuridiani ed erano in grado di guarire solo membri della Famiglia Deoscuridi poiché entrambi possedevano il potere, unico mezzo per muovere le forze naturali. La Soppressione aveva cancellato dal mondo la nobile Famiglia di Deos e con essa erano scomparsi gli unici veri Nebus. Ma anche se fossero sopravvissuti non avrebbero potuto curare gli abitanti della Deos odierna poiché erano tutti immelici e perciò privi della fiamma del potere. I Nebus del presente (come Bind) erano semplicemente degli uomini intelligenti e capaci, che curavano i mali con erbe e infusi, con polveri minerali ed estratti animali. Le cento tasche della giacca che indossava e le borse allacciate alla sella contenevano appunto questi rimedi naturali. Arat rimase indietro rispetto al gruppo con Aza, la donna guerriera. Insieme avevano il compito di impedire ogni possibile attacco alle spalle del gruppo; i pericoli non venivano solo dai Mutati ma anche da uomini senza legge pronti a

tutto pur di razziare candù e attrezzature. L'enorme caverna che stavano ancora percorrendo si strinse fino a chiudersi fondendosi con il muro difensivo della città. Sul fondo si vedeva un lungo e sottile squarcio verticale che si apriva verso la breve penisola che allacciava Deos alle terre continentali della Famiglia, l'Ausolia. Dietro ordine di Sargon i candù partirono al galoppo e si allontanarono velocemente dalle imponenti mura di Deos. Quando la tenue alba si accese al primo raggio di sole i candù avevano già raggiunto il crinale della prima collina che ondeggiava il profilo della penisola, abbastanza lontani da non temere i Leda e i Carmid (che come tutti i Mutati non abbandonavano mai il presidio a loro destinato) ma già troppo vicino ai nuovi nemici. Luna si voltò e da quella posizione elevata vide il corpo di Deos disteso sul lembo di terra che lo congiungeva al resto di Solamia, mentre i suoi piedi affondavano nelle acque del mare di Kesho. Ricordò per un istante la Deos dei suoi sogni, splendente come una costellazione ma ancorata a terra perché gli uomini ne potessero beneficiare. Ora era solo un'ombra persa nel nero mantello della Dea Aar. Allora guardò di fronte a sé, ma ciò che il viaggio le prometteva non le era di conforto. I Mutati di Cron avevano invaso molte zone di Solamia e viaggiare per il paese era diventato molto pericoloso, se non impossibile. Pochi si avventuravano al di fuori delle città che avevano scelto come rifugio e quei pochi che lo facevano raccontavano di aver lottato selvaggiamente per salvarsi la vita. Anche la terra d'Ausolia, che una volta era bella ed accogliente, era diventata un territorio insidioso sia per la presenza dei Mutati che per quella dei briganti che, per niente solidali con gli esseri umani loro simili, si comportavano come veri e propri sciacalli. Arat era l'unico uomo (di cui fosse giunta notizia a Deos) che avesse avuto il coraggio di attraversare l'Ausolia per ben tre volte: quando da Samas giunse a Deos per la prima volta, quando vi fece ritorno alcuni anni dopo ed infine la terza volta quando portò Aza a Deos. Gli uomini della comunità rispettavano i due giovani per il coraggio e la forza che dimostravano affrontando nuovamente la sfida, ma in un certo senso li temevano perché, come recita un antico adagio, 'bisognava temere chi non ha paura della morte poiché questa cavalca al suo fianco'. Luna aveva paura. La paura di essere impreparata al compito che le avevano

assegnato e che l'aveva colta prima di lasciare la casa che l'aveva vista crescere ora si era trasformata in paura di morire, pura e semplice ma devastante. Una lacrima solitaria le bagnò il viso per ricordarle che ciò che era ato ormai era perso e che ciò che voleva si trovava in un futuro ancora lontano. "La Feteh piange. Raccogliamo le lacrime miracolose." Le parole di scherno vennero mosse dalla lingua di frusta di Aza. Proprio perché aveva la pelle bianca come una bambola di porcellana (eredità del padre Underidiano), per la perfezione di quei lunghissimi capelli tanto neri da avere riflessi verdi (come la madre che veniva da Nim), per la bellezza del suo viso e l'eleganza del suo corpo chi la guardava e la ascoltava rimaneva attonito: le sue movenze erano degne del più rozzo dei mercenari e il suo lessico era più colorito di quello di un branco di bifolchi. Ma non c'era da stupirsi, era una donna nata in periodo di guerra ed era sopravvissuta agli scontri quotidiani contro una società retta da uomini ignoranti ma forti. Aza posò i suoi ermetici occhi bianchi su Luna e la scrutò come un soldato avrebbe fatto con il suo nemico. "Così questa è... Lei. La salvatrice." Anche il tono di voce non rivelava nulla di lei: vi era però un sottile e tagliente velo di spietata ironia nelle sue parole. "Neanche tu credi alla Feteh?" Luna pronunciò la parola che la definiva (in quel mondo) con straordinaria convinzione e si ritrovò a pensare che, ancora una volta, una forza estranea ed esterna parlasse ed agisse per lei. Lo riconosceva, era il potere donatole dai suoi antenati, ma per essere veramente forte avrebbe dovuto appropriarsene e non farsi gestire da lui. Prendere in mano le redini di una vita alla quale non sentiva ancora di appartenere era però molto difficile. Con un sorriso duro che rivelava solo quanto Aza si sentisse superiore a Luna, la guerriera rispose e fu come un poderoso colpo di demo: "Io credo che non sopravviverai abbastanza per vedere la fine di questo giorno." Sargon intervenne e rimise tutti in riga. Ma la sua autorità non poteva nulla

contro l'ostilità che Aza e Arat provavano nei confronti di Luna. I due infatti, tornati in coda al gruppo, continuarono a tessere giochi di parole ed a sussurrare mezze frasi e allusioni poco piacevoli nei confronti della 'strana ragazza'. Erano più che prudenti per non farsi scoprire da Sargon, ma abbastanza sfacciati da farsi udire da Luna. Bind Nebus le si avvicinò e osservò Luna come solo un medico può fare. "Perdona la mia invadenza, ma ti vedo molto pallida. La pupilla è molto dilatata, il viaggio è appena incominciato e non vorrei... " "Scusa se ti interrompo, ma non credo che i tuoi medicinali possano giovarmi." Non aveva intenzione di mortificarlo, ma lo sguardo dell'uomo dimostrava che quelle parole lo avevano ferito. Quindi Luna aggiunse. "Quando le mie sofferenze saranno il sintomo di scompensi fisiologici sarò io per prima a richiedere le tue cure. Purtroppo il male che mi tormenta lo posso curare solo io. Troverò l'equilibrio quando avrò portato a termine il mio compito." Il dialogo tra i due divenne meno formale e Bind Nebus trovò in Luna un'attenta ascoltatrice dei suoi aneddoti. La compagnia continuò a percorrere la penisola mantenendo un'andatura sostenuta. Nessun Mutato li attaccò, né lo fecero i gruppi di uomini che avevano scelto il brigantaggio per sopravvivere. Ma si stavano avvicinando a Meinara, la città dei Bloom. Meinara in lingua deosnos significava 'ingresso al luogo terreno della potenza celeste': la città sorgeva infatti proprio là dove la terra continentale dell'Ausolia si assottigliava prolungandosi nella penisola, corridoio naturale ed entrata obbligatoria per la città di Deos. Purtroppo nulla era rimasto della splendida città dove un tempo i nobili trascorrevano le loro vacanze; la serenità di quel luogo era morta insieme a tutti i suoi abitanti. I Carmid e i Leda si erano occupati prima di quella città e quando erano ripartiti per stabilirsi definitivamente a Deos, avevano lasciato dietro di sé un olocausto. In seguito furono i Bloom i custodi di Meinara: erano degli esseri repellenti. Avevano mantenuto la forma umana ma il loro metabolismo era completamente diverso: mangiavano insetti e cadaveri di animali, alle volte anche escrementi. Stabilito che 'si è ciò che si mangia' era possibile immaginare l'aspetto veramente ripugnante dei Bloom.

La città, vista dall'esterno, sembrava deserta. Le basse mura che la cingevano erano state costruite per creare una eggiata sopraelevata che circondasse l'intera area: non erano progettate a fini difensivi ed infatti non riuscirono a fermare l'attacco dei Mutati. Oltreate le mura si incominciava a sentire l'odore soffocante della morte. Tra le fila del gruppo non si udiva un fiato, nessuno respirava per riuscire a sentire ogni fruscio e riconoscerlo come il movimento di un Bloom. Non erano dei lottatori, ma si muovevano sempre in branco, la loro tattica era quella di isolare dal gruppo l'elemento più debole (non avevano abbastanza forza per confrontarsi in un combattimento) ed afferrarlo senza più mollare la presa. Poteva sembrare ridicola come manovra d'attacco, ma chi l'aveva subita assicurava che era molto difficile da battere: chi soccombeva moriva anche dopo molti giorni. I Bloom prima gli vomitavano addosso i loro succhi gastrici e poi, quando la carne diventava tenera, se lo mangiavano (di solito succedeva quando la vittima era ancora viva). Coloro che scampavano all'assalto dovevano essere stati così veloci da non aver avuto neppure il tempo di sfiorare la pelle putrida dei Mutati o la loro saliva, poichè tutti i loro umori erano velenosi e si correva il rischio di contrarre malattie letali e di morire dopo lunghi e dolorosi tormenti. La comparsa dei Bloom fu lenta e Luna poté ammirarli in tutta la loro mostruosità: la pelle opalescente era ricoperta di pustole, gli occhi erano vitrei e nella bocca senza denti si contorceva una grossa lingua nera, limacciosa come una lumaca di palude. Dovevano sbrigarsi ad uscire dalla città, ma non era facile dominare i candù che erano terrorizzati dai mostri che si facevano sempre più vicini. Luna se la cavava bene, nonostante fosse per la prima volta in groppa all'animale. La situazione diventava sempre più pericolosa. Un altro gruppo di Bloom si stava aggiungendo al primo ed avevano bloccato l'accesso alla Porta del Mare, proprio l'uscita che Sargon voleva prendere per percorrere poi la strada costiera ed arrivare a Samas. Arat si avvicinò a Luna, le si affiancò sulla destra per proteggerla dalla marea di Bloom che si stava avvicinando proprio da quella direzione; Bind Nebus stava alla sua sinistra. Un Mutato aveva accelerato l'andatura, si era staccato dal gruppo e stava abbreviando la distanza da Luna. Arat in un lampo si avvicinò al solitario e sfoderò la demo. Colpì il viscido Bloom di piatto e lo scaraventò contro i suoi simili che mugolarono in coro. Arat conosceva quella manovra: il solitario era stato mandato avanti come suicida e se Arat lo avesse squarciato in due (come chiunque in quella situazione e con la demo in pugno avrebbe fatto)

gli umori purulenti del mostro sarebbero spruzzati fuori infettando l'intera compagnia. Il gesto del guerriero distrasse per un istante Bind Nebus, che non si accorse di un altro Bloom che voleva diventare protagonista del lento ma inesorabile attacco. Bind Nebus sentì l'umido gelo che accompagnava la presa della mortifera creatura. L'aveva preso alla caviglia e non sembrava intenzionato a lasciarlo andare. La buona riuscita di quell'impresa eccitò i Bloom che erano rimasti indietro e che cominciarono ad aumentare il ritmo dei loro i scoordinati. Luna inorridì nel vedere la bocca livida del Mutato sformarsi in un sorriso e la lingua viscida dimenarsi golosamente. Il candù del Nebus si spaventò e scattò in avanti ma il suo cavaliere, incatenato dalla presa del Bloom, non riuscì a seguire la cavalcatura e si ritrovò a terra. Immediatamente Arat spronò il proprio candù contro quello di Luna e lo spinse forzatamente verso l'esterno della bolgia che si era formata; contemporaneamente Gor si gettò verso l'uomo caduto ed allungò il braccio ma si ritrovò in mano solo il giacchetto pieno di tasche con i medicamenti. Durante tutta l'azione, invero molto rapida, l'intera compagnia non aveva smesso di dirigersi verso la Porta di Terra, l'unica che non fosse ancora stata ostruita dai Bloom affamati, ma non era così lontana quando l'intera popolazione dei Mutati si avventò su Bind Nebus. Uscirono dalla città quasi indisturbati poiché i Bloom più distanti dal corpo del guaritore avevano preferito sprecare meno energie ed accontentarsi del candù privo del suo cavaliere. Mentre imboccavano la via che puntava verso Est si sentivano ancora le urla dell'uomo che avevano abbandonato. "L'abbiamo lasciato lì, a morire! E voi non avete fatto nulla per fermarli! E' abominevole... " Gridava, Luna, e la voce le usciva roca dalla gola stretta dal pianto e scossa dai singhiozzi. Arat le afferrò un braccio e strinse la presa con l'intenzione di farle male; la sua voce profonda coprì quella disperata di Luna. "E' così che funziona! Ognuno deve pensare a sé. E' necessario proteggere chi è importante per la riuscita dell'impresa, che in questo caso saresti tu ma non certo per mia scelta."

"Io ho cercato di aiutarlo... " replicò sottovoce Gor. Arat continuò a rivolgersi a Luna che lo guardava con gli occhi spalancati, increduli di quello a cui avevano assistito. "Chi sta per morire non deve sperare che gli altri si sacrifichino per salvarlo. Queste sono le regole per sopravvivere a questo mondo." Luna non aveva parole. Aveva perso tutte le lacrime e non trovava più un pensiero nella mente. Non poté fare a meno di sentirsi in colpa perché Arat l'aveva salvata dai Bloom ma aveva ignorato il povero Bind Nebus. Il ribrezzo che provò si stemperò in una vergognosa ed egoistica contentezza: quella di essere ancora viva. Per quanto tempo avrebbe resistito? La parte solo umana, che conviveva con quella Deoscuridiana, dubitava delle sue qualità di guerriera e non contava affatto sulla devozione di Arat. Confusa e disperata, restò come intorpidita, tanto che Gor e Sador credettero che avesse perso la ragione di colpo e già meditavano sul modo migliore per liquidarla e verso quali zone spostare l'itinerario. Di fronte al primo bivio che incontrarono Sargon non ebbe incertezze, prese la via che piegava verso sud e che dopo una breve deviazione nell'entroterra si sarebbe ricongiunta con la strada sulla costa che portava direttamente a Samas. Luna era rimasta sola. In realtà non era mai entrata nel gruppo, lei era solo una presenza imposta dai superiori che gli altri dovevano sopportare. Rimasta in disparte Luna si perse nei propri pensieri: da quando era giunta a Solamia essi erano diventati sempre più spesso l'unico modo per esprimere la propria personalità. Si rese conto che da quando erano partiti da Deos non avevano ancora incontrato un essere umano. Dove era finita la gente che viveva in quel paesino arrampicato sulla cima di quella collina? E dove erano andati i proprietari di quelle case costruite poco distanti dalla strada che stavano percorrendo? Tutta quella desolazione cancellava a poco a poco in lei il ricordo degli uomini 'sepolti' nelle viscere di Deos e Luna si spaventò nel pensare che lei e i suoi cinque compagni erano gli ultimi rappresentanti del genere umano. Sargon, che continuava a studiarla per ritrovare in lei le caratteristiche necessarie a portare a termine il compito gravoso che le era stato destinato, si accorse del turbamento della giovane. "Come ti senti?"

"Sola." "Devi essere paziente con i miei ragazzi. Non è facile per loro accettarti, siete troppo diversi, ma sono certo che presto troverete un giusto accordo se non proprio un affiatamento perfetto." "Forse. Ma non è solo questo. Venendo qui non credevo di trovare tutto questo... Tutto questo vuoto... " "Non sono tutti morti. Certo sono morti in molti, nessuno è mai riuscito a calcolare le vittime di tutta Solamia. Per quanto ne sappiamo però il mondo di Deos è stato quello più colpito. Escludendo noi due e tua madre dubito che ci possano essere ancora dei Deoscuridiani puri ancora in vita. Cron, il Deoscuridiano oscuro, ci odiava perché siamo suoi simili e perciò si è accanito contro di noi, perché lui vuole essere unico. Deos è stata praticamente rasa al suolo anche perché Cron cercava di distruggerti. Anche lui conosce la leggenda della Feteh; tua madre ha sempre sperato che Cron si fosse convinto di essere riuscito nella sua impresa, ma io ne dubito e sono convinto che quando uscirai allo scoperto lui sarà pronto ad attenderti. No! Non devi avere paura, non sarai sola. Nelle altre grandi città, nelle capitali delle altre Famiglie ed in altri luoghi protetti la gente è sopravvissuta e cerca di farsi forza restando unita; saranno loro il tuo esercito." Sargon aveva cercato di essere rassicurante come un buon padre, ma riuscì solo a parlarle come un comandante. La compagnia si arrestò. Da quel punto la strada lastricata proseguiva come una semplice linea di terra consumata dal aggio di pochi altri viaggiatori e si faceva timidamente spazio tra i tronchi scuri della foresta secolare che si stendeva proprio di fronte a loro. La foresta era uno dei punti più pericolosi che dovevano attraversare poiché l'oscurità trattenuta dalle folte chiome degli alberi poteva essere usata come nascondiglio per ogni genere di pericolo. "Prendi questo amlin, ti servirà per difenderti." Sargon pronunciò queste parole porgendo l'arma a Luna che la prese tra le mani tremanti, come temesse che la sottile spada potesse muoversi di vita propria e

ferirla. Estrasse l'arma dal fodero di cuoio e rimase abbagliata dai riflessi bluastri che danzavano sulla lama a doppio taglio. Sembrava che l'anima vibrante del metallo le parlasse e la rassicurasse. Ma avrebbe saputo usarla? Almeno l'amlin era più maneggevole della demo usata da Sargon e da Arat. La lunga e pesante spada di metallo rosso era l'arma in dotazione all'esercito di Deos, ma dopo la Soppressione e le lotte che ne seguirono chiunque avesse trovato l'arma accanto al corpo trucidato di un soldato e, soprattutto, chiunque avesse la forza di sollevarla, poteva disporre di una demo. La spada era il frutto della prolifica unione tra l'arte di creare le leghe metalliche e il potere della Famiglia Deoscuridi: la loro forza era fusa nel metallo che rimaneva sempre caldo. La lama traava così le carni con la facilità con cui un raggio di sole taglia l'oscurità; anche una ferita poco profonda portava alla morte dopo giorni e giorni di dolori lancinanti perché la carne non si cicatrizzava. Gor e Sador avevano costruito da soli le proprie armi. A vederle parevano diverse ma in realtà ognuno di loro aveva semplicemente personalizzato il poco nobile gor-dum, una specie di balestra che lanciava i gor, sfere non più grandi di un'unghia ottenute da una lega di vari metalli e da scarti della lavorazione delle fucine: appena penetravano nelle carni si spaccavano in mille pezzi che erano impossibili da estrarre e la morte, se non immediata, giungeva per cancrena. Aza invece aveva fatta sua l'arma degli Underidiani, l'anaud. La lancia aveva il manico lungo due volte la lunghezza del braccio di chi lo maneggiava e la punta dentellata era scolpita nell'ana, la pietra dura che si trova solo nelle miniere di Und. Sebbene fossero tutti armati e nonostante fossero esperti nel combattimento, nessuno entrò nel buio del bosco senza che neri presagi ne offuscassero la mente. Come se uno di questi tetri presentimenti avesse sfiorato realmente Arat, improvvisamente il giovane guerriero venne colto da dubbi. "Non credo che sia prudente attraversare il bosco, a Deos circolavano voci su una banda di malviventi che... " "Preferisco combattere contro un piccolo gruppo di briganti piuttosto che affrontare i Mutati. Comunque presto incontreremo la via che porta sulla costiera. Lì la strada è meno pericolosa ed arriveremo prima a Samas." Sargon aveva dato una risposta ad Arat, come farebbe un buon amico. Subito dopo il

tono divenne più autoritario ed il comandante distribuì gli ordini. "Arat, Aza! Affiancate Luna e proteggetela a costo della vostra vita." Da buoni soldati quali erano i due obbedirono ed i dubbi si fecero da parte lasciando il posto alla sicurezza alla quale ogni soldato si aggrappa quando sa che dovrà lottare: agire in fretta prima che la morte faccia la prima mossa. I dilemmi che ognuno di loro si portava dentro si scurirono all'ombra creata dalla foresta. Fortunatamente i rami carichi di foglie non riuscivano a celare completamente la luce del giorno, così la strada, che attraversava la boscaglia come una ferita, era sufficientemente illuminata. Ciò che preoccupava maggiormente era il buio che dominava i bordi della via; ognuno aspettava che l'ombra si muovesse e che il pericolo costruito dalla mente si materializzasse. Almeno nella lotta avrebbero scaricato la tensione dai nervi e la paura dall'animo. Ogni crepitio di ramo, ogni fruscio di foglia, ogni o di candù faceva sussultare Luna. Stringeva l'elsa dell'amlin talmente forte che le nocche erano esangui e la mano era gelida. Tutto il sangue le era salito alla testa e le arterie ingrossate pompavano nervosamente, irrorando la zona del cervello dove si annidava la paura. Non si sentiva al sicuro ed il fatto di impugnare un'arma che non sapeva usare non la rassicurava. Arat percepiva il suo disagio e ne era disturbato. La squadrava con la coda dell'occhio cercando di prevenire qualche suo gesto inconsulto e per questo rischioso per tutti, ma contemporaneamente manteneva ogni suo senso concentrato sul possibile pericolo in agguato tra il fogliame. L'attacco fu estremamente rapido. Luna udì solo il fruscio del vento tra le foglie, ma quello fu un fendente vibrato con precisione, una corda che scorreva e una carrucola ben ingrassata. Poi la rete si innalzò confusa nel turbinio di foglie secche con la velocità di una vela gonfiata dal vento. La strada era bloccata. Sargon non aspettò che gli aggressori uscissero dai loro nascondigli e si precipitò urlando, con la demo stretta in pugno, verso una macchia informe di vegetazione. Data la sua grande esperienza aveva individuato la postazione ideale per appostarsi. E non sbagliò. Un uomo emerse dalla massa verde, sorpreso di essere stato scoperto ma non abbastanza da perdere la freddezza necessaria per combattere.

Arat appena udì l'urlo del suo comandante allungò il braccio e afferrò saldamente Luna, con un movimento ampio e rapido disarcionò la ragazza scaraventandola in un cespuglio, lungo il bordo della strada. Evidentemente la considerava inetta e quindi pericolosa (per il gruppo, non per i banditi), preferiva perciò saperla lontana dal campo di battaglia. Dopo essersi rivoltata in modo da avere di nuovo la terra sotto i piedi ed il cielo sopra la testa, e dopo aver controllato di essere illesa, Luna si buttò a terra ed osservò la scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi. Protetta dalle fronde del cespuglio che Arat aveva scelto come suo rifugio, vide la strada trasformarsi in un palcoscenico in cui la violenza veniva rappresentata cruenta e reale. L'aria si riempì del clangore delle armature, dello stridore delle lame e delle urla di incoraggiamento e di dolore. Un odore di sangue e metallo, di coraggio e disperazione confuse i sensi di Luna che vide solo una massa di corpi umani e di candù, un balenio di demo ed infine, in primo piano, uno stivale insanguinato e infangato. Ebbe solo il tempo di alzare lo sguardo e di vedere una grossa mano che stringeva un bastone, poi il buio e il silenzio calarono su di lei.

***

"Lo so che la vuoi." Katrisha si stava lavando. L'acqua scorreva sulla sua pelle liscia e perfetta sotto gli occhi incuranti dei Mutati guardiani. Continuò gemendo come una gatta. "Ti sei stancato di me? Perché allora non mi mandi via, come hai fatto con quelle che mi hanno preceduto? Così potrai dare il mio posto a quella sgualdrina." Cron raccolse la poca calma che possedeva e le rispose. "Perché le altre non le ho cacciate, le ho uccise. Comunque non ti devi preoccupare, appena Luna sarà qui mi occuperò anche di te."

Esibendosi in una di quelle scene lacrimevoli che tanto adorava, Katrisha singhiozzò. "Allora falla portare qui dai tuoi Mutati ed io mi toglierò la vita. Sarò felice di compiacerti anche in questo modo." "Non fare la melodrammatica! Lei arriverà ed io l'aiuterò a decidere di restare con me." La bella Mutata uscì dalla vasca e si avvicinò con o lento e sicuro verso l'oggetto dei suoi desideri e con voce suadente propose a Cron quello che ogni uomo vorrebbe da una donna. "Ma io sono molto più brava di lei. L'hai detto tu che per certe cose io non ho rivali." Katrisha si fermò ad un o da Cron con una naturalezza pietrificante. In realtà lei sapeva che la brezza che entrava dalla finestra (che si era tenuta strategicamente alle spalle) portava con sé il suo conturbante profumo; Cron veniva così investito dalla sua essenza. La luce le cadeva addosso esaltando le doti del suo corpo perfetto. Chiunque sarebbe morto, colpito da quella bellezza senza pietà, ma Cron rifiutò. "Luna è ad un livello superiore, mia cara." Furibonda, la seduttrice si sbarazzò dei veli afrodisiaci per rientrare nei panni che le appartenevano, cioè quelli di insopportabile seccatrice. Sbuffando, si inabissò nelle acque profumate della tinozza meditando vendetta. Cron non si perse dietro queste futili sceneggiate. Si allontanò da quella stanza resa soffocante dagli oli profumati e dagli umori di Katrisha. Verso sera si sarebbe addolcita: certamente sarebbe strisciata ai suoi piedi per cercare di soddisfarlo in ogni modo. Dopotutto l'aveva creata per questo, lei non poteva comportarsi diversamente. Cron trovò rifugio nella stanza scura e senza mobili che lui considerava molto accogliente; c'era solo una finestra a fare breccia sul mondo. La mente ed il corpo sentirono improvvisamente il peso di una presenza inquietante. Avvertiva la tensione nell'aria come prima di una tempesta, ma scrutando il cielo vide solo il sole inchiodato in mezzo al cielo. Inspirò l'aria tiepida del mare e accennò un

sorriso, ma l'oscuro presagio non abbandonò il suo animo.

***

La coscienza che le rientrava nel corpo era gelata come i venti del Continente ghiacciato ed allo stesso tempo bruciante come il fuoco del fulmine. Un lampo illuminò la mente di Luna e lei aprì gli occhi, ma non riusciva a vedere nulla. Lentamente il nulla si mosse, prese forma e colore ed i suoni giunsero amplificati alle sue orecchie. "Luna." Mise a fuoco la sagoma che aveva di fronte. Era Gor che delicatamente le tamponava la fronte con una pezza umida. Cercò di tirarsi su e di mettersi seduta, ma la testa le crollò pesantemente su una spalla e ne rimase stordita. Dovette chiudere gli occhi per bloccare la sensazione di nausea provocata dal continuo ondeggiare di tutto quello che le stava intorno. Allora sentì solo la voce roca e cavernosa (ma in quel momento anche rassicurante) di Gor che le diceva di dormire. Luna si lasciò andare alla nuova perdita di coscienza, questa volta indolore. Si risvegliò il mattino seguente. Il sole non aveva ancora scaldato la scura terra e lei si strinse nelle spalle per ricercare tepore e conforto. Solo dopo essersi ricordata della brutta esperienza ata si rese conto di dove si trovava: non era più a casa, non lavorava più all'EDEN, non aveva più amici; era intrappolata in quella mente ottusa circondata da un mondo estraneo e violento. "Hai freddo?" La voce calda e affettuosa (per la prima volta) di Arat la calmò o forse la distolse semplicemente da quelle riflessioni contorte, ad ogni modo la fece stare meglio. Luna sfoderò un sorriso rassicurante a quell'uomo che le stava offrendo la coperta che, durante il sonno agitato, le era caduta di dosso. Arat vide nei suoi occhi la paura ma anche la determinazione (che forse Luna non sapeva di avere) e si rese conto di quanto fosse ardita quella ragazza. Poi ritornò ai suoi dubbi e si chiese se non fosse completamente pazza e se, seguendo la sua follia, non

sarebbero tutti corsi tra le braccia della morte. Il sole brillò tra le foglie verdi e rischiarò l'angolo di bosco dove si erano accampati. Erano distanti dal luogo in cui era infuriata la battaglia e si erano rifugiati in mezzo a quell'intricato intreccio di rami e foglie che era il sottobosco; abbastanza lontani dalla strada per non essere visti ma non tanto da non poterla imboccare in fretta per fuggire. Alcuni aggressori erano riusciti a scappare e, anche se malconci, avrebbero potuto tornare e magari portarsi dietro dei rinforzi. Un mucchio di stracci attirò l'attenzione di Luna, sembrava che uno strano ed irrequieto animale vi fosse nascosto. "E' Sargon." Fu Arat a parlare, intuendo la domanda di Luna; lei strabuzzò gli occhi, incredula. "E' stato colpito da quel gigante che ti ha aggredito. Il colpo era mal assestato ma potente. Gli ha fracassato il cranio, ma non è ancora morto. La cosa peggiore è che agli stati di catalessi si alternano brevi momenti in cui è completamente cosciente, se lo si sente parlare e non si guarda la ferita che ha sulla testa non si crederebbe che tra poco morirà." In quel momento uno spasmo più violento scostò lo straccio che copriva il volto di Sargon: i capelli erano impregnati di nuovo sangue sgorgato dalle vene e incrostati dal vecchio ormai coagulato. La testa era ripiegata sulla spalla, adagiata come fosse morta, l'altra metà era disumanamente piegata dalla parte opposta. Il cranio si era sfracellato sotto i colpi violenti della mazza chiodata, le schegge di osso bianco penetravano nella massa tremolante del cervello. "Come... " Luna non ebbe bisogno di terminare la domanda: la risposta era lì, chiara e luminosa. Sotto il fiume di sangue che grondava dalla mortale ferita si accendevano lo sguardo di fuoco arancione e gli occhi del gelido serpente. Il potere era rimasto là dove la vita era già sgorgata via. Sargon parlò. "Dobbiamo andare." Ognuno dei presenti pensò che se un giorno avessero sentito parlare la Dea Aar, avrebbero udito una voce identica a quella. Sargon si mosse incerto e si incamminò verso la strada. Arat scosse i suoi compagni e li incitò a seguire il capo. Cavalcarono per un tempo che sembrò interminabile, ma se si voltavano indietro potevano ancora vedere i rami che avevano spezzato per rientrare nella via; la distanza percorsa sembrava immensa e il tempo trascorso infinito, come

se tempo e spazio fossero schiavi della mente di Sargon e seguissero diligenti il suo o di morte. Il macabro corteo arrivò là dove la strada si divideva in due, quella che conduceva alla Valle Ululante infestata dai Coinos e quella diretta e sicura che costeggiava il mare fino a Samas, fino a... fino al nulla. Il gruppo si fermò di colpo come se tutti avessero sentito un'esplosione: Arat strabuzzò gli occhi, incredulo, mentre Aza tremava come una foglia, Sador rimase per la prima volta senza parole e Gor bestemmiò, come sempre. Luna raggiunse la resta del gruppo e vide quello che tanto aveva sconvolto l'equilibrio dei suoi compagni, ma a lei pareva solo un canyon scavato nell'alta scogliera dalla forza del mare. Molto più avanti si intravedeva il porto di Samas, confuso tra le nebbie della distanza. Sargon invece continuava a camminare e con ampi gesti del braccio incitava i suoi ragazzi a seguirlo. Solo Arat riuscì a usare la voce per spiegare quello che stava succedendo. "La strada... non c'è più!" In quell'istante Sargon crollò a terra e si accasciò come un sacco vuoto. Gridò il silenzio della morte e un velo di sangue coprì i suoi occhi per sempre. L'ultima cosa che Sargon vide fu la strada diretta e sicura verso Samas, ma la voce non vibrò e lui precipitò insieme alla sua visione tra le braccia della Dea Aar.

***

"Comando che sia fatto!" Fu il primo ordine del Creatore. Lio inarcò la schiena e aprì le ali facendo schioccare i muscoli intorpiditi dall'inattività. La bestia inspirò avidamente l'aria marina mista alla sabbia del deserto e si alzò in volo seguito dai suoi simili. Quando lo stormo si mosse sollevò una nuvola di sabbia che circondò la sottile figura dell'Artefice e la divorò facendola scomparire. Il cielo si coprì allora di ombre più scure della notte, che si muovevano lente ed inesorabili verso l'obbiettivo. Erano cariche di forze distruttive, come le nubi

delle tempeste, ma nulla di naturale albergava in quelle creature.

***

Fu Arat a riprendersi per primo dallo stordimento e, da soldato ben addestrato, prese subito in mano la situazione e il comando della spedizione. "Non c'è tempo per salutare degnamente Sargon. I banditi potrebbero essere già sulle nostre tracce." Dicendo questo scese dal candù e si avvicinò al morto, prese la demo che ancora pendeva dal fianco del capo e fece poi rotolare il corpo fino all'orlo del precipizio in cui sboccava la strada. Bastò una spinta e la carcassa dell'uomo che fu Sargon Urten cadde in un volo pesante verso la terra bagnata dal mare, mentre la sua anima era già salita verso Sad ed il suo potere era ritornato ad alimentare la Fonte. "Dobbiamo muoverci, questo non è un posto sicuro. Non dobbiamo chiederci il perché di tutto questo, ma dobbiamo pensare solo ad arrivare a Samas, a tutti i costi." Tutti annuirono, l'avevano accettato come nuovo capo. "Prendiamo la via della valle." Fu il suo primo ordine.

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CAPITOLO 8

Quel giorno ò lentamente; non si accorsero del ciclo del sole e la notte li sorprese. Si accamparono nella gola, vicino al punto dove la Valle Ululante si strozzava tra le pareti delle Vette Gemelle fino a formare una sottile fessura a 'V'. La valle prendeva il nome dal caratteristico suono che faceva il vento quando ava attraverso questa fenditura. Sador si avvicinò ad Arat porgendogli una tazza di vum caldo. Il gesto pareva troppo finto anche a chi conosceva poco l'immelico, ma Luna era distesa con il viso rivolto verso il falò perciò non si accorse che il resto del gruppo si era radunato lontano da lei. "Credo che si sia addormentata." "Parla piano, non ne sono convinto." "Che intenzioni hai?" "Già…" L'ultima parola l'aveva pronunciata Gor e Arat sapeva cosa si nascondeva sotto quelle poche lettere. "Non credo che ucciderla sia un vantaggio." "Ma Arat... " Il gracidante Sador si avvicinò ancora di più all'orecchio del troppo giovane comandante e proseguì con il tono di chi crede di avere un ottimo consiglio da dare. "E' una donna pericolosa. Siamo appena partiti e abbiamo già perso il Nebus e Sargon. Se restiamo con lei faremo la loro stessa fine." Aza non nascose la sua antipatia per Luna e diede manforte al ragionamento di Sador. "Non solo non trovo utile tenere un peso morto come lei, ma non capisco perché tu voglia proseguire in un'impresa in cui non hai mai creduto e alla quale ti sei fortemente opposto."

"Non credo in lei, ma la sua presenza mi ha fatto ricordare perché ho percorso per ben tre volte lo spazio di terra che separa Samas da Deos. Io credo ancora che si possa sperare in una vita migliore, ma sono certo che nessuna rivoluzione possa nascere chiusa tra quattro mura, figuriamoci poi una rivoluzione vincente. Dobbiamo creare un legame tra noi e gli altri superstiti che vivono nelle nostre condizioni e che attendono solo un segnale per alzare la testa e combattere per la libertà." Arat non aveva neppure il coraggio di guardare in faccia i suoi compagni. Si rendeva conto che stava parlando di alti ideali ad un branco di mercenari. Aza poteva forse riuscire a capirlo, era una guerriera orgogliosa e consapevole del valore dell'onore, ma Gor e Sador... "Io non voglio costringervi a fare ciò in cui non credete, potete prendere strade diverse dalla mia, ma se deciderete di seguirmi mi dovete rispettare come vostro capo." Questa volta alzò la testa per vedere quanto le sue parole avessero segnato le menti di quelle persone così diverse. Aza accennò con la testa un segno di assenso e questo bastò ad Arat per capire che era con lui. Sador invece cominciò a parlare ad alta voce dandosi arie da oratore consumato. "Diciamo che vengo con te a Samas, dopotutto è un grande città e troverò degli affari in cui impegnarmi, sai…conosco certa gente, gente importante…Poi si vedrà." "Per me va bene." Ad Arat questo bastava, non voleva giuramenti solenni che poi non sarebbero stati mantenuti, sapeva che erano uomini cinici e disillusi ma era certo che avrebbero fatto la loro parte nel momento del bisogno. Luna si mosse sotto le coperte e si volò proprio verso il gruppetto intento a parlare. Aveva gli occhi chiusi. Tutti guardarono Arat con aria interrogativa e lui rispose alla domanda che non serviva fare. "Porteremo anche lei. Anch'io conosco persone importanti a Samas, ma fanno parte dell'organizzazione criminale che gestisce tutti gli affari loschi. Se dovremo parlare anche con rappresentanti delle Famiglie sarà bene avere un sangue puro con noi."

La scusa venne accettata dagli immelici, ma Arat stesso non aveva ancora chiaro come utilizzare Luna. Non era sicuro di poterla pilotare verso ciò che lo interessava e non sapeva se lei fosse in grado di fare qualcosa di utile per la causa. Ma non era più il tempo delle parole e il gruppo si sciolse dopo aver definito i turni di guardia. Luna si svegliò che era ancora notte. Vide le costellazioni delle Famiglie e quella di Imm formare il circolo della vita e della morte. Osservò il tondo della luna spegnersi al centro del girotondo astrale e poi riaccendersi con la stessa forma ma di luce diversa. Contemplò l'alba nascere lentamente mentre le sagome nere dei monti che delimitavano la valle incombevano su di lei, fitte come le ombre che presero ad insidiarle la mente. Per un momento, breve ma intenso, il suo corpo si assopì e la sua mente volò. Volò su Deos e la vide agonizzante sotto un cielo di fuoco, soffocata dal peso di antiche e potenti presenze. Non erano fantasmi del ato ma oscure realtà: così Deos morì alla nascita di quel giorno. Luna rientrò in un corpo gelato e tremante; le apparizioni che le avevano fatto visita nella mente si stavano materializzando e smuovevano le montagne, la paura che aveva percepito negli abitanti di Deos ora la assaliva in prima persona. Tutto crollava, una valanga... Ma quelle non erano rocce. La luce del mattino venne accompagnata dalle grida gutturali lanciate dall'orda di Coinos. I Mutati, bassi, neri e sporchi, si confondevano con la terra delle montagne. La massa informe di braccia, gambe e teste si riversava come un'onda impetuosa giù per i pendii e poi si incanalava nella stretta gola. Avanzavano rapidamente ed erano mille, mille, e ancora mille. "Via!" urlò Gor, ma ormai tutti erano già in groppa al proprio candù. Abbandonarono coperte e provviste e seguirono Arat che li conduceva in una folle corsa verso la fenditura in fondo alla valle. Non potevano scappare in eterno ed infatti non era questo il piano; si fermarono appena attraversata la breccia ed attesero l'arrivo dei Mutati: sarebbero ati ma pochi alla volta. I Coinos attraversavano lo stretto spazio tra le Vette Gemelle a gruppi di due o tre, ma subito incontravano Arat che usava la demo come fosse una falce. Dietro a lui c'era Aza che impugnava l'anaud come le aveva insegnato suo padre e ne infilzava uno dopo l'altro; Gor e Sador si tenevano poco distanti, spostati verso i lati, e puntavano le loro gor-dum verso i Mutati che cercavano scampo ai colpi di Arat e Aza fuggendo verso destra o sinistra.

Non fu una lotta nobile e coraggiosa; i Coinos lottavano con le unghie e con i denti: folli, imprevedibili e numerosi, questa era la loro forza. Per ogni Mutato ucciso un altro ava attraverso la breccia per rimpiazzarlo. I corpi dei guerrieri si coprirono del sangue viscido e scuro dei Coinos e il sudore si mescolò al sangue rosso sgorgato dalle ferite superficiali. Quanto sarebbe durata la lotta? La sensazione di tutti era che prima o poi i muscoli stanchi avrebbero ceduto e la mente avvilita si sarebbe arresa. Sarebbero morti investiti da un muro di Coinos? Arat non voleva pensarci e pregò che questa idea non si radicasse nelle menti dei suoi compagni altrimenti la lotta era già perduta. Luna, nascosta dietro una roccia, osservava silenziosa. Le lacrime scendevano dagli occhi scuri come la notte... come la notte eterna che presto li avrebbe sommersi e... una luce. Un'ombra dai contorni luminosi si fece largo tra i pensieri di morte. Era Lòren che le veniva incontro, come aveva sempre fatto nei sogni di un tempo ormai lontano. Sua madre parlò usando la lingua dei sogni, ma per Luna fu un triste incubo che diventava realtà. "Rinuncio alla vita per te, figlia mia, perché non voglio rinunciare alla salvezza. Restituisco il potere che ho ricevuto da Sad perché possa ravvivare la Fiamma e rinvigorire la Fonte. Tu puoi! Non assopire il potere nel mare della paura, ma attingi alla Fonte del Potere. Tutta Deos è morta per renderti più forte, non lasciare che il sacrificio di noi Deoscuridiani vada sprecato. Usa il potere. Solleva i mari, scuoti l'aria, incendia i cieli, smuovi i monti, allaga i deserti. Comanda questi eserciti e anche gli uomini ti seguiranno; saranno forti perché tu sei potente." La bruciante fiamma si affievolì lentamente negli occhi di Lòren e il sole ridivenne il fulcro dell'universo. Luna risentì dentro di sé l'eco di quelle parole piene di amore materno e di orgoglio Deoscuridiano. Una strana euforia invase all'improvviso il suo animo, una energia vitale che non rispettava la fatica e la paura dei suoi compagni e che non si curava della morte e della rabbia che appestavano l'aria. Gli occhi arancio sfidarono l'accecante sole e la pupilla affilata inchiodò al cielo la palla infuocata. La terra si mosse, le montagne si inchinarono al potere di Luna e, allargando le braccia, riempirono la valle dei loro doni. I Coinos non riuscirono a gridare, neppure il terrore riuscì a sfiorarli quando i monti si sgretolarono e quando vennero raggiunti dai pesanti massi di roccia scura: la morte giunse rapida e inaspettata. Quando la nube di polvere sollevata dalla

valanga si dissolse e il rombo cupo delle pietre si spense, ciò che Arat e gli altri videro fu un immenso muro di pietre là dove prima c'era il varco infernale e, ai suoi piedi, Luna con il corpo esile teso come un arco e le sottili braccia alte verso il cielo, come se volesse reggere l'imponente struttura solo con la forza delle pallide mani. "Aza, Sador, Gor! Siete feriti?" si preoccupò Arat vedendo i tre completamente ricoperti di sangue. "Non ti preoccupare, sono solo ferite superficiali." rispose Aza cercando una pomata cicatrizzante nella sacca della sella. "Per un attimo ho creduto che la valanga sotterrasse anche noi." intervenne Sador. Gor non parlava mentre usava un ciuffo d'erba per ripulirsi grossolanamente del vischioso sangue dei Mutati. Luna sentiva il cuore scoppiarle nel petto. Era scossa da tremiti e il respiro continuava ad essere irregolare, come se non riuscisse ad inspirate e nell'istante successivo volesse raccogliere nei polmoni tutta l'aria di Solamia. "Ti senti bene?" La preoccupazione non celata nella voce di Arat sorprese la ragazza che lo guardò incredula per tutto questo sincero interesse. Arat intuì quello che Luna stava pensando e il suo sguardo ritornò severo e distante, quasi si fosse vergognato della dolcezza trapelata dalle sue parole. Rimediò all'istante. "Se sei ferita è meglio che lo dici subito, perché non voglio sentirti piangere dopo." "Sto benissimo." Luna parlò con un filo di voce e subito abbassò lo sguardo per nascondere le lacrime che le si stavano affacciando agli occhi. "Ti insegnerò ad usare l'amlin." Arat aveva cambiato discorso perché si sentiva stranamente in imbarazzo; anche

Luna ne fu contenta e le lacrime non uscirono allo scoperto. "Devi imparare a difenderti. Io non posso starti sempre accanto per proteggerti e la prossima volta non possiamo sperare in una provvidenziale valanga per toglierci dai guai." Luna annuiva in silenzio. Lo ascoltava come si fa con un maestro ma lo guardava come una ragazza ammira un ragazzo. Ad ogni modo non credette opportuno spiegare che le montagne avevano eseguito un suo ordine. Non sapeva bene neppure come avesse fatto e comunque era certa che Arat non avrebbe creduto alla storia della Fonte del Potere rimasta a sgorgare un'energia che solo lei poteva usare. Sapeva che se avesse parlato lui si sarebbe allontanato e l'avrebbe guardata con diffidenza: gli uomini reagivano in quel modo quando non riuscivano a comprendere una cosa e Luna non voleva che Arat le stesse distante.

***

"E' stato lui, ora riesco ad avvertirne la presenza." Cron sottolineò questa frase infrangendo con un gesto un intero servizio di bicchieri di cristallo. "Ti vedo in difficoltà. Parlane con me, tesoro, lo sai che con me puoi discutere liberamente." Ignorando il ciarlare di Katrisha, Cron continuò a rivolgersi ai marescialli schierati di fronte a lui. "Come è potuto accadere che Deos... Perché i Leda ed i Carmid hanno perso la battaglia?" "Non c'è stata lotta, le ombre si sono infittite proprio quando l'alba stava per nascere e quando si sono diradate il giorno è sorto su una Deos completamente inabissata nel Mare di Kesho."

La voce del Mutato tremava al pensiero dell'ira che quelle parole avrebbero scatenato nel suo padrone. "Dimmi, caro, chi si è permesso di intromettersi nei tuoi piani?" Ancora una volta Katrisha perse un ottima occasione per restare zitta e Cron esplose in uno sfogo senza pari. "Zitta! Mentre io mi circondo di creature stupide come voi, mio padre è tornato dall'oblio nel quale credevo avesse trovato la morte. Non solo è più potente di prima, ma ha addirittura un'armata che è capace di vanificare gli attacchi dei miei Mutati. Non conosco il suo piano ma sono sicuro che prevede la mia distruzione." Katrisha, come al solito, non aveva capito nulla e continuò a parlare. "Io forse credo di saperlo. Forse anche lui vuole costruire una società nuova, rimodellando la natura e abolendo le imperfezioni, per rendere questo mondo finalmente perfetto. Un po' come hai fatto tu con me." "No!". Cron non stava rispondendo alla Mutata, parlò a sé stesso cercando di schiarirsi la mente. "Lui è sempre stato diverso. Credeva che non si poteva pensare di creare qualcosa di nuovo semplicemente rimescolando quello che era vecchio: le nuove creature sarebbero state deboli perché inquinate dalla natura imperfetta di quelle attuali, dalle quali derivavano. No! Lui vuole essere l'unico e per questo deve distruggermi, ma questo non è più il suo tempo. Questo è il mio momento e se non vuole farsi da parte, come tutti i Padri hanno fatto con i figli, allora lo ucciderò." Rivolgendosi ai Mutati dall'aspetto umano ordinò: "Devo affrettare i tempi. Luna deve raggiungermi al più presto. Sarò più forte con lei al mio fianco perciò è necessario che salpi da Samas prima della Stagione delle Tempeste." "E dei suoi compagni di viaggio, gli immelici? Cosa dobbiamo farne?" "Non mi interessano. Uccideteli appena saranno imbarcati."

***

Quando la marcia riprese nessuno aveva voglia di parlare; Gor e Sador erano calmi e silenziosi, un comportamento del tutto innaturale per loro, mentre Aza restava in disparte. Arat ripensava a tutto quello che era accaduto e, in solitudine, progettava piani futuri. Luna rimase confusa, persa nell'addensarsi dei pensieri che le offuscavano la mente. Giunsero a Samas quando era da poco ata la metà del giorno: poco dopo arrivarono anche le prime nuvole scure cariche di promesse di tempesta. Samas era il porto più grande e vitale che si affacciava su quel braccio di mare che veniva chiamato Serpente Caabiano. Era anche la città del continente Solamico più vicina alla Cambia e per questo motivo era anche la più colpita dalle tempeste: i venti caldi uscivano dai confini dal continente di sabbia e riscaldavano l'aria che, scontrandosi con le correnti più fredde, generava gli uragani che, dopo aver preso forza sull'Oceano, si spostavano rapidamente lungo tutto quel tratto di costa e si spegnevano solo quando aveva tormentato anche l'entroterra. Ma la quiete era solo un breve momento che poteva durare poche ore o pochi giorni, in attesa dell'arrivo di un'altra tempesta. Nonostante la stagione delle Tempeste rendesse inutilizzabile il porto per lunghi periodi, Samas era ugualmente riuscita ad essere il più ricco e vario mercato delle merci provenienti da ogni parte di Solamia. La gente, appoggiandosi alla sicurezza economica che il commercio spesso porta con sé, si era abituata al 'periodo nero' ed aveva reagito al grigiore che accompagnava il maltempo dipingendo tutte le case con vari colori sgargianti. Ovviamente tutto questo apparteneva al ato, al tempo precedente alla Soppressione. Oggi la Samas che accolse i viaggiatori era solo un relitto e la causa di tutto non poteva essere che Cron. Il creatore di Mutati aveva progettato i Seluvi per tormentare le coste di tutto il continente: erano forti e veloci grazie alla linea idrodinamica che l'Acqua di Rasia aveva donato loro, ma possedevano l'intelligenza e la malvagità degli uomini. Le piccole imbarcazioni di legno vennero rovesciate ed i suoi occupanti fatti a brandelli, mentre i mastodontici mercantili costruiti in lucido metallo e con lo scafo affilato come la lama di una demo furono affondati dai parassiti che abitavano sotto le scaglie dei Seluvi e che trovarono davvero appetitoso il nobile metallo. Come un cancro il malessere si sviluppò in tutta Samas; le lotte che si combattevano in tutte le altre città del continente e la relativa diminuzione del commercio fecero il resto.

Luna e il gruppo di immelici percorsero le strade di Samas, che un tempo erano famose per il loro candore, facendo attenzione a non avvicinarsi troppo ai pestilenziali cumuli di spazzatura e stringendo con forza le redini ogni volta che i candù si imbizzarrivano alla vista di un lepore. Le case che si affacciavano sulle strade avevano coperto i loro rosa, gialli e verdi sotto una spessa patina di incuria: non era da biasimare chi credeva più opportuno trovare qualcosa per sfamare la famiglia piuttosto che dare una mano di pittura alla casa. Sfilando per le vie e le piazze, cercando di raggiungere il centro della città, Luna si rese conto di quanto Sargon avesse avuto ragione quando le disse che c'era ancora tanta gente a Solamia; pareva proprio che gli abitanti dei paesi deserti che avevano attraversato si fossero tutti riuniti in questa città e che vi avessero costruito una baracca di legno o una tenda nello stretto spazio che esisteva tra una casa e l'altra. Era gente povera e disperata venuta fino a Samas anche da molto lontano per cercare scampo dalla perfidia di Cron; certamente anche lì subivano attacchi da parte dei Mutati, ma la presenza di tante persone faceva cinicamente sperare ad ognuno di loro che, quel giorno, sarebbe stato il corpo di qualcun altro a sfamare l'ingordo Signore dei Mutati. Il corteo fece il suo ingresso nella piazza centrale della città. Essa era la piazza più nobile di tutta Solamia perché lì erano riunite le quattro ambasciate delle Famiglie. E' superfluo aggiungere che di nobile era rimasto solo il nome in quanto le quattro costruzioni erano state trasformate in fatiscenti rifugi per i profughi. Luna, Gor e Sador si avviarono verso l'ex ambasciata di Deos per cercare un alloggio, mentre Arat ed Aza andarono al mercato per vendere i candù e per vedere se c'era qualche speranza di uscire dal porto e prendere la via del mare.

Arat si accorse subito di quanto fosse cambiata Samas dall'ultima volta che l'aveva vista. Anche allora c'era sporcizia e miseria, ma c'era una luce che illuminava anche i luoghi più bui; ora invece la città aveva perso la speranza di potersi risollevare e questo per la gente era peggio di qualsiasi danno subito dai Mutati. Il mercato invece era rimasto lo stesso; come a Deos era possibile comprare e barattare ogni cosa ma il sommesso tamburellìo nell'oscurità tinta dal rosso delle lampade era assai diverso da quel chiassoso vociare in mezzo alla piazza aperta

al sole. Come in tutti i mercati di Solamia però ci si doveva accontentare delle poche merci disponibili e così si arrivava persino alla zuffa per accaparrarsi candù così vecchi che non erano nemmeno buoni per il macello. "No! il prezzo è troppo alto per sei candù. Guarda come sono rovinati." Il mercante guardava con aria di sufficienza Arat e le bestie che teneva per la briglia. "Non sono mica di cristallo!" Arat era impaziente e questo andava tutto a vantaggio del mercante, doveva calmarsi. "Sono stati impegnati in diverse battaglie ma... " "Non mi interessa... Però se nell'offerta aggiungi anche la ragazza se ne può riparlare." Aza rispose a quell'offerta serrando i denti in un ringhio degno di un lupo, riuscendo a spaventare il grasso compratore ma anche, purtroppo, ad accrescere il suo interesse. Arat era incredulo ed umiliato: ancora non riusciva a credere che lui, un grande guerriero, dovesse contrattare qualche candù stanco e ferito con un cafone pelato e dai baffi unti. "Non ho più voglia di giocare." Gridò carico di collera. "So che ti servono candù. Il tuo recinto è vuoto e lo sarà anche il tuo stomaco se non concludi l'affare. Noi siamo arrivati dall'unica via percorribile e non vi erano tracce di recenti aggi prima di noi. Sono certo che nessuno ci seguiva e perciò, almeno per qualche tempo, non verrà nessuno in città, a meno che non provenga dall'altro capo del continente ed in tal caso non credo concluderesti un buon affare comprando candù così sfruttati... sempre che giungano vivi al mercato." Arat pareva soddisfatto, si sentiva forte delle proprie ragioni ed era certo che il mercante, per quanto disonesto fosse, non potesse non condividere le sue affermazioni. Invece il mercante lo sbeffeggiò dicendo: "Ho appena venduto tre candù che ho acquistato ieri. Evidentemente la tua abilità nel riconoscere le tracce sul terreno è scarsa almeno quanto quella di venditore." Arat guardò sconsolato Aza che alzò le spalle, lei non poteva aiutarlo. Lo aspettava una lunga e difficile trattativa.

Le quattro ambasciate dovevano essere state splendide in tempi ormai lontani. Ognuna era costruita in modo da rappresentare degnamente le quattro Famiglie. Nim aveva costruito un'enorme bolla dalle mille vetrate tenute insieme da un'intelaiatura di metallo; ora era rimasta solo quella a dare sostegno alle ragnatele e ai nidi degli uccelli mentre i frammenti dei vetri infranti riflettevano la luce del sole. La colonna sottile che sollevava ad altezze vertiginose la piattaforma di Atra era stata abbattuta; l'imponente struttura non governava più i cieli ed il disco di pietra era abbandonato al suolo, spezzato in due e rattoppato alla meno peggio. Und aveva scavato il sottosuolo di Samas ed aveva posto un unico macigno di roccia scura a dominare il suolo per indicare l'ingresso dell'immenso labirinto nascosto. Ma molte grotte erano franate e l'incuria aveva fatto allagare diverse gallerie. "Gor! Sei più stupido di un ghizon." gracchiò Sador quando il gigante lasciò cadere sul suo piede le pesanti borse per scacciare una mosca che si era posata sul suo naso. L'omone, come tutta risposta, fece spallucce incurante delle urla di Sador e, riprese le borse in mano, seguì Luna che era già entrata nell'ex ambasciata di Deos. Dall'esterno pareva che fosse l'unica rimasta più o meno intatta, ma una volta all'interno si notava come l'edificio dalle sale ampie con i soffitti appuntiti fosse stato appesantito da soppalchi di legno posti a diverse altezze, da scale e montacarichi azionati da corde e carrucole. Le zone più alte erano divise in alloggi e in dormitori, mentre quello che un Deoscuridiano avrebbe chiamato atrio (cioè l'ampia area che occupava tutto il piano terra della costruzione) era stato adibito a stalla, a deposito merci e a taverna. Era in quest'ultima che si poteva trattare il prezzo delle stanze per la notte. Arat non era sceso nei dettagli e non aveva specificato chi di loro tre dovesse prendere accordi con chi gestiva la casa-comunità, ma visto che Gor e Sador continuavano a litigare Luna si separò da loro (e loro non la seguirono) e si allontanò verso la taverna. A quell'ora non c'era nessuno, solo un ubriacone sonnecchiava per terra da chissà quanto tempo mentre un uomo vestito con un ampio mantello era in piedi vicino al bancone. Avvicinandosi, Luna vide che l'alta figura ne celava una più piccola,

un ragazzino di una decina d' anni. Dietro il bancone si vedeva sbucare la testa pelata dell'oste. "Non oco repaga... Nonoc repa... No... " La voce goffa dell'oste attirò l'attenzione di Luna che si spostò in modo da vedere meglio la faccia dell'oste, pur rimanendo a debita distanza. Gli occhi dell'uomo erano sbarrati e opachi, lo sguardo si perdeva nel muro che gli stava di fronte e la mente era più lontana dei confini di Solamia. L'unica cosa che si muoveva era la bocca, con le labbra tese e livide. Solo in seguito Luna udì il flebile bisbiglio che muoveva le labbra del ragazzino che, in punta di piedi e con le mani aggrappate al bancone, cercava di tenere lo sguardo fisso nella mente dell'oste. Poi un vento carico di tempeste ma impalpabile come una brezza primaverile le mosse i capelli, che così le coprirono parte del viso. Luna non si era accorta che l'aveva vista, che si era spostato, che le tavole marce del pavimento avevano scricchiolato, ma forse nulla di questo era accaduto e tuttavia lui era lì di fronte a lei. "Sta sbagliando. Ha scelto la via più facile ma anche la più debole: sta muovendo le labbra e bisbiglia. Gli ho sempre detto che la vera forza sta nel silenzio dello spirito e non nell'urlo del guerriero." La notte era improvvisamente calata su di lei? No, era il suo mantello. Neppure questa volta si era accorta che si era avvicinato eppure lui era lì, tanto vicino che ormai si sentiva completamente inglobata da quelle vesti scure. Per non soffocare (ma non riusciva a considerarla una brutta morte) alzò il viso e quel che vide la fulminò. Gli occhi di lui la dominavano ma con benevolenza, anche se non si riusciva a capire quanta sincerità ci fosse in quello sguardo. La pupilla piccola e nera era profonda e pungente nello stesso tempo ed era circondata da un anello sottile del colore della chiara terra del Muslim, poi da un anello verde come un bosco ingrigito dalle nebbie del mattino, infine il blu, un anello sottile come una lama e irraggiungibile come la volta del cielo. Dopo l'iride solo il bianco più puro e luminoso. Luna sentì la mano calda dell'uomo scostarle i capelli dagli occhi e il profumo della sua pelle le sfiorò la guancia. Questo incontro inaspettato le scosse i sensi:

ogni stimolo esterno che le colpiva il cervello era carico di quella presenza, era conscia di essere soggiogata ma non riusciva ad avere paura di questa condizione e perciò non desiderava scappare. Sorrise, lui, conscio del suo potere e lei adorò quella bocca morbida e accogliente che si schiudeva mettendo in mostra i piccoli denti bianchi. Quei denti avrebbero potuto sbranarla, ma lei non si sarebbe difesa perché con il morso avrebbe anche percepito il tocco di quelle labbra carnose sul collo. Si spaventò due volte: perché si era persa e perché non sentiva il desiderio di ritrovarsi. Fu lui a non approfittare della situazione (ma in fondo aveva già vinto) e a rompere l'incantesimo così come l'aveva ordito. "No! Basta così. Non vedi che non riesci a manipolarlo? E' inutile, devi ancora esercitarti." La meravigliosa e temibile creatura si era allontanata senza spostare le molecole d'aria, e rimproverava severamente il bambino che continuava a giocare con la mente del povero oste. Il maestro prese per il braccio l'apprendista incompetente e con uno strattone lo staccò dal bancone, trascinandolo via. L'oste riprese a respirare con affanno, come se l'aggressore avesse finalmente tolto la mano che lo soffocava. Si stropicciò gli occhi che erano arrossati e bagnati dalle lacrime, infine la voce di prima si fece risentire. "Volete una stanza?" Il poveretto, come era intuibile, non ricordava nulla; non sapeva di essere stato sottoposto ad un lavaggio del cervello, anche se mal riuscito. Luna non ritenne opportuno spiegargli ciò che aveva visto e prese accordi per le stanze. Quando andò a recuperare Gor e Sador i due stavano ancora bisticciando e non avevano visto l'apparizione vestita di nero.

Aza stava già imboccando la via che portava alla piazza centrale, dove le ambasciate si fronteggiavano misere e decadenti, ma Arat la trattenne. "No! Abbiamo un'altra cosa da fare." La condusse per vie sottili dove incontrarono solo sguardi ostili, ma non c'era da biasimarli: quella gente aveva perso la fiducia nel prossimo e temevano ogni faccia nuova. Il giovane guerriero solo apparentemente sceglieva a caso la

successiva strada da imboccare, non conosceva in effetti il tragitto giusto ma seguiva dei segnali. Dopo un po' anche Aza li riconobbe: sui muri delle case, tra i graffiti insignificanti come i nomi dei fidanzati e le ingiurie al vicino, c'erano dei segni molto chiari ed esplicativi, per chi sapeva interpretarli.

La linea retta più lunga era la via che si stava percorrendo, là dove questa si intersecava con la linea curva era l'incrocio da prendere in considerazione e la linea più breve, che si generava dal punto di incontro, era la direzione da prendere. Ma per andare dove? Quelli erano vecchi segni segreti di un gruppo di immelici che, prima della Soppressione, si nascondevano dalle Famiglie e lottavano per prendersi un loro spazio in quel mondo che li aveva fatti nascere. Aza era nervosa ed in parte anche arrabbiata con Arat per averla portata con sé. Questo suo stato d'animo era comprensibile visto che anche lei sapeva che il covo degli immelici era ora la sede della più grande organizzazione criminale di tutte le terre dell'Ovest. Durante la sua breve permanenza a Samas, prima di incontrare Arat, aveva avuto dei contatti con gli uomini meno importanti del gruppo ed aveva imparato che con loro non si doveva scherzare. Arat ora voleva raggiungere il cuore del covo e quindi il capo supremo del gruppo: era un gioco pericoloso dove si poteva rischiare la vita. Girando l'ennesimo angolo, seguendo un altro graffito, Arat si accorse troppo tardi dell'ombra che si era mossa subito dopo il suo aggio. Si voltò ma non fece il gesto di impugnare la demo perché un coltello a falce era già sotto la gola di Aza. "Ti stiamo seguendo da un po', ragazzo. Sei bravo, troppo bravo a seguire le nostre tracce. Ora verrete con noi!" Li bendarono e legarono loro i polsi. Non temevano che qualcuno si immischiasse vedendo che degli uomini requisivano due giovani: lì nessuno si intrometteva in cose così pericolose, la vita era già difficile senza cercare altri guai. Il covo buio e pieno di fumo in cui li avevano condotti non era diverso da quello in cui Arat aveva vissuto durante gli ultimi anni della sua infanzia. A quell'epoca sua madre, una donna dal sangue ionale e selvaggio, l'aveva portato via dal Muslim e dalla tribù nella Foresta Greetes in cui era nato. Aveva abbandonato il

marito e seguendo diversi amanti era arrivata fino a Samas (questo diceva molto sulla sua forza e sulla sua determinazione). Lì Arat aveva preso il compito impartitogli dal clan come un gioco: trovava i clienti per il bordello gestito dall'amante di sua madre e segnalava quelli più danarosi che venivano poi aggrediti e derubati una volta usciti dalla stanza della ragazza. Il tirapiedi che aveva catturato Arat ed Aza si avvicinò ad un uomo alto e dal petto largo e villoso. La pelle scura come il bronzo ricordava a tutti che nelle sue vene scorreva anche il sangue di Atra, il sangue dei neri guerrieri. Sudava, evidentemente sopportava male il caldo umido della stanza senza finestre (probabilmente era anche sotto il livello stradale). Era lui il capo assoluto dell'intera organizzazione. "Io sono Gabrin. Qui comando io." Per un secondo il sangue freddo di Aza vacillò. Sapeva che conoscere il suo nome era come sentire una condanna a morte, i loro destini erano ora nelle mani di quel gigante. Gabrin si alzò dal sedile di pietra a uscì dalla penombra; era completamente nudo e rimase in piedi con le mani strette a pugno e appoggiate sui fianchi per imporre la sua presenza. Fiero dei muscoli che facevano paura agli uomini e orgoglioso delle doti che facevano fremere le donne, con un piccolo gesto richiamò una donna celata nel buio. La femmina si inginocchiò di fronte al bronzeo signore e gli legò alla vita un corto drappo di stoffa leggera. "Chi siete?" Non era consigliato mentire, Gabrin avrebbe scoperto la verità e l'istante dopo un sorriso insanguinato si sarebbe aperto da un orecchio all'altro dei due bugiardi. "Io sono Arat, faccio parte dei giovani combattenti di Deos... " "E che cosa combattete, i lepori?" L'ilarità della sala si accese in una risata comune che si spense appena la platea si rese conto che Gabrin aveva apprezzato ma voleva parlare ancora. "E tu, bellezza, come ti chiami?" "Sono Aza e se mi tocchi ti uccido." La paura le aveva accumulato così tanta adrenalina addosso che Aza rispose con un tono troppo aggressivo, praticamente ringhiò contro l'uomo scuro e un lampo d'odio incendiò i suoi occhi bianchi.

Fu fortunata che Gabrin fosse di ottimo umore quel giorno: le si avvicinò senza sfiorarla e assaporò l'idea di quanto sarebbe stato divertente conquistare quella preda.

Arat era furibondo. Percorse a ritroso la strada che aveva imboccato con tanta sicurezza solo poco tempo prima. "Almeno siamo ancora vivi, è una buona cosa per incominciare." "Forse! Ma non siamo arrivati a concludere niente." Aza non parlò più, seguì il o nervoso del suo capitano senza turbare i suoi pensieri e contemporaneamente cercando di scoprire quali fossero.

Quella sera il gruppo di viaggiatori si riunì attorno ad un tavolo, alla taverna. "Brava, Luna. Hai trovato un ottima sistemazione e ad un buon prezzo. Non credevo ne fossi capace." Luna fece finta di non aver sentito l'ultima parte della frase di Arat e sorrise solo per il complimento. "Aza ed io abbiamo venduto i candù e stiamo prendendo accordi per trovare un mezzo di trasporto per Aruni." Arat era contento che proprio in quel momento Luna fosse indaffarata ad affettare il pane. La ragazza non aveva potuto così leggere nei suoi occhi ciò che anche un bambino avrebbe capito: stava mentendo. Ma la sua voce tradiva lo sconforto per aver incontrato un impedimento, un impedimento scomodo come Gabrin. Dopo una cena frugale a base di pane raffermo inzuppato nel brodo e bagnato con della pessima birra, Aza si alzò dal tavolo stiracchiandosi. "Sono stanca, vado a dormire." Arat si rivolse a Luna continuando però a guardare il boccale che teneva tra le mani.

"E tu? Non hai sonno?" "Credo che i maschietti vogliano rimanere soli. A quest'ora per le taverne girano le femmine a pagamento. Andiamo a letto, Luna." Senza fiatare Luna ubbidì: non aveva sonno, ma la sala era diventata troppo fumosa e chiassosa per i suoi gusti. "Ora che Aza è riuscita ad allontanarla possiamo parlare." Arat parlava sottovoce per impedire che altri sentissero, ma aveva mantenuto un'aria distaccata per non attirare l'attenzione. "Ho parlato con Gabrin. Sembra che tutto i per le sue mani e che un bel po' di suot entrino nelle sue tasche." Gor e Sador lo ascoltavano continuando a ingurgitare con noncuranza intrugli ben più alcolici della birra e di provenienza molto incerta. "Gli ho spiegato che ci serve il suo aiuto per trovare una nave, disposta a partire subito per Aruni. Ma lui non mi ha voluto ascoltare, non mi ha neppure lasciato fare un'offerta." "Perché vuoi ancora andare ad Aruni? Siamo ormai lontani da Deos e nessuno può controllare che tu esegua gli ordini ricevuti. Forse Zarbo ci crede già morti e tu ti ostini a tenere fede ad un impegno a cui non hai mai creduto." Il ragionamento di Sador non era sbagliato. Arat ricordava ancora la foga con cui si era battuto nella Camera Comune per ostacolare i progetti di Sargon. Era stato costretto a seguirlo nell'impresa a causa dell'indissolubile legame di onore e dovere che unisce ogni soldato al suo capitano. Ora Sargon era morto ma lui non riusciva a separarsi da lui. Arat aveva ancora dipinta negli occhi l'immagine di Sargon che cadeva giù dal precipizio. Non fu facile abbandonare in quel modo il corpo dell'uomo che aveva preso il posto del padre nel suo cuore; in quel momento non aveva manifestato il suo dolore e proseguire la sua causa lo faceva soffrire di meno. Sador non rispettò il silenzio di Arat e colpì, ancora, per provocare una reazione del giovane guerriero. "Secondo me Luna ti ha fatto perdere il senno."

"Non è vero!" Scattò Arat, colpito sul vivo. "Non ti rendi neppure conto che stai facendo il suo gioco." Arat non voleva ascoltare le accuse di Sador e non guardava Gor perché sapeva che il gigante, nel suo silenzio, avrebbe appoggiato il compagno. Ma non poté fare a meno di pensare all'influenza che Luna aveva su di lui. Non aveva cercato di convincerlo con le parole e neppure cercava di coinvolgerlo nei suoi piani, ma la sua sola presenza risvegliava in lui il desiderio di rivalsa su Cron che si era assopito negli anni trascorsi nelle viscere di Deos. Voleva vedere Solamia libera dai Mutati ed era per questo che continuava nell'opera di Sargon: tutte le genti del continente dovevano unirsi per fronteggiare il nemico comune. "Io credo che si possa riconquistare Solamia e sono certo che altre persone la pensano come me. Unendo tutte queste forze potremo salvarci da Cron." "E' con i discorsi sulla gloria della rivincita e la conquista della libertà che pensavi di convincere Gabrin ad aiutarti? Ah! Ah! Non so se il tuo peggiore difetto sia il senso dell'onore o la tua spiccata ingenuità." Arat non rispose e bevve un lungo sorso di birra. "Ti conosco. Avrai parlato ad una banda di briganti di orgoglio e di gloria, di una Solamia libera e serena. Credimi se ti dico che quelli farebbero affari direttamente con Cron, se questo portasse più suot nelle loro tasche. Io conosco Gabrin, prima di muoversi e di intercedere per conto di altri deve essere certo di poter mettere le mani sulla fetta più grossa del guadagno. Il problema è che la libertà non la puoi vendere a peso, come l'etas." Arat annuì come se Sador avesse svelato una grande verità e parlò con il vigore che solo un capo poteva possedere. "Allora domani ritornerò da Gabrin e tu verrai con me. Visto che lo conosci così bene saprai senza dubbio convincerlo che la riuscita della nostra impresa gioverà anche ai suoi traffici e che se ci darà il suo aiuto i suoi guadagni aumenteranno." Sador rimase ammutolito, con la bocca spalancata. Aveva parlato troppo, come sempre, ma questa volta si era messo in un guaio molto grosso: alto quasi due metri e pesante più di cento chili. L'immelico ò il resto della serata con il silenzioso Gor e bevve fino a perdere conoscenza.

Anche questa volta gli uomini di Gabrin bendarono i due intrusi. Il giorno prima, Arat aveva tenuto a mente il percorso fatto per raggiungere il covo: il numero dei i e le variazioni di direzione. Si accorse subito però che i loro accompagnatori stavano prendendo altre strade per arrivare da Gabrin. "Avrei preferito rivedere la mora dagli occhi bianchi invece di questo uccellaccio spelacchiato." Il nero si stava facendo massaggiare la schiena dalla bionda del giorno prima. Anche lei, come l'uomo, era nuda. "Anche se ieri sei riuscito a divertirmi non è detto che anche oggi sia disposto a ridere. Non ci tieni alla tua vita, ragazzo?" "Non solo tengo alla mia vita ma anche a quella dei miei simili. E' per questo che sono tornato, per darti la possibilità di pensarci." Sador tremava già. Aveva la bocca secca e la lingua ruvida, ma la parlantina sciolta partì senza preavviso. "Ieri il ragazzo non ha sottolineato le parti più importanti dell'affare, così sono venuto io." Per una volta avrebbe voluto essere muto. Ma ormai era tardi, ormai aveva attirato su di sé l'attenzione di Gabrin. "E tu chi sei?" "Sador... Qualche anno fa ho lavorato con... per te." Gabrin non pareva interessato alle parole di Sador. Sempre rimanendo disteso si voltò, mostrando il petto ricciuto alla massaggiatrice che si diede un gran daffare per ungerlo tutto. Una ragazza dai capelli rossi si affrettò a pettinare la folta barba nera. Sador continuava a parlare. "Mi sono occupato di vendere un carico di etas che avevi inviato a Deos via mare. Poi ho anche... "

"Hai intenzione di farmi l'elenco di tutti i miei affari? Vuoi che ti ringrazi per il lavoro svolto? Insomma che cosa vuoi!?" Una goccia di sudore pendeva dal naso adunco di Sador mentre altre entravano nell'occhio senza benda, velandogli la vista. Pensieri confusi turbinavano nella sua mente. Era morto? Aveva innervosito Gabrin. Era morto! "Sono qui per proporti il più grande affare della tua vita." Sador avrebbe voluto mordersi quella sua linguaccia che si muoveva prima che il cervello potesse pensare, ma ormai solo la sua parlantina poteva salvarlo. Oppure li avrebbe portati a morte certa per mano di Gabrin in persona. Il gigante si sedette sul blocco di pietra tiepido sul quale si faceva massaggiare. Non sembrava stesse aspettando le prossime parole di Sador, pareva perso nei suoi pensieri. Forse stava architettando nuove torture da sperimentare sui due intrusi che lo avevano ormai stancato. Sador continuò a parlare sperando così di fare la cosa giusta. "Prova ad immaginare un mercato più ampio, più aperto e più redditizio. Sto parlando di invadere tutta Solamia con i tuoi affari." Gli occhi del temibile gigante di bronzo si illuminarono, ma Sador non era certo che fosse l'interesse per quello che stava sentendo ad accendere i neri tizzoni. "Continua... Che mi diverto." "C'è poco da dire. La presenza dei Mutati di Cron rende impossibile questo progetto. Ecco perché la nostra missione, quella di raggiungere Aruni per prendere contatto con altri gruppi di mercenari e di soldati, è utile anche ai tuoi traffici... " "Sador... Sador… Non dirmi che ti sei fatto convincere dalle chiacchiere idealistiche di questo ragazzino troppo muscoloso." Arat, chiamato in causa, non badò alle parole del colosso barbuto. Prestava estrema attenzione solo a quello che diceva Sador, temendo che la parola successiva scaturita dalla bocca storta dell'immelico fosse la definitiva: quella che avrebbe fatto infuriare Gabrin e che avrebbe decretato la loro condanna a

morte. Ancora non riusciva a credere di aver chiesto il suo aiuto, era davvero disperato. Sador continuò. "Non essere scio... Non sono stupido. A me onore e gloria, se non sono alcolici da bere o droghe da fumare, non interessano. Però sono convinto che se tutte le forze di Solamia si unissero riuscirebbero a vincere Cron. Poi l'intero continente verrebbe spartito tra chi ha partecipato alla battaglia. Se tu spingessi gli uomini della costa Ovest ad aderire al patto che si suggellerà con tutti gli altri popoli, nessuno ti potrà negare una buona fetta di questo territorio, dopo la vittoria." "Non credi di correre troppo? Non siete che un gruppo di immelici senza terra! Pensate davvero che popoli diversi e ostili si uniranno tra loro per raggiungere un obbiettivo comune? Siete pazzi. Se veramente ci fosse il modo di sconfiggere i Mutati per sempre, non si farebbe altro che aiutare le Famiglie a riprendere il controllo degli antichi territori. Non mi sembra molto vantaggioso per noi immelici…e soprattutto per me." Sador aveva esagerato chiedendo a Gabrin di unirsi alla lotta, alla quale neppure lui pensava di partecipare: avrebbe dovuto limitarsi a parlargli della nave... Ma ormai era in ballo e doveva cavarsela da solo. "Le Famiglie non sono più così potenti. Gli immelici li superano in numero ed avranno bisogno di noi per combattere. Dopo la vittoria solo uomini forti potranno comandare sulla massa mentre i nobili e deboli rappresentanti delle Famiglie si dovranno accontentare di vivere nelle loro antiquate capitali. Tu, Gabrin, sei abbastanza forte?" Appena pronunciate queste parole un brivido scosse il già turbato Sador. Forse l'ultima provocazione era eccessiva e temeva una risposta violenta da parte del mezzosangue. L'uomo nero, dopo un attimo di silenzio, parlò in tono pacato. "Molto tempo fa un Deoscuridiano, si chiamava Ledon, cercò di convogliare tutti i diversi spiriti che animavano le genti di Solamia per arrivare allo stesso scopo che anche voi vi prefiggete. E non ebbe fortuna. Che cosa avete voi di diverso che possa garantirvi la vittoria?" "Noi abbiamo la Feteh!"

Arat era infuriato e camminava per le vie di Samas a lunghi i lasciando indietro Sador, che lo seguiva con andatura irregolare. "Come ti è venuto in mente di mettere in mezzo lei?" Parlò talmente forte che tutti nella pizzetta si voltarono a fissarlo. Sador si guardò attorno con l'unico occhio rosso e confuso. "Ero nel panico e a corto di argomenti. Mi hai detto tu che dovevo convincerlo." "Dovevi solo riuscire a trovate un aggio su una nave e non cercare di farlo diventare un nostro alleato." "Ma tu hai detto che volevi unire immelici e non... " "So bene cosa ho detto, ma non posso pensare di fare una proposta simile ad uno come Gabrin senza avere delle basi di partenza. Non so se troveremo qualcosa ad Aruni e sicuramente non ho idea se qualcuno ci darà ascolto." "Non avevo intenzione... " "Ti rendi conto che adesso siamo nelle mani di una bambina?"

Per la terza volta Arat stava seguendo le indicazioni degli uomini di Gabrin. Come aveva immaginato stavano percorrendo un percorso diverso da quelli memorizzati in precedenza. Con lui c'erano solo Sador e Luna. Aveva detto a Gor e Aza di seguirli ma era certo che ormai le loro guide fossero riuscite a seminali. Erano dei veri professionisti. Il giovane capo non poteva fare a meno di pensare alla conversazione che aveva avuto con Luna la sera precedente. Luna non riusciva a capire perché doveva convincere un trafficante come Gabrin della sua natura di Feteh. Sapeva che era impaurita dalla figura molto losca dell'uomo, ma era anche titubante riguardo l'utilità della presenza di Gabrin (e di persone come lui ) nell'alleanza contro Cron. Arat dovette usare tutto il suo fascino e la sua pazienza per cercare di farle capire che era importante arrivare ad Aruni, ma che era ancora più importante far conoscere i progetti di unificazione a tutti quelli che in seguito avrebbero dovuto combattere la guerra contro i Mutati. Ci riuscì, ma non dormì un sonno tranquillo. La ragazza non era affatto pronta a convincere un estraneo ostile di cose sulle quali lei stessa nutriva dei profondi

dubbi. Luna aveva paura. Quando un uomo, che puzzava di etas, le tolse la benda continuò a non vedere. Poi gli occhi si abituarono alla fumosa oscurità. Si trovavano sicuramente sotto il livello stradale e dalle sottili finestre poste in alto filtrava una debolissima luce. "Abbiamo un'altra mora." Gabrin, coperto con un lenzuolo semi-trasparente legato alla vita, si avvicinò pesantemente a Luna. "Occhi blu, denti bianchi, bocca rosa e carnosa... " Lo sguardo dell'uomo si spostava dall'alto in basso e si soffermava sui punti più intimi. Luna sperava che non si mettesse a commentare ogni sua parte anatomica. Non avrebbe sopportato un simile trattamento: era già difficile restare in piedi senza tremare e celare dietro uno sguardo sicuro il terrore che la disorientava. Poi il colossale nero si rivolse ai due uomini che erano giunti assieme a lei. "Avete deciso di propormi affari più consistenti piuttosto che tornare a blaterare di libertà e giustizia? Sono contento. Quanto pensavate di ricavare dalla vendita di questa femmina?" "Io sono la Feteh e sono venuta a proporti ciò che non si può comprare." Questa volta non fu come nelle occasioni precedenti, questa volta era stata lei che aveva richiamato il potere per dare più corpo alle sue parole. Era stato semplice come attingere ad una parte fondamentale del suo essere, una parte che le era sempre appartenuta e che ora imparava a riconoscere. "Non ci posso credere!" "Chi credevi che fosse?" "Non certo una bambina. Conosco la leggenda del Feteh e non riconosco in te il salvatore potente, coraggioso e invincibile delle scritture." "In nessuna parte del testo sacro si fa riferimento al sesso del salvatore." "E' vero. Ma io avrei preferito un possente guerriero seguito da un'imbattibile armata. "

Gabrin aveva terminato la frase come se quella fosse l'ultima, ma Luna continuò a parlare (coraggiosamente o incoscientemente). "Il popolo di Solamia al completo sarà il mio imponente esercito e il potere che posseggo ci garantirà la vittoria. "Nessun uomo o donna che sappia tenere un'arma in mano seguirà una sconosciuta ragazzina contro Cron. Nessuna promessa potrà essere abbastanza convincente." "Un forte condottiero invece ci riuscirebbe." "Forse sì!" Gabrin aveva decisamente concluso. Diede le spalle alla figura stretta nella tuta di pelle nera e si diresse verso la massaggiatrice dai capelli rossi. "E quanto dovrebbe essere forte?" Lo scuro si fermò. Si voltò verso Luna che l'aveva provocato e la fissò. La furia scalpitava nelle grosse vene del collo, ma c'era una certa dose di curiosità nei suoi occhi. "Deve essere molto forte." "Almeno quanto lo sei tu?" Arat e Sador sperarono di aver udito male. Luna sapeva di aver appena sfidato Gabrin a duello? Ormai non c'era nulla che potessero fare per lei e per la loro sorte. Luna, impavida, proseguì . "Ti sfido ad un duello al primo sangue. Se ti vincerò allora ci procurerai la nave che ci serve e comincerai a radunare i guerrieri della costa Ovest per prepararli alla grande battaglia: saranno considerati soldati di Solamia e ubbidiranno agli ordini di mio padre Ledon." Luna non attese la risposta di Gabrin e si slacciò il mantello lanciandolo ai bordi di quello che era diventato il campo di battaglia. Sfoderando la lama blu dell'amlin, Luna sorrise con i denti sfavillanti come piccole lune. Nei suoi occhi si infiammò il colore del potere di Deos.

"Ti consiglio di usare tutta la tua forza perché io non risparmierò le mie facoltà di Deoscuridiana." Luna si mise in posizione: gambe divaricate, ginocchia flesse, l'arma in entrambe le mani e braccia leggermente piegate. La tranquillità che sfoderava Luna si scontrava con la furia di Gabrin, che prese la demo che teneva sempre vicino a sé e con violenza tagliò il nodo che legava il lenzuolo attorno alla vita. Il guerriero si scaraventò urlando contro la sottile ragazza e sferrò il colpo. Sador chiuse l'occhio buono un attimo prima che Luna venisse tagliata in due. Sorprendentemente, quando lo riaprì, la fanciulla era ancora intera: il pavimento di pietra aveva fermato la lama rossa della demo dopo che questa aveva mancato il suo bersaglio. Luna si era spostata in tempo. La collera di Gabrin raggiunse l'esasperazione, un fuoco accese i suoi istinti, ma un bruciore più sottile gli fece ritardare il colpo successivo. Luna era stata così veloce che non solo era riuscita ad evitare la spada, ma era riuscita a sfregiare lo zigomo dell'uomo che ora stava sanguinando. Gabrin non accettò il verdetto insindacabile che quella linea rossa decretava e non attese più. Ruotò su sé stesso, imprimendo tutta la potenza che aveva in corpo nella mossa che stava eseguendo. La demo calda tagliò l'aria e scintille spruzzarono dal filo della lama che incontrò nuovamente la pietra. Nell'attimo di un respiro Luna aveva schivato il fendente e con un salto era montata con i piedi sull'arma ancora a terra. La gelida punta dell'amlin era appoggiata alla giugulare di Gabrin, gonfia di sangue per lo sforzo. L'ellisse tagliente che sfregiava l'iride di Luna ferì l'orgoglio dell'uomo. Lei parlò sottovoce in modo che solo lui potesse sentire. "Non considererò questo tuo gesto come un'insubordinazione, ma come atto di uno spirito battagliero che sarà abbastanza intelligente da riversare tutta questa collera verso il vero nemico: Cron!" Poi si fece sentire da tutti i presenti. "Sono onorata della tua collaborazione. Quando si fonderà la nuova Solamia ci sarà posto per tutti coloro i quali hanno sofferto per la sua nascita."

Quella sera il gruppo di immelici si raccolse in un angolo della stanza che avevano affittato. Luna dormiva profondamente anche se il suo sonno era agitato. Ancora una volta si parlava della sconosciuta venuta da lontano, ma gli

eventi accaduti quel giorno avevano mutato l'idea che ciascuno di loro si era fatto di lei. La presenza della Deoscuridiana incuriosiva e spaventava: era evidente che il potere era forte in lei ma era altrettanto chiaro che la capacità di gestirlo non era costante in Luna; avrebbe potuto essere utile ma anche molto pericolosa se lasciata senza controllo.

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CAPITOLO 9

I cinque compagni si raccolsero attorno al tavolo davanti ad una scodella di zuppa non molto invitante ma calda. "Ho trovato la nave." Arat iniziò a parlare sommessamente, non si fidava di nessuno degli altri avventori della taverna. "E' un vascello di legno ed è quindi sopravvissuto all'epidemia che ha colpito la flotta di Samas che aveva lo scafo in metallo. Inoltre è abbastanza grande da non temere i Seluvi e le correnti oceaniche. Gabrin mi ha dato il nome del capitano. Mi ha detto che non lo conosce personalmente e perciò non si prende la responsabilità per eventuali fregature, ma gli è stato consigliato da un tizio con cui ha concluso altri affari. Direi che è un rischio accettabile anche perché non abbiamo molte altre alternative." Aza aggiunse freddamente: "Purtroppo il capitano ci ha riferito che è poco propenso ad imbarcarsi. Dice che quest'anno le tempeste arriveranno in anticipo e lui non vuole rischiare il suo unico vascello. Abbiamo parlato con altri marinai che, dopo essersi fatti offrire quattro boccali di birra a testa, ci hanno raccontato che i vecchi del porto continuano a dire che la Stagione delle Tempeste è in ritardo; quindi l'unica spiegazione è che il 'nostro' capitano stia cercando una scusa per alzare il prezzo e lo può fare visto che quella è l'unica nave adatta ai nostri scopi." Arat riprese la parola. Aveva la faccia stanca per il poco sonno e per le preoccupazioni che il rango di capo comportavano e continuava a premersi le meningi con i palmi delle mani come se questo potesse alleviargli il tormento. "Infatti ha chiesto una cifra molto alta. Forse non sproporzionata rispetto al servizio che abbiamo chiesto ma è decisamente al di sopra delle nostre possibilità: forse se vendessimo Sador come schiavo potremmo ricavare i suot necessari." "Credo invece che dovremmo pagare noi chi se lo prende." Era forse la prima volta che Gor faceva una battuta di spirito sul suo compagno, di solito si limitava a imprecare contro di lui, e fu anche per questo che il gruppo scoppiò in una risata generale. Aza riportò tutti ai toni sommessi che la loro situazione richiedeva. "Anche se... Ci sarebbe una nave più economica... "

"Ma è senza equipaggio e nessuno di noi è un marinaio esperto." Sbavando zuppa da un lato della bocca, Sador (che non aveva commentato la frecciata di Gor) intervenne entusiasmato dalla notizia. "Per lo spirito di Sad, allora bastano i suot che abbiamo. Che la Dea Aar vada a prendersi quel comandante, guiderò io stesso la nave e porterò noi tutti a destinazione, ad A... " Questa volta l'intervento di Gor, oltre che tempestivo, fu anche fisico: la possente mano dell'immelico tappò la bocca del poco discreto Sador rincuorando i compagni. Aza proseguì tenendo sempre un occhio puntato verso Sador che si dimenava inutilmente per liberarsi della presa di Gor. L'omone, intanto, stava tranquillamente trangugiando il pane e la zuppa usando la mano libera. "Allora possiamo escludere la seconda possibilità. Dobbiamo quindi trovare il modo per trovare quei soldi: purtroppo però il capitano ci ha messo fretta, dice che c'è un'altra persona interessata alla sua nave... Ma forse è un altro metodo per spillare quattrini." Come se le parole di Aza lo avessero evocato, un uomo si accostò al circolo di viaggiatori. "Vorrei proporvi un affare." L'ombra che aveva parlato stava in piedi dietro le spalle di Luna e si rivolgeva ad Arat. Anche se non poteva vederlo ne riconobbe la voce soffice e calda ma con un fondo metallico a darle vigore. Luna inspirò profondamente il profumo di cuoio e di agrumi, di fiori e di spezie che la sua pelle emanava. Le sue vesti nere ne erano completamente impregnate. L'uomo ombroso continuò a parlare con Arat riconoscendo in lui il capo del gruppo. "Siamo interessati alla stessa merce, non so se mi capite. Invece di dissanguarci a vicenda e di rimpinguare le casse di quel rozzo e avido capitano potremmo unire le forze... e le borse." Sador riuscì proprio in quel momento a liberarsi mordendo la mano di Gor; l'immelico mise subito in moto la lingua e decise di dare il suo contributo alla conversazione con lo sconosciuto.

"Benissimo! Tu dove sei diretto? Noi andiamo ad... " Questa volta la manata di Gor non solo zittì Sador, ma lo scaraventò giù dallo sgabello facendolo ruzzolare sotto il tavolo dei vicini. "Non mi interessa sapere dove volete sbarcare, come a voi non deve interessare dove sono diretto. Una cosa però è certa: veniamo tutti da Nord-Ovest e vogliamo uscire via mare da Samas, quindi la direzione obbligata per entrambi è quella Sud-Est. Una volta imbarcati ognuno di noi scenderà al porto che desidera." Il silenzio cadde pesante. Le menti di tutti iniziarono confusamente a valutare varie ipotesi. Luna invece non ci riusciva perché ogni angolo della sua mente era occupato da quell'uomo misterioso. "Devo farvi fretta però. La Stagione delle Tempeste è in ritardo, ma il vento caldo della Caabia sta già gonfiando le nere nubi che portano la burrasca. A proposito, il mio nome è Cablam." Il riferimento alla tempesta era perfetto poiché la sua comparsa fu inaspettata come il lampo; solo in seguito si poterono rendere conto che era anche inevitabile come il tuono che lo segue. Ad Arat non piaceva, non riusciva a decifrarlo e quindi lo considerava una minaccia: era certo che, anche se non subito, si sarebbe rivelato come un grosso ostacolo per i suoi progetti. Fu per questo e per molti altri motivi che accettò la presenza dello sconosciuto nel gruppo: preferiva tenerlo il più vicino possibile per poterlo controllare meglio e per poter intervenire immediatamente, se necessario. Gli altri non discussero la decisione del loro capo, ognuno di loro aveva la propria opinione a riguardo ma si fidavano del giudizio di Arat. Purtroppo anche sommando i rispettivi averi riuscivano a coprire solo due terzi della cifra richiesta dal capitano della nave. "Non preoccupatevi, guadagneremo quello che manca." Cablam non disse altro. Posò lo sguardo su Kib, il ragazzino che lo seguiva sempre e che fino a quel momento era rimasto nascosto dietro il mantello del suo maestro, e gli impartì un ordine mentale. Il corpo esile e acerbo di Kib scattò e si esibì in una serie di capriole e volteggi. Una volta attirata l'attenzione della sala salì su un tavolo e, alternando ogni parola con un colpo di tacco sul legno ruvido, declamò.

"Attenzione! Ora assisterete ad uno spettacolo magnifico, sorprendente, straordinario e unico del grande illusore Cablam. " La scura e sporca stanza si trasformò in un bosco pieno di fiori che nascevano e sbocciavano velocemente e dove belve di luoghi lontani eggiavano senza assalire i presenti. Nei giorni successivi lo spettacolo divenne un appuntamento fisso al quale accorrevano molti curiosi provenienti da tutte le diverse zone della città. L'oste dava all'improvvisata compagnia di 'artisti' solo una piccola percentuale sulle consumazioni, tutto il resto era suo. Per aumentare i suoi guadagni l'avido si era preso la libertà di annacquare più del solito la birra, certo che dopo una certa ora (cioè quando presumibilmente tutti erano ubriachi) nessuno se ne sarebbe accorto. Alle arti illusorie di Cablam si alternavano i numeri di acrobazia di Kib. Anche Aza partecipava mostrando (dietro compenso) la sua agilità nel colpire un bersaglio a qualsiasi distanza con l'anaud. Gor invece sfidava gli uomini presenti a una lotta corpo a corpo; chi non gareggiava scommetteva. Inutile dire che Gor ne usciva sempre vincitore.

Quella sera, se tutto andava bene, sarebbe stato l'ultimo spettacolo. Avevano raccolto abbastanza suot e il mare era ancora piatto. Come sempre Kib attirò l'attenzione dei presenti e annunciò l'ingresso di Cablam, l'illusore. Questa volta la taverna si trasformò nel fondo dell'oceano e i coralli crebbero lì dove prima c'erano sedie e tavoli. Mentre banchi di pesci colorati nuotavano tutto intorno, Aza ed Arat parlavano tra di loro senza essere uditi da nessuno. "Arat, davvero non riesco a capire. Se il tuo scopo è quello di contattare i vari gruppi di resistenza sparsi per Solamia perché ci umiliamo mettendoci in mostra in questo modo per poter acquistare la nave? Così facendo arriveremo direttamente ad Aruni saltando l'intero Continente." "Non voglio arrivare fino ad Aruni ma voglio che tutti lo pensino, soprattutto il comandante del vascello. Voglio fermarmi a metà strada e risalire il fiume Ra. La mia idea è quella di raggiungere il Lago Golias che sta al confine tra le terre della Famiglia Atralidi e quelle degli Underidiani. Nonostante quello che ho raccontato a Gabrin, la causa ha bisogno di Soldati forti come quelli delle due

Famiglie. "Ed è indispensabile are per l'Oceano Sud?" "Non saprei come arrivarci altrimenti. Certo potremmo sempre rischiare di morire assiderati tentando di scalare i Monti Kobit, ma io considero meno pericoloso affrontare l'oceano su una nave il cui equipaggio tenterà di tagliarci la gola fin dal primo giorno di navigazione." "Ma la 'principessina' è al corrente di questo cambio del programma?" "Non è necessario che lo sappia adesso. Una volta a bordo troverò io il modo di convincerla che questo è il modo migliore per seguire la volontà dei suoi antenati." "Già, immagino che troverai il modo." L'illusione di Cablam terminò proprio su questa frecciata di Aza. Si alzò di scatto perché toccava a lei ma improvvisamente Sador si presentò al centro di quello che era diventato il loro palco, armato di tamburo. "Adesso io canto!" Minacciò l'immelico, poi, credendo di tranquillizzare i suoi amici, sottolineò: "Non preoccupatevi, ho imparato." Ma tutti avevano sentito le prove di quel menestrello strampalato e il commento più gentile fu quello fatto da Gor che lo aveva paragonato al verso del ghizon. Purtroppo la mano del grosso immelico non fu abbastanza veloce e non riuscì a bloccare Sador che si era già arrampicato su un tavolo al centro della stanza. Dall'alto di quell'insolito palco iniziò il suo canto lamentoso interrotto da colpi di tamburo menati a caso, senza una minima coerenza con il ritmo della canzone. La voce gracidante di Sador venne accolta da fischi e accompagnata dal lancio di avanzi di cibo che, evidentemente, era andato di traverso agli sventurati ascoltatori, ma la reazione della gente non scoraggiò affatto l'immelico che, imperturbabile, continuò a 'cantare'. L'ennesimo colpo di tamburo scosse il pavimento della taverna. Sador proseguiva il suo spettacolo credendo che il silenzio che si era creato fosse dovuto ad un improvviso interesse della platea per la sua musica. In realtà gli avventori, così come i compagni del cantore stonato, erano corsi verso la porta che si apriva sulla Grande Piazza.

Non era il tamburo di Sador a far tremare la terra, naturalmente, bensì la tempesta che stava cavalcando tumultuosa verso Samas. Le poderose nuvole nere, spinte velocemente dai venti della Caabia, avevano coperto il cielo del porto; i venti scuri urtarono contro i venti del continente e l'impatto riempì l'aria. I fulmini serpeggiavano tra i nembi e incendiavano il cielo diventato più scuro del mantello della Dea Aar; la pioggia sferzante ingrossò il mare che fece sentire la sua voce, le onde divorarono il porto come bocche fameliche e ingurgitarono le poche imbarcazioni che vi erano ancorate. L'urlo di battaglia della tempesta infuriò impietoso in ogni angolo della città e nella sua invincibile corsa spazzò via le speranza di Arat e degli altri sfortunati viaggiatori. La tempesta, la prima di una lunga serie, si era scatenata senza preavviso. Non l'avevano preceduta tutti i segni premonitori che la natura aveva insegnato ai marinai e già i vecchi parlavano di 'inizio della fine' e tiravano fuori dalle tradizioni popolari antiche divinità dalle plateali e contorte condanne da far scontare agli uomini infedeli. Arat non aveva fede, credeva solo nelle proprie capacità e sapeva che da quel momento in avanti avrebbe dovuto superare prove molto difficili. Il viaggio doveva continuare anche se questo voleva dire scalare le cime nevose dei Monti Kobit: infatti non si poteva sperare di trovare altri porti sicuri da cui partire. L'uragano si spostò velocemente lungo la costa, da Nord a Sud, fagocitando ogni cosa, e il vento turbinò fino nell'entroterra mietendo molte vittime. Per tre giorni e tre notti acqua e fuoco precipitarono da quel cielo maledetto scuotendo senza pietà la terra indifesa; poi la tempesta si spense e la quiete giunse all'improvviso, ma già si sentiva nell'aria l'odore di piombo che annunciava la seconda bufera che sarebbe giunta al massimo tra un giorno, forse due. Secondo i ricordi della donna più vecchia di Samas il numero massimo di tempeste in una stagione fu di dodici, ma il cielo nero perennemente steso sopra la città e le nubi elettriche che si vedevano in lontananza promettevano di poter vomitarne un numero ancora maggiore e di inaudita violenza. Non si poteva sperare che i danni che il vascello aveva riportato potessero essere riparati in un giorno e l'impossibilità di prevedere con esattezza quando sarebbe giunta la seconda tempesta non rendeva le cose più facili; d'altra parte era inutile restare a Samas fino alla fine della stagione. Dopo una notte insonne tormentata da dubbi Arat decise che era tempo di ripartire, ricomprò i candù (i loro stessi candù, ma costarono tre volte di più del prezzo al quale li aveva venduti) e tutto

il necessario per il viaggio. L'eterogeneo gruppo partì sotto un cielo vitreo. Si allontanarono da Samas al ritmo del lento o dei candù che sprofondavano nel fiume di fango nel quale si era trasformata la strada. In seguito Arat si chiese come Cablam (con Kib) fosse entrato nella compagnia: non ricordava di averlo invitato e nemmeno che lui si fosse offerto. Fu così, celato tra le nebbie che confondono la mente, che Cablam si unì a loro nel difficile viaggio.

I giorni seguenti arono lenti tra i bisticci di Sador e Gor e la ricerca di un ricovero per la notte. La pioggia aveva ripreso a cadere, ma lì nell'entroterra era meno violenta. Arat aveva scelto la strada che tortuosamente puntava verso Est, riparata tra le valli ed i boschi, piuttosto che quella che ava attraverso le pianure ed i campi. Quest'ultima era più breve ma era anche investita dai tornado che, dissetati dall'oceano, chiedevano alla terra di sfamarli. La pioggia scendeva incessante e leggera sopra le colline boscose coprendo di grigio tutti i colori del paesaggio. "Sono stanco di tutta quest'acqua." Sbuffò quella cornacchia di Sador, e continuò irritato. "Non sopporto più di sentirmi i vestiti inzuppati, la pelle bagnata e i capelli gocciolanti... " "Potrai dire di esserti lavato almeno una volta nella vita." La sagace battuta di Gor fece ridacchiare il resto della compagnia (che però condividevano il malessere che tormentava Sador); questo fece alterare l'immelico preso in giro che si mise a provocare l'omone. "Zitto tu! Che puzzi peggio di un ghizon." L'espressione sul volto tranquillo e un po' stupido di Gor cambiò repentinamente, come il cielo di notte che si accende della istantanea luce del lampo. "Sono stanco di te, Sador. E perché non mi dici chi o che cosa diavolo è questo ghizon?"

Senza aspettare la solita risposta poco carina di Sador, il gigante balzò dalla sella direttamente sulla testa dell'orbo. La lotta nel fango fu di breve durata perché Gor si ritrovò la demo di Arat sotto la gola e Sador si accorse di avere la punta dell'anaud di Aza tra le costole. "Ora basta." L'ordine di Arat non nascondeva la frustrazione che il giovane provava. "Siamo tutti stanchi, ma dobbiamo restare uniti. Per oggi ci fermeremo qui; mentre noi prepareremo l'accampamento in quella grotta tu, Gor, andrai a cercare legna secca per il fuoco e tu, Sador, andrai a prendere acqua pulita da bere." I due litiganti non commentarono e si allontanarono prendendo direzioni opposte. Luna invece non poté trattenersi dallo stupirsi di tali assurdi compiti. "Ma troveranno solo legno inzuppato come una spugna e acqua sporca di fango!" "Lo so! Ma sono troppo eccitati in questo momento, un po' di pioggia spegnerà i loro bollenti spiriti." La 'poca pioggia' continuò a martellare incessantemente per ore; sembrava che l'entrata della grotta che avevano scelto come rifugio fosse nascosta dietro ad una cascata tanto era spesso il muro d' acqua e assordante il suo scrosciare. I due immelici si aggregarono al gruppo solo poco prima dell'imbrunire e, naturalmente, non avevano con sé né legna né acqua. Arat osservò con rimprovero i due ma nonostante tutto non erano loro la causa del suo malumore: era Cablam ad infondergli un fastidioso senso di inadeguatezza. Eppure l'illusore nemmeno si avvicinava all'immelico; soleva rimanere in solitaria meditazione rintanato nella parte più profonda della caverna, ed era proprio questo che Arat non sopportava: il fatto che rimanesse al di fuori del gruppo e nello stesso tempo si ponesse al di sopra di esso. Non aveva alcun atteggiamento sospetto e non tentava di manipolarli eppure Arat (e forse anche gli altri) si sentiva intrappolato e pilotato. Quando Kib si avvicinò al suo maestro, richiamato da un ordine mentale, iniziò la lezione di illusione e la caverna si riempì di fiori profumati sbocciati direttamente sulla roccia e da vibranti farfalle multicolori che nascevano da una pozza di acqua scura.

"Ho visto altri illusori in vita mia, ma mai con tali capacità." Nella voce di Arat c'era comunque dell'ammirazione."Non avevo mai visto trasformare completamente un ambiente come ha fatto a Samas riuscendo a dare colori e movimenti perfetti ed addirittura suoni e profumi." "E' un vero artista." Pensò Luna a voce alta. "Però gli illusori non sono solo pittori e scultori di creazioni mentali. Possono plagiare la mente e costringere un uomo a vivere in un mondo di allucinazioni così devastanti da portarlo alla pazzia e alla morte." Luna non capì perché Arat l'avesse rimproverata così severamente e si sentì addolorata quando lo vide allontanarsi con un'espressione corrucciata. Aza allora approfittò per parlare da sola con lei. "Ti piace, vero? Intendo dire Cablam. Appena ti ho vista mi sei subito sembrata una con poca esperienza in fatto di uomini. Voi ragazzine siete pericolose; vi fate fregare da uomini belli e misteriosi e poi, una volta combinato il danno, andate a piangere sulla spalla degli amici." Luna scattò, ma la voce le uscì incerta tra le labbra tremanti. "Tu invece sembri una che ha molta esperienza in questo campo, devi avere iniziato molto presto per avere tanta dimestichezza." Si alzò e fece per andare via, ma Aza la prese per un braccio e la trattenne, non con violenza ma con fermezza. Lo sguardo dell'immelica non era altero e le parlò come potrebbe fare una sorella maggiore. "Esatto. Ed è per questo che mi devi credere se ti dico che quello è un uomo pericoloso e che non devi lasciarti conquistare da lui. Ricordati che questo non è un gioco e che qui si rischia la vita; le vite di tutti noi sono legate saldamente, che lo vogliamo o no, e lo sbaglio di uno si ripercuote su tutto il gruppo." Aza la lasciò andare e lei si allontanò isolandosi nel buio della grotta. Era furiosa, ma con sé stessa perché sapeva che la donna aveva ragione. Si sentiva impaurita dalla presenza di Cablam, ma tutto ciò che non si conosce fa paura. Ed era anche moto attratta da lui perché sentiva che voleva farsi conoscere. Il mistero? Certo il mistero che aleggiava attorno a quella figura vestita di nero la eccitava e la trascinava come un fiume in piena. Ma non c'era da stupirsi! Non

aveva forse abbandonato tutto quello che aveva di più caro al mondo per vivere una vita sconosciuta ed avventurosa? Molte cose erano cambiate e molte altre dovevano cambiare, era solo questione di scelte. Lei però non aveva ancora deciso se seguire la mente o l'istinto. Cosa poteva guidarla nella giusta direzione: la mente razionale incatenata a vecchi pregiudizi e a nuove paure o l'istinto impulsivo guidato da un potere che ancora non comprendeva fino in fondo? La risposta non giunse e molto tempo doveva trascorrere prima che Luna capisse che la risposta era sempre stata in lei. Quella notte il ato fece visita a Luna e prepotentemente entrò nei suoi sogni. Il luogo era uno strano assemblaggio di diversi posti che la legavano alla vita precedente (quando era uguale a tutti gli altri): aveva percorso la via che conduceva alla sua casa, ma una volta aperta la porta si ritrovò nell'atrio della scuola superiore che aveva frequentato; attraversata la soglia dell'aula entrò invece nel negozio di fiori nel quale aveva lavorato. Al centro della sala comparve una bara circondata da persone vestite di nero. Luna si avvicinò incuriosita ma spaventata perché temeva di sapere già quello che avrebbe visto. Infatti nella bara c'era lei, Narciso. Attorno la piangevano la mamma, il papà, il fratello e gli amici. Poi vide Ares, il suo amore acerbo che non sarebbe più potuto sbocciare; lui era l'unico che riusciva a vederla, a vedere Luna come era adesso. Le sorrise e una lacrima bagnò la guancia di Luna, ma forse era solo una goccia d'acqua caduta dal soffitto della grotta.

Il viaggio riprese alleggerito da una momentanea schiarita. Il timido sole intiepidì i cuori e un barlume di benessere coinvolse l'intero gruppo. Arat invece pareva perseguitato da una nuvola tetra: il suo persecutore (anche se non faceva nulla per esserlo) era Cablam e la sua aurea di indifferenza: pareva proprio che un dio l'avesse elevato al di sopra degli altri esseri umani (oppure che lui fosse superiore perché era un dio). Attraversarono valli e boschi e incontrarono piccoli gruppi di case dove assistevano sempre alla stessa scena: l'arrivo del gruppo di viaggiatori generava il panico, il fuggi-fuggi dei bambini e delle donne era immediato mentre gli uomini imbracciavano le armi e assumevano atteggiamenti minacciosi. Tutto questo era comprensibile visto che ogni giorno combattevano per sopravvivere agli attacchi dei Mutati e degli uomini che sfidavano anche la paura di questi

mostri pur di depredare i propri simili. Cadde la prima timida nevicata, segno che erano ormai giunti alle pendici dei Monti Kobit. Era ormai sera quando giunsero all'ultimo paese dove sopravviveva una minima forma di civilizzazione; dopo avrebbero incontrato solo boschi e neve ed infine il ghiaccio perenne. Nella taverna in cui trovarono riparo dal freddo, che incominciava a traare i pesanti ma ormai inutili mantelli, circolava di bocca in bocca una voce incredibile: la storia della morte di Deos. A molti parve assurda ma ad altri, presi dallo sconforto di come andavano le cose negli ultimi tempi, pareva l'inevitabile epilogo. L'uomo che aveva portato la notizia era giunto da Nord e l'aveva sentita raccontare da un anziano che aveva raccolto il messaggio di un falcoviaggiatore. La veridicità dell'informazione non era quindi controllabile ma in quei tempi non si poteva contare su altri sistemi se non quello per comunicare a lunghe distanze. Vere o false le notizie venivano diffuse, poi chiunque poteva decidere se crederci o meno: era forse una delle poche libertà rimaste. Il racconto era denso di particolari: le ombre più nere della notte forgiate da uno spirito maligno erano giunte da lontano per mettere in ginocchio la già agonizzante Deos; i neri mostri avevano incendiato il cielo e poi con un'unica zampata avevano fatto sprofondare la bianca roccia di Deos nelle profondità dell'Oceano di Kesho. Era rimasto solo un obelisco nero circondato dall'acqua blu, come una lapide a perenne ricordo della morte di un'intera città e al tempo stesso un monumento alla potenza delle Forze del Male. Luna non poté non credere al racconto visto che aveva assistito all'evento quando questo accadeva grazie al potere che ancora la legava a Lòren; vedendo lo sconforto che colse tutti e soprattutto i suoi compagni si convinse ancor di più di aver fatto la scelta giusta quando decise di non rivelare nulla quella volta, durante l'assalto dei Coinos. La presenza di facce nuove (i nostri viaggiatori) stimolò i più coraggiosi, che erano anche i più ubriachi, ad avvicinarsi al gruppo e a raccontare tutte le leggende che erano sorte intorno a quei monti. Si diceva che chiunque entrasse in quei boschi doveva essere preparato ad affrontare i numerosi branchi di lupi e, dopo aver trascorso notti insonni per la paura di attacchi di Mutati, doveva trovare la forza di scalare le ripide cime ghiacciate: lì non cresceva nemmeno un filo d'erba e chi riusciva a respirare quell'aria si trasformava in ghiaccio.

Molte altre leggende parlavano dei pericoli di quelle montagne, rafforzate anche dalle numerose morti e sparizioni; nonostante questo il mattino successivo Arat acquistò pellicce e viveri per affrontare la scalata, non prima però di aver combattuto contro le forti pressioni di Sador che voleva tornare indietro. La foresta, scura e impietosa, si rivelò subito inospitale agli occhi dei viaggiatori. Uno dei candù venne abbattuto perché si era rotto una zampa scivolando su una lastra di ghiaccio; una notte due candù, che si erano allontanati troppo dal fuoco dell'accampamento, vennero sbranati dai lupi. Col are dei giorni tutti i candù rimasti morirono per il freddo, ma anche se fossero sopravvissuti non avrebbero mai potuto galoppare lungo gli stretti sentieri di montagna dove a malapena riusciva a camminare un uomo alla volta. La marcia, rallentata ora a o d'uomo, era vivacizzata dalle liti di Sador e Gor: quest'ultimo, secondo Sador, aveva l'aspetto, l'atteggiamento e persino il pensiero, se mai ne avesse avuto uno, di un ghizon. Il sole calava presto nei boschi freddi ed austeri di quella regione: gli alberi neri dal tronco duro come la pietra sembravano ancora più oscuri nella penombra della sera: neri sacerdoti di una setta malefica, di giorno rimanevano immobili per fare avvicinare la preda ma di notte si rianimavano per rubare la vita alla vittima inconsapevole. Mentre le ombre si spegnevano in un uniforme grigio-azzurro che invadeva tutto il campo visivo, gli spettri del dubbio adombravano i pensieri di Arat. Il sole nero che generava questi oscuri presagi era Cablam. Più di una volta Arat aveva tentato, con giri di parole, di sapere qualcosa di più su di lui, ma senza alcun successo. Quella sera ci provò in modo più diretto. Sador stava pulendo dal pus una ferita che si era procurato durante lo scontro con i Coinos e che non si era ancora cicatrizzata (l'indebolimento del sistema immunitario era un'altra conseguenza dell'abuso di etas). Arat colse al volo l'occasione per entrare in argomento. "Tutti noi portiamo addosso i segni di quella lotta. Anche tu e Kib siete stati attaccati dai Coinos?" Cablam sollevò la testa, osservò l'immelico che si medicava e poi ritornò nella posizione iniziale. Dopo un po' si decise a rispondere, e lo fece come se fosse un grande piacere che concedeva ad Arat.

"No! Non siamo ati per la Valle Ululante, abbiamo raggiunto Samas seguendo la via diretta, sulla costa." "Allora eravate a Samas da molto tempo." "Siamo giunti il giorno prima di voi." Lo sforzo con cui Cablam continuava a rispondere al giovane capo era davvero irritante, eppure sembrava che tutti dovessero essergli grati per questa sua (seppur sofferta) disponibilità. "Impossibile! La strada per la costiera si perdeva in un abisso. Certamente opera di Cron." "Era una semplice illusione. Si vede che siete arrivati al bivio proprio mentre stavo istruendo Kib nell'arte di manipolare gli ambienti." La semplicità con cui pronunciò tali parole era sconvolgente, sarebbero sembrate le parole di un bambino innocente se non fosse stato per quei bagliori di ghiaccio che esplodevano nelle pupille nere come l'universo. Tutti reagirono in modo diverso quando il ricordo di quello che avevano ato a causa di quella 'semplice illusione' salì alla coscienza di ognuno. Aza si mise a giocherellare nervosamente con la punta del suo anaud, tanto che finì per ferirsi; Sador si diede dello stupido ghizon per essersi lasciato fregare come un principiante; Gor incominciò a prendere a pugni un albero; Arat cercò di trovare dentro di sé un luogo in cui la voglia di aggredire Cablam non avesse ancora preso piede. Perché reagivano in quel modo? Perché non si comportavano come era nella loro natura e non uccidevano l'illusore? La risposta era chiara: perché lo scoiattolo non attacca il lupo. Ognuno di loro sentiva che in una lotta contro quell'uomo sarebbero stati distrutti, anche se nessuno lo avrebbe ammesso apertamente. Al contempo l'idea di allontanarsi da lui non li rassicurava: non avendolo sotto gli occhi, avrebbero ato la vita a guardarsi alle spalle temendo una sua improvvisa e fatale comparsa. Tutto ciò accadeva in modo quasi inconsapevole nella mente dei guerrieri: l'istinto di sopravvivenza si impadronì di loro allontanando lo spirito battagliero. Luna si allontanò dallo sguardo indifferente di Cablam. Le era insopportabile respirare la sua stessa aria e non perché reputava mostruoso quello che aveva

fatto, ma per quello che era: ancora non sapeva quale universo si celasse dentro quel corpo umano, ma sentiva che era da lì che proveniva la pressione insostenibile che le schiacciava l'anima. Camminò tra gli alberi senza neppure guardare dove stesse andando; i suoi occhi non si accorsero che il giallo chiarore del falò si era ormai spento nel freddo blu della notte del fitto bosco. I pensieri di Luna si erano persi nella zona del cervello in cui vivevano i ricordi: rivide la morte negli occhi di Sargon, abbandonato sul selciato della strada che lungo la costa portava a Samas, e risentì la morte nel grido di battaglia dei Coinos. Il ritorno al presente fu brusco. La terra si scosse, la neve si sollevò come se il cielo che l'aveva generata l'avesse richiamata a sé ma ricadde subito ai piedi di Luna con un suono cupo. Di fronte a lei comparve, tra i cristalli di ghiaccio più leggeri che ancora aleggiavano, una palla di pelo bianca come la neve che le puntava contro un'ascia a due lame. La creatura incominciò a punzecchiarle le gambe con la punta metallica che sporgeva dal manico dell'arma, si muoveva rapidamente e nonostante l'aspetto era davvero agile. Parlava sommessamente, con la voce stridula come una porta arrugginita e ripeteva sempre la stessa tiritera. Luna, ripresasi dallo spavento, infine capì che sotto quella spessa pelliccia doveva esserci un Toblak; evidentemente era in perlustrazione nella zona e si era nascosto sotto la neve appena l'aveva vista arrivare. Questo incontro fu l'ultima goccia; il suo fisico e il suo equilibrio mentale non riuscirono più a sostenere il peso degli eventi e delle sofferenze che ogni avversità le causava. Oppressa fino all'insostenibile Luna si lasciò cadere sulle ginocchia e pianse come una bambina. Il tozzo ometto che le puntava allo stomaco la zita (ora riconosceva l'arma preferita dai Toblak) si sorprese di tale comportamento e si avvicinò alla ragazza abbassando l'arma. Luna parlò in perfetto Toblanos: le parole fatte di consonanti dure come la pietra, di accenti secchi come il ghiaccio che si spezza e di suoni taglienti come le due lame della zita, le scivolarono facilmente sulla lingua ed implorò: "Non farmi del male. Ho già tanto dolore dentro di me che, se non sentissi tanto male, dubiterei di non essere già morta." Lo stupore del Toblak fu ancora più grande: nessun esterno aveva mai potuto apprendere la loro lingua, poiché essi, nei pochi incontri con le altre razze, avevano sempre parlato in immnos. Si sedette allora di fronte alla strana ragazza e le mise sotto il naso un pezzo di radice di allosforo che aveva raccolto per

consumarlo come cena; intanto bisbigliava tra sé, dicendo di non essere proprio portato per certe cose e che la prossima volta che toccava a lui il turno di ricognizione si sarebbe rifiutato. Luna gli porse un pezzo di carne secca che si era tenuta in mano, senza accorgersene, quando si era allontanata dal campo (e da Cablam). La strana coppia, superata l'istintiva diffidenza, cercò riparo dal freddo nella tenda del Toblak, nascosta sotto la coltre di neve, ai piedi di un grosso albero. Il ricovero era scavato nel terreno. Il buco era poi stato coperto da un telo bianco che fungeva da volta: il calore si sprigionava dalla terra stessa e dal fiato degli occupanti; solo in casi di freddo estremo veniva un piccolo fuoco facendo però attenzione a non creare fumo. Il Toblak gradì molto la carne secca e non emise alcun suono finché non l'ebbe mangiata tutta. Questi uomini delle montagne vivevano in caverne nascoste nel cuore dei Monti Kobit, anche se nessuno sapeva dove di preciso. Spesso spedivano all'esterno degli osservatori per controllare ciò che accadeva; questi inviati potevano rimanere mesi interi nei gelidi boschi e riuscivano a sopravvivere cacciando piccoli roditori e scavando radici. E' inutile aggiungere che la Soppressione aveva toccato anche loro, ma non era sempre facile accettare la realtà delle cose e così gli abitanti delle montagne tentavano di vivere come avevano sempre vissuto per millenni. Tok, era questo il nome dell'osservatore, aveva la tipica fisionomia della sua gente: basso, tozzo e muscoloso. Aveva barba e capelli bianchi ma questo non era indice di vecchiaia nella sua razza, ed infatti Tok non aveva ancora superato la mazza età. Faceva lo scultore del ghiaccio, come suo padre, e faceva anche parte del Raduno dei Consiglieri dei Toblak, l'organo che governava la comunità. Nel tepore del rifugio e riscaldati dalla bevanda agrodolce (e decisamente alcolica) che stavano bevendo, i due chiacchierarono amichevolmente: Tok parlò del suo lavoro (come scultore) e dei suoi impegni (come consigliere), ma si soffermò soprattutto a parlare della sua famiglia. Raccontò, con un misto di orgoglio ed ironia, della strana tradizione che da generazioni si perpetuava nella sua famiglia per la scelta dei nomi dei nuovi nati: lui era Tok perché l'ostetrica ritardataria aveva bussato alla porta di casa proprio mentre lui emetteva già il primo vagito, ma aveva due fratelli che si chiamavano Tik e Tek perché al momento del parto cadde una goccia d'acqua nella bacinella di rame, per il primo, ed un monello ruppe una lastra di ghiaccio con un sasso, per il secondo. Aveva anche una sorella più piccola, Tak, il cui arrivo al mondo venne festeggiato da un ceppo nel caminetto che si ruppe per il gran calore.

Luna raccontò con semplicità delle sue due vite e dei suoi patimenti (soprattutto interiori); non si aspettava che Tok le credesse, non cercava di farsi comprendere e non voleva alcun appoggio da quello sconosciuto ascoltatore, ma fu un modo salutare per liberarsi da certe costrizioni. Tok rimase in silenzio ad ascoltare lo sfogo di Luna e pareva davvero comprendesse e condividesse le pene della ragazza. Infatti, quando Luna smise di parlare, gli occhi di Tok si illuminarono come il ghiaccio blu colpito da un raggio di sole, e concluse. "Anche noi Toblak abbiamo una specie di Feteh nella nostra tradizione. La leggenda narra di un guerriero forte e coraggioso quanto un Toblak, ma proveniente dal mondo esterno, che giungerà alle nostre montagne. Per la prima volta i Toblak si fideranno di un estraneo e lo seguiranno nella battaglia che porterà il popolo delle montagne a conquistare le terre a cielo aperto. Noi lo chiamiamo Karek, che è un nome sia maschile che femminile. Io credo di poterti aiutare, ma lo faccio solo perché tu potrai essermi d'aiuto. E' ora che i Toblak si rendano conto che Cron è anche un nemico della nostra libertà: per millenni abbiamo scelto di vivere nelle grotte delle montagne ma oggi, a causa dei suoi Mutati, non potremmo mai decidere di trovare un posto all'esterno in cui vivere. Inoltre temo che prima o poi Cron deciderà di dare il colpo di grazia al mio popolo che già da anni si è rinchiuso nella tomba di ghiaccio che è la nostra montagna." Così dicendo Tok uscì dalla tenda sollevando un lembo del telo: una nuvola di vapore, generato di loro respiri, uscì dall'apertura e si gonfiò nell'aria gelida. La luce del mattino entrò tagliando l'oscurità rinchiusa nel rifugio provvisorio e il freddo vento che scendeva dalle cime prese prepotentemente il posto dell'aria calda che li aveva protetti per tutta la notte. "Che cosa fai ancora lì dentro? Andiamo a cercare i tuoi amici, se non sono ancora scappati per la paura dei lupi e non sono morti di freddo."

Arat eggiava nervosamente cercando di non inciampare nelle pelli stese per terra che avrebbero dovuto servire da giaciglio, ma nessuno aveva dormito quella notte. A turno i quattro immelici si erano allontanati dall'accampamento per cercare Luna, senza alcun risultato. In quel momento Gor e Sador erano in perlustrazione e Aza si stava preparando per affrontare con Arat il turno successivo. Cablam e Kib erano come sempre in un mondo a parte.

"Buon giorno!" Il saluto di Luna venne del tutto ignorato e lei fu assalita da una raffica di domande. Il tono preoccupato di 'dove sei stata?' e 'come stai?' era intervallato dai più severi rimproveri 'sei stata una pazza!' e 'non farlo mai più!'. Quando Arat dovette prendere fiato, lei approfittò per interromperlo. "Vorrei presentarvi Tok." Luna fece un ampio gesto con il braccio, come per prendere il nuovo amico e spingerlo in avanti, ma con suo grande stupore non c'era più nessuno alle sue spalle. "Tok, dove sei?" A risponderle fu il fruscio di un basso cespuglio dalle foglie dure e appuntite, dal quale finalmente sbucò fuori la palla di pelliccia bianca. Questa volta il Toblak non si era coperto con il cappuccio e quindi si poteva vedere la sua faccia dalle guance tonde e rubizze. "Scusami Luna, è la forza dell'abitudine." Proprio in quel momento Sador e Gor fecero ritorno al campo base e furono molto sollevati nel vedere Luna ancora tutta intera (anche se una parte di loro aveva sperato che fosse misteriosamente scomparsa, così, come era apparsa). Tok parlò nella sua lingua e Luna tradusse per gli altri in immnos. Il Toblak spiegò che la sua gente viveva là dove il freddo non faceva più crescere i neri alberi alti come colonne ma non così in alto dove il freddo congelava il sangue nelle vene. Mai nessun appartenente alle altre razze era riuscito ad arrivare fino a loro, mentre i Toblak avevano accesso ad entrambi i versanti (Ovest ed Est) dei Monti Kobit: il segreto stava nel Ki, un traforo scavato da una parte all'altra del massiccio montuoso e che era anche il rifugio dei Toblak stessi. Tok promise che li avrebbe portati attraverso il Ki e che poi li avrebbe accompagnati fino a Bechestii, il paese di minatori che sorgeva proprio dove il bosco nero si confondeva con quello di latifoglie, dall'altra parte dei monti. "Però..." aggiunse poi scrutando con i suoi occhi di cielo i luoghi più intimi delle anime che gli stavano di fronte, "Prima di arrivare nel cuore della montagna, nella nostra casa, dovrò bendarvi. Voglio che in nessun modo, neppure costretti contro la vostra volontà, possiate ritrovare l'entrata per il nostro mondo."

Le ore si susseguirono uguali le une alle altre: anche il paesaggio era statico: Luna non riusciva a capire come fe Tok a seguire il sentiero coperto di neve fresca tra gli alberi quando tutto, attorno a loro, era neve inviolata e alberi uguali gli uni agli altri. La montagna si inerpicava verso il cielo, il terreno era sempre più ripido ed era sempre più faticoso muovere le gambe che continuavano ad affondare nella neve. Improvvisamente il bosco scomparve e sul manto bianco e intonso comparvero rari e scarni cespugli; tutto era ricoperto di cristalli di ghiaccio che brillavano degli ultimi raggi del sole. Ad un certo punto Tok si fermò; per Luna e gli altri era un punto qualsiasi, non diverso da quello che lo precedeva o da quello che lo seguiva, ma per la loro guida quello era il punto cruciale: legò ad un'unica corda i componenti del gruppo e li bendò, poi si rimise a capo della fila e la trascinò nella giusta direzione. La cordata proseguì molto lentamente: Gor sbuffava perché non gli piaceva dipendere da qualcuno (che neppure conosceva) mentre Sador continuava ad inciampare goffamente nei suoi piedi. Arat teneva Luna per mano, per essere sicuro che non le accadesse nulla e soprattutto per strattonarla quando rallentava il o. Luna sentiva il calpestio frettoloso ed incerto di Kib, che era subito dietro a lei, ma la sua attenzione era irrimediabilmente attratta dal o sicuro di Cablam: anche lui era stato bendato ma pareva potesse vedere la strada quanto il Toblak. L'aria divenne leggera, insufficiente per ossigenare i polmoni. Un senso di angoscia e di soffocamento (acuito anche dalla mancanza di libertà nei movimenti) colse tutti di sorpresa: qualcosa era cambiato, ciò che li circondava era cambiato, non affondavano più nella neve ed il terreno solido che stavano calpestando incombeva anche sulla loro testa. Dovettero accucciarsi e risalire il cunicolo usando anche le mani altrimenti si sarebbero feriti con gli spuntoni di roccia che frastagliavano le pareti del piccolo tunnel: questo almeno aveva consigliato Tok e nessuno aveva intenzione di controllare la veridicità dell'informazione rischiando un trauma cranico. Ancora bendati, potevano affidarsi solo all'udito ed al tatto. Luna sentì i i di Tok farsi meno forzati e le sue mani sfiorarono un pavimento liscio ed orizzontale: non servì che Tok dette il permesso di alzarsi; la sensazione di stare in un luogo ampio accomunò tutti i componenti della cordata. L'aria era meno gelida ed aleggiava un vago profumo di resina, di legno e di muschio. Quando si tolsero le bende rimasero ciechi ancora per qualche istante, poi gli occhi si adattarono alla nuova oscurità, ma non abbastanza da dare un significato alle ombre che vedevano.

"Siamo nel Ki, dentro la montagna. Ora è tardi, vi ospiterò a casa mia e domani discuteremo con calma."

***

Cron continuava a fissare l'orizzonte. La linea di confine tra l'oceano e il cielo era nettamente segnata da una zona nera; pareva quasi che un terzo elemento, di spessore infinitamente sottile ma vasto come l'intero pianeta, avesse preso posto là dove mai vi era stato altro che acqua e aria. Non era del tutto sicuro che fosse solo un'illusione ottica; era quasi una presenza aliena: non apparteneva a quel mondo ma non gli era del tutto sconosciuta. Forse era solo la stanchezza che cominciava a rivendicare il suo diritto al sonno. Erano infatti parecchie notti che non riusciva a dormire: la tensione che lo elettrizzava sempre quando studiava un piano questa volta era accentuata dall'entusiasmo di avere presto Luna sulla sua isola. Eppure non era solo questo, c'era un senso lieve ma grave di malessere che stonava con le certezze che aveva; lo conosceva ma aveva paura di dargli un nome perché temeva di evocarne le reale presenza. Katrisha era distesa sul divano di velluto rosso, la finestra che aveva catturato l'interesse di Cron si trovava sulla parete opposta. Sebbene la luce la illuminasse in tutto il suo splendore lui non l'aveva neppure guardata. La mutata stava mangiando dell'uva: staccava con le dita bianche gli acini dal raspo che teneva in grembo e lo portava lentamente alla bocca: i denti perfetti schiacciavano l'acino che le spruzzava il suo succo zuccherino sulle labbra. Katrisha era annoiata. Annoiata ed insoddisfatta: non riusciva più a smuovere gli istinti del suo amante. Sebbene fosse stata creata secondo i gusti del suo creatore da molto tempo lui non provava più alcun interesse nei suoi confronti. Anche la sua semplice mente di Mutata comprendeva che la colpa non poteva essere che di Luna e promise a sé stessa che l'avrebbe uccisa appena la sua rivale avesse messo piede a Lubra. Non aveva paura della vendetta di Cron anche perché i Mutati, come i bambini piccoli, non avevano il senso del futuro e soprattutto delle conseguenze che ogni azione comporta. Intanto scrutava il suo padrone e creatore ma non ritrovò l'uomo che sogghignava di piacere sentendo i vagiti disperati dei neonati plagiati dall'Acqua di Rasia. Ciò che vide fu un piccolo uomo con una grande ombra alle spalle: era l'ombra del padre che teneva una mano tesa sopra la testa del figlio,

pronto a schiacciarla come un acino d'uva. In quel momento irruppero nella stanza i marescialli. Erano gli stessi che tempo prima erano salpati alla volta di Samas e che avrebbero dovuto condurre con loro Luna: avrebbero dovuto, ma la ragazza non era con loro. Il capo della brigata non perse tempo e, sebbene palesasse la paura di affrontare l'argomento, parlò subito del loro fallimento. "Brutte notizie, purtroppo. Luna non è partita da Samas con la nave che le avevamo messo a disposizione." Cron non parlava e il suo sguardo non suggeriva nulla di quello che provava in quel momento. Era furente ma non poteva dire di essere stupito, aveva presagito che non tutto era al giusto posto. "Ci siamo confusi con gli altri marinai e il Mutato che già si era infiltrato nell'organizzazione di Gabrin si era presentato come il capitano del vascello. Abbiamo eseguito gli ordini alla lettera: non ci siamo resi subito disponibili al primo contatto con il gruppo ed abbiamo contrattato il prezzo. Poi l'accordo è avvenuto e..." "Non raccontarmi quello che è andato come io avevo previsto, dimmi piuttosto cosa avete sbagliato!" Il maresciallo rispose con un tremito nella voce. "L'imprevedibile è accaduto. Una tempesta di inaudita violenza si è scatenata proprio la sera prima della partenza ed ha bloccato il porto per alcuni giorni. Il nostro vascello ha riportato danni... " "Avete atteso troppo e la Stagione delle Tempeste è iniziata! Invece di parlarmi del vascello dimmi cosa è accaduto a Luna, se sai almeno questo." "Perdonate l'ardire, ma non è così che è andata. Dopo che la prima tempesta si è calmata subito iniziarono i sintomi che preannunciavano l'arrivo della seconda. Questo ha spinto Arat, il capo che guida il gruppo di Luna, a tentare la scalata dei Monti Kobit invece di rischiare di fermarsi a Samas fino alla fine della stagione. La cosa strana è che appena il gruppo di Luna aveva raggiunto una certa distanza dal porto il maltempo è cessato, infatti noi abbiamo potuto riparare la nave. Abbiamo chiesto informazione agli altri marinai e nessuno riusciva a

spiegare il fenomeno, non era mai accaduto in tutta la storia di Samas. Appena il vascello è stato in grado di partire abbiamo preso il largo in direzione di Lubra, appena in tempo per sfuggire alla prima vera tempesta della stagione." Cron rimase in silenzio ma questa volta non vi era traccia di rabbia nel suo cuore, con un gesto congedò i Mutati e con loro si allontanò anche Katrisha. Pareva fuori luogo la tranquillità che l'aveva colto, ma per chi aveva compreso era invece l'unica conseguenza possibile. Cron aveva capito che la bufera che aveva distrutto il suo piano e costretto Luna a cambiare direzione era stata creata ad arte da suo padre. Era difficile ammetterlo ma lui era potente; Cron non poteva più negare che anche suo padre fosse entrato a far parte della storia di Luna e che le sue prossime mosse dovevano essere concepite in modo da rispondere ad ogni possibile sabotaggio. Ormai non si poteva più tentare di raggiungere Luna facendo ritorno a Samas e seguendo il suo percorso verso le montagne, doveva attendere e sperare che lei fosse abbastanza forte da superare le avversità. Avrebbe tentato di rapirla in un momento più propizio. Cron si perse di nuovo a fissare l'orizzonte e in quella linea nera, sottile come un capello, riuscì a scorgere tutti i pericoli che Luna avrebbe dovuto superare per sopravvivere: le ombre che conosceva erano quelle dei suoi Mutati, creati per distruggere ogni essere vivente e incapaci di riconoscere in Luna l'elemento diverso che lui tanto desiderava. L'avverrebbero attaccata con l'intento di ucciderla. Ma le presenze più oscure erano senz'altro quelle create da suo padre: da quelle era difficile difendersi visto che nessuno poteva conoscerle. "Sarà un lungo viaggio, ma alla fine sarai mia."

***

Luna sognò Lòren, ancora. La madre aveva l'aspetto di quando la partorì, ma il suo spirito era segnato dalle cicatrici che avevano ucciso la città di Deos. I capelli sembravano più scuri, bagnati com'erano dalla pioggia; anche il viso era bagnato e le gocce di pioggia si mescolavano alle lacrime amare che scendevano dagli occhi sempre più viola. "La tempesta si è scatenata, ma la pioggia non scivola sui neri specchi dell'Olaf e

il fulmine non si riflette moltiplicato sulle torri del Palazzo di Deos. C'è solo l'immenso oceano gonfio delle lacrime di tutti i Deoscuridiani. Un unico monolito è tutto ciò che resta di una potente città, l'elsa del pugnale conficcato nel cuore della Famiglia. Deos è morta per darti più potere, usalo! Tu puoi controllare gli elementi e gli uomini, perché continui a farti gestire da loro invece di servirtene e guidarli? Ancora una volta sono venuta a ricordarti il tuo compito." Il rimprovero e la freddezza con cui Lòren lo disse le gelò le ossa in corpo più del vento che soffiava nel bosco nero. Luna si svegliò tremante sotto le coperte di pelliccia, eppure era sudata. Scostò le coperte dal viso per respirare meglio e per vedere bene dove si trovasse: da quando era giunta a Solamia aveva sempre difficoltà a riconoscere al risveglio la stanza che aveva visto prima di addormentarsi: non era sempre certa che si trattasse di realtà o di visione e molte volte si stupiva ancora di non trovarsi a casa, in ritardo per andare al lavoro. Quella sera aveva dormito con Aza e Cì, la figlia minore di Tok (qualcuno doveva aver starnutito quando era nata), ma ora era sola. Era sicura di essere sveglia eppure la stanza appariva diversa da come la ricordava. Il letto era nella stessa posizione e l'armadio era dove l'aveva visto ieri sera, neppure i quadri erano stati spostati. No, era l'aria che era diversa, o per meglio dire l'atmosfera... forse. La luce! Sull'intelaiatura della finestra era stata tesa una pelle rasata, sottile come un foglio di carta e semitrasparente. Ma la luce che la rischiarava non poteva essere quella del sole (visto che erano in una caverna) e non era neppure quella delle torce. Incuriosita, si alzò dal letto caldo trascinandosi dietro la pelliccia per coprirsi, camminò scalza sul tappeto di pelo maculato e aprì la finestra. Quale meraviglia! Luna venne investita da raggi di luce rossa, blu, verde, gialla, viola. Tutto il Ki, le pareti di roccia, le costruzioni in legno e tutta la gente era iridata da questi raggi colorati. Luna sollevò lo sguardo e trovò la spiegazione al fenomeno. Il Ki era scavato nella grigia roccia ma la sua volta era trasparente: l'intera vetta della montagna era un enorme blocco di cristallo. La superficie esterna (ad una altitudine tale che nessun uomo aveva mai raggiunto) era così liscia che la neve non vi attecchiva. In questo modo i raggi del sole incontravano il cristallo e lo penetravano: i prismi, che ne costituivano la struttura, scomponevano la luce bianca nei colori dell'arcobaleno. Il Ki, fatta eccezione per la sua inimitabile fonte di illuminazione, ricordava molto la Grande Via che attraversava il sottosuolo di quella che una volta era stata Deos. L'ampia zona centrale era occupata da una serie di costruzioni di

legno dalla semplice struttura a cubo: era la zona comune. Le abitazioni erano invece scavate nelle pareti di roccia. Di fronte ad ogni casa c'era un giardino recintato, ma gli alberi e gli animali erano tutti di ghiaccio. Era Tok il mastro scultore e tutte le stupende opere che abbellivano in Ki erano opera sua. Durante la lunga notte ata nel bosco Tok aveva parlato con orgoglio del suo lavoro e aveva spiegato a Luna che per la sua gente quelle statue erano più che un semplice ornamento: erano simboli della maestria di piccoli uomini di fronte alla potenza della natura, erano dei monumenti alla dignità del popolo che era capace di vivere là dove la terra aveva posto limiti maggiori alla sopravvivenza. Luna si rivestì in fretta e scese le scale di legno; al primo piano incontrò Batì che era molto occupata in cucina ma non si fermò ed entrò nella bottega di Tok, al piano terra. L'uomo era indaffarato attorno ad una scultura. La figura che usciva dal blocco di ghiaccio era ancora grezza, ma già si riconoscevano le forme femminili strette in un'armatura dalle maglie a squama di serpente. Luna era in difficoltà, non voleva disturbare l'amico ma voleva che la sua intrusione venisse scoperta; l'imbarazzo glielo tolse Tok stesso che con una sola occhiata le diede il permesso di curiosare. L'attenzione di Luna si spostava dagli attrezzi di lavoro alle sculture già finite e in attesa di essere ritirate, dai progetti scarabocchiati di opere future ai blocchi di ghiaccio che si mantenevano intatti (oltre che per le basse temperature) grazie al rivestimento di corteccia secca degli alberi della foresta. Luna si divertiva molto. Quando aveva raggiunto Tok aveva supposto che il Toblak volesse parlarle di come intendeva aiutare lei ed i suoi compagni e dei dettagli per il viaggio. Doveva ammettere però che non sentiva assolutamente il bisogno di discutere dell'argomento: si trovava bene lì e non aveva fretta di andarsene. Forse era per l'aria familiare che si respirava in quella casa oppure per il modo in cui Tok le parlava. Non sapeva perché, ma era la prima volta che Luna si sentiva al sicuro e che si sentiva accettata: nessuno le aveva chiesto di dimostrare la sua identità e soprattutto non l'avevano messa alla prova. Lei era lì, mangiava con loro, dormiva nei loro letti e nessuno si sentiva minacciato dalla sua presenza. Non avvertiva più il bisogno di proseguire il viaggio perché le sembrava di essere a casa e si sentiva perfettamente a suo agio, come se fosse sempre vissuta lì. Tok fece una pausa e bevve un decotto fumante insieme a Luna. Neppure in

questa occasione si parlò della partenza. Poi il Toblak le riferì che i suoi figli, i gemelli Tandau e Borto, avevano accompagnato Arat, Aza, Sador e Gor dall'armaiolo per riparare e affilare le armi, mentre Kib era rimasto solo con sua moglie Batì. Non pronunciò il nome di Cablam (che era sicuramente scomparso con un'illusione) rivelando così quanta poca affinità il piccolo uomo avesse nei confronti di tale scomodo individuo. Lei non aveva chiesto loro notizie: quando non li aveva visti in casa aveva quasi sperato (per un frazione di secondo) che se ne fossero andati lasciandola lì. Avrebbe dovuto sentirsi responsabile, dopotutto il viaggio era iniziato a causa sua. Ma non poteva fare a meno di pensare egoisticamente solo a sé stessa e al piacere che provava a stare vicino ad un persona semplice e buona come Tok. Lui soddisfava la bambina che era ancora in lei e nello stesso tempo scacciava lontano spiacevoli ricordi: l'abbandono della famiglia e la sgradevole sensazione di essere ancora fuori posto. Luna sapeva che non poteva tornare indietro ma non riusciva a smettere di sognare di potersi fermare nel Ki, per sempre. Tok terminò il suo lavoro nel pomeriggio. Luna si avvicinò alla scultura ormai completata e osservò estasiata le premure che Tok rivolgeva alla creatura di ghiaccio: le dita tozze dello scultore accarezzavano i lineamenti del viso gelato per sciogliere, con il calore del sangue, le ultime minuscole imperfezioni. "Sei tu, Luna. Ho voluto unire la dolcezza del tuo volto alla forza del tuo sguardo, il tuo spirito risoluto è racchiuso in questo blocco di ghiaccio trasparente." La ragazza, a bocca aperta senza riuscire a parlare, riconobbe i propri lineamenti sul viso della donna algida che le stava di fronte, ma non era certa che la forza e la determinazione che affioravano da quel gelido essere appartenessero anche alla copia in carne ed ossa. Quella statua era fiera di essere la Feteh (o Karek per i Toblak), ma Luna non riusciva a comprenderne il perché. "La metterò in giardino, sul piedistallo di pietra, perché tutti possano vederla. E a quelli che mi chiederanno spiegazioni dirò: 'è colei che porterà il popolo delle montagne fuori dalla sua tomba e gli donerà la fetta di cielo che gli spetta. Lei porterà Solamia alla vittoria e sgominerà le armate dei Mutati; farà tutto questo senza domandarsi se le vite che salverà sono di Famiglia nobile o dei piccoli Toblak, perché lei vuole salvate tutti.' Dirò loro che tutti noi dobbiamo unirci alle genti di Solamia per aiutarci a vicenda contro il nostro vero e unico nemico,

Cron. Proprio come hai detto tu la notte che ci incontrammo. Non so se il mio popolo crederà alle parole che dirò così come io ho creduto alle tue, ma ti prometto che farò tutto quello che posso per far conoscere la tua storia da una pendice all'altra dei Monti Kobit." Solo sentendo le parole di Tok, Luna si rese conto di quello che per gli altri era il messia, colui che porta la speranza e la conoscenza, colui che guida il popolo al fine di liberarlo: allora lei seppe che doveva essere fiera di incarnare tutto ciò e che doveva essere la Feteh (e crederci veramente) non per sé stessa ma per tutti gli altri, per coloro che avrebbero beneficato della sua presenza. Luna abbracciò il piccolo uomo, non trovando altro modo per ringraziare quello sconosciuto che credeva in lei. Improvvisamente Luna venne avvolta dal profumo delle spezie e degli unguenti celati nelle tasche del 'suo' mantello. Tok, stretto nell'abbraccio di Luna, si irrigidì e lei si voltò sicura di incontrare gli occhi di Cablam. L'amico Toblak non provava molta simpatia per quell'uomo: a dire la verità nessuno poteva sopportare la sua indifferenza e il suo essere al di sopra di tutto. Però l'illusore aveva uno strano potere su Luna, riusciva a spaventarla e ad attrarla nello stesso tempo, e, conscio di questo, riusciva sempre a tenere vivi in lei entrambi gli stati d' animo. Cablam era sfuggente almeno quanto era opprimente; per tutto il viaggio i momenti in cui non rivolgeva neppure uno sguardo a Luna si alternavano ad altri in cui si avvicinava così tanto da sembrare che volesse soffocarla contro il suo petto. La faceva tremare sfiorandole (per caso?) la mano e le faceva vacillare la mente solo con il soffio del suo respiro, poi si allontanava lasciandola sola con i dubbi che lui aveva seminato e con le speranze che ogni giovane donna porta dentro di sé. Come era entrato nella bottega così Cablam ne uscì, nel gelo del silenzio che sempre lo circondava. La notte arrivava bruscamente nel Ki. Quattro ombre si raccolsero in una stanza mentre dalle altre camere della casa si udivano gli inconfondibili respiri di chi sta già dormendo profondamente. "Non mi fido di lui!" "Lo so, Aza. Anche a me non piace Cablam. E poi il suo ingresso nel nostro gruppo sembra così poco casuale. Forse è una spia di Cron." "Credi che sappia di Luna?"

"Non lo so. Ma se la storia della Feteh è vera, Cron non la lascerà arrivare fino a lui." Mentre i due parlavano Sador e Gor rimanevano in silenzio ai lati della porta, in attesa degli ordini che sarebbero presto nati da quella discussione. Infatti. "Gor, Sador. Non serve spaventare Luna per niente, non le diremo nulla ma noi dobbiamo impedire a Cablam di avvicinarsi a lei. Non devono mai rimanere soli. Un'altra cosa: lui ogni tanto scompare, bisogna scoprire dove va. Cerchiamo magari di sapere qualcosa di più dal ragazzino. Tu Aza potresti fare gli occhi dolci a Cablam per vedere se riesci a sciogliergli un po' la lingua… sarà un illusore ma è pur sempre un uomo." "Forse, ma se lo è credo che apprezzerebbe di più la corte di Luna. E credo che anche lei ne sarebbe contenta." Arat non gradì la puntualizzazione di Aza. Non poteva credere che una dolce ed ingenua ragazza come Luna potesse sentirsi attratta da quel mostro oscuro. Decise che l'avrebbe protetta ad ogni costo. "Perché non lo uccidiamo e basta?" La domanda di Sador per una volta aveva una certa logica, ma anche Arat aveva la ragione dalla sua parte. "Perché ora che lo conosciamo come un possibile pericolo possiamo anche difenderci da lui. Se lo uccidessimo verrebbe qualcun altro al suo posto, ma noi saremmo in svantaggio perché non conoscendo la sua faccia non potremmo controllare le sue azioni." La spiegazione era troppo contorta e Gor e Sador si accontentarono di eseguire semplicemente gli ordini di Arat. La riunione segreta si concluse e, silenziosamente, ognuno di loro fece ritorno nella propria camera.

Tok entrò in cucina sbuffando, si sedette sulla sua poltrona e piegò la faccia in una smorfia contrariata. Sua moglie Batì lo aiutò a sfilarsi i pesanti stivali e prima di infilargli le pantofole con la pelliccia interna gli massaggiò amorevolmente i piedi indolenziti.

"E' da non credere!" Tok era proprio infuriato."Pensa che al Raduno dei Consiglieri mi hanno minacciato." "Chi?" "Quasi tutti i miei colleghi! Dicono che meriterei di essere espulso dalla comunità perché ho messo a repentaglio la vita di tutti portando nel Ki quegli stranieri. " "Ma hai preso tutte le precauzioni possibili, non riuscirebbero mai a tornare nel Ki senza la tua guida." "La verità è che stanno cercando una scusa per non rispondere all'appello di Luna. Ormai si sono così abituati a vivere rinchiusi qua dentro che si sono dimenticati di quello che hanno perso là fuori. Ricordi le belle eggiate che si facevano in mezzo al bosco? La raccolta delle radici era una festa da godere con i bambini mentre ora occorre una spedizione di uomini forti perché ci sono troppi pericoli. Uscire nel mondo esterno era un piacere, oggi invece i pochi che escono dal Ki si aggirano guardinghi tra gli alberi, gli stessi alberi che portano incise sulle cortecce le iniziali delle coppie di innamorati. Ci sono anche le nostre, Batì, ma temo che i nostri figli non potranno mai sperare di segnare il proprio albero. Che cosa è successo al popolo delle montagne? E' capace solo di aspettare che il male che c'è là fuori penetri le nostre difese e scorrazzi selvaggiamente per il Ki depredandoci delle nostre vite! Perché è questo il nostro destino se continueremo a rimanere immobili, senza reagire ai cambiamenti. Forse, però, se dal mondo esterno può giungere la morte allora, da quello stesso mondo, può anche giungere la cura a questa minaccia. Sarebbe la nostra salvezza, ma sembra che tutti i Toblak siano già morti e che non se ne siano ancora accorti." "Non rimproverare così severamente i tuoi colleghi. Anche a me non piace l'idea di questa famigerata Grande Battaglia. Luna non è come noi e non credo... " "Anche in casa mia devo sentire queste sciocchezze! Credi veramente che questa che facciamo sia vita? Il nostro amato Ki è diventato semplicemente una bara in cui il nostro spirito si corrompe prima del corpo: non serve aspettare che i vermi ti mangino le carni per essere defunto, basta che tu smetta di sperare." "Forse se parlassi al Raduno dei Consiglieri... Potrei riuscire a convincerli."

La voce di Luna intervenne con modestia, ma anche con grande sicurezza. Le parole di Tok l'avevano commossa: l'impegno che si era preso, di sua spontanea volontà, le aveva fatto riflettere sull'atteggiamento che lei aveva assunto da quando era entrata nel Ki. Non aveva il diritto di distruggere una cosa che non era solo sua: i Deoscuridiani le avevano salvato la vita perché potesse ritornare; Sargon aveva sacrificato la propria vita per difenderla; i suoi compagni avevano votato le loro vite ad una missione che aveva più le caratteristiche di un viaggio della speranza, l'ultima speranza. Ma non fu questo a donarle la sicurezza che non aveva mai avuto: solo il pensiero di poter dare a Tok il futuro migliore che meritava l'aveva convinta a continuare la difficile strada che il destino aveva segnato per lei.

I Consiglieri erano seduti su pellicce distese per terra. Non vi era tra loro un capo: tutti avevano lo stesso potere. All'interno del circolo chiuso che formavano intorno al tranquillo falò avevano accolto anche Luna. Al suo fianco c'era il fiducioso e paterno Tok. "Che cosa vuoi da noi?" La domanda era stata posta da un Toblak che fumava la pipa. "La domanda da fare è che cosa volete voi!" Luna parlava un Toblanos perfetto, secco e diretto, senza giri di parole. Senz'altro la lingua facilitava l'espressione di concetti forti e decisi ed anche il suo tono di voce pareva più saldo di quanto non fosse in realtà. "Noi vogliamo vivere in pace e trasmettere le nostre tradizioni ai figli e ai figli dei nostri figli." "Se volete tutto questo dovete combattere contro Cron, insieme a tutte le forze di Solamia." "Noi siamo al sicuro nel Ki, perché dovremmo morire per aiutare gli abitanti del mondo esterno?" "Cron arriverà anche qui."

I Consiglieri si guardarono lanciandosi occhiate che schernivano l'affermazione di Luna. Lei non se ne curò e proseguì: "Non dovete credervi irraggiungibili e perciò imbattibili. Le ombre hanno annegato Deos e faranno lo stesso con tutta Solamia." "Deos era scoperta. Il potere che in ato l'aveva resa forte è scomparso da molto tempo e nulla la proteggeva più. Noi non abbiamo Dei capricciosi sopra di noi; il Ki ci proteggerà sempre perché è stata la forza delle nostre mani a crearlo." Allora Luna chiuse gli occhi per veder meglio e la sua bocca descrisse ciò che i Toblak non volevano conoscere. "Avverrà in un giorno non diverso da tutti gli altri, in un giorno come questo. La luce danzante che invade il Ki si trasformerà in immobile oscurità. Poi il cristallo che funge da cielo si infrangerà e il buio penetrerà nel Ki e in tutti voi." La premonizione di Luna si avverò nello stesso momento in cui smise di parlare, come se la catastrofe attendesse solo di essere annunciata per avverarsi. Le finestre della sala dei Consiglieri si spensero. Il più emotivo dei presenti ruppe il cerchio e uscì per osservare meglio: il cristallo trasparente che sovrastava il Ki era nero come la notte, anche se qualche istante prima risplendeva la luce del sole. La paura attraversò i cuori dei Consiglieri che erano tutti usciti dalla sala; sembravano quasi in attesa di vedere se delle ombre assassine avrebbero preso corpo dagli spuntoni di roccia. L'eclissi, provocata dal potere a cui solo Luna poteva attingere, si dileguò in fretta lasciando il sole come protagonista indiscusso del cielo mentre il Ki si riaccese pieno di colori. "Dopo la paura non ci sarà che morte e distruzione." Luna se ne andò lasciando dietro di sé sgomento e incertezze.

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CAPITOLO 10

Tok fece ritorno a casa molto tardi: il Raduno dei Consiglieri si era animato dopo l'uscita di Luna. La ragazza era in cucina e stava sbirciando la zuppa che sobbolliva allegramente sul fuoco. "Cara ragazza, sei più potente di quanto credessi." Batì si allontanò dal fuoco e si inginocchiò ai piedi di Tok per levargli gli stivali. "I Consiglieri non hanno deciso ancora niente, ma ne stanno parlando e questo è un ottimo segno. Sarà una lunga e difficile discussione, ma alla fine sono certo che accetteranno di uscire da questo guscio." Luna sorrise, poi assaggiò la zuppa piccante di Batì. Non aveva intenzione di abbandonare queste persone, le avrebbe portate con sé, nel cuore, e avrebbe cercato di difenderle. Nello stesso momento si sarebbe sentita protetta dal bene che Tok continuava a riversare su di lei. Alla partenza del gruppo tutta la famiglia di Tok venne a salutarli elargendo larghi sorrisi e sventolando le piccole mani; un sentimento meno amichevole accompagnò il loro attraversamento del Ki: molti uomini uscirono dalla propria casa impugnando la zita con aria minacciosa. Ma la stima che provavano per Tok, che camminava fiero e sicuro in testa al gruppo, calmava gli animi dei Toblak. Il Ki, alla metà della sua lunghezza, si stringeva notevolmente e dell'immensa grotta non rimaneva che un sottile budello. La comitiva percorreva in fila per uno il buio scavato nella roccia; lì non c'era il soffitto di cristallo ed avevano solo la fioca torcia che Tok teneva in mano come guida. Camminarono tutto il giorno e giunsero ad un piccolo slargo al calare della sera. Nessuno sapeva come fe Tok a contare il tempo senza nessun punto di riferimento, ma non ci furono discussioni: fuori faceva troppo freddo, avrebbero dormito lì e sarebbero usciti il mattino seguente. Un sonno pesante colse i viaggiatori, un sonno senza sogni e senza preoccupazioni. Ma non per Luna. Lei non riusciva a prendere sonno, sentimenti troppo forti la tormentavano e si amplificavano ogni volta che chiudeva gli occhi. Ora che era il momento di agire, ora che doveva mettere in pratica i buoni

propositi che si era prefissata, proprio ora aveva paura. Aveva timore di uscire dal Ki e di ritrovare quell'ostilità e quei pericoli che l'avevano fatta rifugiare nella calda comprensione che aveva trovato in Tok. E fu ancora una volta lui ad aiutarla. Forse non aveva capito quanto fosse pesante il fardello che Luna doveva reggere e forse non comprendeva appieno i valori che Luna doveva difendere. Ma Tok era un uomo semplice e sapeva che chi era debole doveva essere aiutato e chi era insicuro doveva essere rassicurato. Seguendo queste pure leggi di natura il Toblak si avvicinò senza fare rumore. Nemmeno Arat, sempre al fianco di Luna, si accorse della sua presenza. Come qualunque padre, anche lui aveva la soluzione ai problemi di Luna celata in una tasca della giacca. "Questo è un pezzo del cristallo che fa brillare il Ki. Lo voglio dare a te, spero che ti possa aiutare ad andare avanti per la tua strada. Qualunque essa sia. Non è un regalo o un pegno, quindi lo puoi regalare, vendere o gettare via. Serve solo a ricordarti di noi, popolo delle montagne, e della promessa che ci hai fatto: della speranza di salvezza che ci hai donato. Quando sarai finalmente sicura di chi sei e di quello che fai allora non avrai più bisogno di questo sciocco feticcio." Luna prese la pietra e, senza dire una parola, la nascose in una tasca del mantello di lana che indossava sotto la pelliccia. Si distese su un fianco e sentì lo spigolo del cristallo pungerle il costato: la calma che le infondeva quell'oggetto e la stanchezza fisica la fecero finalmente addormentare. Il luogo in cui avevano riposato era ancora buio (il buio non abbandonava mai quel luogo) ma l'esperienza diceva a Tok che fuori, oltre la spessa parete di pietra, l'alba già si stemperava nel cielo. I viaggiatori vennero nuovamente bendati e legati come la prima volta che erano entrati nel Ki. Anche se non potevano vedere era facile percepire che il cunicolo scendeva ripido e che alla fine sboccava all'esterno dove il vento sferzava con violenza i loro corpi. Tok sciolse i nodi della corda e delle bende solo dopo aver raggiunto il limite dove gli alberi dal tronco nero riuscivano di nuovo a crescere. Dietro a loro c'era solo qualche rado cespuglio e la neve: Tok, durante il cammino, aveva più volte fermato la cordata per cancellare le impronte lasciate sulla neve; nessuno sarebbe riuscito a ritrovare l'entrata segreta per il mondo dei Toblak. Di fronte a loro si estendeva il bosco nero: era del tutto simile a quello che avevano attraversato sul versante Ovest dei monti. Sembrava proprio che il Ki e il suo cielo dai colori dell'iride fossero stati nient'altro che visioni di un sogno comune.

Dovettero dormire una notte nel rifugio scavato nel terreno da Tok, protetti dai lugubri ed alteri alberi, prima di giungere a Bechestii. Luna, avvolta nella pelliccia, come sempre non riusciva a prendere sonno; prima di arrivare a Solamia non aveva mai sofferto di insonnia. Al contrario, era una vera dormigliona, ma forse era questo il prezzo da pagare per raggiungere la vera consapevolezza di sé. Il vento ululava ando tra le fitte colonne arboree di quel tempio creato dalla natura. Dopo un forte crescendo il verso si spense, come se la poderosa bestia che lo emetteva dovesse riprendere fiato prima di proseguire. Infatti ricominciò, ma fu un vero richiamo quello che aleggiò tra gli alberi: forse la bestia aveva imparato la lingua di colei che la stava ascoltando o forse era Luna che aveva incominciato a capire il suo idioma: l'unica certezza era che la foresta si era riempita del nome che Luna si era scelta. Uscì allora dalla tana, silenziosa come il sogno che la notte vaga nella mente di chi dorme; camminò sulla neve intonsa e si inoltrò nel fitto del bosco. Gli alberi si scostavano al suo aggio e si richiudevano alle sue spalle, spingendola a proseguire con i loro rami carichi di aghi scuri. Si fermò là dove la voce l'aveva portata, di fronte ad una grotta dalla quale uscì un lupo. La bestia aveva le caratteristiche tipiche di un lupo ma era innaturalmente troppo grande: tra le sue fauci poteva ospitare Luna tutta intera. Il manto era nero come la notte e tuttavia brillava come la neve sotto la luna, sotto il pelo folto e ispido si gonfiavano e si distendevano muscoli portentosi. Gli occhi dell'animale, azzurri come una cascata congelata, fissavano Luna. Le labbra canine si sollevarono e scoprirono un temibile sorriso costituito da una lunga fila di enormi zanne. Il lupo le ringhiò contro facendola sussultare, poi le parlò con voce ruggente. "Chi sei?" "Sono Luna." Rispose cercando di mantenere ferma la voce, senza riuscirci. "E tu chi sei?" "Sono colui che chiede e colui che risponde. Se risponderai alle mie domande poi io dovrò rispondere alle tue. Chi sei, Luna?" La bestia iniziò subito senza aspettare che lei accettasse le condizioni, ma Luna non si diede per vinta e rispose: "Sono come voglio essere, prima ero come gli altri mi volevano."

Ironico e malizioso il lupo ruggì: "Sei certa che tu non lo sia ancora?" Indispettita Luna riprese la bestia: "Questa è un'altra domanda. Non erano questi i patti, ora tocca a te rispondermi. Chi è Cron?" La belva sorrise, per quanto il muso dell'animale glielo consentisse, e regalò a Luna tutto il suo sapere. "Cron non è uno, ma mille. Cron significa 'colui che ha il potere'. Cron lo sono stati molti uomini: padri e figli si sono succeduti da quando la luce si è accesa in questo Universo, le generazioni si sono avvicendate fino al momento in cui l'incubo di Solamia è iniziato. Che cosa vuoi, Luna?" La domanda fece trasalire Luna che era ancora sconvolta dalla risposta del lupo. Dopo una breve pausa rispose. "Voglio ciò che desidero, una volta desideravo ciò che volevano gli altri." Ancora una volta la bestia la derise. "Sei certa che non sia ancora così?" "Questa è un altra domanda, rispetta i patti che tu stesso hai posto. Ora sono io che devo chiedere. Che cosa vuole Cron?" "Cron figlio vuole il potere che Cron padre non vuole concedergli. Lottano tra loro ormai da molto tempo. Questa è la mia ultima domanda, quindi dopo ti sarà concessa un'unica risposta. Quale pensi sia il tuo destino?" "Combattere contro tutti i Cron esistenti." "Ne sei proprio sicura?" "Hai già usato la tua ultima domanda; ora rispondimi. Qual'è il destino dei due Cron?" "Queste, in verità, sono due domande, e questo non ti è concesso. Ma sei

fortunata perché per entrambe le domande vi è un'unica risposta. Il destino del padre si fonderà con quello del figlio in un unico punto: tu, Luna, sei il destino di entrambi." Quando Luna si svegliò era ancora avvolta nella pelliccia maculata, disteso al suo fianco c'era Tok che russava e dall'altra parte c'era Arat che l'abbracciava guardandola preoccupato. Si sforzò di apparire serena ma dovette distogliere lo sguardo per non far scoprire l'inganno. Il lupo forse era stato solo un sogno, la eggiata notturna poteva essere solo una visione, ma Luna non avrebbe mai dimenticato le parole dell'animale misterioso del quale sentiva ancora riecheggiare nelle orecchie il ringhio mostruoso.

Man mano che scendevano dalla montagna si sentiva sempre meno l'alito mortale dei venti delle cime. Anche il bosco era cambiato: gli alberi dal fusto nero si diradavano lasciando crescere anche altri tipi di vegetazione, tipiche di zone più temperate. Quando arrivarono a Bechestii la neve aveva lasciato il posto ad una fanghiglia informe e scivolosa. Bechestii era un rozzo paese che, per uno strano e fortunato scherzo della natura, era sorto proprio sopra ad un tesoro: pietre preziose e metalli rari erano inglobati nella roccia, più dura del granito, celata sotto quella putrida fanghiglia. Dopo la scoperta del primo giacimento la città rimase grezza e sporca, ma aveva suscitato l'interesse delle quattro Famiglie nobili di Solamia: i cittadini da allora non ebbero più problemi a rimettersi in piedi dopo le numerose valanghe che colpivano la zona perché tutte le Famiglie si prodigavano in aiuti immediati. Ovviamente non c'era nulla di umanitario in questo, erano solo interessati affinché i lavori di scavo ed estrazione delle preziose merci riprendessero al più presto. Naturalmente quando Cron mise il giogo al collo delle Famiglie, Bechestii venne abbandonata alla sorte ed alle valanghe. E fu così che la città si presentò agli occhi della compagnia di viaggiatori: una metà distrutta dall'ira di Cron e dei suoi Mutati e l'altra metà sprofondata nel fango portato dal fiume durante l'ultimo straripamento. La gente assomigliava molto al paese. Tok consegnò ad Arat un fascio di pellicce già conciate ed aggiunse: "Sono per voi, potrete barattarle con dei viveri e magari anche dei candù, se siete

fortunati. E' il mio contributo personale alla causa." L'uomo del Ki si fermò lì ed attese che il gruppo si rimettesse in viaggio. Salutò la piccola guerriera dai capelli neri come i boschi dei Monti Kobit e dagli occhi splendenti come il cristallo della sua montagna. Mentre la vedeva allontanarsi vide l'uomo dalle vesti scure (non riusciva a ricordarne il nome, ma forse non lo aveva mai saputo) avvicinarsi a lei e una strana sensazione l'assalì: cominciò a temere per la vita di Luna. Così come era apparsa la premonizione scomparve, come se una mano (ma non la sua) avesse cancellato una scritta sulla sabbia. Luna si voltò a salutare l'amico. Più volte distolse lo sguardo per guardare di fronte a sé per non inciampare in qualche radice, ma poi tornava a voltarsi verso l'amico Toblak, e lui era sempre lì con la mano alzata nel saluto ed un gran sorriso sulle labbra. Luna inciampò in qualcosa di sporgente, forse una radice, e si voltò di scatto per guardare dove metteva i piedi. Poi sentì una vampata di calore bruciarle prima le spalle e poi tutta la schiena. Avrebbe dovuto esserne appagata visto che soffriva per il clima troppo freddo e umido, invece non ne fu confortata. La tensione che accompagna sempre la paura le irrigidì i muscoli e lei cominciò a temere per la sua vita; non si voltò più indietro perché sapeva che non avrebbe più visto il caro Tok ma bensì il misterioso Cablam. Questa volta però lui non si accontentò di seguirla come un'ombra silenziosa, come spesso faceva, e si chinò su di lei avvicinando la bocca all'orecchio di Luna. Lei poteva sentire il suo respiro caldo sul collo e per un po' lui non fece altro che questo, come per sublimare all'estremo tale momento. Poi parlò con un tono di voce che le ricordò il ruggito del lupo che aveva incontrato (o sognato), abbastanza forte perché Arat (che stava sempre vicino a Luna) riuscisse ad udirlo. "Sei veramente disposta a perdere tutto quello che più conta per te per un popolo che non crede in te?" Luna non si chiese come mai l'illusore fosse al corrente dei loro progetti dopotutto poteva averlo sentito dalle voci che circolavano per il Ki dopo che Luna aveva parlato ai Consiglieri - ma il pensiero che nulla fosse sconosciuto a Cablam perché lui era ciò che nessun altro era si insinuò incontrollato nella sua mente. La visione di Tok che la salutava benevolmente le fu di grande aiuto e forse per la prima volta rispose in tutta serenità alla domanda dell'illusore. "Conosco qualcuno che crede in me. Fosse anche solo per lui, rischierei qualsiasi cosa pur di dargli un futuro migliore."

"Non c'è futuro." Cablam parlò con voce assente. Non stava cercando di convincere Luna sembrava invece che stesse riflettendo tra sé e sé. "Non ci sarà nulla, dopo. Io l'ho visto!" Ad interrompere il dialogo fu la voce di Arat che frettolosamente si era messo tra Luna e l'illusore. "Non devi credergli, Luna. Ogni uomo è padrone del proprio destino, ognuno di noi costruisce il proprio futuro vivendo il presente e ricordando il ato. Ciò che lui ha visto è solo un'altra delle sue illusioni. I tuoi, Cablam, sono solo inganni." Il tono di Arat si fece subito minaccioso appena incrociò gli occhi del suo avversario. "Ma ogni inganno ha un suo tempo e poi viene scoperto. Conosco i limiti dei poteri degli illusori: se un uomo è certo di ciò che è vero non può essere plagiato dai tuoi trucchetti. Non riuscirai più a sorprendermi con le tue verità distorte." Le parole dure di Arat scivolarono sul volto calmo di Cablam. Lui era indifferente a tutto e nulla lo toccava; pareva che non appartenesse a questo mondo, o forse, visto che il mondo gli apparteneva completamente, ne aveva ormai perso ogni interesse. Nulla si scorgeva dietro quelle barriere dalle diverse sfumature che erano i suoi occhi, ciò nonostante tutti sentivano, consciamente o meno, quanto lui fosse potente. La tensione venne spezzata dal trottare innocente di Kib in mezzo ai due uomini.

***

"Quanto tempo ancora dobbiamo attendere?" Lio stava distrattamente artigliando una lastra di pietra nera proveniente dall'Olaf; la creatura l'aveva portata con sé nel cuore della Caabia come ricordo dell'impresa. "Deos è stato solo un bocconcino che ha risvegliato la nostra antica fame." I suoi simili (ma sottomessi a lui per volere del Padre Creatore) che fino ad un attimo prima si coprivano faticosamente l'immenso corpo di sabbia calda, distolsero l'attenzione dal rituale e annuirono all'unisono condividendo il pensiero del loro leader. Erano troppo distanti per aver udito la voce di Lio, ma non c'era da stupirsi di tale comportamento visto il viscerale legame che univa

come un unico essere tutte quelle creature. Il Creatore non gradì affatto l'insubordinazione a squadrò Lio, responsabile di aver stimolato i suoi compagni in questa condotta. Il sangue della creatura si ghiacciò nelle vene per la paura e anche gli altri, senza sapere il perché, temettero per la loro sopravvivenza. "Il tuo comportamento è alquanto irrispettoso. Ti ho donato un'intelligenza superiore a quella dei tuoi simili per dare loro un modello, anello di congiunzione tra me e loro. Ma non ti permetto di contraddirmi." Imbronciato, se mai si possa definire così l'espressione scolpita su quel muso triangolare, Lio cercò di giustificarsi. "Pensavo di aver capito le intenzioni del mio Creatore e Padrone. Credevo volesse spegnere per sempre la luce che offusca il suo potere, credevo volesse distruggere quella femmina." "Non ti ho creato per pensare. Ho forgiato la roccia più dura usando il fulmine come scalpello ed ho fatto scorrere nelle sue vene il fuoco delle stelle, ho piegato gli elementi al mio volere ed ho liberato l'energia che da sempre era rimasta inerte. Ho fatto tutto questo perché tu potessi eseguire i miei ordini e non perché ti mettessi a pensare. Io voglio che lei giunga fino a me. Devi bloccarle ogni via d'uscita, voglio che quando guarderà dietro a sé veda solo terra bruciata. La devastazione che si ritroverà alle spalle la costringerà ad andare sempre avanti. Di fronte a sé avrà un'unica via, una sola scelta: venire da me." Dopo una breve pausa il Creatore si rivolse nuovamente a Lio, che era già pronto a servirlo fedelmente. "Intanto divertitevi un po' con Samas. Dovrebbe bastare a chetarvi fino al momento giusto, al tempo in cui la trappola scatterà." Terminato l'ordine scomparve tra le molecole d' aria, anche se in realtà non era mai stato in quel luogo e nello stesso tempo non poteva mai lasciarlo, perché lui era onnipresente ed onnipotente. Lio cominciò a fremere per l'eccitazione; il Padrone gli aveva concesso di giocare al gioco che preferiva. Per quel legame soprannaturale che lo legava alle altre creature ombrose, anche queste ultime vibrarono assaporando la promessa di urla di terrore e di fiumi di sangue.

***

Il viaggio proseguì rapidamente dopo l'acquisto dei candù, ma a Luna sembrava di restare sempre nello stesso posto, con il piatto paesaggio sempre uguale sul quale si alternavano paesi semi deserti e coltivazioni abbandonate. Approfittando delle numerose e mai giustificate sparizioni del maestro, Kib, invece di riare da solo le lezioni, approfittava del tempo in cui il gruppo si accampava o sostava in una taverna per fare amicizia. Come tutti i bambini, Kib era irrimediabilmente attratto dalla figura di guerriero incarnata da Arat; i suoi muscoli erano sintomi di grande forza e coraggio, la sua demo celava, fuse insieme al metallo rosso, storie di duelli pieni di onore e di sangue del nemico. Purtroppo, di solito, il suo eroe si allontanava poco dopo le sparizioni di Cablam: cercava di seguire l'illusore, ma con scarsissimi risultati. Così Kib doveva accontentarsi degli altri esponenti del gruppo, ma Luna e Aza erano solo due femmine (anche se Aza riusciva parecchio a confonderlo con i suoi atteggiamenti maschili) e Sador era spesso ubriaco. L'unico che rimaneva era Gor. Superate le prime paure (anche solo avvicinarsi a quel colosso richiedeva una massiccia dose di coraggio) Kib strinse amicizia con l'immelico, anche se scoprì presto che il rapporto si svolgeva in un'unica direzione: Kib parlava e Gor ascoltava maledicendo in silenzio il giorno in cui quel moccioso ed il suo stramaledetto maestro erano entrati nella sua vita. Ma i bambini non sono capaci di capire quando gli adulti simulano (male) interesse. "Sai, io vengo da Irna." diceva Kib cercando di cogliere un po' di interesse negli occhi assenti di Gor. "E' un'isola che appartiene all'arcipelago delle Verminie, a Nord della penisola dell'Ausolia. Ma se tu vieni da Deos le avrai viste sicuramente nelle giornate serene." Il monologo proseguiva mentre Gor badava a pulire il suo gor-dum, sempre in silenzio. "Certo che se è vero che a Deos eravate costretti a vivere sotto terra il mare non lo vedevate spesso, e nemmeno il cielo. Io non voglio essere sotterrato nemmeno da morto; al mio paese i morti vengono gettati in mare, al largo, con una grossa pietra legata ai piedi. La pietra che hanno legato a mio padre era la più grossa che io avessi mai visto, perché lui era molto grande e c'era il rischio che tornasse indietro." Interminabile. "Io vivevo con la mamma e il nonno ma poi il nonno è morto quattro inverni fa. Poi è arrivato Cab... il Maestro che mi voleva con sé. La mamma non voleva perché mi voleva bene e non mi voleva lasciare. Ma poi la mamma mi ha detto che con lui avrei imparato tante cose e così il maestro le ha dato molti suot, perché la mia mamma mi vuole molto bene. Così sono andato con lui e ho pianto solo un po'."

Anche se Gor continuava a sbuffare quando Kib si attaccava a lui e si lamentava con Sador di 'quella piccola pulce', si vedeva che la sua era solo scena e che si era commosso per la triste storia del bambino al quale si era ormai irrimediabilmente affezionato. Qualcosa finalmente cambiò nel desolato panorama e la strada percorsa dal gruppo eterogeneo di viandanti entrò in una città che aveva dimenticato il proprio nome ma che le persone che l'avevano scelta come rifugio avevano battezzato 'Speranza'. La locanda era piccola ma le stanze erano quasi tutte libere perché in quei tempi pochi si azzardavano a viaggiare. La cena che ordinarono non era diversa da quella che avevano mangiato in altre locande e l'umore generale non poteva dirsi dei più spensierati, ma la serata prese vita sulle note di un menestrello. Nonostante Luna fosse seduta proprio vicino al cantore, nonostante seguisse con attenzione la canzone che narrava di una donzella corteggiata dal contadino che prima faceva la ritrosa ma che poi si concedeva, nonostante l'intenso brusio che riempiva la sala, nonostante tutto Luna riuscì a 'sentire' un uomo parlare con il padrone della locanda, dall'altra parte della sala. "Una zuppa calda e una birra fresca, possibilmente non il contrario." specificò l'uomo facendo tintinnare le monete nel borsello. "Volete anche una stanza per la notte?" domandò speranzoso l'oste. "Sono stato così a lungo su quel candù che credevo di non riuscire più ad alzarmi dalla sella; credo proprio che mi concederò il lusso di un letto, per questa notte." Prima che l'oste potesse proferire altra parola, Luna intervenne da lontano e spiò con i suoi occhi arancione l'uomo dal cappotto marrone; dall'alto della sua statura lui ricambiò lo sguardo con gli stessi occhi di serpente. "No! Ho cambiato idea." Fece l'uomo rivolgendosi all'oste. "Me ne andrò appena finito di mangiare." Arat accompagnò Luna verso la sua stanza, che divideva con Aza, e non poté non accorgersi di quanto la ragazza fosse pensierosa. "Che cosa c'è? Sei preoccupata? Ha forse a che fare con quell'uomo che fissavi stasera, durante la cena?" Luna si sorprese che Arat se ne fosse accorto, lo scambio di sguardi era durato

non più di qualche istante. Il giovane guerriero le stava sempre accanto ma non si era resa conto che la controllasse così assiduamente. "Era Danur, un ex capitano delle guardie del Palazzo di Deos, compagno di Sargon. Da vero Deoscuridiano, e fedele alla Feteh, ha accettato di mettersi in viaggio e aiutarci nella nostra causa, nella causa che dovrebbe essere di tutta Solamia. Da soli non possiamo entrare in tutte le case del continente, perciò gli ho chiesto di spargere i semi della speranza nei cuori della gente e di incominciare ad istruire gli uomini: spero crescano soldati carichi di armi e di voglia di combattere per la libertà. Danur è capo di un gruppo di combattenti immelici, che si sposta tra queste zone e quelle più a Nord-Est: saranno utili per creare l'esercito di Solamia." "Ma come hai avuto tutte queste informazioni? Ti sono sempre stato vicino e non gli hai mai rivolto la parola... " "Due Deoscuridiani puri potrebbero comunicare tra loro in una frazione di secondo anche se stessero ai capi opposti dell'Universo." Arat non parlò più e si ripromise di smettere di sottovalutare quella piccola e strana ragazza che aveva dimostrato di poter battere uomini come Gabrin e di creare ad arte un'eclissi solare. Aveva anche scoperto le sue intenzioni, cioè incontrare i gruppi di resistenza già esistenti e tessere tra loro una rete di unità in grado di raccogliere anche altri utili alleati. Luna era davvero sorprendente, eppure sapeva di non sbagliare giudicandola fragile ed impreparata: potente ed instabile, praticamente una bomba pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Quando tutti furono nelle loro stanze un rombo scosse l'aria della notte e si propagò lungo la strada che tagliava in due il paese; i vetri della locanda vibrarono come se rispondessero ad un richiamo. Luna e gli altri si ritrovarono nel corridoio sul quale si aprivano le stanze al terzo boato; anche gli altri pochi clienti si erano svegliati ed erano tutti in piedi, chi ancora in mutande, quasi tutti con un arma in mano. "Non può essere la tempesta che ci siamo lasciati alle spalle." Protestò Aza mentre scendeva di corsa le scale insieme agli altri. "Sarebbe veramente un segno che annuncia la fine del mondo se i venti burrascosi avessero superato i Monti Kobit invece di scendere verso l'Oceano Sud."

Uscirono in strada e scoprirono che quel tuono era vibrato da una mano umana; un triste corteo, aperto dall'uomo che percuoteva gravemente il tamburo, sfilava lungo la via. La gente del paese era uscita dalle loro case e qualcuno aveva in braccio il figlio che ancora si stropicciava gli occhi, infastidito dal brusco e per niente gradito risveglio. Molti presero a urlare ingiurie e a lanciare sassi che raccoglievano da terra. Poi Luna la vide: la nera signora, la strega. Molti nomi abietti vennero urlati dal popolo di quel paese addormentato e ridestatosi solo per partecipare a quella festa degradante. Luna però vedeva solo una donna molto magra, perché era da tempo che non faceva un pasto decente, e molto pallida, perché sapeva quale sorte le era stata destinata. Sul colle verso il quale saliva la strada era già pronto il palo al quale l'avrebbero legata e la catasta di legna che l'avrebbe arsa. Lei andava incontro alla morte con gli occhi spalancati e rossi per aver pianto in un unico momento tutte le lacrime della sua vita. Legarono colei che era innocente, ma che rappresentava l'unica via per sfogare la rabbia repressa, l'ignoranza e l'impotenza. La gente di quel villaggio voleva bruciare a morte chi affamava i loro figli e assassinava i loro padri, però legato a quel palo non c'era Cron ma una donna esile e stanca la qui unica colpa era quella di essere diversa dagli altri e quindi più debole. Kib piangeva, lo faceva in silenzio e senza lacrime ma i bambini non sanno nascondere la loro disperazione; guardò il suo maestro e lo implorò con lo sguardo di fare qualcosa, di impedire che accadesse una cosa che riusciva a farlo stare così male. Ma incontrò solo l'indifferenza dell'illusore. Deluso ed amareggiato Kib prese una decisione con la convinzione di un bambino ma senza la conoscenza di un adulto. Sgusciò tra le gambe degli spettatori, ormai completamente presi dall'esaltazione, prima che Arat potesse fermarlo; giunse in prima fila, proprio alle spalle del boia che teneva in mano la fiaccola accesa. Kib concentrò la sua giovane e (purtroppo) inesperta mente e diede vita ad un'illusione: un lupo minaccioso si pose tra la donna, ormai in trance per la tensione, ed il suo carnefice. Purtroppo i tremiti del corpo e della mente del ragazzino (ancora impreparato) infransero la figura ringhiante che aveva faticosamente generato; ma accadde di peggio, qualcuno notò il suo comportamento e iniziò a gridare. "Il maligno vuole salvare la strega, sua sposa!" Quello che seguì si svolse con la rapidità del lampo, ma ogni movimento aveva la pesantezza dei millenni: il boia scaraventò Kib (divenuto il 'maligno') sopra i

fasci di legna e appiccò il fuoco. Colonne di fumo bianco fuoriuscirono dal falò come spiriti di dannati ed uccisero la donna soffocandola. Il bambino fu meno fortunato: il ruggito delle fiamme coprì il suo grido mentre le fruste taglienti del fuoco schioccarono sulla sua pelle. La carne del giovane venne dilaniata e lui, ancora cosciente, sentì ogni morso della belva infuocata. Sotto gli occhi dei suoi compagni di viaggio, che a fatica erano riusciti ad attraversare il mare di folla urlante, Kib si presentò come uno scheletro contorto e carbonizzato con la bocca spalancata in un grido muto che in eterno avrebbe risuonato nelle loro anime. Tutti piansero a quella vista, anche Aza e Sador: solo chi era senza anima poteva rimanere insensibile a quanto era accaduto. Infatti Cablam non reagì; si era già diretto verso la locanda e con freddezza commentò: "Sciocco. Non aveva appreso nulla." Gor era il più sconvolto e d'impulso afferrò il suo gor-dum mirando alla testa del boia. Ma la sottile mano di Luna si insinuò senza paura tra gli ingranaggi del mortale ordigno e tolse il proiettile dall'alloggiamento. Sapeva che Gor e Kib avevano fatto amicizia ma questa non era una buona ragione per rischiare di essere massacrati da una folla in pieno delirio di onnipotenza. La notte era ancora lunga e tutti si ritirarono nelle proprie stanze, nessuno pensava però di riuscire a dormire. Luna era ancora incredula: come era potuto accadere tutto questo? Ma ancora più incredibile era il comportamento di suoi compagni e soprattutto il suo. Perché aveva tollerato l'atteggiamento di Cablam? Avrebbe dovuto urlargli che era un mostro, avrebbe dovuto lasciare che Gor uccidesse colui che aveva assassinato un bambino. Ma non aveva fatto nulla. Ora che si rigirava nel letto senza trovare pace sentiva che l'orrore che provava era in parte falso. La verità era che avrebbe continuato a vivere senza Kib e che tra un po' di tempo non avrebbe neppure ricordato la sua faccia. Invece il terrore che Cablam aveva deposto nella sua anima era fin troppo autentico. Lui si era fatto accogliere senza proferire verbo ed era riuscito a farsi temere senza compiere alcuna azione. Lei si sentiva inevitabilmente legata a lui e non trovava in sé il desiderio di eliminarlo dalla sua vita. Si rendeva conto che, seppure in forma minore, lo stesso legame si era stretto anche tra Cablam e gli altri del gruppo. Nessuno lo approvava, ma nessuno lo avrebbe cacciato. E lui non sembrava intenzionato ad andarsene.

La conoscenza non servì come punto di forza su cui poggiarsi per risollevarsi e tutto si dissolse nelle nebbie che circondano ogni cosa che 'è così perché così deve essere e nessuno (tanto meno semplici uomini) può cambiare'.

Il giorno dopo la compagnia si mosse lentamente. La presenza della morte si era pesantemente insinuata nella loro anima e un silenzio accusatore raggelava l'aria: solo Cablam (colui che era sotto accusa) non sentiva questo freddo. Odiavano l'illusore, ma nemmeno la vista dei resti fumanti del rogo assassino di quella notte li portava a comportarsi nell'unico modo che avrebbe concesso loro di sopravvivere. Avevano perso un'altra occasione (forse l'ultima) per scappare il più lontano possibile da lui. La piatta e monotona pianura di Hamelis stava per terminare, così almeno era segnato nella cartina che Arat continuava a consultare. "Dove siamo diretti?" chiese Luna cercando di sbirciare la mappa dai colori consumati dal tempo. In un primo momento Arat fece il gesto istintivo di nascondere il foglio che teneva in mano, ma si rese subito conto che Luna non avrebbe saputo decifrare i segni che definivano le reali distanze e le correzioni che suo padre aveva annotato. Cablam era in fondo al gruppo, da solo, quindi non c' erano pericoli da cui difendersi. Arat aprì il foglio piegato a fisarmonica e ne rese visibile solo una porzione. Piegandosi verso Luna che gli cavalcava a fianco le indicò un punto non segnato su un pezzo dipinto tutto di verde, proprio vicino ad un altro pezzo di colore rosso. "Noi siamo qui e dobbiamo attraversare l'Altopiano dei Cobritti." " Che cos'è quella linea nera che interrompe il colore rosso?" "E' lo strapiombo con cui termina l'altipiano." "E come faremo a scendere?" "Il problema è arrivarci, allo strapiombo." A parlare fu Aza che si era affiancata a Luna. La guerriera si sentiva superiore a Luna, sia per doti fisiche che per capacità intellettive e non perse questa occasione per mettere Luna in difficoltà (di fronte ad Arat le pareva ancora più

soddisfacente). "Ora non la chiamano più con quel nome da quando gli Efesi hanno sterminato i cobritti." Atterrita Luna chiese con un fil di voce chi erano i cobritti. "Erano solo degli insetti." minimizzò Arat, che lanciò un'occhiata significativa ad Aza. Ma la donna fece finta di non aver capito di dover tacere e continuò con un sorriso che diventava sempre più splendente man mano che aumentava la paura negli occhi di Luna. "Però gli Efesi sono dei feroci Mutati e l'altopiano ne è infestato da interi branchi. Sono velocissimi, riescono a sventrare un uomo ancora prima che questo possa solo pensare di impugnare un'arma." Come il monello che rompe la finestra del vicino e poi scappa, così Aza si dileguò, lasciando Luna a contemplare l'immagine raccapricciante che l'immelica le aveva dipinto e non valsero a nulla le parole con cui Arat cercava di confortarla. La notte arrivò accompagnata dall'abbassamento repentino della temperatura. Questa volta erano stati fortunati, avevano trovato una baracca di legno abbandonata ma ancora in buono stato che forse un tempo era stato un capanno da caccia. Per tutto il giorno avevano cavalcato senza incontrare nessuno, nemmeno una casa solitaria aveva colpito la loro attenzione. Nonostante la tranquillità che governava la zona avevano stabilito dei turni di guardia; ora c'erano Gor e Sador all'esterno della capanna. Luna si era rintanata nell'angolo opposto alla porta di ingresso mentre Cablam confondeva le sue vesti scure con l'ombra della parete posta a Est. Arat e Aza si erano arrampicati su un piccolo soppalco, originariamente usato per tenere il fieno, per avere una visione migliore della stanza e per avere un vantaggio sugli eventuali aggressori che fossero riusciti a neutralizzare le due sentinelle. In verità Arat aveva cercato di avere un po' di intimità con Aza. Erano compagni d'armi, erano amici e, quando tutti e due erano d'accordo, erano anche amanti. Le mani di Arat avevano slacciato il corpetto di Aza e stringevano il corpo caldo di lei: non era amore, era un bisogno da soddisfare. Lei aveva già infilato la mano tra le gambe dell'uomo, stava cercando un sentimento ma trovò solo la carne calda e umida che la stava aspettando. Arat si muoveva piano sopra

di lei, cercando di non fare rumore: erano bravi a non farsi scoprire, nessuno li aveva mai visti. Non si vergognava, ma gli altri avrebbero cominciato a pensare a loro come una coppia e questo non era vero. Aza tratteneva il gemito che le nasceva dal basso ventre ma desiderava di poterlo sfogare, come se il fatto di essere scoperti potesse mutare le cose e Arat si dichiarasse finalmente e completamente suo. Arat si sollevò rapidamente, con l'attenzione rivolta a ciò che era lì intorno piuttosto che a quello che si era appena concluso. Un rumore lo aveva distratto. Era il respiro di Luna che era cambiato: la frequenza era accelerata ed era più silenzioso. Stava ancora dormendo. Non si preoccupava di essere visto, ma era diventato molto apprensivo nei confronti della nuova ragazza. "Che cosa c'è?" Arat non riconobbe nella domanda il desiderio che Aza nascondeva da tempo, ma mentì parlando di un suono all'esterno della capanna. Non si spiegava il perché di quella bugia, ma l'istinto maschile gli suggeriva di non parlare di un'altra donna a chi era appena stata sua amante.

Apparve la tavola verde e gialla dell'altopiano. Subito il vento caldo e leggero della Barriera di fuoco, che si ergeva a sud di quella terra, diede loro il benvenuto. L'erba alta ondeggiava come un mare in tempesta mentre chiazze di erba brucata si alternavano come un arcipelago di isole. La voracità con cui i Mutati avevano mangiato l'erba aveva sconvolto l'equilibrio naturale con la conseguente scomparsa dei cobritti. Arat conduceva con fermezza il gruppo attraverso quella terra di cui conosceva i pericoli ma senza la sicurezza di chi sa perfettamente come superarli. Il rumore degli zoccoli sulla terra morbida si alternava al gorgoglio dell'acqua che risaliva dalle sorgenti profonde e si raccoglieva in pozze dal poco rassicurante color sangue. Sador si stava lamentando, si pentiva di non essere rimasto a Samas. Nessuno rispondeva alle elucubrazioni mentali che l'immelico esprimeva ad alta voce, anche perché tutti sapevano che era scappato dalla città dopo aver 'pestato i piedi' ad uno degli uomini di fiducia di Gabrin. "Comunque Sador non ha tutti i torti. Che cosa pensi di trovare ad Atra?" La posizione presa da Aza sorprese Arat. Non si era accorto che qualcosa era

cambiato in lei dalla sera precedente e rispose senza dare molto peso alla faccenda. "Atra è la più grande scuola militare di Solamia. I soldati Atralidiani sono i migliori, lo devo ammettere anche io. Pensa che li istruiscono nell'arte della guerra fin da bambini... " "Ma sei sicuro che ci sia ancora la capitale della Famiglia Atralidi?" "Questo viaggio serve anche per conoscere le reali potenzialità dell'esercito che si sta formando: conoscere chi è sopravvissuto e quali sono le sue capacità è di vitale importanza." "Anche il fatto che siano ancora vivi è un problema. Mi sembra di ricordare che non fossero un popolo molto aperto nei confronti degli altri, soprattutto degli immelici." "Affronteremo il problema quando si presenterà." Arat si sentiva attaccato dalla persona da cui meno se lo sarebbe aspettato; non voleva più parlarne, ma Aza lanciò un'ultima pungente provocazione. "Spero che tu non creda che 'occhi arancio' possa risolvere ogni conflitto in cui ci ritroveremo." La freccia era stata scagliata e quando colpì il bersaglio la donna si era già allontanata. Metà del giorno ò senza che nulla mutasse attorno a loro e senza che qualcuno si rendesse conto di quanto ognuno di loro stesse cambiando nel più profondo dell'anima. Scesero dalle cavalcature per riposarsi. Luna si sgranchì le gambe indolenzite e si diresse verso una delle tante pozze. A vederla da vicino era molto più profonda di quanto sembrasse: era un vero bacino di raccolta dell'acqua che fuoriusciva dal sottosuolo e, gorgheggiando, arrivava in superficie sotto forma di grosse bolle. Luna raccolse un po' di liquido nelle mani e lo bevve a piccoli sorsi: c'era un po' di argilla in sospensione ma non era imbevibile. Cullata dal gorgoglio asincrono delle pozze vicine, Luna si perse in un 'volo' che non aveva cercato: aveva riconosciuto la mente che stava all'altro capo del filo che l'aveva legata e ne seguì il richiamo. Suo padre cercava di parlarle. Vide un cavaliere medioevale con l'armatura nera, in groppa ad un cavallo nero. Reggeva

un'asta da cui garriva un drappo rosso, l'altra mano era serrata attorno all'elsa di uno spadone insanguinato. Nell'angolo in basso a destra di quel quadro statico ma vivente c'era la testa di Ledon, spiccata dal suo corpo con un taglio netto. Luna riaprì gli occhi: la pupilla si fece piccola e mise il risalto il blu dell'iride. Lei sapeva che suo padre era vivo e non capiva il significato di quella visione. Cercò allora, nei brillanti riflessi della pozza, il modo di ricadere nel 'volo' per cercare una spiegazione, ma l'acqua si spense improvvisamente dei suoi bagliori e divenne scura come il sangue che, fuoriuscito dalle vene, si coagula sulla lama di una demo. Pareva che proprio in quel momento una nuvola avesse oscurato il sole, invece l'astro di fuoco aveva smesso di illuminare benevolmente solo Luna: un Efeso si era avvicinato a lei tenendosi nascosto tra l'erba alta ed ora era proprio alle sue spalle. Il Mutato teneva il lungo collo piegato verso il basso: in questo modo il suo muso affilato era proprio all'altezza del viso di Luna. Lei aveva voltato la testa senza muovere anche il busto, poteva così vedere l'Efeso solo con la coda dell'occhio. Quel poco che vide bastò a terrorizzarla: le due larghe narici poste alla fine del lungo muso erano tese e vibravano ad ogni respiro, la stava annusando. La piccola bocca stava proprio sotto le narici e continuava a muoversi con lenti movimenti circolari, ma non era quella che Luna doveva temere, gli Efesi erano erbivori e quindi dotati di denti piatti. La loro arma erano i tre lunghi artigli affilati con cui terminavano i due arti superiori. In una frazione di secondo l'Efeso si mosse di scatto e con una zampata cercò di scannare Luna; lei fu più svelta (più per fortuna che per bravura) e si buttò nell'acqua rossa della pozza. Luna tentava di rimanere sott'acqua il più a lungo possibile combattendo contro la corrente ascensionale ma vedeva, attraverso lo specchio della superficie, il lungo collo dell'assalitore che restava in agguato. Sentiva di poter resistere ancora per poco senza riprendere aria. Come lei, anche l'acqua rossa sembrava aver bisogno di uscire dalle viscere dell'altipiano e ben presto Luna venne circondata dalle bolle ed una colonna d'aria la spinse violentemente verso l'alto, proprio in bocca all'Efeso. Fu una fortuna che il Mutato avesse il muso sopra la pozza così come fu una fortuna che il getto d'acqua fosse giunto in superficie prima di Luna. Lo spruzzo accecò l'Efeso che non vide la ragazza galleggiare poco distante. Una zampata, dettata solo dall'istinto e quindi imprecisa, prese il mantello di Luna e sollevò la ragazza con facilità, ma fortunatamente il tessuto si lacerò liberandola dalla stretta del mostro. Dopo essere caduta pesantemente a terra l'istinto la spinse a correre verso i suoi compagni. Erano già tutti in allarme e in pochi istanti montarono in

sella, spronando al galoppo i candù. Dietro a loro si udivano i fischi striduli dell'Efeso: la creatura stava nervosamente correndo in tutte le direzioni per richiamare il resto del branco. Inizialmente nessuno li seguì, poi in lontananza si vide una macchia informe: il branco si era radunato e la caccia era incominciata. La fuga continuò per molto tempo;, si sentiva il rumore cupo degli zoccoli dei candù mentre il vento trasportava i versi acuti degli inseguitori. I Mutati erano sempre distanti, ma sul piatto paesaggio si distinguevano molto bene; continuavano ad avvicinarsi e non c'era da sperare che si stancassero o che rinunciassero all'inseguimento: erano Mutati, facevano questo perché era l'unico scopo della loro vita e non per soddisfare un bisogno. Infine, Arat decise che era tempo di affrontarli e di tentare di ucciderne il più possibile. Radunarono i candù e li fecero accucciare in modo da nasconderli in mezzo all'erba alta: non volevano rischiare che venissero feriti durante il combattimento perché se le cose si fossero messe al peggio avrebbero potuto salvarsi solo sperando nella velocità degli animali. Cablam scomparve, forse dietro qualche fitto fascio di erba, più probabilmente grazie ad un'illusione; in ogni caso aveva salvato sé stesso senza neppure chiedersi se il suo aiuto avrebbe potuto invece aumentare le probabilità di sopravvivenza di tutti gli altri. Arat era anche convinto che, ovunque fosse, l'illusore potesse comunque vederli e già si immaginava il sorriso beffardo che avrebbe il viso di lui mentre loro venivano attaccati dagli Efesi. I Mutati erano a pochi i di distanza, solo erba brucata e insanguinata da alcune pozze d'acqua li separavano. I cinque Efesi attaccarono con rapide artigliate e con secchi colpi inferti con le muscolose zampe posteriori; a volte usavano anche la coda (che normalmente usavano per bilanciarsi nella corsa) per atterrare gli avversari. Le armi dei guerrieri scintillavano riflettendo il colore azzurro del cielo e lo stridore del metallo contro gli artigli si mescolava ai versi dei combattenti, umani e non. Luna osservava tutto da lontano. Aveva in pugno l'arma che le aveva donato Sargon ma si sentiva impreparata e quindi indifesa. Dopo un tempo che era impossibile da misurare i cinque corpi dei Mutati, orrendamente deturpati, giacevano in una pozza di sangue verdastro, macchiato dal sangue rosso dei guerrieri feriti. Le urla di Gor e di Sador, voci dell'anima del vincitore, si spensero in seguito al sussurro di Arat. "Torneranno, tutto il branco unito. Forse già questa notte, e allora non sarà così

facile." Il sole si sciolse presto nel tramonto, le tenebre oscurarono in fretta il cielo rosso e le nubi impedirono alla luna ed alle stelle di rischiarare quella terribile notte. Con l'arrivo della notte fece la sua comparse anche il suo cavaliere: Cablam scivolò fuori dall'oscurità, ma senza per questo abbandonare la sua ombrosa natura; Arat lo squadrò ma non riuscì neppure questa volta ad attirare l'interesse dell'illusore. Luna, invece, afferrò l'uomo (se quello era un uomo) per il braccio e non attese di vedere il suo sguardo imperturbabile (e per questo irritante). "Come hai potuto?" Luna sentiva l'anima vibrarle nel petto al suono degli opposti sentimenti che lui le risvegliava, ma continuò: "Hai salvato te stesso senza pensare che forse con il tuo potere avresti potuto aiutarci." Cablam rispose come se questo fosse una grande concessione della quale Luna doveva essergli grata: "Siete sopravvissuti lo stesso. E poi nemmeno tu ti sei data da fare per aiutare gli altri." Luna, presa alla sprovvista, balbettò: "Ma io era paralizzata dalla paura... " "La paura è la peggior ragione per la quale non fare qualcosa." Detto questo penetrò nuovamente nella notte che si scurì oltremodo, come se l'anima nera di Cablam si fosse mescolata a quella dell'Universo. Lui non era più visibile, ma Luna sentiva ancora la sua pesante presenza nella mente. Gli Efesi non tardarono ad arrivare; nella notte buia si riusciva solo a sentire i i veloci sull'erba e gli artigli fendere l'aria. Luna si mise al fianco di Arat ed estrasse l'amlin. Le dure parole di Cablam le mordevano la coscienza ma il senso di colpa non era riuscito a infonderle coraggio. Arat si accorse di questo e con un o la spinse dietro la fila compatta che i quattro immelici formavano, poi con un cenno le indicò una conca di argilla prosciugata della sua acqua ormai da molto tempo e lei ubbidì. Si rintanò sul fondo della buca e si mise a piangere. Arat non la comprendeva e in quel momento era deluso di lei, d'altronde lei non poteva rimproverarlo ed

anzi era d'accordo con lui. Ma la consapevolezza di tutto non bastava a darle la spinta necessaria ad uscire ed affrontare il nemico. Prima di combattere gli Efesi e Cron avrebbe dovuto lottare contro le sue paure e le sue incertezze e questa era una battaglia che non era sicura di vincere. Nel buio racchiuso in quella conca si accese un punto luminoso, a pochi centimetri dal naso di Luna. Vibrante di vita il luccichio volò posandosi sul dorso della sua mano: era un insetto grande quanto un pollice con il corpo protetto da una corazza di colore verde cangiante dal blu al giallo. Poi sollevò le elitre scoprendo le ali trasparenti dai mille riflessi. Il ronzio che il cobritto emetteva sbattendo freneticamente le ali era un richiamo e ben presto altri suoi simili si posarono sulla mano di Luna. L'orchestra, che le stava nel palmo di una mano, suonò un concerto che spense i rumori stonati della battaglia che si stava consumando a pochi i da lei e che la guidò con sicurezza in quel mondo interiore che aveva ancora tanto bisogno di conoscere. Luna si alzò in piedi tenendo le braccia tese in alto e le mani socchiuse a conchiglia; le mani fecero da cassa di risonanza mentre l'intera essenza di Luna trasmise, amplificato, il richiamo dei cobritti. Il vento caldo lo trasportò lontano, in un luogo distante nello spazio e nel tempo, quando i cobritti vivevano numerosi sull'altipiano. La falce di luna tagliò lo strato di nuvole, ma subito una nube diversa coprì la sua luce. Mille, mille, mille ed ancora mille cobritti piombarono ronzando sugli Efesi evitando però gli esseri umani, giunti ormai allo stremo delle forze. Piccoli com'erano, gli insetti entrarono facilmente nelle narici, nelle orecchie e nella bocca dei Mutati. La guerra che improvvisamente gli Efesi si trovarono a combattere era adesso contro un nemico che stava dentro di loro e per liberarsene usarono i letali artigli contro il proprio corpo. Lacerarono i petti e decapitarono le teste dei loro simili, nella frenetica pazzia che li aveva colti. L'intero branco morì sotto gli occhi increduli dei guerrieri stanchi e ormai rassegnati alla morte: inaspettatamente quella notte la Morte ò solo molto vicino a loro. Quando spuntò l'alba quegli uomini forti e quelle donne coraggiose piansero insieme per la felicità di averla vista ancora una volta.

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CAPITOLO 11

Arat, dopo aver assistito all'invasione dei cobritti (estinti da tempo) e al loro innaturale assalto contro gli Efesi, si accorse di quanto fosse potente l'energia che animava Luna; ciò nonostante non riusciva a fidarsi delle sue capacità, in lei c'era qualcosa di diverso rispetto ai Deoscuridiani puri che aveva incontrato. Aveva ato poco tempo con suo padre (era poco più di un bambino quando sua madre lo allontanò dalla tribù in cui era nato), ma Sargon era stato per lui come un padre e quella metà di sangue Deoscuridiano che gli scorreva in corpo aveva percepito costantemente il richiamo del vero potere che sempre viveva nel suo maestro. Luna invece sembrava possedere due personalità: per la maggior parte del tempo appariva fragile e confusa e le sue azioni parevano dettate dal caso o da chi, più forte di lei, decideva al suo posto. Altre volte invece era colma del potere di Deos e ogni suo movimento era l'effetto di un pensiero superiore e contemporaneamente era causa della modifica del destino. Il problema era che Luna non era pienamente conscia delle sue potenzialità e soprattutto non era in grado di gestirle con fermezza: era il potere ereditato dalla Famiglia a possedere Luna e non il contrario. Era pericolosa eppure Arat non riusciva a non pensare a lei come alla persona che più gradiva avere vicino. Ora la guardava mentre, con occhio sognante, fissava l'orizzonte in attesa del mutamento, del cambiamento dei colori per poi sorprendersi, ancora una volta, nell'apprendere di trovarsi in un altro luogo. Il vento le intrecciava i lunghi ricci dietro la nuca e la sua pelle chiara brillava, esaltata ancora di più dal contrasto con la tuta di pelle nera. Arat vide solo quanto era bella e non ricordò più i tanti dubbi che lo turbavano già dalla prima volta che l'aveva incontrata. Poi un'ombra oscurò Luna, una nube nera carica di tempeste scalpitanti come la cavalleria prima di una battaglia e frementi come i muscoli dei guerrieri quando sentono l'odore del sangue nemico. Cablam era riapparso ed Arat capì che prima o poi la bufera racchiusa nell'anima dell'illusore si sarebbe scatenata in tutta la sua violenza travolgendoli tutti; era però convinto che la morte fosse preferibile a ciò che sarebbe accaduto a Luna. Questi pensieri caddero in un baratro e vennero coperti dalla bruma soprannaturale che sempre accompagnava l'illusore. La minaccia che Arat avvertì l'istante prima svanì e con essa scomparve anche la speranza di capire ciò che Cablam era in realtà e ciò che voleva da loro.

Il gruppo cavalcò per giorni ma non fece altri sgraditi incontri. Proseguirono in linea retta e si fermarono solo al limitare dell'altopiano a contemplare il paesaggio che si distendeva ai loro piedi. La terra rossa dell'altopiano si gettava in verticale nella Baida sottostante: quest'ultima faceva parte dei domini della Famiglia Atralidi. Da quella posizione elevata si poteva vedere ben poco della pianura che rimaneva confusa tra le nebbie azzurrine, nonostante questo l'effetto era molto suggestivo. "Non riesco a ricordare il motivo per il quale ci tormentiamo così tanto per raggiungere Atra. Vuoi per piacere ricordarmelo tu, Arat?" "Non è proprio il momento di scherzare, Aza." "Non sto scherzando. Aspetto una tua spiegazione altrimenti non muoverò un o." L'immelica era più che seria ed Arat cominciò a preoccuparsi seriamente: se un guerriero fidato come Aza cominciava a discutere gli ordini, non osava pensare quello che avrebbero potuto fare due mercenari come Gor e Sador. Cercò di risponderle con calma, sperando di convincere anche chi non aveva ancora manifestato (apertamente) dubbi al riguardo. "I Cavalieri dell'Aria sono forse i più forti soldati di tutta Solamia e questo per due motivi principali: sono gli unici che possono avvalersi degli attacchi aerei grazie ai loro compagni alati, i colbi, ed anche se da molto tempo gli animali disertano questa regione a causa dei Mutati ciò non è un problema irrisolvibile. Il secondo motivo è che non solo non hanno paura di morire ma letteralmente bramano di perdere la vita battendosi valorosamente. La loro religione dice che al momento della morte la Dea Babas scaglia un dardo e separa il corpo dallo spirito: mentre l'involucro nero marcisce, l'anima candida si eleva fino a raggiungere la Dea ed è lì che incomincia la vera vita. Migliore è stato il comportamento nelle battaglie terrene e più alto sarà il benessere nell'alto dei cieli." "E tu credi di convincere questi guerrieri perfetti ad unirsi ad un esercito che per ora esiste solo nella tua testa e, forse, in quella di Luna? No! Non rispondermi, so già quello che diresti. Diciamo che non mi hai convinta del tutto, ma non ho molta voglia di tornare indietro e trovare un altro branco di Efesi. Andiamo avanti e vediamo come si mettono le cose."

Aza non aveva mai parlato con quel tono ad Arat, soprattutto di fronte agli altri: sapeva bene come fosse facile seminare insoddisfazioni tra le fila di un gruppo non certo regolare come il loro. Il guerriero ripensò alla sera che li aveva visti ancora una volta amanti e cercò di trovare un indizio che potesse giustificare questo comportamento; non trovando nulla che attirasse la sua attenzione fece come facevano sempre gli uomini quando non capivano le donne: minimizzò l'accaduto e se ne dimenticò. Seguire lo stretto sentiero scavato nella terra argillosa non era semplice: oltre a badare al percorso i cavalieri dovevano preoccuparsi di tenere calmi i candù. Gli animali avevano il terrore del vuoto, ma la foschia che li circondava falsava la percezione delle distanze aiutando in questo modo i viaggiatori. Finalmente riuscirono a toccare la Baida con i piedi; Gor e Sador, che erano rimasti straordinariamente in silenzio durante la discesa, si lasciarono andare in un grido di esultanza. "La nebbia è piuttosto fitta anche qui giù, riusciremo a orientarci?" Aza si avvicinò ad Arat che apriva la cartina per rispondere alla sua domanda. "Vedi qui? Abbiamo l'altopiano alle nostre spalle, si trova a Ovest di Atra. A Sud c'è la Barriera di Fuoco e a Nord l'Arco di Tedo, i monti che segnano il confine con la Terra Abbandonata. Noi dobbiamo andare verso Est. Prima di giungere al Lago Golias dovremmo arrivare ad Atra." "Dovremmo?" "Non ti preoccupare, fidati di me. Fino ad ora siamo sempre arrivati dove dovevamo andare!" "Hai ragione. Siamo sempre riusciti ad arrivare in tempo a tutte le imboscate dei diversi Mutati." Il sarcasmo di Aza fece ridere tutti, anche se i morti che avevano lasciato alle spalle pesavano sulle loro coscienze. Arat invece si infuriò e partì al galoppo senza curarsi di controllare se gli altri lo seguivano. Il velo bianco che aveva trasformato l'ambiente in un'incoerente sovrapposizione di ombre si era sollevato ed aveva scoperto i colori della Baida. Il pallido sole ritrovò i compagni di viaggio ancora uniti, nonostante tutto. Il cambiamento di scenario fu così repentino che Luna dubitò per un istante di aver sfiorato cespugli dalle bacche

rosse e alberi carichi di foglie fino ad un attimo prima. Ora i loro candù percorrevano un percorso obbligato segnato da blocchi di pietra di diverse forme: animali, piante e uomini erano scolpiti con dovizia di particolari. Sador continuava a scrutarle temendo che potessero prendere vita e aggredirlo. La sensazione era comune a tutti. Arat si fermò proprio accanto ad una pietra cilindrica dalla superficie liscia. Erano arrivati? L'incomprensione dei suoi amici fece finalmente sorridere il guerriero che con aria di sufficienza indicò il cielo. La pietra sotto la quale si erano fermati non era altro che la base su cui poggiava un altissimo pilastro che reggeva un enorme disco. Gli stanchi viaggiatori si erano trasformati in formiche e scoprirono di essere circondati da enormi 'funghi': a vederle da sotto le piattaforme erano incredibilmente grandi e poste ad un'altezza straordinaria. Erano giunti ad Atra. Sador fu il primo a distogliere lo sguardo da tali meraviglie architettoniche e domandò a chiunque avesse la risposta:. "E adesso? come saliamo?" "Come salgono gli Atralidiani." Fu Gor a parlare e stava per ricevere da Sador un altro pungente epiteto, ma Aza intervenne. "Peccato che la Famiglia Atralidi usi un aggio segreto scavato all'interno della colonna, che essendo segreto è a noi sconosciuto. Potremmo usare i colbi, ma le cavalcature dei soldati non planano più sui dischi di Atra da molto tempo... Peccato! Dovremo rinunciare." A fermare la decisione di Aza non furono le parole convincenti di Arat, bensì un soffio improvviso, un'ombra scura e un bruciore alla testa. Quando si toccò la fronte con la mano avvertì un profondo taglio e l'umido calore del sangue. Sador gridò. "Giù!" Ma non era necessario poiché tutti si erano già buttati a terra, nascondendosi tra i cespugli di pietra, lasciando i candù confusi e indifesi. Gli animali rimasero in quello stato per poco tempo, infatti ben presto giunse uno stormo di Ramib chiamati dal primo che aveva ferito Aza. I Mutati volanti piombarono fulminei sui candù infliggendo loro sanguinose ferite servendosi dei grossi becchi

dentellati. Quando i Candù si accasciarono a terra, sfiniti dai colpi subiti ma non ancora morti, i Ramib iniziarono a banchettare lacerando le carni e divorando le interiora, in un concerto di versi striduli e di batter d'ali. Nascosta sotto un cespuglio di fiori pietrificati, Luna si accorse della quantità di ossa che giacevano tra le rovine di quel giardino insensibile al mutare delle stagioni. Il lungo osso del femore di un candù era abbandonato accanto ad un cranio umano. Il biancore dei resti li faceva apparire simili alla pietra e Luna si spaventò all'idea che presto avrebbe fatto parte anche lei di quell'immensa scultura, ai piedi di Atra. Ma nessuno aveva intenzione di fare da seconda portata e quindi si allontanarono strisciando tra le statue e sguazzando nei canali dell'acqua. A terra i Mutati erano quasi innocui perché erano impacciati nei movimenti dal grosso becco e dalle lunghe ali membranose; quello era quindi il momento migliore per attraversare il tratto di cielo che li separava dalla città sospesa, anche perché, vista la voracità con cui i Ramib si nutrivano dei poveri candù, rimaneva loro ancora poco tempo. Le corde erano rimaste nelle sacche assicurate alla sella dei candù (ormai cadaveri e prossimi alla digestione) ma sarebbero state comunque inutili: Arat aveva preso come altezza di riferimento la colonna che un tempo reggeva l'ambasciata di Atra a Samas, ma le colonne della città tra le nuvole erano molto più alte. Era impossibile risalirle. Ancora una volta, in silenzio, il potere tinse di arancio gli occhi di Luna e dopo un istante, durato un batter di ciglia, lei vide la propria immagine riflessa negli enormi occhi neri del colbi che le stava di fronte. Arat e gli altri si alzarono in piedi: nonostante questo il grande uccello continuava a sovrastarli. Altri due colbi si posarono affianco del primo animale e, richiudendo le ali, generarono uno spostamento d'aria tale da far vacillare i forti guerrieri. Nessuno di loro aveva mai visto da vicino le cavalcature dei Cavalieri dell'Aria, i soldati di Atra, ma l'animale corrispondeva perfettamente alla descrizione dei libri di storia e dei racconti dei vecchi soldati: un uccello dal dorso tanto ampio e con muscoli tanto sviluppati da poter essere cavalcato da tre persone contemporaneamente. Sul petto e sulla parte inferiore delle ali c'erano piume bianco-grigiastre, tutto il resto era ricoperto da penne argentate disposte in modo da formare una specie di corazza. "Sbrighiamoci." disse Luna. "I Ramib non temono di attaccare i colbi e questi tre non rimarranno certo qui appena si renderanno conto del pericolo che stanno correndo."

I Ramib avevano intanto ripulito le ossa dei candù e già si sgranchivano le zampe ungulate e si pulivano il becco sulla pelliccia degli animali. Quando ruotarono la testa calva verso le nuove prede a due zampe non riuscirono nemmeno a distendere le ali che già i colbi, con un solo battito d'ali, avevano raggiunto la sommità di una delle piattaforme. Il volo fu breve ma la sensazione di vuoto e l'emozione furono intense. I novelli Cavalieri dell'Aria riuscirono appena a scendere dal dorso dei colbi che già videro le sagome bronzee dei Mutati alati stagliarsi contro il cielo grigio; senza perdere tempo i Ramib si fiondarono mirando proprio ai loro fragili crani. Fortunatamente i Colbi diedero loro un ultimo aiuto prima di ritornare ai loro rifugi scavati nella Barriera di Fuoco: muovendo vorticosamente le immense ali generarono una corrente d'aria che disperse i Ramib come foglie secche al vento. La frazione di secondo così regalata permise a Cablam di lanciare una pietra che infranse la vetrata che era il soffitto della piattaforma: la crepa si propagò come fosse stata generata da una scossa di terremoto e il cristallo si infranse sotto i loro piedi. Precipitarono da quel cielo solido verso il terreno artificiale sottostante e la vetrata si ricompose magicamente sopra le loro teste appena in tempo per impedire ai Ramib, ripresisi immediatamente dopo l'intervento dei colbi, di entrare. Un serbatoio pieno d'acqua attutì la caduta di Luna mentre Gor e Sador caddero pesantemente sopra un campo di insalata. I rami di un albero da frutta frenarono la caduta di Aza e Arat; Cablam toccò terra dolcemente come un angelo e in silenzio come la morte. Erano entrati nella piattaforma utilizzata per le coltivazioni; se non fosse stato per quel muro bianco che si vedeva in lontananza e le aperture circolari che davano sui ponti di collegamento tra i vari dischi la sensazione era quella di essere ancora sulla terra. La loro invasione venne subito scoperta: i colbi non danzavano più volteggiando sopra le vetrate di Atra sfiorando le sottili colonne e soprattutto non rispondevano più ai richiami degli Atralidiani. La loro apparizione e il frastuono creato dai Ramib non era quindi ato inosservato. Quando le guardie si avvicinarono camminando nei solchi tracciati dall'aratro, con gli archi tesi e le frecce incoccate, il gruppo si era ricompattato: Luna era fradicia e si era appoggiata al braccio di Arat, Gor invece sosteneva Aza che aveva metà viso coperto di sangue sgorgato dalla ferita procuratale dal Mutato volante. Cablam, silenzioso ed enigmatico, stava come sempre qualche o indietro rispetto agli altri. Una scoccata, un sibilo e la freccia penetrò nel collo di Aza; la ragazza

spalancò gli occhi appena in tempo per vedere la propria vita uscirle dalla bocca, in uno zampillo di sangue caldo. Gor gridò tutta la disperazione che quel corpo ormai morto gli trasmetteva e pianse con rabbia perché tutta la forza che aveva in sé non era servita a salvarla. "Questo è solo un avvertimento." disse freddamente colui che doveva essere il capo della pattuglia.

I superstiti vennero scortati alle prigioni; attraversarono i condotti trasparenti che univano una piattaforma all'altra e vennero nuovamente attaccati dai Ramib. I Mutati sbattevano contro le pareti di cristallo come mosche impazzite, nella frenetica bramosia di infrangere la barriera per assaggiare la carne che vedevano e che volevano avere. Poi deviarono la loro famelica attenzione verso il corpo senza vita di Aza che venne gettato fuori dalla piattaforma. Il corpo fu smembrato prima che giungesse al suolo. Nel buio della galera, della quale non erano riusciti a definire l'ampiezza, i nuovi prigionieri sentivano respiri e fremiti; per evitare di dare noia a qualche carcerato ancora meno socievole dei soldati di Atra erano rimasti stretti e abbracciati in quel piccolo pezzo di pavimento sul quale li avevano abbandonati. Forse per la vicinanza fisica o forse per quella sorta di contatto mentale che si instaura tra persone che hanno vissuto le stesse paure e che hanno unito le forze per risollevarsi dopo essere precipitati, per tutto questo e per ciò che ancora non ha un nome lo stesso pensiero si insinuò nelle diverse menti: la morte era sempre al loro fianco. Era stata fulminea con Aza ma quella era solo la sua ultima manifestazione: il tragico ricordo della fine di Bind Nebus, di Sargon e di Kib non li abbandonava mai. Che cosa sarebbe accaduto ora? Il viaggio che avevano intrapreso non era altro che una lugubre marcia che li avrebbe condotti inevitabilmente, uno per uno, tra gli artigli della Dea Aar? Cablam era l'unico a non condividere le sensazioni del gruppo; rimase solo, perfettamente integrato in quelle tenebre pregne di percezioni malefiche, sicuro del fatto che quel giorno lui non sarebbe morto. Luna sentiva Arat tremare e istintivamente lo abbracciò saldamente. Conosceva quel palpito nell'animo del giovane: la perdita di Aza era difficile da accettare. Luna aveva scoperto il legame speciale che aveva unito i due guerrieri e

sicuramente aveva capito la sua importanza più di quanto avesse inteso Arat stesso. Si ripromise di essere maggiormente d'appoggio nei confronti del giovane capo. Arat non si accorse dei sentimenti che il suo cuore aveva espresso tramite quel breve istante di debolezza, né si rese conto di quanto Luna lo avesse profondamente compreso; scambiò la stretta di Luna per una richiesta di sicurezza ma non poté più mentire a sé stesso quando si sentì confortato dal caldo contatto. Solo il forte autocontrollo di cui tanto si vantava lo trattenne dal piangere. La luce del corridoio tagliò in due l'oscurità della prigione, l'aria nuova entrò mescolandosi al fetore racchiuso tra le pareti. I guardiani entrarono con il clangore delle loro armature; neri di pelle tanto da sembrare ancora oscurati dal buio, guardavano i prigionieri come avrebbero fatto degli dei malvagi e impietosi: ed in effetti era proprio così perché quei due soldati semplici in quel momento avevano diritto di vita e di morte nei confronti di tutti loro. Ai membri del gruppo, che vedevano solo i tratti somatici della razza senza notare le caratteristiche del singolo individuo, i due uomini apparivano molto simili. Rispettavano i canoni tipici della Famiglia Atralidi: zigomi pronunciati, naso imponente e largo alla base, labbra viola e carnose, capelli neri e crespi. Quello più alto (entrambi superavano la già considerevole altezza di Arat) parlò per primo. "Chi prendiamo, il capellone?" Arat si sentì pericolosamente preso in considerazione, ma poi pensò eroicamente che era meglio che 'giocassero' con lui piuttosto che con Luna. Lei intanto si era avvicinata ancora di più per nascondersi dietro la figura di Arat. "No, prendiamo l'altro." Il dito del secondo soldato puntò verso il punto più oscuro della prigione, ma poi si spostò in direzione di Gor; ancora una volta Cablam aveva plagiato la realtà a suo piacere. "Meglio! Più sono grossi e più fanno rumore quando cadono." Entrambi si compiacquero per la scelta, come se veramente la decisione fosse partita dalla loro materia cerebrale. Gor non fece resistenza; qualsiasi cosa gli avessero fatto lui era in grado di sopportarla meglio di chiunque altro. Chio le caviglie dell'immelico in morse di ferro fissate alla parete, le manette serrate ai

polsi erano fissate ad una catena collegata ad un argano. I due carcerieri, elevati al rango di torturatori, arrotolavano la catena attorno al tamburo facendo forza sulla ruota dentata: ad ogni giro di ruota i muscoli schioccavano facendo sussultare il gigante bianco. I muscoli delle costole premevano contro i polmoni ed un gemito incontrollato uscì dal grugno di Gor; il dolore fu grande: questa dimostrazione di debolezza ferì l'immelico più della tortura alla quale era sottoposto. E la sua esperienza gli diceva che quello era appena l'inizio. "Non dirò niente! Né a voi né al vostro superiore." "Non hai capito. Non vogliamo sapere nulla. Il capitano è andato a sarsela con la sua amica e noi siamo costretti a farvi la guardia." "Ci annoiavamo e volevamo divertirci." Il primo pensiero di Gor fu semplice: maggiore era la sua resistenza e minore era la possibilità che i due scegliessero un altro giocattolo. Da quando aveva sorretto il corpo senza vita di Aza si era ripromesso che avrebbe fatto di tutto per non vedere più la morte di un altro membro del gruppo; il prossimo a morire sarebbe stato lui o nessun altro. I due aguzzini avevano una grande esperienza nel campo delle torture, bisognava riconoscerlo. Tormentavano la vittima fino a farla arrivare ad un certo limite ma non permettevano mai che raggiungesse la pace dei sensi: la condizione in cui il corpo diventava insensibile alle percosse e lo spirito invocava la morte come una liberazione. No! A quel punto si fermavano e lasciavano che il riposo ricordasse all'appeso quanto gli fosse cara l'unica vita che possedeva; poi ricominciavano dall'inizio. Era questa la vera tortura: arrivare abbastanza vicini alla morte da desiderarla e poi risvegliarsi ancora vivi, ma sempre legati a quella catena. Gor resisteva bene, ma non aveva considerato che la noia era un tarlo che continuava a rodere anche quando era sazio; così i due soldati lasciarono il corpo livido e gonfio di Gor a metà tra l'oblio e la coscienza ed andarono verso la prigione comune. Era impossibile che Luna asse inosservata. I due soldati si avvicinarono a lei; si erano tolti le corazze che proteggevano il petto evidentemente per muoversi meglio attorno a Gor e per meglio sopportare il calore umido che stagnava nei piani inferiori della piattaforma, dove si trovavano. Uno dei due prese Luna e se la caricò sulla spalla. "No! Lasciatela! Prendete me!"

Arat sapeva che questo suo intervento avrebbe attirato ancora di più l'interesse dei due su Luna, ma l'istinto gli suggeriva che forse le cose potevano volgere a suo vantaggio. Doveva rischiare. "Non sono carini, i due fidanzati?" "Già! Non possiamo separarli." Presero anche lui. Arat contava proprio su questo: ora i due neri non erano più in due contro uno, avrebbe potuto attaccare il soldato al suo fianco contando sul ritardo dell'altro, impegnato a legare Luna. Con un colpo ben assestato poteva stordire il primo e prendere la sottile lama che teneva nascosta nella fodera degli stivali, tagliargli la gola e poi affrontare il secondo. Quest'ultimo avrebbe sicuramente attaccato Arat piuttosto di minacciarlo di sgozzare Luna: non era un comportamento onorevole per gli Atralidiani. La gomitata di Arat fu precisa, ma il colosso nero non si piegò in avanti come l'immelico aveva previsto. Con la coda dell'occhio vide che il secondo soldato aveva già finito di immobilizzare Luna, ma non accennò ad avvicinarsi per dare manforte al collega: anche questo era considerato indecoroso per un vero Cavaliere dell'Aria. Il soldato che gli stava di fronte non era rabbioso, come lui aveva ipotizzato, ma bensì controllato e concentrato. I colpi di Arat, diretti e violenti, non scalfirono il suo nero avversario; al contrario i lenti e coordinati movimenti dell'Atralidiano non fallirono. Arat si risvegliò e trovò il volto di Luna; erano appesi come carne da macello, l'uno di fronte all'altra. "Cosa dici? Facciamo vedere a questo eroico ma sfortunato fidanzato come si comporta un vero uomo." Dicendo questo il più alto iniziò ad accarezzare Luna. Premeva con il palmo della mano la pelle della tuta per percepire meglio i rilievi del corpo femminile che racchiudeva. Luna non reagiva; sembrava che la rassegnazione avesse preso il posto del sangue nelle vene e che tutto il corpo fosse assoggettato a quella condizione. Ma gli occhi di lei erano rivolti saldamente proprio alle pupille di Arat; nulla in lei vacillò, con sicurezza Luna gli stava dicendo di non preoccuparsi. Non era un messaggio dato dal misterioso potere che alle volte deteneva il possesso di Luna: questa sicurezza Arat l'aveva vista nelle costellazioni che illuminavano le due notti intrappolate negli occhi di Luna. "La vedo un po' troppo fredda."

"Perché non la facciamo scaldare? A me piace quando le donne gridano." "Sì! Facciamole vedere come è facile rimanere sole a questo mondo." L'interesse di entrambi gli uomini si era concentrato su Arat; si fasciarono le nocche con una striscia di cuoio morbido per evitare che i pugni lacerassero la pelle dell'immelico. Il 'gioco' infatti consisteva nel picchiare a turno la vittima. Il primo che lo faceva sanguinare aveva perso; la bravura dei due contendenti stava anche nella capacità di far durare la competizione il più a lungo possibile. La bocca di Luna si spalancò al primo pugno, ma la lacrima che bagnò l'occhio della ragazza non era distillata dalla disperazione. Le sue labbra si muovevano convulsamente e le sinvocazioni uscivano drammatiche dalla sua gola, ma gli occhi di serpente non lasciavano dubbi: Luna stava dando ai due Atralidiani (che le voltavano le spalle) quello che si aspettavano da lei; intanto si stava servendo del potere per uscire da quella situazione. Arat sperava. Sperava che quegli occhi alieni sul viso familiare di Luna fossero il sintomo di un nuovo e straordinario capovolgimento della realtà. Era la prima volta in tutta la sua vita che si affidava ad un altro per sopravvivere e si sorprese a pregare di non essere abbandonato. Una parte di lui però era dispiaciuta che quelle urla strazianti non fossero per lui e si domandò se Luna si sarebbe disperata in quel modo se realmente avesse visto quello che stava subendo.

Barda era davvero eccitante, seni generosi, gambe e braccia lunghe, pelle nera e profumata. E poi era così fantasiosa, i suoi giochi amorosi lo stimolavano molto. Gart la desiderava ed anche lei lo ricambiava con la stessa ione. Non erano quello che si poteva definire una coppia fissa, ma molte volte lei gli aveva confessato che pochi erano in grado di soddisfarla come lui ed anche Gart doveva ammettere di apprezzare molto di più le doti di Barda rispetto a quelle delle altre donne. Lui prese la testa di lei tra le mani e, gentilmente ma con insistenza, la spinse verso il proprio inguine. Barda dimostrò di gradire l'iniziativa e si soffermò a lungo in quella zona che sapeva essere molto sensibile a quel tipo di attenzioni. Gart decise che era il momento per dare a Barda quello che con tanta insistenza stava cercando. Non aveva paura di essere troppo precipitoso, sapeva che quello non sarebbe stato il loro unico incontro e che non sarebbero usciti da quella

camera prima del mattino seguente. Si sedette sul letto e le cinse la vita; lei rimase ferma, inginocchiata, come per riverire il suo uomo. Il signore che tanto adorava, dopo averla aggirata, le stava proprio dietro e le serrava tra le mani i fianchi. L'assalto fu irruento ma non violento e il gemito di piacere di Barda dimostrava che era pronta ad accettare anche il resto. Gart chiuse gli occhi per il piacere che provava ogni volta che entrava nel corpo caldo e umido di Barda. Ma questa volta c'era qualche cosa di diverso: la mente di Gart non si abbandonò al groviglio speziato dei sensi; anzi una luce fredda e cosciente cominciò a sciogliersi nelle sue vene. Allora cercò di pensare a quanto era sensuale il movimento di lei che cercava di assecondarlo e si spinse con maggiore vigore ancora più profondamente in Barda. Il risultato non fu quello sperato e Gart finì per perdere interesse per quello che stava accadendo tra le lenzuola. Uscendo dalla stanza, Gart non si voltò a salutare la sua amante; la notte era ancora lì a dipingere gli spazi tra le travi di metallo che sostenevano il cielo di Atra. Aveva ancora nelle orecchie le parole dolci e comprensive di lei che lo rassicuravano di essersi divertita lo stesso. Furibondo decise di fare ispezioni a sorpresa; la rabbia sarebbe esplosa alla prima insignificante mancanza.

"Che succede qui?" I due torturatori si fermarono e si irrigidirono nel saluto militare. Gart, il loro capitano, era arrivato senza annunciare la sua visita, e non pareva animato da buone intenzioni. "Conoscete il regolamento! Finché i giudici del Consiglio Supremo non interrogheranno i prigionieri questi non devono essere toccati." Gart non aveva nessuna voglia di contenersi. In altre circostanze avrebbe lasciato perdere tutta la faccenda, dopotutto bastava che i giudici trovassero i prigionieri ancora vivi ed in grado di rispondere, ma quello era un giorno diverso. "Scioglieteli e rimetteteli assieme agli altri. Portategli acqua fresca e focaccia dura. Voi due potete considerarvi puniti per sette turni, li erete allo smistamento liquami." Gart se ne andò senza aspettare di vedere eseguiti i suoi ordini, sapeva che i due soldati non avrebbero disubbidito. Ma la sua frustrazione non era ancora placata ed aveva bisogno di altri sfoghi. Andò a cercarli negli altri reparti.

Arat era ancora cosciente; i due soldati non avevano infierito sul suo volto per evitare che perdesse i sensi: in quel modo poteva sentire e soffrire per ogni colpo ricevuto. Il guerriero era ormai sfinito, ma trovò la forza di sollevare la testa; Luna era accanto a lui ed era scossa dal pianto liberatorio che lavò via le lacrime di sangue. Pagliuzze ambrate rimasero incastonate nel blu dei suoi occhi, segno che il potere non l'aveva completamente abbandonata come era accaduto nelle precedenti occasioni, e che non se ne sarebbe più andato.

Le mani di lei sfioravano il petto di Arat stendendo delicatamente l'unguento antidolorifico che aveva trovato nella giacca che era appartenuta a Bind Nebus. "Per un momento ho pensato che mi avessi abbandonato." La voce di Arat usciva con fatica dalla bocca insanguinata; le lesioni più dolorose erano interne ma lei poteva curare solo quelle più superficiali. "Adesso sai cosa si prova quando bisogna affidarsi agli altri per riuscire a restare vivi." Luna era corrucciata mentre medicava Arat: si sentiva responsabile di quello che gli avevano fatto e non poteva allontanare il senso di colpa. Un sorriso incontrollato confuse la sofferenza che provava; si accorse che il pensiero malizioso di stare accarezzando il corpo di un bel ragazzo si era insinuato tra la pena che provava per lui e il malessere per il torto che sentiva di avergli causato. Cercò di seppellire quella piacevole ma inappropriata sensazione, ma non riuscì a cancellarla. "Sei stata tu a chiamare il capitano, vero?" "Certamente. Sono riuscita a togliergli ogni interesse per l'attività che stava svolgendo ed ho indirizzato la sua attenzione verso i nostri carcerieri." "Sei stata brava. E questa volta sei stata proprio tu a cercare il potere, o mi sbaglio?" Arat terminò la frase con un gemito di dolore; come risposta Luna smise di sfiorarlo e lui si sentì veramente abbandonato. Lentamente ma con decisione, raggiunse la mano di Luna che si era allontanata temendo di aver causato la

sensazione dolorosa: con gentilezza la accompagnò fino a posarla sul proprio cuore. Come il sole riscaldava la terra, così il calore di Luna rinfrancò il corpo e lo spirito di Arat. "Avrei voluto fare prima." Luna parlava con voce delicata e ardente, parlava solo per lui. "Era terribile sapere che stavi soffrendo e non poter fermare i pugni prima che ti ferissero." Il nuovo tepore che scaldava entrambi i loro cuori venne interrotto dalla voce sgraziata di Sador: "Che cosa succederà ora?" Gli rispose Arat, ritornato dal luogo incantevole in cui si era isolato per un istante con Luna. "Il Consiglio Supremo ci interrogherà sui motivi del nostro arrivo e se non sarà soddisfatto delle risposte o se avrà il sospetto che non stiamo dicendo la verità, l'interrogatorio si sposterà nella sala delle torture." "Ammetto che non riuscivo neppure a sperare in una risposta diversa, ma sentirmelo dire mi ha davvero scioccato. Comincio a invidiare la morte rapida di cui ha beneficiato Aza. Buona notte a tutti." La notte terminò troppo presto e nessuno riuscì a dormire. Luna non si era preoccupata per il pericolo di morire, pensiero che invece aveva tormentato gli immelici; si era concentrata su quello che le aveva detto Arat: anche lui si era accorto che per plagiare Gart era stata Luna ad avvicinarsi alla Fonte e ad attingere il potere. Le volte precedenti si era sempre sentita investire dall'energia ereditata dai suoi avi ed aveva agito ivamente; questa volta aveva seguito il disegno che lei stessa aveva progettato ed era certa che da quel momento avrebbe sempre più preso coscienza del legame che la univa alla Fonte del Potere.

Ancora una volta Luna si trovava sotto processo, ma di fronte a lei questa volta non c'era la comunità di sangue misti che si nascondeva sotto le macerie di Deos e nemmeno la tribù dei Toblak, ostici ma aperti al dialogo. Qui c'era l'antico e nobile popolo degli Atralidiani, umiliato dall'assedio dei Mutati e oppresso dall'impossibilità di reagire. Le ferite che Cron aveva inferto avevano colpito soprattutto il loro orgoglio di guerrieri ed era proprio a questo che lei voleva

puntare; sperava di risollevate l'esercito per troppo tempo imbrigliato nell'inedia e di indirizzare la sua forza distruttiva verso il nemico di tutti, Cron. Luna questa volta non era sola; erano tutti e cinque schierati al centro della stanza triangolare. Il vertice era occupato da una guarnigione di Cavalieri dell'Aria mentre gli undici giudici supremi occupavano il lato opposto. La vetrata alle loro spalle era velata dalle nuvole che imbiancavano il cielo mattutino. Il giallo delle tuniche esaltava il colore bronzeo della pelle e il loro grado di importanza era definito solo dalla loro età: il Presidente era il più anziano ed era l'unico con i capelli bianchi, gli altri dieci rappresentavano le diverse sfumature delle altre due età riconosciute come 'compatibili con la piena responsabilità' e cioè quella giovane e quella matura. Sedevano su sgabelli dalla linea essenziale, senza schienale e braccioli; ognuno di loro aveva deposto di fronte a sé la propria armatura, per ricordare a tutti che oltre che uomini colti erano anche dei validi guerrieri. Il Presidente Davor si alzò in piedi. Era considerato il capo della Famiglia anche se le decisioni importanti venivano prese dal Consiglio Supremo al completo. "Definitevi." L'ordine era chiaro e la risposta che si pretendeva doveva essere altrettanto diretta. "Arat, già guerriero nelle fila dei combattenti di Deos, ora capo di questa spedizione." "Luna, Deoscuridiana." "Gor! Mercenario forte e coraggioso." "Sador, immelico." "Cablam." E lo disse con la sicurezza di chi sa di essere conosciuto da tutti e con l'indifferenza di colui che non si cura di definire agli altri (inferiori) la sua posizione. "Le imputazioni sono molteplici: invasione del territorio sopraelevato di Atra, cospirazione contro la legge della Milizia Atralidiana, agevolazione degli

attacchi dei Ramib con la conseguente accusa di attentato alla vita della Famiglia. Come vi dichiarate?" Sador partì senza preavviso e parlò, come sempre, a sproposito. "Siamo innocenti. Ci siamo salvati per un pelo dai Ramib, poi avete ucciso Aza e ci avete imprigionato... " Il Presidente non lo stava ascoltando; lui, come pure i dieci Giudici, stava aspettando che Arat (colui che si era dichiarato capo) parlasse. "Siamo venuti da Deos per proporvi di entrare a far parte del grande esercito che sconfiggerà Cron e le sue armate di Mutati." Improvvisamente, Arat si accorse dell'assurdità di quelle parole; il concetto di unione e di cooperazione strideva con il comportamento degli Atralidiani: l'assassinio di Aza, le torture ingiustificate ed ora questo interrogatorio che pareva sempre più una farsa che si sarebbe conclusa con la morte dei prigionieri. Davor declamò severamente: "Congiunzioni di forze e collaborazioni militari tra Famiglie e/o tribù di Solamia possono essere stipulate solo dal Congresso Superiore Militare. La richiesta di allestire il Congresso può essere ingiunta solo da un rappresentante nobile e quindi appartenente ad una delle quattro Famiglie. Egli deve possedere quindi requisiti specifici: puro di sangue e di spirito e appartenente al grado militare superiore in assoluto, facendo riferimento alla gerarchia specifica per ogni Famiglia. Se venite da Deos, come avete dichiarato, sappiamo che il suo esercito non esiste più da molto tempo, da quando la Famiglia è stata sterminata. Anche se accettassimo il fatto che qualcuno di voi abbia il grado di ufficiale in qualche esercito, più o meno regolare, non possiamo assolutamente soprassedere sul fatto che siete immelici, e quindi impuri. Non avete alcun diritto di richiedere l'intervento del Congresso Superiore Militare." Il Presidente, soddisfatto delle sue ragioni, già guardava i dieci giudici che parlavano freneticamente tra loro. Tra poco avrebbero votato e lui avrebbe declamato la decisione unanime di mandare a morte gli inutili prigionieri. "Io posso convocare il Congresso." Luna era uscita dallo schieramento e si era avvicinata di un o al gruppo di

giudici; un paio di soldati, alle sue spalle, si mossero per intervenire ma Davor li fermò con una sola occhiata. Come aveva fatto con i Toblak, Luna si appropriò della lingua dei suoi avversari per conquistarsi il diritto a parlare. "Sono una pura di sangue e di spirito della Famiglia Deoscuridi. E non temo smentite di sorta." La pupilla nera fendeva verticalmente il globo oculare colorato di arancio e sfidava silenziosamente i Giudici, increduli di quello che stavano vedendo. Fu il Presidente Davor a riprendersi per primo dallo stupore (per altro non manifestato) e parlò a Luna con il viso scalfito da un ironico quanto irritante sorriso. "E' sicuramente un dato certo. Ma permettimi di chiarire un punto altrettanto fondamentale. Tu fai parte dell'esercito di Deos?" Luna fu all'altezza della situazione e non perse di vista il fine ultimo: doveva costringere i giudici a concederle il diritto di richiedere il Congresso senza però forzarli oltre i loro regolamenti, altrimenti sarebbe stata una battaglia persa in partenza. "Non prendiamoci in giro. Sono solo una piccola donna ma sono un soldato. Questo grado l'ho meritato combattendo contro i miei stessi dubbi, contro l'ignoranza e la poca fede della gente e contro la sfiducia dei miei stessi compagni di viaggio." "Non volevo mettere in dubbio il tuo valore e il tuo coraggio." I Giudici sorrisero, sapevano che Davor la stava palesemente insultando. "Però il soldato non è certo il più alto grado nella gerarchia Militare." "Cerchiamo di non essere ridicoli..." Luna sapeva che gli orgogliosi Atralidiani avrebbero letto la frase come un attacco alla loro serietà. Voleva provocarli. "Voi stessi avete riconosciuto che l'esercito di Deos è stato sterminato. Quindi il mio grado di soldato semplice è proprio il più alto: io sono ciò che rimane dell'esercito della mia Famiglia. Se leggete il regolamento vedrete che richiedendo l'allestimento del Congresso Superiore Militare sono pienamente entro i miei diritti." Luna stava mentendo; suo padre era diventato Generale dopo la morte di Agor ed inoltre c'era Danur: il Deoscuridiano che avevano incontrato alla locanda era

capitano. Ma lei contava sul fatto che i Giudici di Atra non potessero essere a conoscenza di questi particolari; doveva solo fare attenzione a non smentire le proprie affermazioni.

Il Congresso si svolgeva nella stessa sala in cui aveva avuto luogo l'interrogatorio; al centro della sala era stato sistemato un lungo tavolo rettangolare. Quattro uomini erano stati scelti tra i dieci Giudici come rappresentanti della Famiglia Atralidi, il quinto membro necessario era, ovviamente, il Presidente Davor. Arat, Sador e Gor erano stati elevati a delegati speciali della Famiglia Deoscuridi ed affiancarono Luna. Cablam non nascose le sue capacità di illusore e gli Atralidiani pretesero che venisse tenuto alla larga da quella sala:, la presenza di una persona capace di plagiare a suo piacimento il volere altrui avrebbe invalidato qualunque decisione presa dal Congresso. Non ci furono obbiezioni da parte di Luna e degli altri che accettarono di buon grado un Atralidiano come quinto membro del loro schieramento. Luna scelse Goza, un giovane alto e dalla pelle più nera di tanti altri suoi famigliari. Come tutti era stato costretto a presentarsi come volontario ed era un soldato semplice che non pareva diverso dagli altri. Sul tavolo scolpito nella pietra (venti uomini forti e massicci lo avevano trasportato fino lì) erano distese mappe che delineavano i confini di Solamia, almeno così come appariva prima della Soppressione. Gli Atralidiani erano in possesso di lettere e documenti, scritti da intrepidi viaggiatori di terra e di mare, che testimoniavano questo o quel cambiamento nelle terre torturate dai Mutati. Riferivano inoltre delle migrazioni delle genti di Solamia in diversi luoghi di raccolta. Anche Arat aveva con sé diverse lettere che erano appartenute a Sargon e che risalivano sia ai primi periodi della Soppressione sia a poco tempo prima della loro partenza da Deos. Molte notizie però erano in disaccordo con altre e non vi era un modo sicuro per accertarsi quali fossero quelle che più si avvicinavano alla realtà. Bisognava quindi interpretarle, soprattutto quelle che riguardavano il punto esatto in cui sorgeva Lubra, l'isola di Cron e fucina di tutti i Mutati. L'unica cosa certa era che si trovava al limite dell'Oceano di Savra (a Sud-Est delle acque appartenenti alla Famiglia Nimferidi), là dove si confondeva con l'Oceano Sud. Le riunioni duravano ore e si protraevano ormai da diversi giorni. Ogni tanto però si sospendeva la seduta e Luna ed i suoi compagni ne approfittavano per

entrare in contatto con la realtà di Atra e dei suoi abitanti. Era Davor stesso a spingerli ad aggirarsi per le vie della città sospesa, naturalmente sempre seguiti da Goza che aveva il compito di osservare e riferire. Ma ogni abitante di Atra spiava e giudicava i comportamenti degli stranieri; Davor forse sperava che il popolo insorgesse alla vista di quegli estranei senza spina dorsale che osavano sfidare i grandi Cavalieri dell'Aria; contava forse sullo scontento popolare per annullare la legittimità del Congresso e potersi finalmente sbarazzare di quegli immelici invadenti: le guerre dopotutto si potevano vincere con l'onore della battaglia sul campo o con la subdola arma della politica. Cablam era il più sgradito agli Atralidiani; per un popolo pragmatico e inflessibile come loro, un uomo che creava sogni e manipolava visioni doveva apparire come il peggiore dei mostri. Lo definirono 'ospite particolare' e lo ospitarono in una 'stanza privata', ma la realtà era che avevano messo l'indesiderato in isolamento. Luna non aveva bisogno di parlare con Cablam per capire che nessun muro poteva limitarlo e che se rimaneva tranquillamente rinchiuso era perché era lui che lo voleva. Arat e i due immelici invece si erano apionati dell'armeria e Gor aveva addirittura fatto amicizia con il fabbro; trascorrevano lì quasi tutto il tempo che avevano a disposizione. Luna restava sola e Goza l'accompagnava attraverso i vari settori in cui era divisa Atra. Stanze e corridoi asettici si susseguivano uno dietro l'altro e nulla avevano in comune con le piazze e le vie delle città incontrate fino a quel momento: erano i percorsi di collegamento che univano le diverse aree in cui era suddivisa ogni piattaforma. Ogni disco, se guardato in pianta, era costituito da una zona circolare centrale e da un anello. Il centro raggruppava le vie che portavano ai vari spicchi in cui era suddiviso l'anello esterno. Durante il suo vagabondare (sempre seguita da Goza) incontrò anche le donne della Famiglia Atralidiani: erano molto alte e le larghe vestaglie che indossavano non riuscivano a celare la sinuosità dei loro fisici atletici. Anche Sador le aveva notate ed era letteralmente in estasi; la presenza di quelle femmine lo esaltava e nello stesso momento lo intimoriva: avrebbe voluto dare la caccia ad ognuna di quelle prede dalle gambe lunghe ma oltre che belle quelle donne erano anche forti soldati. Non era salutare per un tipo come lui importunarle e spesso era possibile vederlo eggiare tristemente per i corridoi con lo sguardo di un affamato di fronte ad un cibo bello ma velenoso.

Il rapporto che si era instaurato tra i visitatori e gli abitanti di Atra era difficile da definire. Non si poteva dire che avevano fraternizzato ma gli estranei non erano stati esclusi dalla vita della comunità. Un giorno, il giorno in cui gli animi erano così infiammati che la quotidiana riunione del Congresso venne sospesa prima del solito, a Gor fu consentito di gareggiare con un Atralidiano nella lotta. Un onore che l'immelico non si lasciò sfuggire. L'incontro si svolgeva nella palestra usata dai Cavalieri dell'Aria per allenarsi nelle varie discipline. Un tempo gran parte dell'addestramento si svolgeva all'esterno delle mura, con i colbi, ma da tempo i compagni animali non volavano più con i soldati sul dorso. Il campo di gioco era delimitato dal cerchio di uomini e donne che si godevano lo spettacolo. In mezzo alle grida urlate in Atranos si sentivano flebili le parole che Luna, Arat e Sador usavano per incitare il loro compagno. Era la prima volta che Luna vedeva il suo gigante (che di fronte al nero guerriero non appariva più tale) in difficoltà. Le mosse di Gor erano veloci ma imprecise, tanto da sembrare incerte e quindi inefficaci. I movimenti del soldato dalla pelle scura invece erano equilibrati e incisivi, ogni colpo andava a segno. Dopo poco tempo Gor dava già segni di stanchezza mentre il suo avversario non era neppure sudato: tutto il corpo dell'immmelico era un fascio di nervi in tensione e la sua faccia esprimeva la rabbia che aveva nel cuore. Al contrario, il volto scuro del soldato era rilassato e i suoi muscoli si muovevano fluidi ed armoniosi come se stesse danzando invece che lottando: sembrava proprio che stesse vincendo. Il colpo di grazia giunse e il boato della platea tutta sommerse i pallidi visitatori. Gor era uno straccio: non era ferito ma avrebbe sofferto di meno se il suo corpo fosse stato massacrato. Il suo orgoglio grondava sangue. Non aveva perso la sfida a causa di una mossa micidiale e nemmeno perché il suo avversario era più forte: si era lasciato andare all'ira e aveva perso il suo equilibrio; l'Atralidiano aveva atteso solo quel momento per sopraffarlo. Luna era infuriata. Non era colpa di Gor, ma la sua misera prestazione avrebbe avuto ripercussioni sulle future riunioni del Congresso: era un popolo orgoglioso della propria potenza fisica e del proprio valore militare ed era dunque necessario dimostrare di possedere le loro stesse capacità, altrimenti non avrebbero mai preso in considerazione l'idea di un'alleanza. "Chiedo la rivincita."

Non aveva gridato, ma l'assurdità di quello che aveva detto fermò i festeggiamenti. Non era considerata una proposta inconcepibile perché veniva da una donna (ad Atra erano considerate al pari degli uomini), ma Gor aveva perso e quindi tutti loro ormai erano considerati degli incapaci. Per la mentalità Atralidiana avrebbero dovuto nascondersi per la vergogna e abbandonare tutti i loro progetti. Il leader del gruppo si avvicinò a Luna e non nascose la sua collera; Goza si allontanò dal suo fianco e le voltò le spalle come se avesse eseguito un ordine telepatico impartito da quell'uomo: da quel momento erano soli, la tregua stabilita dal Congresso era revocata. "Prima di parlare devi sempre ricordare quello che è successo alla vostra amica." Così dicendo mimò con il dito la freccia che aveva tolto la vita ad Aza. L'allusione alla tragica morte della loro compagna le gelò il sangue, ma si scoprì meno impaurita di quanto credesse e molto meno ferita di quanto pensasse: si sentiva spinta da una forza che non le apparteneva completamente e che la spronava a continuare in una lotta che diventava sempre più un bisogno personale e sempre meno un atto dovuto al popolo tutto. Sarebbe ata sopra ad ogni cosa per raggiungere il suo scopo? Non volle darsi una risposta per paura di non ritrovare gli ideali che l'avevano spinta a partire e cancellò dalla mente anche quella domanda così pericolosa. "Io e la Famiglia Deoscuridi abbiamo tutto il diritto di dimostrare il nostro valore." "Allora facciamo una gara di tiro al bersaglio!" La prova era una sola e non c'era una seconda possibilità. Non le avevano concesso nemmeno un tiro di prova: volevano prendersi tutto il vantaggio possibile, dopotutto perché avrebbero dovuto dare anche solo un piccolo aiuto al nemico? Con una sola scoccata (la prima della sua vita) Luna si giocava il destino di Solamia. Gli Atralidiani si reputavano troppo superiori per abbassarsi al livello di una straniera, decisero così che sarebbe stata la Dea Babas a stabilire il nome dell'avversario. La scelta cadde su una guerriera che si avvicinò a Luna senza alcun entusiasmo, ma già concentrata sul compito che era chiamata a svolgere. Le due donne si legarono i capelli dietro alla nuca per impedire alla chioma di coprire la visuale. Entrambe dovevano mostrare le spalle al bersaglio, voltarsi

rapidamente e scoccare senza indugiare. Il bersaglio era una moneta di Atra fatta oscillare da un'asta di metallo. Come un metronomo l'asta faceva 'tic' quando ava per il centro, l'oscillazione però non era così precisa. Se entrambe le arciere avessero fatto centro si sarebbero contate le oscillazioni attese prima della partenza della freccia: meno oscillazioni, maggior bravura e la vittoria. La punta doveva traare la moneta, per questo motivo le armi erano più pesanti e si doveva imprimere maggior forza nel tendere l'arco. La scura voltò le spalle al bersaglio. I margini irregolari della moneta fischiavano contro l'aria durante l'oscillazione. La nera guerriera si girò di scatto con gli occhi chiusi per non essere distratta dallo spostamento rapido delle immagini ai lati del campo visivo. Quando riaprì gli occhi la moneta era esattamente dove lei pensava che fosse, la reazione seguente avvenne fulmineamente. La freccia penetrò il metallo scuro della moneta. L'asta non aveva percorso ancora la seconda oscillazione. L'esaltazione dei compagni d'armi non aveva più limiti, tutti corsero ad abbracciare la donna che però rimase rigida e concentrata: Luna doveva ancora lanciare. Prese posizione e chiuse gli occhi, il sibilo della moneta divenne l'unica presenza di cui era consapevole. Nella sua mente la vedeva oscillare da destra a sinistra: il disco metallico si mosse sempre più lentamente finché si fermò al centro dell'Universo. Luna si voltò e lanciò la freccia. Dietro le palpebre abbassate gli occhi diventati arancioni vedevano avverarsi le previsioni: la punta traò la moneta che non aveva percorso tutta la seconda oscillazione. Il silenzio dei soldati scuri era interrotto dalle grida di gioia di Gor, Sador e Arat. La gara era finita in parità, peccato che in lingua Atranos non esista neppure una parola con questo significato. "Voglio la prova del coraggio e della fiducia." La proposta dell'avversaria nera trovò il consenso di tutto il pubblico della sua razza mentre i tre uomini bianchi non accolsero la notizia con lo stesso entusiasmo. Questa volta solo Luna doveva cimentarsi nella prova; era un rito al quale tutti i soldati di Atra si sottoponevano se volevano essere presi in considerazione dai colleghi. "Qui si decide se Luna ha il coraggio che dice di avere e se qualcuno ripone in lei la fiducia che lei chiede a tutti." Il proclama uscì dalla bocca del leader, che proseguì: "Chi non teme di mettere la propria vita nelle mani di Luna dovrà

mettersi in piedi, con la schiena appoggiata a questa parete di legno. Luna lancerà tre frecce che dovranno piantarsi attorno alla testa del fiducioso compagno ad una distanza massima di un dito dalla carne. La squalifica avviene al primo sangue o, naturalmente, alla morte dello sfortunato." Il discorso era rivolto a tutti, anche agli Atralidiani ma naturalmente nessuno di loro si mosse; qualche soldato in vena di scherzi incitò Goza ad offrirsi come volontario, adducendo il fatto che ava così tanto tempo con gli stranieri che stava già perdendo colore. La faccia di Goza infatti appariva pallida, ma per la vergogna di essere associato a quella gente bianca come la morte. Arat si fece largo tra i Soldati di colore e si posizionò tra Luna e la tavola di legno. Lei avrebbe voluto corrergli incontro e abbracciarlo: quell'uomo che l'aveva insultata appena l'aveva conosciuta la stupiva ora con la sua sincera devozione. Incoccò la freccia e poi mollò la presa. La direzione però non era precisa come aveva calcolato perché la sua attenzione era stata distratta da un fulmine che le aveva attraversato il campo visivo. Per un attimo Luna temette per la vita di Arat, ma il dardo si conficcò nel legno con un suono secco, era così vicino al suo orecchio che la punta aveva tagliato una ciocca di capelli ma non vi era sangue. Con un sorriso irritante il leader si beffò di Luna. "Mi sono dimenticato di dirti che la tua concentrazione verrà distratta da Fabua, la tua avversaria, che lancerà delle frecce contro di te. Ovviamente cercherà di non colpirti." Luna spostò lo sguardo alla sua destra. Fabua aveva già l'arco teso e carico, la freccia puntava diritta contro la sua testa. Luna non si sentiva più così sicura, aveva paura di colpire Arat perché aveva paura di essere uccisa dall'Atralidiana; lui invece era tranquillo e cercava di infondere calma a Luna guardandola con sguardo fermo. Luna scoccò il secondo dardo un istante dopo che la freccia di Fabua aveva sfiorato i suoi capelli. Anche questa volta Arat si salvò. La terza freccia si piantò nella parete senza intaccare il bel viso dell'immelico ed il suono della penetrazione riecheggiò nel silenzio della sala. La folla si disperse senza dare soddisfazione agli stranieri e Luna e gli altri non ebbero la forza di esprimere la loro felicità per timore di innervosite degli ospiti così aggressivi.

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CAPITOLO 12

La sfida tra Fabua e Luna aveva generato un certo interesse tra le fila dei militari. Molti avevano accentuato la loro istintiva inclinazione a considerare pericolosi gli estranei ed erano perciò convinti che il Presidente dovesse interrompere le trattative e are a fil di spada i cinque stranieri. Fortunatamente alcuni avevano visto la sorprendente vittoria di Luna sotto un altro punto di vista: lei aveva dimostrato che era una guerriera capace almeno quanto un Atralidiano e il popolo aereo non doveva esimersi dal prendere seriamente in considerazione la sua proposta. Purtroppo i membri Atralidiani che partecipavano al Congresso non parevano interessati in alcun modo all'evento, anzi deliberarono un'intera giornata di sospensione per dedicarsi ai riti di Rafan. Non c'è cosa peggiore, per chi ha troppo a cui pensare, di avere troppo tempo per pensare. Ciò che accomunava tutti i componenti dell'eterogeneo gruppo che partì da Deos era uno solo: noia. Era una condizione che ad un osservatore esterno poteva anche sembrare fuori posto ma era proprio questa afflizione lacerante che occupava le loro menti. Il dolore e la rabbia provata per la morte di Aza, il terrore che li aveva uniti nella breve permanenza alle prigioni, tutto questo apparteneva ad un ato che pareva molto lontano proprio perché il tedio delle giornate ate a discutere senza arrivare al bandolo della matassa aveva dilatato il tempo fino a renderlo insopportabile. Era tutto tempo perso. Arat, Gor e Sador erano uomini d'azione e mal sopportavano le lunghe discussioni che si tenevano in sede congressuale; non erano uomini tutto muscoli e niente cervello, ma si erano presto resi conto di quanto sterili e inconcludenti fossero le riunioni svolte fino a quel momento. Luna dal canto suo era delusa dal comportamento dei Giudici che sembrava volessero prolungare l'agonia di coloro il cui destino di morte era già stato deciso. Cablam non soffriva del loro stesso male semplicemente perché per lui quella non era una situazione nuova. Lui era abituato a trovare ogni evento

irrimediabilmente noioso e il suo umore era quindi immutabile. Erano gli altri che si erano avvicinati al suo stato d'animo e, come ogni altro essere vivente, cominciavano a non sopportare più la convivenza con tale condizione. Quel giorno Luna accettò l'invito di Goza e andò a vedere i bambini che venivano allevati e istruiti nelle aule comuni. Non vedeva l'ora di lasciare la stanza che condivideva con i suoi compagni e soprattutto di allontanarsi dai pensieri che appartenevano anche a lei, ma che diventavano insostenibili solo quando era vicina a chi condivideva il suo stesso sconforto. Superata la diffidenza iniziale i bambini si lasciarono andare e coinvolsero Luna nei loro giochi. Erano affascinati da lei perché, a differenza di tutti gli adulti che li circondavano, si divertiva a giocare con loro. Luna sorrideva e pareva spensierata; in verità quell'incontro aveva risvegliato in lei ricordi così felici che l'avevano addolorata: la vista di quei bambini dalle tuniche azzurre si confondeva con la visione dei suoi compagni ai tempi dell'asilo. Il ricordo di sua madre adottiva che arrivava amorevole per riportarla a casa si insinuò dolorosamente, ma i suoi contorni erano sfuggenti e la sua immagine evaporò in un sospiro. La ragazza era triste anche perché riusciva a vedere la paura nei loro sguardi vispi e riconosceva l'incertezza nei larghi sorrisi. Non poteva non notare che erano troppo magri per essere sani e lesse negli occhi dei loro maestri il timore di vederli morire prima che potessero crescere. Quando fece ritorno nelle stanze che i giudici avevano adibito ad alloggio per gli 'ospiti' la situazione non era cambiata. I suoi compagni si sentivano in gabbia e l'intera situazione cominciava a diventare soffocante. Luna temeva che, se le trattative con gli Atralidiani non si sbloccavano e non si arrivava finalmente ad una svolta, anche un uomo equilibrato come Arat avrebbe cominciato a dare segni di insanità mentale. Per quanto riguardava Gor e Sador il problema era sicuramente più immediato: i due già avevano deciso che la storia del Congresso era tutta una farsa per prenderli in giro e che presto dei sicari mandati dal Presidente Davor sarebbero arrivati per sgozzarli tutti nel sonno. Prima del sorgere del sole un soldato si presentò e chiese di conferire con Luna: portava un messaggio di Davor: il Presidente chiedeva alla giovane Deoscuridiana il piacere della sua presenza, immediatamente. L'istinto di protezione nei confronti di Luna che era nato in Arat si svegliò dal torpore: non si trattava dell'ora, insolita per un incontro (dopotutto gli Atralidiani non

dormivano più di tre o quattro ore per notte), bensì del soggetto a cui veniva inoltrata questa proposta. Davor aveva sempre parlato esclusivamente con Arat. Nonostante non gli pie la nuova situazione Arat dovette ritirarsi in buon ordine: l'invito era in realtà categorico e non era pensabile far irritare il Presidente anche semplicemente chiedendo spiegazioni sulla sua nuova politica. Davor era appena uscito dalla vasca da bagno. Si presentò a Luna con la pelle ancora umida e coperto solo da un telo di cotone. Nonostante l'età il fisico del Presidente era ancora statuario. "Sono felice che tu abbia accettato il mio invito, Luna la Deoscuridiana." "Come avrei potuto rifiutare?" Davor voleva apertamente prendersi gioco di lei e Luna volle chiarire, con questa frase, il fatto che non era così stupida come evidentemente l'aveva giudicata. La sicurezza dell'uomo non venne scalfita. "Spero che tu abbia capito che il giorno di sospensione che vi ho concesso era per aiutarvi a ritrovare la giusta dimensione delle cose. Mi sarebbe dispiaciuto vedere che una semplice vittoria strappata con l'inganno vi fe credere che ormai le decisioni del Congresso non potevano che andare nella vostra direzione." "Immagino che tu ti riferisca alla sfida di tiro al bersaglio: in effetti credevo che quel giorno fosse un periodo di riflessione per voi. Dopo quello che è successo non potete non comprendere con chi avete a che fare." "Con degli ingannatori... Forse puoi illudere alcuni giovani e inesperti soldati con il tuo potere, ma esso non ha effetto su chi sa che le battaglie si combattono con il sudore e con il sangue, con la mente e con il cuore." Il fervore che aveva animato tali parole si stemperò nella cautela che faceva parte del carattere di quel grande uomo: era anche per questo che si era ritrovato alla guida dell'intera Famiglia Atralidi. Con un gesto Davor invitò Luna a sedersi. "Ti preparerò qualcosa da bere." Se non si conoscevano affondo i valori in cui erano cresciuti gli Atralidiani

difficilmente si poteva tradurre i loro comportamenti. L'accusa che Davor aveva fatto a Luna era molto forte ma il repentino cambio di discorso non era un'ulteriore mancanza di educazione. Si trattava invece di un ripensamento: Davor si rendeva conto di aver esposto con troppa brutalità il concetto e voleva riprenderlo da zero; per gli Atralidiani era inconcepibile scusarsi e quindi in queste situazioni l'unica cosa da fare era parlare d'altro e ritornare poi sull'argomento scottante, come se fosse le prima volta. Davor dava le spalle a Luna e armeggiava con bicchieri e bottiglie. La ragazza non poté trattenere un gemito alla vista della cicatrice che gli scendeva dalle spalle fino a metà della schiena e che si distendeva su tutta la sua larghezza. Poi Luna si pentì della sua leggerezza e si rese conto che quello che aveva scambiato per il brutto ricordo di una battaglia era invece un vero e proprio disegno: due ali dalle piume stilizzate si spiegavano su quella schiena umana. Le sottili linee rosa delineavano le ali del colbi, il compagno inseparabile di ogni Cavaliere dell'Aria, almeno così era prima della Soppressione. Davor sapeva quale domanda stesse nascendo in Luna e decise che quello era un ottimo argomento di cui parlare prima di riaffrontare il discorso originario. "Tutti i soldati, dopo il battesimo dell'aria, potevano essere marchiati. Il segno delle ali del colbi legava in maniera indissolubile il cavaliere all'animale e proteggeva entrambi dall'ira del nemico. La forza della Dea Babas era con loro." Un filo di tristezza si insinuò nella voce fiera del vecchio soldato. Ricordi di valorose battaglie si affacciarono alle finestre scure che erano i suoi occhi e si scontrarono con le immagini delle attuali condizioni della sua Famiglia. "Nessuno della nuova generazione ha potuto godere di questo marchio… è un peccato." Luna con questa frase aveva colpito nel segno. L'orgoglio di Davor sanguinò e l'uomo sentì più forte il perenne dolore che lo tormentava: il dolore di non aver visto il suo ultimo figlio a cavallo di un colbi. Ogni volta che vedeva la schiena liscia e inviolata del figlio sentiva una stretta al cuore, lì dove abitano i sentimenti più cari ad un combattente. Un ricordo più intimo fece piangere l'animo duro di Davor: non aveva dimenticato come, in occasione della nascita del nipote, l'idea che neppure lui sarebbe stato marchiato gli avesse fatto temere che, da quel momento in avanti (dalla comparsa del dittatore Cron) nessun altro

Atralidiano avrebbe potuto aspirare a quel segno di potere e di forza. "Se Cron venisse sconfitto i bambini che oggi indossano i camici azzurri potrebbero realmente sperare di avere un giorno il marchio di protezione della Dea Babas." Luna stava rivoltando il coltello nella piaga, ma non temeva di far infuriare il Presidente; voleva aiutarlo a raggiungere i pensieri penosi che aveva seppellito per non soffrire: sperava che Davor capisse che il dolore sarebbe scomparso definitivamente appoggiando le idee di alleanza e di comunione con l'intera Solamia. L'uomo scattò improvvisamente, ma fu per angoscia più che per collera. "Detesto voi Deoscuridiani. Voi e il vostro subdolo potere. Credete di avere il mondo nelle vostre mani." "Non ti daremo fastidio per molto tempo ancora. Quando io morirò la nostra razza si estinguerà definitivamente." "Meglio! Dopotutto Cron è un Deoscuridiano; è la vostra Fonte del Potere che gli dà la forza di stritolare l'intera Solamia... " "... E di costringere un popolo fiero e combattivo come gli Atralidiani a chiudersi nella loro città tra le nuvole. No. Cron non è più Deoscuridiano. Quando il capostipite dei Cron abbandonò la Famiglia si liberò anche del legame con la Fonte del Potere. Se avesse continuato ad attingere ad essa avrei risalito il fiume di energia che mi investe, avrei trovato il principio di tutto questo male ed ora saprei dove trovare Cron e come vincerlo. Purtroppo non conosco nulla di tutto ciò ed è per questo che ho bisogno di voi e di tutti i soldati che Solamia ha generato in questi anni bui. La Soppressione si può combattere e insieme possiamo distruggere Cron." La sofferenza era sempre viva nelle vene di Davor; il tempo non aveva cicatrizzato le ferite ma le aveva solo fatte dimenticate. Luna le aveva brutalmente rimesse sotto gli occhi del Presidente che solo ora si accorse quanto avevano sanguinato in tutto quel tempo. Era diventato così stanco che la rassegnazione l'aveva sopraffatto. Luna non gli diede tregua e continuò: "Il sangue valoroso di Atra potrebbe essere versato nel prossimo improvviso attacco dei Ramib e giovani vite sarebbero così sprecate; oppure i soldati

potrebbero battersi valorosamente volando ancora nel cielo sui colbi... " "Favole... " "Io ho richiamato e cavalcato i colbi per arrivare ad Atra." "E' per questo motivo che ti ho chiamato... Tu sei riuscita a comunicare con i nostri fedeli (ma ormai spaventati) compagni animali e hai superato la prova del bersaglio... Hai compiuto queste azioni che per noi sono più di semplici azioni: in tutto questo noi riconosciamo la nostra identità di Atralidiani. Ma tu non sei una di noi. Tu rappresenti un pericolo perché ti avvicini mostrando ciò che possiedi di simile a noi, ma in questo modo nascondi la vera te stessa." "Non credevo di trovare ancora radicate queste idee discriminanti in tempi in cui il Male si è impossessato della terra dell'uomo ed ha infestato i sogni di ogni essere vivente. Tu hai paura di me, che sono uguale a te e ad ogni uomo e donna di Solamia, e non temi invece i Mutati che non sono simili nemmeno all'incubo più malato che una mente distorta possa concepire. Io non credo che si possa decidere quale delle Famiglie meriti la salvezza perché credo che tutti gli Uomini che respirano su questo pianeta abbiano il diritto di essere liberi. E' per questo che tutti devono impegnarsi e che tutti devono collaborare, insieme. Perché questo stato di cose non durerà per sempre. Arriverà il giorno in cui Cron si stancherà di giocare con voi e sarà allora che stringerà definitivamente il pugno attorno a questi stupidi uomini che non hanno avuto l'intelligenza di unirsi e di combatterlo. Perirete tutti in quel giorno! Oppure i superstiti piangeranno i caduti della Grande Battaglia, ma saranno lacrime di uomini liberi. Io non prometto altro che questo!" Appena Luna ebbe richiuso la porta dietro di sé l'ombra celata dietro in paravento si fece vedere. Goza era intimidito e rivolse uno sguardo carico di dubbi verso il Presidente Davor. L'anziano giudice non badava a lui, si era accorto che era uscito dal nascondiglio che lui stesso aveva scelto ma era ancora assordato dalle parole di Luna ed era confuso dalle strane idee che erano germogliate subito dopo nella sua mente. Goza strinse nervosamente il pugnale con cui avrebbe dovuto uccidere Luna facendo scricchiolare il cuoio dell'impugnatura; Davor si voltò finalmente a guardarlo. Il soldato si irrigidì nel saluto militare e attese l'ordine, che però non partì. Seppure mal volentieri Goza decise di rompere per primo il silenzio:

"Signore, temo di non aver visto il segnale stipulato, mi scuso formalmente... " "Non devi scusarti. Ho deciso di non uccidere Luna, per ora. Non riesco ancora a visualizzare la vittoria dell'impresa che ci propone, ma forse è un errore fermarla adesso. Credo che Atra possa ricavare qualche vantaggio da questa pallida straniera." Dal tono di voce il Presidente non sembrava irritato e questo sollevò molto Goza che seguì con meno interesse le parole del capo, anche perché non sembravano più rivolte a lui.

Nessuno accompagnò Luna dall'alloggio di Davor a quello a lei assegnato. Il soldato che l'aveva accompagnata se ne era subito andato e nessun altro l'attendeva nel corridoio, visto che non avrebbe dovuto essere viva dopo il colloquio con il Presidente. Il cielo sopra Atra si stava schiarendo nei colori pastello dell'alba e la pesantezza della notte insonne cominciò a calare su Luna. I pensieri si affollarono nella sua mente e confo i suoi pensieri, già incerti. Luna finì per perdersi all'interno della piattaforma che ospitava i laboratori d'arte e le botteghe dei mestieri. Lungo i corridoi curvi si aprivano porte sormontate da targhe di metallo inciso: 'falegname', 'armaiolo', 'scultore', 'macellaio', 'marchiatore'. Il marchiatore era colui che creava le cicatrici artistiche che adornavano i corpi degli uomini e delle donne. Era ormai molto tempo che non aveva il privilegio di segnare un soldato con le ali del colbi, ma molti non volevano rinunciare ad un marchio che testimoniasse il loro valore e il loro coraggio (la marchiatura infatti richiedeva una alta sopportazione al dolore). Il marchiatore aveva perciò inventato disegni nuovi e aveva trovato altre zone del corpo da marchiare; tutti i Cavalieri dell'Aria infatti volevano conservare la schiena intonsa nella speranza di potere avere in futuro le ali del colbi. Luna entrò. La porta, aprendosi, urtò un sonaglio che pendeva dal soffitto; il tintinnio metallico echeggiò sulle piccole facce dei cristalli incastonati alle pareti della stanza. Come quasi tutte gli ambienti di Atra anche questo era a base trapezoidale: il lato più piccolo era occupato dall'ingresso appena varcato da Luna, sul lato di fronte si apriva una porta che introduceva ad una seconda stanza. Era una porzione dell'anello centrale e non possedeva finestre: la luce

naturale poteva entrare solo dal soffitto che era una solida lastra di vetro. Il proprietario aveva personalizzato il suo spicchio inserendo sulle sterili pareti bianche migliaia di cristalli: grezzi e colorati, dalle diverse forme e dimensioni. Il decoratore entrò nella stanza dalla porta che stava di fronte a Luna. La pelle grinzosa faceva assomigliare la sua faccia ad una prugna secca, le mani ossute erano ricamate da vene rigonfie e la sua figura era incurvata dal peso degli anni. "Ah! La pallida Deoscuridiana. Hai sbagliato piattaforma, gli alloggi per gli ospiti sono... " "No! Voglio essere marchiata." "Allora è diverso. Sappi però che per te il prezzo è più alto e devi tenere nascosto il marchio finché starai qui. Non vorrei essere linciato per aver contaminato i miei strumenti con del sangue impuro." Già l'uomo aveva preso in mano il quaderno dove aveva catalogato i diversi disegni già eseguiti: nessuno voleva un marchio uguale a quello di un altro e lui se li segnava per non correre questo rischio. "Voglio le ali del colbi marchiate sulla schiena." Il marchiatore impallidì. "Non... Non... Non posso... " "Perché? Anche tu, come tutti, sai che ho richiamato un colbi e che l'ho cavalcato per raggiungere Atra. Ho avuto il mio battesimo dell'aria ed ora mi spetta il marchio." "Ma tu non sei un Cavaliere dell'Aria." "Sono una combattente del grande esercito di Solamia. Quando Atra uscirà dalla misera solitudine in cui si è relegata ed entrerà a pieno titolo nella grande comunità di Solamia, allora nomi e confini non avranno significato." "Per me sicuramente non avrà alcuna importanza perché quando i miei familiari sapranno quello che ho fatto mi uccideranno."

"L'hai detto tu stesso; terrò il marchio coperto per tutto il tempo e se tu non sarai così sciocco da raccontarlo in giro nessuno avrà problemi. E poi ti darò questo." Il primo raggio di sole che aveva il mattino forò lo strato di nubi che ingrigiva il cielo e andò a colpire il cristallo che Luna teneva in mano. Il prisma perfetto, creato dalla natura, si animò e mille riflessi colorati danzarono per la stanza moltiplicandosi sui cristalli fissati alle pareti. Gli occhi del vecchio si incendiarono di desiderio: doveva avere quel cristallo ed era troppo debole per rubarlo a quella straniera. Poi pensò che se l'alleanza si fosse stipulata nessuno si sarebbe offeso per quel marchio; magari quando sarebbe finita la Soppressione avrebbe potuto allargare gli affari e marchiare nobili di altre Famiglie ed immelici di tutta Solamia. Se invece, come credeva, gli stranieri sarebbero stati presto mandati a morte, nessuno avrebbe perso un minuto per controllare certi particolari ed il marchio sarebbe finito nello stomaco di un Ramib insieme al resto del corpo di quella giovane. L'atmosfera del Ki, ricreata in quella piccola stanza di Atra, si spense quando l'uomo fece scivolare il raro cristallo in una delle sue tasche. Luna si era distesa sul tavolo con il petto nudo a contatto con un ruvido lenzuolo e cercava di trattenere il dolore stringendo tra i denti una striscia di cuoio. I cling-clang dei bisturi dalle forme diverse si intervallavano al soffio dello stantuffo della siringa che conteneva il collante naturale. L'arte della marchiatura era racchiusa proprio in questi gesti: il bisturi incideva la carne abbastanza in profondità ma non tanto da creare danni funzionali, poi il taglio veniva riempito con il collante che disinfettava, anestetizzava e, soprattutto, stimolava la crescita di nuove cellule. Il disegno era dato da tessuto cicatriziale leggermente rialzato, lucido e rosato (per i neri di Atra, bianco per Luna) che si sostituiva alle ferite sapientemente concepite. In quello strano luogo della mente dove il dolore e la sopportazione trovano il giusto equilibrio, in uno spazio piccolo ma luminoso Luna riuscì a vedere il popolo di Atra che dominava i cieli di Solamia insieme ai colbi. Tutti seguivano la donna di Deos che portava sulla schiena il marchio della Dea Babas. Non era certo fiera di come aveva ottenuto il prestigioso marchio, ma era certa che gli accadimenti futuri avrebbero delineato una diversa lettura dell'evento. Un piccolo pensiero si soffermò su Tok; il cristallo che le aveva donato era servito a schiarirle la mente ed il legame non si era certo spezzato, come Tok le aveva saggiamente spiegato. Le basi della fortezza che voleva costruire avevano ormai scavato la terra scura ed il primo mattone già si ergeva al di sopra di essa.

Luna si sentiva soffocare; non era solo a causa della compressione che lo stretto bendaggio esercitava sulle costole e del bruciore costante che scaturiva dalle ferite. La sua condizione era data dal fatto che la sensibilità che provava nei confronti degli altri (Atralidiani e non) era cambiata; la fusione tra la sua natura di Deoscuridiana con parte della cultura Atralidiana l'aveva resa recettiva a nuovi stimoli: non aveva previsto che un atto fisico (come il farsi marchiare) potesse avere effetti così eclatanti sulla sua dimensione interiore. La scoperta le fece capire che se davvero voleva che tutta Solamia si unisse per seguirla, lei per prima doveva congiungersi con ogni mondo esistente sul pianeta; solo così ogni essere, seppure diverso, si sarebbe potuto riconoscere in lei e quindi avrebbe scoperto quanto era simile ad ogni altro essere vivente. Questa era l'alleanza che cercava per Solamia. Il dono di percepire anche cose che prima non vedeva le permise di accorgersi del sottile cambiamento negli atteggiamenti dei cinque membri Atralidiani del Congresso. Sapeva che il motivo doveva ricercarsi nel discorso che la notte precedente aveva infiammato (e ferito) l'animo del Presidente Davor, ma non era in grado di stabilire in quale senso le parole di Luna lo avevano influenzato. Sicuramente il tempo delle riunioni era finito e presto il Congresso si sarebbe sciolto, con grande soddisfazione dei suoi compagni, ma era difficile prevedere se la conclusione si sarebbe festeggiata con un accordo oppure se i Ramib sarebbero stati gli unici soddisfatti del banchetto offerto dagli Atralidiani. L'immagine del cadavere di Aza che precipitava in bocca ai Mutati accompagnò Luna in ogni istante, fino alle prime ore di quella mattina. Il sole comparve spento da un velo di nuvole grigie; lo stesso velo copriva le facce dei Giudici che entrarono nella sala del Consiglio. "Abbiamo una proposta." La voce di Davor svelava la sua intenzione di considerare la 'proposta' come una decisione indiscutibile. Arat e gli altri parevano disposti ad accettarlo. "Noi accettiamo l'unione delle forze di Atra con quelle dell'intera Solamia. Ma fino ad ora non ci sono prove che lascino pensare che questa alleanza esista. Dovrete prima discutere del progetto con Und e Nim. Se aderiranno alla coalizione anche Atra scenderà in campo al loro fianco."

Arat controllava con attenzione i pochi bagagli, non voleva rischiare di

dimenticare la scarsa ma necessaria attrezzatura. Avevano accettato senza discutere la proposta di Davor; era sicuramente una soluzione di comodo per gli Atralidiani ed assicurava loro più tempo: avevano semplicemente rimandato la decisione. Anzi avevano delegato ad altri il compito di scoprire se l'Alleanza era un sogno realizzabile; il Presidente contava certamente sul fatto che era molto difficile arrivare ad Und ed era ancora più complesso conquistare la fiducia della Famiglia Underidi. Per quanto riguardava i Nimferidiani Davor aveva certamente pensato che la strada era ancora lunga e che era molto pericoloso viaggiare a quei tempi. In un certo senso Arat ammirava lo spirito di adattamento che il Presidente aveva sviluppato negli anni: se sei indeciso fatti da parte e osserva da lontano, se le cose sono fattibili allora collabora; in caso contrario saranno solo gli altri a pagarne lo scotto. La parte più umana, che aveva resistito alla rigida disciplina che trasformava un uomo in un soldato, era però meno obbiettiva e non aveva dimenticato quello che Aza aveva subito. Ancora una volta la ragione fece la voce grossa e zittì la rabbia e la comione decretando una tregua con gli assassini della sua amica perché motivi di più alto valore e di importanza mondiale dovevano avere la precedenza sulle piccole storie personali. Arat fece finta di crederci, ma non si sentì un uomo migliore per questo. Goza aveva ricevuto l'ordine di portare gli stranieri fino alle sponde del Lago Golias, la striscia d'acqua che delimitava il confine tra le terre degli Atralidiani e quelle appartenenti alla Famiglia Underidi. L'Atralidiano svelò il aggio attraverso cui il popolo del cielo raggiungeva la terra e viceversa: le colonne che reggevano i dischi erano cave, al loro interno si avviluppava una scala a chiocciola che era utilizzata dagli uomini come via d'accesso e contemporaneamente fungeva da struttura portante. La colonna sprofondava affondo nel terreno; quando la discesa terminò, Goza guidò il gruppo lungo il labirinto sotterraneo che collegava i vari ingressi alle colonne e da cui partivano le quattro vie che raggiungevano i punti cardinali entro i confini della Baida. Presero il tunnel che si dirigeva verso Est che fortunatamente era abbastanza alto da permettere anche a Gor di camminare eretto ma dovettero procedere in fila per uno. Tutti vennero colti da una sgradevole sensazione di soffocamento dovuta al buio appesantito dall'odore di humus e di umido; pareva di camminare attraverso delle catacombe. Era trascorso il giorno; se ne resero conto solo quando uscirono dal cunicolo e trovarono il tramonto che abbracciava il cielo, ma le tinte calde già si ritraevano e la testa rossa del sole si era abbassata mescolandosi con il nero delle lontane

creste dei Monti Kobit. Nella parte più alta del cielo il blu della notte si stava espandendo e ben presto avrebbe impreziosito tutto lo spazio visibile con le sue stelle. Sistemarono l'accampamento per la notte in riva al lago, vicino all'ingresso della piccola grotta che avrebbe fatto da rifugio a Goza nei prossimi giorni. Il suo compito era quello di attendere un messaggero da Und con la notizia dell'avvenuto accordo tra la Famiglia e gli Stranieri. Personalmente Goza pensava che la sua attesa sarebbe stata lunga e vana; se gli stranieri erano così sfortunati da scoprire come raggiungere Und avrebbero subito capito quanto mortali fossero le anaud dei suoi soldati. Il lago era un ampliamento del letto del Fiume Ra. Quest'ultimo nasceva alla sommità del Monte Rano, la cima più alta dell'Arco di Tedo che si elevava a Nord di quella terra. Le acque del lago erano tranquille, ma poi proseguivano la loro corsa verso l'Oceano Sud riprendendo il nome di Fiume Ra. Il Lago Golias era stato diviso in due tra le due famiglie confinanti, ma la diversa natura del terreno a Ovest e ad est aveva decisamente avvantaggiato gli Atralidiani. Le loro sponde erano basse e ghiaiose e l'acqua cristallina riempiva le insenature più interne che formavano così caratteristici laghetti. L'altra metà del lago si confondeva con la melma della Palude di Melsh dove l'acqua diventava nera e serpeggiava tra i sottili istmi di terra. Luna aveva scoperto un laghetto, grande poco più di una tinozza per il vino, in cui l'acqua chiara del lago si riscaldava a contatto con la terra. L'aria era profumata dai fiori e dalle erbe che crescevano attorno alla pozza e lei non poté fare a meno di desiderare di immergersi in quel paradiso. Voleva togliersi di dosso il ricordo di quella giornata ata sottoterra e doveva rilassarsi prima di affrontare, il giorno seguente, la Palude di Melsh. Si sfilò la tuta di pelle aderente ed abbandonò le garze che le fasciavano il torace; Luna assaporò le prime gentili carezze dell'acqua e si gratificò del fresco contatto con la lieve corrente che giungeva dal lago. Si immerse fino a scomparire e rimase in sospensione lasciando respirare lo spirito e sciogliendo ogni muscolo del corpo in quella lenta danza senza peso né costrizione. Galleggiava, lasciando scivolare tra i capelli i pensieri sullo specchio d' acqua. Non sapeva per quale motivo, ma l'immagine di Ares emerse dalle acque; solo ora che gli era così distante poteva vederlo chiaramente e capiva il sentimento che li aveva uniti. Attrazione? Sicuramente. Amore? Come era difficile dirlo ora.

Un sorriso sbocciò sul suo viso ma una goccia salata le scese dagli occhi e andò a mescolarsi con l'acqua dolce del lago. Sopra di lei le fronde degli alberi si erano scostate per permetterle di vedere la luna alta nel cielo.

Luna era molto bella. Era l'unica cosa che Arat riusciva a focalizzare nella mente, mentre la guardava fare il bagno. L'aveva seguita per proteggerla e si era ripromesso di non spiarla, ma quando sentì i vestiti accarezzarle la pelle e cadere inesorabilmente a terra, quando udì il corpo nudo di lei scivolare nell'acqua, non poté più resistere. Si era sdraiata su una roccia per asciugarsi, la pelle ancora bagnata risplendeva sotto la luna che illuminava ogni curva, ogni rilievo ed ogni valle del suo corpo. Arat avrebbe voluto esplorare ogni centimetro di quel paradiso, inoltrarsi nel mistero della sua bellezza, conoscere il segreto del suo carattere e spiare la fantasia dei suoi pensieri. Ma la luna entrò nel girotondo delle cinque costellazioni e la notte si spense su di lei.

La roccia era ancora calda perché il sole l'aveva irradiata con i suoi raggi per tutto il giorno, eppure Luna riusciva a percepire il calore che scaturiva dal marchio della Dea Babas e che non l'avrebbe mai abbandonata, se non dopo la morte. Luna assorbiva senza difese tutta l'energia della sua prima sorella astrale, ma la tenda nera tesa tra le costellazioni Imm, Atra, Deos, Und e Nim calò su tutto e tutti. Quando la seconda luna apparve riportando la luce Cablam era in piedi dinanzi a lei.

Come il disco oscuro aveva spento la luna, così Cablam stava opprimendo la sua Luna. Arat tese i muscoli per la rabbia; la roccia sulla quale lei era distesa ora gli sembrava un altare sacrificale: Luna era la vittima e l'illusore il carnefice. Arat era sicuro che uno come Cablam non potesse essere sensibile alla bellezza particolare di Luna, o almeno non come lui. No! Il nero individuo voleva certamente farle del male ed Arat era lì per impedirglielo. Il gesto eroico si realizzò solo nei suoi sogni. Un vortice malefico si impossessò della sua mente e il corpo si fece debole: l'ultimo istante in cui la coscienza ancora brillava in Arat fu sconvolto dalla consapevolezza che Cablam lo stava manipolando per essere

libero di agire indisturbato. Luna era sola contro di lui.

Cablam era in piedi sulla pietra, fece due i e Luna si ritrovò con i fianchi stretti tra i suoi stivali; da quella posizione l'illusore apparve ancora più imponente e Luna non poteva non temerlo. Gli occhi di lui bruciavano nei suoi mentre la morsa in cui era intrappolata cominciava a dolerle. Improvvisamente, come se lui avesse letto nei suoi pensieri, la presa si allentò e Cablam si inginocchiò tenendo il corpo di Luna sempre tra le gambe. Si chinò su di lei e i capelli castani calarono come una tenda che aveva il potere di allontanare dallo spazio e dai ricordi tutto il resto; Luna poteva vedere solo il volto di Cablam, illuminato da una luce interiore mai conosciuta prima, perché quello era l'unica cosa che esisteva nell'universo che lui aveva creato per loro. E quello che Luna scoprì fu incredibile: gli occhi di Cablam non erano cambiati ma tutto in loro le appariva diverso. La collera non tormentava più l'anello che aveva il colore della terra del Muslim, la freddezza non bruciava più i verdi boschi nebbiosi, solo la forza ampliava l'intensità dell'infinito racchiuso nell'anello blu. Tutto pareva mutato, o forse era lei che era cambiata. Poté vedersi con gli occhi di Cablam e si sorprese nello scoprirsi forte, bella, desiderata ed amata: o tutto ciò che lei voleva essere esisteva già negli occhi di colui che ora le appariva semplicemente come un uomo oppure era la più atroce delle sue illusioni. Tutto questo nuovo mondo interiore (che fosse vero o inventato dall'illusore per prendersi gioco di lei) la spaventò: cercò disperatamente una via di fuga, come se si potesse fuggire da sé stessi. Luna fu felice di non essere riuscita a scappare perché, altrimenti, Cablam non l'avrebbe baciata sulla fronte con le sue morbide labbra e lei non avrebbe potuto assaporare le sensazioni splendide e tormentate che in quell'istante inondarono il suo cuore. Cablam se ne andò come uno di quei sogni silenziosi che però lasciavano l'animo scosso anche dopo il risveglio. Luna ritornò all'accampamento, sicura di ritrovare il Cablam di sempre; quell'uomo aveva il potere di disorientarla e di farla dubitare delle certezze che aveva appena conquistato. Dopo un po' rientrò al campo anche Arat che balbettò di essersi addormentato in riva al lago; poi, con la mente ancora confusa dalla

nebbia malefica, si distese e dormì un sonno tormentato.

Il nuovo giorno li trovò tutti un po' cambiati. Arat non si svegliò con l'irruenza e l'impazienza con cui di solito affrontava le nuove sfide, lo sguardo era privo di quel luccicore quasi infantile che rivelava tutto il suo interesse per ciò che stava accadendo. Pareva proprio che avesse perso l'entusiasmo per quell'avventura e che andasse avanti solo perché ormai non poteva fermarsi. Ma più di tutto era diverso con Luna; non la guardava neppure negli occhi, quasi avesse paura di quello che avrebbe trovato. Sador era così silenzioso che per un momento Luna pensò che si sentisse male. L'unico occhio dell'immelico si muoveva febbrilmente e si fermava su ogni oggetto che li circondava; era come se cercasse di riconoscere il luogo in cui era, come se non avesse vissuto quel viaggio e si fosse svegliato all'improvviso sulla riva del lago Golias. Gor al contrario non smetteva di parlare. Tutti quelli che lo conoscevano potevano giurare di non averlo mai sentito pronunciare più di otto parole in un'unica frase. Quella mattina invece aveva intavolato un monologo articolato e complesso che spaziava dalle attuali condizioni del paese, a causa di Cron, alla difficoltà nel dimenticare che stavano rischiando la vita per allearsi con chi aveva ucciso Aza, la loro compagna. Luna era bombardata da tutti gli umori dei suoi compagni e in certo modo li condivideva. Si sentiva a disagio di fronte ad Arat a causa di quello che era successo la sera prima con Cablam; sapeva di averlo in qualche modo tradito e ne provava vergogna anche se non riusciva a sentirsi in colpa per quello che aveva provato per l'illusore per un breve momento. Si sentiva disorientata e spaesata, come sembrava Sador, ma non perché non riconosceva il luogo in cui si trovava quanto perché non si ritrovava più nelle azioni che compiva. Le sembrava che la persona che era partita da un luogo tanto lontano per combattere Cron non fosse la stessa che aveva continuato nell'impresa superando il dolore di tante morti. Aveva forse elevato il destino dell'intera Solamia al di sopra delle vite di coloro che, condividendo le sue esperienze, potevano essere chiamati amici? Quale era la forza che le permetteva di superare i limiti morali ed etici che sentiva ancora albergare in lei? Non era la forza di volontà o l'espressione della sua fedeltà a questo mondo e neppure il potere di Deos; non sapeva darle

un nome ma era certa che le apparteneva totalmente. Cablam, di nuovo lontano da tutto e tutti, osservava imparziale ma nulla faceva escludere che fosse lui a dirigere la scena che i diversi attori interpretavano.

Mentre alle loro spalle la notte oscurava, ancora misteriosa, il cielo di Atra, la prua della barca puntava verso la fioca luce dell'alba. I pensieri dei eggeri si mescolarono e divennero un nulla omogeneo. Nessuno si voltò indietro come se temessero di cambiare idea. Andarono avanti. Il sole risplendeva vivo sullo specchio del lago quando la barca iniziò a rallentare l'andatura: l'acqua si fece melmosa fino a quando la terra, viscida e spugnosa, fermò definitivamente il mezza di trasporto. I cinque silenziosi compagni si trovarono a fronteggiare un massiccio muro di giunchi, uno dei pochi esseri viventi che riusciva a nascere e a crescere nella marcescente Palude di Melsh. Arat apriva il corteo facendosi strada con l'ascia di Gor (regalo di uno dei figli di Tok); cercava di aprire un varco per proseguire la marcia in linea retta, ma l'impresa non era facile: le canne più giovani erano dure da tagliare, tanto che gli sanguinavano le mani, quelle più vecchie erano marce e si piegavano al primo colpo, crollandogli inesorabilmente addosso. Per tutti era molto faticoso camminare sul terreno acquitrinoso; ad ogni o si sprofondava almeno fino a metà polpaccio e subito il fango, come se fosse vivo, imprigionava il piede. La marcia doveva durare tutta la seconda metà del giorno ma, visto che non c'era un luogo in cui potevano fermarsi per riprendere fiato, proseguirono senza soste per tutta la notte. I viaggiatori erano spinti dalla forza della disperazione e (contemporaneamente) dalla speranza che il o successivo avrebbe poggiato sulla solida terra. Forse per l'odore di putrido o per il gelo della fanghiglia che le penetrava le ossa, ma più probabilmente per la stanchezza, Luna camminò in uno stato di sonnambulismo. Si risvegliò che stava ancora camminando; era spossata e non aveva ricordi della notte ata ma sapeva che il giorno vecchio era trascorso perché intorno a lei stava aleggiando il grigiore di una nuova alba. Solo allora, quando anche i sensi si svegliarono, il suo corpo sentì la terra respingere con forza il piede e riuscire a sostenere il suo peso: il fango aveva ceduto il o al suolo solido e Luna si sentì una sciocca a gioire di questo.

Erano giunti nella parte centrale della palude. L'acqua si muoveva lenta nei canali ed i sottili corridoi di terra erano resi solidi solo perché le radici dei trobel, gli unici alberi capaci di sopravvivere in quell'ambiente, irretivano avidamente il loro unico nutrimento. L'erosione dell'acqua era lenta, ma quando questa vinceva contro la forza delle mani legnose dell'albero, l'incavo si svuotava della preziosa terra e il trobel moriva. Restavano solo le radici più grandi, diventate una gabbia vuota, a sorreggere un tronco nero senza più rami. Il paesaggio era differenziato solo da varie tonalità di grigio: l'acqua era più scura della terra e leggermente più chiara degli alberi. Per di più era il periodo della stagione morta e le foglie dei trobel erano tutte cadute, così i viaggiatori si trovarono in un mondo alla rovescia, dove gli alberi avevano le nude radici in cielo e le fronde premute a terra. La stanchezza si impossessò di loro e tutti si lasciarono cadere, sperando di poter trovare riposo. Ma neppure questa volta giunse il sollievo auspicato; al contrario, pareva che il grigiore del luogo nutrisse la loro debolezza rendendola più insopportabile e l'apatia attecchisse ai loro corpi insieme alla melma: il limo che li ricopriva li aveva infettati fin nel profondo. Luna sollevò la testa come se avesse sentito chiamare il proprio nome e vide il viso di Cablam: un sorriso beffardo sfregiava quella faccia come una cicatrice; era contento di vederli costretti in quella catalessi. Una forza sciocca come la ripicca rianimò Luna che si alzò e incitò gli altri a seguirla: non potevano fermarsi quando erano giunti fino lì e se mollavano ora non si sarebbero più risollevati. Così gli uomini, anche se un po' apatici, seguirono l'unica nota di colore in quel grigiume: gli occhi blu di Luna. Lei aveva conquistato la testa della colonna e guidava, con o malfermo, i suoi amici. Più volte si voltò indietro per vedere dove fosse Cablam; lui era sempre in coda al gruppo, con la testa bassa ed i capelli che gli coprivano il viso. Pareva prestasse scrupolosa attenzione a dove mettesse i piedi, ma Luna era certa che la stava scrutando e che stava ancora sorridendo. Luna si rese conto, forse per la prima volta, che lui si stava servendo di lei (e di tutti loro) per raggiungere il suo scopo, qualunque esso fosse. Sia che si fe ciò che coincideva con quello che lui affermava di volere, sia che si fe il contrario alla fine sembrava sempre che lui ne fosse soddisfatto e che anzi non avesse mai dubitato che le cose potessero andare diversamente. La notte calò su quel giorno e nuvole di umidità ingrigirono il cielo scuro. Erano giunti nel cuore della palude: lì si trovava la capitale di quelle terre malsane.

Und era stata scavata in una montagna di pietra nera, ma l'immenso massiccio era immerso nella melma della palude da cui emergeva solo una grande cima dalle pareti levigate. Il cono nero era circondato dall'acqua che era a sua volta racchiusa da un anello di terra; Luna e gli altri abbandonarono le loro membra accanto ad un trobel poco distante dal lago circolare: erano sfiniti ed era troppo tardi per impegnarsi nella ricerca dell'ingresso per giungere al centro della montagna. Quella fu la prima volta che il buio donò loro il sonno. Luna sognò di essere la terza ballerina della notte e danzò con le due sorelle nel cielo di Solamia. Ma una volta entrata nel cerchio delle costellazioni, l'oscurità divenne solida come la roccia di Und e diventò soffitto, pavimento e pareti. Era intrappolata in una stanza senza porte né finestre; come la principessa delle fiabe si mise a piangere disperatamente e, come accade nelle favole, successe qualcosa di misterioso. La pietra della parete sulla quale si era appoggiata si mosse e lei, speranzosa, la spinse fino a farla uscire dalla trama del muro. Fece lo stesso anche con le pietre accanto per cercare di aprirsi un varco; ciò che vedeva dall'altra parte era solo il nero dell'infinito. Il buco si allargava sempre di più man mano che toglieva le pietre; ora vedeva che il nero abissale si interrompeva per lasciare il posto ad una calda tinta di marrone. La parete della stanza le pareva molto più grande di quanto non fosse all'inizio. Oppure era lei che rimpiccioliva? Luna continuava, quasi vorace, a smantellare il muro; non stava più cercando una via di fuga, il suo scopo primario era quello di svelare per intero l'affresco celato dalla parete. E dal generoso marrone crebbe, rigoglioso, il verde. Inarrestabile e smaniosa, Luna svelò il mistero del verde che si scuriva nel blu. Alla fine poté ammirare il rosone completo, illuminato da una luce più calda del sole, più brillante delle stelle e più vera della luna. Era vivido... Era vivo... Era l'occhio di Cablam che la scrutava e lei era nella piccola scatola che l'illusore teneva in mano. La risata tonante di quel gigante le fracassò i timpani e le martellò il cervello. Poi, con sguardo impietoso e mano ferma, Cablam rovesciò la scatola e Luna cadde violentemente in un canale della palude. La melma le si era infilata nella tuta e l'acqua continuava ad entrarle in bocca, non riusciva a nuotare in quel limo e temette di rimanere invischiata lì fino alla morte. Una voce gorgogliante fuoriuscì da un trobel: della pianta erano rimaste solo le radici che tentavano inutilmente di trattenere l'acqua grigia. Tutto intorno

si scurì e una luce violacea si accese, inglobata da quelle radici morte. Una corrente anomala la trascinò proprio all'interno dell'intricato ricamo di legno. Luna si trovò faccia a faccia (muso) con un manda: il rettile, dalle lunghe fauci incastonate da tre file di denti aguzzi, era l'unico predatore che viveva nella palude e temeva solo le anaud dei cacciatori di Und. La pelle era inspessita in squame che facevano assomigliare il suo dorso ad una corazza, il colore grigio lo mimetizzava con tutto il resto della palude e le prede non trovavano scampo dalle sue poderose mascelle. Luna non lo temeva anche se la bestia avrebbe potuto staccarle una gamba con un solo morso: non temeva quel manda perché in lui vedeva qualcosa di familiare e di innocuo. L'animale si voltò di profilo e la fissò con uno dei due occhi: era viola come un anemone, era l'occhio di Lòren e possedeva anche la stessa intensità nello sguardo. Ma fu la voce di sua madre adottiva a muovere quella bocca animalesca. "Hai visto quello che hai fatto? Sei sempre con la testa da qualche altra parte, devi stare più attenta." Il rimprovero la fece sentire come quando aveva tre anni, quando si sentiva in colpa per aver deluso, anche involontariamente, le aspettative di sua madre. Poi fu Lòren ad infierire. "Hai dimenticato che Deos è morta per te? Tu hai un obbligo nei confronti della Famiglia, non puoi esimerti dal pagarne il prezzo." Infine la voce gorgogliante del richiamo si fece sentire e terminò con una sentenza: "Ma tu sai quello che stai facendo? Piccola bambina capricciosa. Sai cosa significa detenere il potere? La tua condotta è alquanto deludente." Luna pianse e i singhiozzi le fecero perdere il respiro; Arat si svegliò di soprassalto e ne provò pietà. La tenne amorevolmente tra le braccia per il resto della notte. Luna trovò una pace solo esteriore; le parole che l'avevano ferita erano per lei incomprensibili e non l'aiutarono a trovare quell'equilibrio che cercava da tanto tempo. Decise (umanamente) di credere che tutto quello che era accaduto fosse solo il frutto del suo stato ansioso e della terribile aria che aleggiava nella palude. Il punto d'appoggio che si era così scelta vacillò al primo soffio, ma lei si resse in piedi senza comunque trovare un equilibrio. Non era certo una buona base sulla quale costruire il futuro di Solamia ma era tutto

quello che aveva. L'alba della palude era tetra e confusa tra le nebbie. Luna si aggirava in mezzo ad esse come un fantasma nero in cerca di quiete. Aveva abbandonato il giaciglio lasciando Arat e gli alti che ancora dormivano profondamente; chi non è tormentato dalle visioni possiede questo incredibile dono che lei aveva perso da quando aveva scoperto il proprio vero nome. Aveva percorso l'anello di terra che accerchiava il monolito oscuro innumerevoli volte sperando ogni volta di scorgere un segno o una premonizione che le suggerisse la via di accesso a Und. Sapeva che quello che vedeva era solo la punta dell'immensa montagna che si estendeva in profondità, ma la semplicità di quelle pareti nere era per lei il rompicapo più indecifrabile. Durante quel girotondo forzato aveva però scoperto che l'acqua che lambiva la roccia, racchiusa dall'anello di terra, era diversa da quella di tutto il resto della palude: era nera come il petrolio e la luce del debole sole che si sforzava di bucare lo strato di nebbia la arricchiva di riflessi verdastri. Anche la consistenza pareva quasi oleosa; quando Luna vi gettò un sasso la superficie dell'acqua nera si deformò formando un imbuto e poi si richiuse lentamente, inglobando il sasso. Poi tutto ritornò come prima. L'immobilità quasi solida di quel lago e la sua limpidezza (nonostante il colore) non suggerivano però una sua natura tranquilla; la calma era certamente un'apparenza e Luna, nella sua mente, già vi aveva fatto abitare un mostruoso Mutato. Quando Luna ritornò all'accampamento, senza avere scoperto nulla di concreto ed avendo invece fantasticato sulla possibilità che l'acqua nera fosse un potente acido che avrebbe corroso le carni a chi si azzardava a farvi il bagno, tutti e quattro gli uomini erano svegli e se ne stavano immobili sulle radici di un grosso trobel a fissare l'acqua torbida. Gor era fradicio, ricoperto da uno spesso strato di melma, evidentemente aveva appena fatto un bagno fuori programma. "Attenta a dove metti i piedi!" Arat la avvertì senza distogliere lo sguardo dal canale sottostante. "Ci deve essere qualcosa nell'acqua. Gor aveva visto dei movimenti ed ha affondato il braccio per afferrare quello che aveva riconosciuto come un pesce. Invece il 'pesce' ha preso lui e lo ha trascinato sul fondo." "Forse era un manda." "Non credo. I manda afferrano la preda con i denti e non ho i segni di un morso sul braccio. Però era grosso, ho dovuto tirate più di un pugno prima di riuscire a liberarmi."

"Qualunque cosa fosse ora se ne è andata. Dovremo fare molta più attenzione da adesso in poi." La giornata trascorse al ritmo delle frenetiche ricerche attorno al lago nero, ma l'attività non portò a risultati e la notte calò facendo ripiombare il gruppo nello sconforto. Pareva proprio che il loro viaggio si fermasse lì; se non trovavano l'ingresso alla città sotterranea di Und non potevano sperare di combinare alcun accordo e quindi anche l'alleanza con Atra sfumava. Potevano abbandonare la Palude di Melsh e puntare a raggiungere Nim, ma il popolo del mare non era certamente all'altezza dei guerrieri di Atra e di Und e soprattutto l'ideale di unione e collaborazione di tutta Solamia diventava un sogno impossibile. Arat era tormentato da un senso di sconfitta che raramente aveva conosciuto; a questo doveva aggiungere il continuo lamentarsi di Sador che mugolava infastidito dalle punture degli insetti. Anche Luna pativa un malessere generale al quale si sommava la bruciante tortura che le infliggeva il marchio di Babas: la pelle della sua tuta era troppo pesante ed aveva irritato le cicatrici ancora fresche. I movimenti dell'acqua ripresero appena fece scuro; erano quasi impercettibili come se un insetto ne sfiorasse il pelo superficiale. Non sapevano ancora con che razza di animale o Mutato avessero a che fare ma erano certamente numerosi: li avevano circondati isolandoli sulla zolla di terra trattenuta da alcuni trobel. Uno sciabordio improvviso e un'onda sollevatasi verso il cielo, questo vide Luna, e poi più nulla rimase di Cablam. Non ci fu il tempo di pensare che già un'onda simile risucchiò Sador nel canale. Arat affondò il braccio nel punto in cui aveva visto scomparire l'immelico ma non trovò nulla e non ò l'attimo di un respiro che Luna scomparve in un sussurro. Arat era proprio sul limite della terra ferma e fu facile preda della melma che lo avvolse e lo trascinò via. L'ultimo ad essere preso fu Gor e nessuno vide la furia con cui cercò inutilmente di resistere alla forza della palude.

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CAPITOLO 13

La sgradevole sensazione del liquido che dallo stomaco prendeva la via dell'esofago per uscire poi dalla gola, lasciandole il bocca un sapore di terra e di carne rancida, destò Luna dal suo stato di incoscienza. Un dolore pulsante le martoriava la testa proprio nel punto in cui l'avevano colpita per soffocarle i sensi. Solo dopo essersi resa conto di essere ancora viva si rese conto di non essere sola; qualcuno le stava comprimendo l'addome mentre altre mani le massaggiavano le membra ancora fredde e rigide. Quando le ombre si accorsero che era ritornata tra i vivi, si allontanarono per prestare le medesime cure agli altri corpi che giacevano in terra accanto a lei; Luna non aveva bisogno di guardare (muoversi le costava ancora molta fatica) per sapere che quelli che sentiva erano i gemiti dei suoi compagni.

***

"Non ricordo più quando è stata l'ultima volta che mi hai toccata." Katrisha si attorcigliava nervosamente una ciocca di capelli attorno al dito. "Capirei questa carenza di interesse se fossi riuscito a trascinare qui la tua dolce Luna, ma lei è scomparsa." La Mutata continuò, senza temere le reazioni di Cron non perché non ne avesse paura ma perché era troppo stupida per prevedere quello che le poteva accadere. "L'ultima notizia che le tue spie antropomorfe hanno saputo fornirti era che aveva miracolosamente superato i Monti Kobit e si era diretta ad Est, verso l'Altipiano degli Efesi. Da allora più nulla. Per quanto ne sai potrebbe già essere diventata la colazione di qualche Mutato poco riguardoso." Cron ascoltava le parole di Katrisha senza lasciare trapelare nulla di quello che aveva dentro; era abituato ai lunghi monologhi della Mutata, ma doveva ammettere che questa volta non aveva torto. I marescialli dalle sembianze umane che avevano raggiunto Bechestii erano riusciti ad individuare le tracce del aggio del gruppo di Luna e le avevano seguite. Le ricerche si erano interrotte quando avevano incontrato il branco di Efesi brutalmente mutilati. Aveva

preferito non spingere il gruppo inseguitore fino alla Baida, il territorio dei Ramib; i Mutati alati non avrebbero certo fatto un'eccezione per i loro cugini di sangue e li avrebbero attaccati come attaccavano ogni cosa avesse una vita da razziare. Era questa la forza del suo esercito, ognuno di loro eseguiva alla lettera e senza riserve il compito che gli era stato instillato con l'Acqua di Rasia. Purtroppo questa era anche la loro debolezza e nulla, neppure un suo comando li avrebbe potuti obbligare a comportarsi in maniera diversa: ogni Mutato era perfetto solo per un unico compito e viveva in uno specifico ambiente perché doveva essere isolato dagli altri, altrimenti si sarebbero autodistrutti. Anche Luna correva il rischio di essere uccisa ma, da quello che aveva potuto apprendere dai suoi marescialli, fino ad ora si era difesa bene. Anche il fatto di non aver ucciso immediatamente i suoi compagni di viaggio, da un errore che era ora diventava un bene e Cron poteva contare anche sul loro aiuto (inconsapevole) per sperare di trovare Luna ancora viva. Il problema principale invece era suo padre: si era già intromesso una volta creando la tempesta che gli aveva impedito di rapire Luna a Samas ed ora si stava divertendo con le sue ombre volanti a distruggere poco alla volta il continente che era suo di diritto. Nonostante fosse convinto che il padre non fosse onnipotente si rese conto che lo scontro decisivo tra loro sarebbe giunto solo alla fine di molte battaglie.

***

Luna e gli altri, ancora storditi dalle contusioni e dalla nausea, si ritrovarono nuovamente prigionieri. "Accidenti a questi nobili!" Sbottò all'improvviso Sador. "Quelli erano neri e questi sono bianchi, quelli vivevano tra le nuvole e questi sotto terra, ma quando si tratta di avere a che fare con degli stranieri sono tutti uguali. Nemmeno a Deos avevo ato così tanto tempo in cella." Arat sorrise ripensando a tutte le volte che aveva dovuto tirare Sador fuori dai guai, ma subito ritornò serio quando si accorse che gli Underidiani si erano comportati in modo opposto agli Atralidiani.

"Ad Atra siamo stati noi a fare irruzione e solo in seguito siamo stati catturati come intrusi. In questo caso invece sono stati gli Underidiani a trascinarci qui. Noi non avevamo idea di come fare ad entrare a Und e non lo sappiamo neppure adesso. Tutto questo mi fa preoccupare, temo che non sia un buon segno." "Perché? Forse vogliono solo offrirsi volontariamente per allearsi con noi e i loro 'amici' di Atra." L'ironia di Sador offese Arat che continuava a ripetersi che non aveva scelto di fare il capo di quella spedizione, ma che il buon senso lo costringeva ad accettare che ormai tutto gravava sulle sue spalle (anche le battute di Sador). Gor fu meno fazioso ma con logica spietata decretò: "In ogni modo siamo di nuovo in prigione."

Il buio che dominava nel carcere di Und era diverso da quello di Atra; in questo caso l'oscurità era palpabile e riconoscibile quanto i segni degli scalpelli inflitti sulle pareti. Gli uomini della Famiglia avevano scavato con le loro mani ogni galleria ed ogni stanza della loro città. Arat, abituato a non darsi mai per vinto, prese a osservare il luogo in cui li avevano rinchiusi per valutare quanto terribile fosse la loro situazione (come se un basso grado di pericolo potesse cancellare il fatto che la loro condizione era comunque drammatica). Tastando le pareti non era riuscito a trovare la porta o la botola attraverso cui li avevano fatti entrare. L'aria si era fatta calda e satura per i loro fiati e la situazione diventava sempre meno piacevole man mano che ava il tempo. Quel luogo oscuro cominciava sempre di più ad assomigliare al loro ricovero ultimo, alla tomba che li avrebbe visti morire lentamente. Qualcosa di nuovo richiamò le loro menti dal luogo di morte che aveva accomunato i loro pensieri. Un tonfo, uno scricchiolio cupo e pesante, poi parte della parete di roccia si mosse e una debole luce verdastra delineò il contorno dell'apertura: prima fu un graffio sottile che poi si aprì come seguendo le fasi lunari. La luce che penetrava dal disco scavato nella pietra accecava i cinque prigionieri che non fecero alcuna resistenza quando i soldati entrarono e li spinsero fuori, nel corridoio. Il capo della pattuglia stava in testa, due uomini colossali lo seguivano e subito dietro c'erano gli stranieri; il corteo si chiudeva con altri due giganti muscolosi.

Anche alla debole luce delle torce si potevano vedere i muscoli gonfi e il largo torace; erano coperti solo da un perizoma perché le alte temperature non consentivano di sopportare indumenti più coprenti. La carenza di tasche era compensata da cinghie di cuoio alle quali erano assicurati sacchetti e astucci. Quando raggiunsero il piano superiore la migliore illuminazione svelò il biancore quasi trasparente della loro pelle; Luna indugiò a lungo ad osservarli e notò che erano quasi completamente glabri e che i pochi peli che avevano (ciglia, sopracciglia e capelli rasati) erano pallidi come la luna, ma non per una questione di età. Un soldato si accorse di essere spiato e abbassò lo sguardo su di lei quel tanto che bastava per intimarle (silenziosamente) di smetterla. Luna non si spaventò, al contrario rimase come calamitata da quegli occhi con la pupilla nera tanto dilatata da occupare quasi tutto il globo oculare e dalla sottile iride bianca. Fu Arat, con uno strattone, a rimproverarla per la sua imprudenza. Quel luogo aveva il potere di farli sentire in trappola (e forse lo erano), ma la cosa peggiore era che provavano la tremenda sensazione che tutto il loro viaggio era stato un'enorme perdita di tempo e soprattutto un'avventura tanto dolorosa quanto inconcludente; il motivo stava nel fatto che quelle gallerie ricordavano alcune zone sotterranee di Deos e nessuno di loro aveva dubbi nel riconoscere in quel sommesso e continuo tamburellìo la pompa dell'aria: pareva che tutto dovesse ancora cominciare, solo che nei loro animi c'era già la pesante premonizione del fallimento. La grotta in cui fecero il loro ingresso era sicuramente stata scavata dalla forza della natura: dentro quell'antro si era radunato l'intero popolo di Und ed era pronto ad ascoltarli e a giudicarli. Vennero rinchiusi all'interno di una gabbia e di fronte a loro si innalzava lo scranno di pietra sul quale aveva preso posto Gush, il capo della Famiglia. Arat, istintivamente, nascose Luna dietro la sua possente corporatura, anche se in mezzo a quei giganti non sembrava più così forte. Nessuno parlava e tutti fissavano gli stranieri; la tensione e il caldo che rendeva insopportabili i vestiti contribuivano ad aggravare il malessere del gruppo. E' superfluo dire che Cablam non condivideva queste sensazioni, era rilassato e neppure una goccia di sudore bagnò il suo pesante abito nero. Gush aveva i lunghi capelli e la folta barba di un bianco brillante non diverso da quello delle donne e dei bambini che riempivano la sala, solo le rughe che

incorniciavano i suoi occhi denunciavano che aveva ormai superato la metà della vita. Ad un suo cenno i suonatori di tamburo, rimasti fino ad allora immobili come statue di marmo, iniziarono a percuotere le pelli tese dei loro strumenti seguendo il ritmo cadenzato della pompa dell'aria. I suoni cupi fecero da sottofondo alle criptiche parole di Gush, il cui monologo riempì le anime dei prigionieri di nefasti presagi. Quando Gush terminò di parlare in Undnos (i tamburi proseguivano incuranti a scandire il tempo) il capo delle guardie si avvicinò alla gabbia per tradurre tutto in immnos. Luna sgusciò tra lo stretto spazio libero tra il fianco di Gor e quello di Arat e si mise in prima fila. L'Undnos che prima le era estraneo si srotolò sulla sua lingua come se per tutta la sua vita non avesse parlato che quell'idioma. Dalla platea si levò un brusio: Luna sapeva che questa sua esibizione colpiva la fantasia del popolo che rimaneva sconcertato ma anche inevitabilmente attratto da lei. Non sperava che fe lo stesso effetto su uomini come Gush: l'uomo più importante di Und inarcò brevemente il sopracciglio e questo fu l'unico gesto interpretabile come segno di stupore in quell'essere di ghiaccio. "Bene: ora so con chi devo parlare. Visto che ci siamo presentati è ora di iniziare l'interrogatorio." Luna dovette spiegare perché si erano spinti così profondamente nella Palude di Melsh e raccontò della decisione presa dai Giudici del Consiglio di Atra nei confronti della probabile alleanza. Gush non si sorprese della natura della loro presa di posizione, già sapeva che gli Atralidiani erano furbi ma pavidi. Anche il capo di Und aveva interpretato il comportamento di Atra come un complicato gioco politico dal quale non potevano che uscire vincitori: se l'alleanza era fattibile avrebbero seguito le sorti dell'intera Solamia, nella buona e nella cattiva sorte; in caso contrario loro non si erano impegnati in nessun accordo e quindi avrebbero continuato la vita che da tempo ormai facevano. C'era una punta di orgoglio nelle parole di Gush, evidentemente si sentiva lusingato che anche i nemici di un tempo (prima della Soppressione le schermaglie tra Und e Atra erano sempre state le più violente) li consideravano adatti a prendere decisioni così importanti. Luna non smentì la sua supposizione anche se personalmente credeva maggiormente nella possibilità che gli Atralidiani avessero contato sul carattere ermetico degli Underidiani e sulla loro indole violenta; forse il Presidente Davor credeva che i cinque stranieri fossero già morti, impalati dalle anaud. Infine Gush concluse con quella che non poteva essere altro che una sentenza inappellabile:

"In tempi come questi in cui uomini e Dei maligni (in questi termini consideravano Cron) sono in guerra tra loro, un uomo da solo, quale io sono, non può arrogarsi il diritto di decidere per tutti i figli di Und. Chiederò quindi aiuto al Dio Kos e alla sua sposa, la Dea Mali. Per essere giudicati da loro però prima bisogna essere Underidiani: questo non significa solo avere il sangue puro ma bisogna aver sofferto tutto ciò che Und ha patito con il popolo e per il popolo." La Famiglia Underidi era l'unica che concepiva la possibilità che un esterno potesse diventare un Familiare. Nessuno dei cinque esterni sapeva quale prova bisognasse superare per entrare a far parte di quel mondo ma Luna non ebbe dubbi e si offrì per affrontare le sofferenze e ottenete così l'onore di essere considerata da tutti loro una Familiare. Sentiva di doversi addossare da sola almeno questo patimento: molti erano morti a causa delle idee che erano nate intorno alla sua venuta e sentiva di dover pagare un debito ad Arat e agli altri; Gush non fece obiezioni a che fosse solo lei a unirsi alla Famiglia, ma nel caso il giudizio dei loro Dei non fosse positivo la condanna a morte che sarebbe seguita avrebbe gravato sulle teste di tutti gli stranieri. Arat protestò inutilmente mentre Luna venne fatta uscire dalla gabbia. Scese il silenzio, scandito dal rintocco dei tamburi che segnavano il tempo in quel luogo privato del ciclo solare. Due uomini portarono un braciere sul quale era posta una ciotola riempita con l'acqua nera; il liquido ribolliva eccitato dalla fiamma che danzava sotto di esso e lingue di vapore bianco salivano annodandosi e sciogliendosi tra loro. Luna venne accompagnata di fronte al braciere e un soldato, eseguendo sottili ma precise incisioni, staccò di netto la manica della tuta di pelle denudandole il braccio destro. Nessuno dei presenti parlò, tutti la osservavano. Arat, alle sue spalle, si aggrappò alle sbarre come se la sua furia potesse davvero piegarle, ma anche lui non aveva parole per lei. E Luna non capiva cosa volessero. Che cosa doveva fare? Poi una delle fiamme si riflesse sul guanto di metallo che fasciava il braccio del soldato che le stava affianco, solo che quello non era un guanto. Tutti in quella sala, al di fuori dei bambini più piccoli, avevano il braccio destro incrostato di tali: il metallo penetrava nella carne e ricuciva ed in parte ricostruiva l'arto. Era questo quello che doveva fare, ustionarsi il braccio su quel rogo e poi farsi cicatrizzare con il tali fuso. Luna aveva paura del dolore, aveva paura delle deturpazioni e l'idea che lei stessa dovesse infierire sul proprio corpo la faceva tremare. Ma lo fece. Chiuse gli occhi e strinse le palpebre così forte che lampi di luce accesero, per una

frazione di secondo, il buio che aveva creato. Serrò i denti per ingabbiare il grido che sicuramente le sarebbe esploso dalla gola e distese il braccio avanti a sé. Il vapore si contorse avviluppandosi sul suo polso come un serpente e come una pianta dalle spine velenose le strisciò fino al gomito. Sentiva la pelle accartocciarsi e i muscoli lacerarsi, il cuore le batteva in petto prima seguendo il ritmo dei tamburi e poi accelerando sempre di più la sua corsa. Luna perse le forze ma non la coscienza, era ancora nel pieno delle sue facoltà mentali quando un uomo si chinò su di lei e le versò il tali liquido direttamente sulle piaghe: la mano che vedeva non poteva essere la sua, i muscoli che ancora vi erano attaccati erano gonfi e di color rosso porpora, le parti di osso scoperte erano carbonizzate. Guardava stranita quel resto sanguinante e deforme e si aggrappò all'insostenibile speranza che non fosse il suo braccio, ma il gomito ancora fumante era attaccato al resto dell'arto completamente intatto. Gli occhi di Luna si velarono di lacrime e perse i sensi entrando in uno stato che stava tra il sonno e la catalessi, tra la voglia di svegliarsi e il desiderio di morire.

Luna dormì per un periodo di tempo che non era in grado di misurare. Quando si svegliò per prima cosa si domandò per quale ragione sentiva un calore bruciante al braccio: il dolore aumentava man mano che lei risaliva dal sonno profondo ma questo non l'aiutava a darsi una spiegazione. Solo quando vide le bende che le fasciavano tutta la mano fino al gomito si ricordò del sacrificio che aveva fatto e del prezzo che avrebbe dovuto pagare fino alla morte. Non riusciva a percepire la presenza delle dita e del resto delle parti anatomiche celate dalla garza, tanto che le era venuto il dubbio che sotto tutta quella stoffa non ci fosse più nulla di umano e di utilizzabile. Silenziosa come un pensiero e sinuosa come un serpente, una donna entrò nella stanza; l'occhio di Luna cadde subito sul tali incastonato nella pelle bianca dell'Underidiana e la vista che questo non limitava i suoi movimenti non riuscì a tranquillizzarla. Forse la sua inquietudine era data dal fatto che negli occhi di quella ragazza aveva riconosciuto quelli di Aza. Anche l'espressione corrucciata e i modi bruschi erano un'impronta genetica che Aza aveva preso da quella Famiglia. La donna dallo sguardo severo se ne andò dopo aver detto solo due parole e senza guardare Luna in faccia. "Vestiti, cibo."

I 'vestiti' erano un paio di stivali di cuoio e un unico indumento: una specie di grembiule che si allacciava al collo e copriva il petto lasciando la schiena nuda; il secondo laccio assicurava l'abito alla vita formando una gonna lunga fino a metà coscia. Luna si sentiva un po' a disagio per l'eccessiva essenzialità del guardaroba, ma se ne fece una ragione perché tutte erano vestite in quel modo e soprattutto perché a quelle temperature così calde indossare la tuta dei soldati di Deos era un vero martirio. Oltretutto, con la schiena scoperta, il marchio che si era fatta ad Atra era libero di rimarginarsi e nessuno lo avrebbe notato se lei lasciava sciolti i lunghi capelli. Luna si osservò riflessa nello specchio di tali che c'era nella stanza; ancora una volta provò una stretta al cuore nel vedere quell'involto di bende attaccato al suo braccio: il ribrezzo si accompagnò al dolore fisico. Poi guardò quello che lo specchio non faceva vedere e si vide come avrebbe voluto che tutti la riconoscessero: una donna umana la cui anima di Deoscuridiana avrebbe volato sopra Solamia grazie al simbolo delle ali del colbi marchiate sulla schiena, un soldato che avrebbe spezzato il potere di Cron grazie al tali di Und che fortificava la sua mano. Un guizzo di colore infranse la visione di gloria che l'aveva allontanata dalla realtà. Quando si voltò per capire ciò che lo specchio le aveva solo accennato vide quattro o cinque teste sparire dalla cornice dell'uscio e sentì gli echi dei i di corsa dei piccoli piedi seguiti dai gridolini giocosi di bambini curiosi. La stanza in cui aveva riposato non era una prigione, non vi erano sbarre e lei poteva andare per le gallerie di Und a suo piacimento (senza però potervi uscire, visto che non sapeva come aveva fatto ad entrarvi), allo stesso modo tutti gli abitanti di Und potevano andare da lei. Il primo che si fece vedere fu Shuza, un bambino mingherlino ma dai muscoli lunghi e scattanti. La faccia da angioletto non riusciva a ingannare chi gli stava di fronte che non poteva non accorgersi dell'energia vitale che ribolliva nelle sue grandi pupille nere. Si presentò come il capo della banda di ragazzini che era appena scappata, lui era coraggioso ed era per quello che era rimasto; sottolineò questa affermazione mostrando a Luna il tali che si fondeva con il mignolo e l'anulare della mano destra. "Molti bambini hanno cicatrici richiuse con il tali, ma sono su una gamba o su un gomito, sono ferite da imbranati che scivolano a terra perché non sanno correre. Io invece ho donato, in largo anticipo, una parte della mano migliore al Dio Kos. Come i grandi." Il ragazzino oltre che 'molto coraggioso' era anche un gran chiacchierone e

raccontò a Luna che il tali era l'essenza della vita, e che dopo che Dio Kos aveva estrapolato tutte le impurità, l'armatura di tali che cicatrizzava la ferita era un legame tra l'anima e i corpi posseduti in ato e quelli che si possiederanno in futuro. Luna era diventata parte della carne di Und e Shuza fece i suoi complimenti alla Deoscuridiana per la forza dimostrata; nella sua pur breve vita aveva visto omoni grandi quanto suo padre piangere come neonati ancora prima di aver sentito il calore dell'acqua nera. Ma non era quella la prova che Gush voleva che Luna affrontasse: anche lo spirito di Luna doveva essere messo a confronto con gli Dei e la sua anima sarebbe stata giudicata dalla Dea Mali. Shuza credette di rincuorare Luna dicendole che tutto questo non sarebbe accaduto subito e che prima si doveva aspettare che la ferita alla mano guarisse: alle volte capitava che tutto andasse in cancrena e quindi non c'era bisogno di affrontare le Lacrime di Mali. Se ne andò dicendo che doveva andare a lavorare alla miniera prima che suo padre si arrabbiasse troppo per il suo ritardo, ma promise che sarebbe tornato a farle visita. Luna ritrovò i suoi compagni di viaggio; erano stati ospitati in una delle stanze riservate agli uomini. Appena fece il suo ingresso capì dalle espressioni degli uomini che aveva appena interrotto una discussione molto animata ed intuiva che l'argomento la riguardava da vicino. "Qual'è il problema... Sador?" Luna non aveva udito l'immelico parlare, ma il sesto senso (o il potere di Und o una sciocca supposizione) le suggeriva che tutto era riconducibile a lui. "Ecco! E' di questo che ti stavo parlando, Arat. Lei è così al di sopra di tutti ed è al di fuori di ogni cosa, da quel luogo ci osserva e decide per noi quello che accadrà delle nostre vite. Tanto lei non ha paura perché lei sa già che si salverà, lei sa sempre tutto. A lei non importa chi di noi sarà il prossimo a morire, come non le è importato di Sargon e di Aza. Perché lei sa che non deve ancora morire. Io non ho voglia di rischiare la pelle per lei... " Luna rimase sorpresa da queste parole: sapeva che Sador non era motivato dallo stesso spirito che animava Arat e che aveva mosso Sargon, ma non credeva che l'uomo covasse tutto questo risentimento nei suoi confronti. Quando rispose all'immelico non c'era rabbia nelle sue parole e non si sentiva offesa per il suo sfogo: in fondo lo comprendeva.

"Non è vero che non ho paura. Ho paura di fallire, di prendere decisioni sbagliate, di non soddisfare le aspettative che gli altri hanno di me. Temo ogni giorno di non risvegliarmi oppure mi sveglio nel terrore di scoprire di essere ancora prigioniera di un destino che non mi sono scelta. Non sono ancora del tutto certa delle azioni che sto compiendo ed è forse per questo motivo che chi mi sta vicino rischia la vita, ma non è vero non mi interessa la vostra sorte. In ogni momento sento battere ogni cuore di Solamia, odo piangere le anime di tutti gli oppressi e mi ritrovo ad avere un unico pensiero nella testa: voglio salvarli tutti. Voglio liberare ogni essere vivente di questo mondo." Mentre parlava le scendevano le lacrime. Era disperata perché sentiva che nessuno in quella stanza riusciva a crederle: c'era chi avrebbe voluto ma era troppo realista per poter credere ai miracoli, chi era molto pessimista e chi non la stava nemmeno ascoltando. Cablam le credeva. Per la prima volta Luna si accorse di poter leggere nella sua anima e ci trovò quello che lui aveva lasciato lì per lei: lui la comprendeva. La sorpresa fu grande ma non ebbe il tempo di ragionare sull'evento perché Sador parlò ad alta voce e, questa volta, rivolgendosi direttamente a lei. "Non voglio avere niente a che vedere con te. Non considerarmi più parte di questa spedizione. Se riuscirò ad uscire vivo da questo inferno, ed ovviamente anche in questo caso la mia sopravvivenza dipende da te, non ti ringrazierò ma lo considererò come il minimo che tu potessi fare per me dopo tutto quello che mi hai fatto are. Prenderò una direzione diversa dalla tua una volta usciti da Und, se non sarai solo tu a restare in vita." Sador se ne andò e Arat non prese le difese di Luna, come lei aveva in cuor suo sperato, forse perché anche lui in parte la pensava come Sador. Da quel momento Sador non le rivolse più la parola e raramente si intratteneva anche con Arat e Gor. ava le sue giornate eggiando tra la sua stanza e il deposito dei viveri: si scolava tutti gli alcolici che riusciva ad ottenere dal capo magazziniere; non che potesse fare altro perché anche uno sciocco come lui sapeva che per nessuna ragione lo avrebbero fatto uscire da Und. Come molti uomini scarsamente dotati di logica Sador decise di comportarsi come se nessuno potesse giudicarlo. Fu così che si ritrovò a subire un processo per aver infastidito una giovane donna e lui si difese sostenendo che lei lo aveva provocato indossando quel mini-abito. Sador non seppe mai che evitò la pena di morte solo grazie all'intercessione di Arat che supplicò Gush di rinchiuderlo in una delle loro celle: per sfamarlo avrebbero usato parte delle razioni (già misere)

di Arat e Gor. Sarebbe uscito solo il giorno della loro partenza oppure per essere accompagnato alla morte insieme agli altri intrusi.

Shuza si offrì di fare da guida a Luna e di rispondere alle sue curiosità; dopotutto era quello che voleva Gush: prima di affrontare le Lacrime di Mali, doveva imparare cosa voleva dire essere Underidiani e non bastava avere il guanto di tali incarnato nel corpo per capire i patimenti di quel popolo. Come prima cosa Shuza accompagnò Luna alle miniere di Tali, che occupavano la parte più profonda e calda della montagna. Il lavoro dei minatori affascinava il ragazzo non solo perché suo padre era uno di loro, ma anche perché l'estrazione del metallo era un rito mistico ed indispensabile alla vita della comunità. I muscoli dei minatori si contraevano nello sforzo di sollevare i picconi mentre la pelle, madida di sudore, si scuriva per la polvere nera sollevata dai violenti colpi. I bambini come Shuza avevano il compito di trasportare via le pietre dalle zone di scavo e di portare le pepite di tali dai fabbri e dagli artigiani. Tutti gli Underidiani indossavano gioielli e accessori di tali, ed anche oggetti di uso comune come stoviglie e attrezzi di lavoro erano forgiati con questo metallo; la comunione con il metallo purificava le loro anime e le avvicinava alla perfezione del Dio Kos. Solo pochi manufatti riuscivano a fuoriuscire dalle mura di quella roccaforte sotterranea e sul mercato di Solamia raggiungevano prezzi che solo poche persone di nobile stirpe potevano permettersi. Naturalmente tutto questo accadeva in un tempo tanto lontano da essere ormai solo un ricordo. L'orgoglio con cui Shuza parlava dei minatori era anche dovuto al ruolo che il loro lavoro aveva assunto dopo la Soppressione di Cron. Per la città sotterranea il perfido dittatore aveva creato i Lobrati, Mutati grandi poco più di un neonato dotati di grossi incisivi e di forti unghie per scavare, che da tempo intaccavano la struttura della montagna sommersa allo scopo di stanare gli Underidiani. Il ragazzino guardò negli occhi di Luna ed il suo sguardo sembrava quello di un vecchio che raccontava ciò che aveva vissuto. "I Mutati fuoriuscivano dalle crepe della pietra come malefica acqua di un fiume mortale. Erano ovunque: nei magazzini, nella mensa, nelle culle dei bambini. " Guardandosi la mano metallica, Shuza ricordò ciò che gli era stato strappato con

violenza ma che appariva un piccolo sfregio in confronto alla vita rubata a molti bambini in quello stesso giorno. Con la stessa intensità con cui aveva parlato delle sue sofferenze personali, il ragazzino descrisse ciò che suo padre gli aveva raccontato del primo attacco dei Lobrati. Dopo il terrore ci fu il desiderio di rivalsa e gli Underidiani sacrificarono parte della loro amata montagna per sopravvivere: fecero esplodere le gallerie superiori chiudendo l'accesso alle zone sottostanti in cui si erano rifugiati e uccidendo un gran numero di Mutati. Altri Lobrati giunsero da Lubra e scavarono la roccia nera di Und, altre volte le cariche deturparono la città e i minatori dovettero scavare altri rifugi, sempre più in profondità. La guerra di Und era tutta qui. La sopravvivenza non era una vittoria perché ad ogni attacco gli Underidiani uccidevano un pezzo della loro carne e si rintanavano sempre di più in quella che un giorno sarebbe diventata la loro tomba. Lo spirito degli Underidiani era comunque da ammirare. Erano riusciti a mantenere i contatti con l'esterno, necessari per cacciare i manda e per pompare l'aria, grazie a dei canali scavati nel tali puro (resistente ai denti e alle unghie dei Lobrati) che percorrevano in verticale tutta la montagna, dalle fondamenta alla cima. Gli sbocchi erano celati dall'anello di terra che gli Underidiani avevano costruito attorno al cono che emergeva dal lago nero; sotto alcuni trobel si trovavano gli ingressi a questi condotti. Anche Arat aveva scoperto il sistema che gli Underidiani utilizzavano per uscire dalla montagna senza are per le gallerie superiori, dove si annidavano i Lorbati. Tempo addietro gli sbocchi all'esterno erano stati notati da alcuni mercenari: forse le piogge torrenziali avevano corroso lo strato di fango e di radici che mimetizzavano l'apertura e il metallo prezioso aveva incominciato a brillare come una stella. Quegli uomini tentarono di appropriarsi del tali usando gli esplosivi e rischiando così di trasformare Und in una tomba. Da quel momento i cacciatori che uscivano per procacciare la carne di manda per tutta la Famiglia avevano anche il compito di impedire che altri estranei tentassero di fare lo stesso. Per questo motivo Luna e gli stranieri erano stati portati a Und. Si erano avvicinati troppo agli ingressi (anche se non se ne erano accorti) e gli Underidiani non volevano rischiare di trovarsi isolati dalla palude che dava loro il cibo. Da quando gli stranieri erano arrivati i soldati controllavano sempre le uscite per impedire una loro fuga. Arat era sempre in ansia. Ogni mattina andava da Luna e la svegliava sempre con la stessa domanda.

"Come va il braccio?" Non era necessario essere un Underidiano per capire che il giorno in cui la cicatrice si fosse richiusa Luna avrebbe dovuto affrontare le Lacrime di Mali. "Ogni volta che me lo chiedi non riesco a capire se sei contento oppure no che non si sia ancora rimarginata." "Non lo so neppure io. Certo finché non affronti la prova siamo sicuri di rimanere tutti vivi... " "Ma siamo dei prigionieri! Credi che non supererò la prova?" Luna intuiva dal modo in cui corrugava la fronte che Arat stava cercando le parole più adatte per spiegare ciò che aveva in mente. Nonostante questo quando parlò non sembrava convinto di aver fatto la scelta più giusta. "Non credere che io abbia paura della morte. Certo non voglio morire ma non temo la sfida. Credo in quello che stiamo facendo e ti conosco abbastanza da sapere che, anche se non hai troppa fiducia in te stessa, farai ogni cosa è in tuo potere per vincere la battaglia. Ma in questo caso non si tratta di convincere con le parole che quello che vogliamo è il bene per tutti e non è neppure una prova di forza tra due soldati. Tu dovrai affrontare un giudizio divino! Non dovrei abbatterti ma temo per la tua vita." "Anche io. Shuza mi ha detto che nessuno straniero è mai sopravvissuto alla prova; nonostante questo riesco a nutrire una speranza. Ogni giorno che a mi sento più vicina alla Famiglia Underidi, mano a mano che il tali si solidifica e si fonde con la mia pelle provo la sensazione di appartenere anche a questa Famiglia. La Dea Mali si accorgerà che sono spinta dal desiderio di salvare i suoi figli e mi lascerà vivere." "E se non esistesse alcun Dio? Se quella non fosse altro che una pozza di acqua velenosa... " "Lo so che se io morissi anche tu e gli altri seguireste il mio destino. Ma io non sono uguale a nessuno degli esseri che vivono in questo mondo. Sono riuscita a capirlo già molto tempo fa ma avevo paura di questa mia unicità e non la

consideravo affatto un dono. Ma i fatti non si possono ignorare: io sono sopravvissuta a cose che la mia immaginazione non riusciva neppure a concepire. Non sono certa che il giudizio divino sarà positivo, ma nutro delle speranze." Arat si sentì uno stupido; come poteva cercare delle conferme da Luna che viveva in un mondo dove l'incertezza era il motore che faceva muovere l'universo? Non poteva certamente colpevolizzare la ragazza ma non gli piaceva dover aspettare la mossa di un altro per conoscere il proprio destino. Sentiva di provare del risentimento nei confronti di Luna ma questo sentimento andava a scontrarsi con un altro di natura opposta. C'era un affetto che era nato in lui e che cresceva senza badare a ciò che la logica gli suggeriva, al centro di tutto c'era lei. La contraddizione che Arat esprimeva con il suo silenzio avvilì Luna: non poteva credere che avesse perso la fiducia che riponeva in lei. Un'ombra ò silenziosa di fronte all'ingresso della camera della ragazza. Si era soffermata ad osservarli ed era sparita. Fu un istante ed entrambi la videro con la coda dell'occhio ma sia Arat che Luna riconobbero le fattezze di Cablam. Arat si allontanò da Luna e si affacciò sul corridoio, vide lo svolazzo delle sue vesti sparire dentro il buio di una galleria e si affrettò a seguirlo. L'illusore spariva spesso per lunghi periodi e Arat non riusciva mai a capire dove andasse a finire. Neppure in un luogo limitato come la città di Und riusciva a ritrovarlo e la frustrazione incominciava a renderlo nervoso. Quando Cablam ritornava non faceva altro che vagare con quel suo sguardo assente per le gallerie più buie di Und. Ma non era in attesa come tutti gli altri uomini la cui vita era legata a Luna, sembrava che sapesse già come si sarebbero svolti gli eventi e che lasciasse semplicemente scorrere il tempo per far sì che il futuro si realizzasse. Cablam non aveva paura degli uomini e del futuro perché entrambi non potevano influire sulla sua vita; pareva che un'aura magica circondasse e nello stesso tempo penetrasse la sua struttura fisica, celando la sua vera natura. Nessuno a Und ricordava il suo nome e nessuno badava ai suoi solitari vagabondaggi per le gallerie della città. Non ci si accorgeva della sua presenza se non sotto forma di sensazione interna: si percepiva solo una continua sofferenza e un timore generalizzato e non ben identificato. La maggior parte delle persone non si rendeva conto di tutto questo e si limitava a rispondere istintivamente a questi stimoli subcoscienti ignorandone la fonte e contemporaneamente allontanandosi da essa; Arat invece aveva imparato a seguire queste sensazioni e le percepiva con maggiore intensità, ma ciò non lo aveva aiutato a decifrare il male che Cablam nascondeva. L'immelico era preoccupato soprattutto per un aspetto:

Cablam non appariva come una minaccia né agli occhi né alla parte più istintiva e sensitiva dell'essere umano e se il pericolo era così nascosto da non apparire come tale allora il suo potere poteva travolgerli e distruggerli tutti in qualsiasi momento. Anche questa volta Arat non prese nessuna precauzione e non cercò di difendersi, perché la sua mente non ricordò più quello che aveva capito di Cablam. Lui era uno spirito che viveva senza bisogno di aria e di cibo, la sua esistenza si perpetrava a prescindere che altri esseri ne riconoscessero la presenza, era intoccabile e impenetrabile perché nulla a quel mondo gli somigliava.

Durante il primo pasto della giornata, consumato nella mensa comune, un uomo si avvicinò al tavolo degli stranieri. Nessuno l'aveva mai fatto, ma l'evento non sconvolse la tranquillità degli altri Underidiani. Tenendo gli occhi bassi, quasi si vergognasse di quello che stava per fare, l'uomo parlò. "Io sono Zoton." Uno alla volta tutti si presentarono pronunciando il proprio nome. "Ho saputo che venite da Samas." Arat rispose brevemente cercando di intuire quale era lo scopo di quella constatazione. "Sì. Sul nostro cammino abbiamo incontrato anche quella città." "Ho una figlia a Samas. O almeno era lì l'ultima volta che ho avuto sue notizie." Una pausa colma di speranza e di terrore. "Si chiama Aza. I suoi occhi sono bianchi come tutti gli Atralidiani ma i capelli sono neri come quelli di sua madre, una Nimferidiana." L'uomo continuava a guardare il tavolo e non si accorse degli sguardi che si lanciarono rapidamente i suoi ascoltatori. Luna non sapeva quello che stava ando nella mente di Gor, ma incrociando gli occhi di Arat capì che anche lui aveva visto lo stesso pericolo. Aza era stata assassinata dagli stessi soldati che Luna proponeva agli Underidiani come alleati. Certo la guerriera era una mezzo sangue, ma se non era stata ripudiata dal padre (e certamente non lo era visto che lui si preoccupava di chiedere notizie su di lei) allora era considerata una

Familiare. A tutti era noto il forte legame che univa ogni singolo membro della Famiglia Underidi ed era facile intuire che se avessero saputo come gli Atralidiani avevano accolto una di loro non avrebbero mai acconsentito ad una collaborazione. La situazione era grave; nella migliore delle ipotesi, se Luna superava la prova delle Lacrime di Mali, gli Underidiani sarebbero scesi in campo ma avrebbero preteso l'esclusione degli Atralidiani. Ma Solamia non poteva permettersi di rinunciare ai valorosi Cavalieri dell'Aria se voleva avere almeno una possibilità di vincere contro Cron. Nel silenzio colpevole la tensione saliva, bisognava dare al più presto una risposta a quell'uomo che, senza saperlo, avrebbe potuto decretate il fallimento della loro impresa. "Non possiamo aiutarti, mi dispiace. Samas è stata una breve tappa del nostro viaggio." Zoton ringraziò (deluso per non aver avuto novità ma rincuorato di non aver ricevuto cattive notizie) e si scusò per il disturbo. Luna aveva parlato con voce calma e rassicurante, la comione e il rimorso non fecero vacillare la sua voce nel pronunciare quelle bugie. In seguito si giustificò con sé stessa dicendosi che stava salvando un intero continente pagandone il prezzo con le speranze di un solo uomo. Ma sentì la propria anima disapprovare la freddezza che sentiva dentro e l'ombra di Cablam volteggiò nella sua mente come un avvoltoio.

Venne il tempo di liberare il braccio dalle bende. Il palmo della mano era indenne: Luna guardò i polpastrelli rosa e si sfiorò la guancia per rassicurarsi con il suo morbido tepore ma lo sfavillio del metallo la riportò alla realtà. Il dorso aveva la pelle simile a quella di un serpente d'argento con le sottili scaglie di metallo che si fondevano perfettamente con la carne senza intaccarne l'elasticità: in questo modo l'arto era libero di muoversi. Shuza le aveva spiegato che il tali si univa alla parte biologica dell'uomo prendendo forme diverse da individuo a individuo. Il prezioso metallo nel suo caso aveva creato cinque artigli, corti ma affilati, là dove prima c'erano le unghie. Placche di tali massiccio le cingevano il polso e formavano lingue che si dimenavano e si attorcigliavano sul suo avambraccio. Dal gomito in poi la pelle era quella chiara e vellutata di sempre, come se nulla fosse accaduto. Luna guardava la sua immagine eternamente modificata dal guanto di tali nel grande specchio e riusciva solo a pensare che il giorno dopo avrebbe affrontato la mortale prova della Dea Mali.

Shuza le fu veramente d'aiuto, anche se lo fece a modo suo. Era eccitato all'idea di vedere la sua amica affrontare le Lacrime di Mali ed era convinto che avrebbe superato la prova. Senza chiedersi se Luna condividesse questa sua certezza si mise a raccontarle le raccapriccianti morti di chi l'aveva preceduta. "...Quel gigante si stava sciogliendo come una candela. I globi oculari gli uscirono dalle orbite come lumache che escono dal loro guscio. Il naso prese a gocciolare, era il cervello che era ridotto ad un liquido vischioso. Ma la cosa più strana era il rumore che faceva, sembrava che qualcuno stesse masticando uno di quei frutti polposi che se messi sotto zucchero diventano gommosi e un po' viscidi." Le immagini che Shuza riusciva a descrivere parevano rubate a un malato mentale con una predisposizione naturale all'omicidio violento, ma la cosa più spaventosa era che tutto era successo veramente. "Invece ad un altro caddero tutti i capelli e poi si mise a vomitare, ma non era cibo, erano i suoi organi interni. Mano a mano che si svuotava la sua pelle raggrinziva, alla fine si piegò su sé stesso come un sacco rivoltato... Ma non ti devi preoccupare, non ti succederà nulla perché la Dea Mali punisce solo le persone cattive: tu invece vuoi aiutarci." Questa logica semplice e infantile non riuscì a rassicurare Luna e Shuza lo capì immediatamente. Quando Luna gli aveva parlato dell'alleanza tra tutti i popoli di Solamia per liberarsi da Cron il dittatore lui non aveva capito ogni parola, perché Solamia era troppo grande e sconosciuta per la sua giovane mente, ma aveva capito che con l'aiuto di Luna sarebbe stato possibile sconfiggere definitivamente i Lobrati e questo era per lui di importanza vitale. "Io ti posso aiutare, vieni con me. Ti porto in un posto." Scesero al di sotto dei depositi e delle prigioni, ancora più in profondità delle miniere, dove la pietra era calda come il sole. Il tempio dedicato a Kos era immenso; dalla roccia della parete sul fondo fuoriusciva una scultura colossale che raffigurava il Dio come un uomo simile agli Underidiani (ma nero come la pietra di Und), in ginocchio e con il braccio destro sollevato sopra la testa; stringeva in mano un grosso martello da minatore e mirava a colpire l'altra mano che era appoggiata a terra con il palmo aperto verso l'alto. "Tutti noi Underidiani abbiamo affrontato le Lacrime di Mali." La voce di Shuza

si amplificò e divenne cupa come quella degli adulti in quella caverna. "Dopo la nascita i bambini vengono bagnati con le sacre lacrime e tutti sopravvivono. Il giudizio della Dea non può che essere positivo perché non c'è nulla di più puro e innocente di un neonato. Abbandonati nelle mani di Kos, ricordati della purezza che avevi quando eri solo roccia e ridiventa innocente." Luna non riusciva a staccare gli occhi dal Dio, così concreto, e gli sembrava che gli occhi della statua seguissero i suoi movimenti, o forse era lei a muoversi rispondendo alla forza magnetica di quello sguardo. Si distese sull'enorme mano, sentì il proprio corpo aderire perfettamente alla pietra e ciò la rassicurò; le era facile supporre che chiunque si distendesse lì avrebbe provato la medesima sensazione, come se ogni corpo fosse stato estratto dalla pietra nera al momento della nascita (come spiegava la religione di Und) e, anche dopo una vita intera, avesse potuto ritrovare il proprio posto e riunirsi in quell'istante con il Dio creatore. Lei non sapeva con quali parole gli Underidiani si rivolgevano a Kos; le venne spontaneo ricordare la vita che aveva vissuto fino ad allora, non come se raccontasse a qualcuno le azioni e gli eventi che si erano succeduti ma riprovando nel suo intimo i sentimenti che l'avevano animata e tormentata in ogni istante. Incredibilmente lo sguardo della statua di Kos si addolcì. Forse era solo un effetto ottico dovuto al dondolio delle fiamme delle fiaccole ma a Luna piacque sperare che il Dio l'avesse riconosciuta come una che faceva parte del suo popolo e che avesse ascoltato, capito e, forse, addirittura perdonato. Indipendentemente da quello che era successo in realtà, Luna si sentì a posto con sé stessa e, per la prima volta in vita sua, anche con gli altri. Ma subito si chiese quanto tempo sarebbe durato questo suo stato di grazia, senza accorgersi di aver già infranto il miracolo proprio ponendosi tale domanda. Scivolò giù dalla poderosa mano di pietra e, finalmente libera dal potere del Dio Kos, poté ammirare il tempio. Le pareti perfettamente verticali e rese lucide come uno specchio rivelavano il lavoro immenso e paziente degli uomini di quella città. La sala era un enorme spazio libero senza sedie per permettere ai fedeli di sentirsi liberi di adorare la natia roccia come dettava loro il cuore. Sulla parte destra c'era un'incudine che veniva utilizzata per il battesimo: il neonato vi veniva deposto e il suo nome veniva scandito da un leggero martellamento sull'incudine stessa. In questo modo l'anima non sentiva il nome che gli uomini avevano scelto per quel corpo e non vi rimaneva legata quando sarebbe giunta la morte; il martello di Kos separava il corpo dall'anima. Il primo lo metteva nelle mani dei parenti e la seconda era libera di ricongiungersi con la pietra di Und dalla quale sarebbe stata estratta per dare vita ad un altro corpo.

Sul lato sinistro c'era una ciotola di tali. "Un sassolino, una preghiera." Le aveva detto Shuza. Là Zoton faceva tintinnare le sue preghiere per Aza, ed erano macigni sulla coscienza di Luna.

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CAPITOLO 14

Il momento venne. Ancora una volta l'intero popolo sotterraneo si radunò per osservare e accettare il responso della Dea Mali. La cerimonia si svolgeva in una grotta il cui ingresso ricordava le fauci digrignate di una belva. Era estesa quanto un campo di grano, aveva la volta tanto bassa che a Luna parve di essere nella bocca di un essere immenso: incominciò a temere di venire masticata e deglutita da un momento all'altro. Sul fondo dell'antro c'era la vasca naturale dove si raccoglievano le Lacrime di Mali; le gocce di acqua nera scendevano dal soffitto e picchiettavano sulla superficie del laghetto. La grotta era piena di gente ma solo quelli delle prime file si sarebbero goduti lo spettacolo, gli altri avrebbero dovuto accontentarsi delle sensazioni raccontate dagli spettatori più fortunati. L'ingresso di Luna venne accompagnato da un silenzio pieno di aspettative; molti Underidiani erano stanchi di scavare sempre più in profondità nelle viscere di Und per sfuggire ai Lobrati e la montagna donata da Kos al popolo poteva non essere infinita come alcuni credevano: speravano quindi che la Dea risparmiasse la donna perché l'alleanza era forse l'unica speranza per liberarsi per sempre di Cron. Altri invece volevano che Luna morisse perché solo il Dio Kos poteva proteggerli e loro non dovevano abbandonare la roccia nera di Und, sarebbe stato un tradimento. Luna sapeva che in prima fila c'erano i suoi compagni ma non alzò lo sguardo perché sapeva già quali desideri avrebbe letto nei loro visi e lei non avrebbe sopportato di vederli delusi. I piedi nudi di Luna affondarono nell'acqua gelida e lo specchio scuro pareva una lama che le avesse amputato gli arti a livello delle ginocchia. Vide la propria immagine riflessa che la guardava dal basso; aveva negli occhi una strana tristezza. Le prime timide gocce le sembrarono l'inizio di un temporale e la fecero tremare al pensiero delle sofferenze che avrebbe potuto patire. Mentre l'acqua le scorreva sui capelli e le bagnava il viso, provò un debole bruciore che risvegliò paure primordiali e nuovi timori. Poi la memoria le giunse in soccorso: quella notte aveva dormito un sonno agitato e molte volte i brevi artigli di tali, fusi con la sua mano, le avevano sfregiato il volto. Sottili e purpurei graffi solcavano gli zigomi e il mento, il naso e la fronte; le ferite promettevano di

diventare future e perenni cicatrici. L'acqua aveva semplicemente sciolto i coaguli e ne aveva risvegliato il dolore che venne accettato con gioia da Luna perché l'aveva riconosciuto come un sintomo naturale e non come una punizione divina. Tutto il corpo si riempì di goccioline e l'acqua, da nera che era, diventava trasparente al contatto con la pelle. Luna sapeva che avrebbe dovuto attendere di essere completamente bagnata prima di sapere quale giudizio aveva espresso la Dea, ma in quel momento le era difficile misurare il tempo che era già trascorso. La sempiterna pompa dell'aria continuava a scandire gli istanti che le restavano da vivere e il cuore di Luna si adeguò al suo ritmo. Impercettibilmente il tempo iniziò a correre più veloce e così anche il suo cuore; le sembrava che la vita le sfuggisse di mano, come se gli anni si consumassero in pochi secondi. Era solo una sensazione oppure era questa la sua punizione? Tra poco il suo invecchiamento precoce l'avrebbe ridotta ad uno scheletro. Aprì gli occhi per dare conferma alle proprie paure ma vide solo gli occhi terrorizzati di Capo Gush. Poi capì; non era il tempo a scorrere come le rapide del fiume, erano i tamburi che avvisavano il popolo di Und di un nuovo attacco da parte dei Mutati. Come fosse stata vomitata, la folla si precipitò fuori dall'antro attraverso le fauci dischiuse; anche Luna uscì. Fradicia e spaesata aveva voglia di piangere come quando da bambina aveva perso i suoi genitori nel caos della fiera. Ma anche questa volta qualcuno la prese per mano: era Arat. Aveva la demo assicurata al fianco e le porgeva l'amlin: avrebbero dovuto combattere anche loro. I temibili Mutati scavatori erano riusciti a farsi strada tra le macerie causate dalle esplosioni che avevano scarnificato parte della montagna durante l'ultima ritirata degli Underidiani. I Lobrati erano penetrati nelle grotte superiori, che per sicurezza non erano abitate e venivano costantemente pattugliate. L'organizzazione della Famiglia in casi di emergenza era perfetta: vecchi e bambini trovavano rifugio nel tempio dedicato a Kos, che era la zona più bassa della Montagna, mentre uomini e donne risalivano le gallerie per andare incontro ai Lobrati per tentare di arginare quel devastante fiume di morte. Intanto i minatori piazzavano le cariche esplosive per la nuova esplosione che avrebbe amputato una nuova porzione della città ma che avrebbe anche fermato l'invasione. Gli accessi alle gallerie venivano chiusi con dischi di pietra e sigillati con il tali, resistente alla forza dirompente dei Mutati, isolando le gallerie superiori e impedendo che altri Lobrati giungessero nelle zone abitate. Molti

però avevano già superato tali barriere ed andavano eliminati uno ad uno. Le anaud fischiavano e vibravano, manovrate con abilità dai guerrieri di Und; rabbia e frustrazione coloravano gli occhi bianchi e neri degli Underidiani. Luna riconobbe Aza in molte di quelle donne dai lunghi capelli intrecciati, ormai tinti dal rosso del loro sangue e dal nero di quello dei nemici. In mezzo a loro c'erano anche Arat, Sador (liberato solo perché due braccia in più erano preziose in quei momenti), Gor e Luna; nessuno di loro era abituato a quel tipo di lotta ma fecero del loro meglio. I Lobrati percorrevano le gallerie correndo in tutte le direzioni, non solo sfrecciavano in mezzo alle gambe ma si arrampicavano sulle pareti e si lanciavano dal soffitto per aggredire i soldati dall'alto. Sfruttando le loro dimensioni ridotte e al colore che li mimetizzava sulla roccia, molti rimanevano immobili tra una crepa e una sporgenza: improvvisamente quello che appariva come un sasso prendeva vita e assaliva il povero soldato. Luna se li sentiva addosso: i Lobrati si aggrappavano ai capelli, si arrampicavano sulle gambe e affondavano i denti fino a far scontrare l'avorio con l'osso. All'ennesimo fendente l'elsa dell'amlin, ormai viscida per il sangue dei Mutati uccisi, le sfuggì di mano; i Mutati che l'avevano circondata fecero un balzo puntando ai suoi occhi, ma il guanto di Tali con cui si copri le salvò la vista e le preservò la mano. Penetrò il corpo del Mostro che era aggrappato a lei con gli artigli che il tali le aveva forgiato e con rabbia gli fece schizzare fuori il cuore. Raccolse l'amlin incurante delle creature che vi erano sopra; con rapidi e guizzanti colpi decapitò e sventrò, in un crescendo di violenza che sembrava non arrivare mai al culmine. Un boato tremendo irruppe tra i rumori della battaglia, Und urlò il suo dolore per ciò che le era stato inflitto dai suoi stessi figli e la roccia nera vibrò come fosse una campana. L'esplosione aveva ucciso i Lobrati che si trovavano al di là delle barricate e le vibrazioni della montagna influirono negativamente sul delicato e imperfetto sistema nervoso di quelli che erano riusciti a superarle. I guerrieri approfittarono di questa loro temporanea debolezza per mettere fine all'esistenza di quei mostri, indegni di vivere. La battaglia era finita, ma nessuno riuscì a gioire per questo: molti soldati erano morti e Und aveva dovuto sacrificare un'altra parte di sé stessa per salvarsi. I Lobrati uccisi sarebbero stati presto sostituiti da altri (arrivati da Lubra) che si sarebbero subito messi a scavare la montagna dalla cima per scendere fino a loro. I superstiti si ritrovarono e dovettero valutare i danni. Le gallerie dei piani

superiori e la grande grotta naturale, in cui gli stranieri avevano conosciuto il popolo di Und, erano state distrutte. Le persone si dovevano trasferire a vivere nelle prigioni, proprio sopra le miniere. Quando la calma, dovuta più alla stanchezza che ad una reale rilassatezza, stemperò il terrore, la ragione si rimpossessò degli uomini. La domanda sorse spontanea e identica in ogni mente: Luna aveva superato la prova? Era stata sotto le gocce un tempo sufficiente, ma a volte la punizione della Dea tardava a manifestarsi. Il popolo si divise tra quelli che desideravano credere alla purezza dell'animo di Luna e quelli invece che volevano che si rife la prova. Capo Gush intervenne e le sue parole vennero accettate da tutti: lui era il capo. Gush interpretò il responso di Mali come completo e positivo, Luna fu salva (e con lei i suoi amici) in nome di una Dea anche se in realtà fu la logica umana di Gush a decretare l'esito della prova: lui era il padre di tutta la Famiglia e pensava al bene di tutti loro. Per quanto tempo avrebbero ancora resistito ai Lobrati? Quante altre esplosioni poteva sopportare ancora la loro cara Und? Era tempo di uscire e combattere contro Cron al fianco di tutti coloro che avevano sofferto a causa dei suoi Mutati. Gush invitò gli stranieri (ma non più estranei) ad assistere al saluto che la Famiglia avrebbe dato ai suoi morti e a restare come ospiti, finché non fosse giunta la risposta di Atra al messaggio di alleanza che avrebbe inviato subito. Il rito dei fuochi era il saluto dei viventi ai morti. Per far sì che il vecchio corpo non interferisse con la ricongiunzione dell'anima con la roccia di Und, doveva essere allontanato. La cerimonia si svolgeva all'esterno; tutta la popolazione raggiungeva l'anello di terra che circondava la vetta emersa della montagna e con loro portavano i cadaveri dei Familiari. Ogni corpo veniva disteso su una zattera, senza fiori (inesistenti nella palude) e senza un telo che coprisse le brutture della battaglia incise in quella carne morta. Quando la prima luna entrò nel circolo delle costellazioni iniziò il varo delle macabre imbarcazioni che scivolarono sull'acqua vitrea della palude, trascinate dalla lenta e inesorabile corrente. Il loro destino era quello di finire in pasto ai manda, che non disdegnavano mai un pasto facile, ma nella logica degli Underidiani questo non era abominevole: i manda avrebbero resistito con più facilità alla stagione fredda e le battute di caccia si sarebbero concluse con un numero maggiore di prede catturate. La carne dei manda avrebbe sfamato i sopravvissuti di Und. La mattina seguente Luna venne svegliata dal profumo del pold caldo, la

bevanda con cui ogni mattina iniziava la giornata. Aprendo gli occhi vide Arat ai piedi del letto che appoggiava la tazza fumante sul tavolino. "Non sapevo che a Und ci fosse anche il servizio in camera, a saperlo ne avrei usufruito prima invece di alzarmi ogni mattina per andare alla mensa." Arat sorrise alla battuta ma gli occhi rivelavano che il suo animo era tormentato. "Dobbiamo parlare." Il tono serio con cui parlò spaventò Luna che si strinse nelle coperte anche se laggiù faceva un gran caldo. "Di cosa dobbiamo parlare? Un nodo in gola le soffocava il respiro come quando stava per piangere, qualcosa le diceva che le parole di Arat avrebbero modificato tutto quello che c'era tra loro. "Devo chiederti scusa. Ho dubitato di te e non ti ho aiutato proprio quando ne avevi bisogno. Anche se sono molto affezionato a te non riesco ancora ad abituarmi all'idea che in te c'è il potere di Deos: credo di non amare molto la parte di te che è forte e consapevole e così sono scappato abbandonando anche quella fragile e umana . Non sopportavo l'idea che la mia vita fosse così legata alla tua e non volevo morire solo perché lo aveva decretato un dio che non conosco. Ma così facendo ti ho lasciata sola ad affrontate la morte, ho mancato ad un giuramento che in principio avevo fatto a Sargon e che in seguito avevo fatto a me stesso: proteggerti al costo della mia vita. Ho offeso il mio onore prima di tutto e non ci sono parole che possano cancellare quest'onta, ma quello che provo per te mi costringe a tentare in ogni modo di riconquistare quello che avevamo costruito." Le parole che qualunque guerriero con un forte senso dell'onore avrebbe detto si confondevano con quelle che solo un innamorato avrebbe pronunciato. Luna temeva di interpretare male il discorso di Arat ma gli occhi del giovane non lasciavano dubbi. Confusa e spaventata dai sentimenti che emergevano dal proprio cuore, come fossero stati richiamati da quelli appena espressi da Arat, Luna tentò di parlare. "Ammetto di essermi trovata sola e disperata in quel momento e non mi

vergogno di dire che ti ho anche odiato per come mi sentivo, ma non ho mai dubitato di te e del tuo valore come capo di questa spedizione. Forse mi è servito per capire che dovrei affidarmi solo alle mie forze, ma non credo sia una debolezza se qualche volta mi appoggio a te per continuare ad andare avanti." Anche lei aveva celato la dichiarazione di ciò che sentiva nel cuore dietro la semplice amicizia. Forse per timidezza o per paura di affrettare ciò che stava nascendo tra loro, i due ragazzi decisero di chiudere lì la questione. Bevvero insieme il pold ormai diventato freddo.

Arat, Luna e Gor stavano discutendo sulla direzione da prendere una volta ricevuta la risposta da Atra. Arat parlava con la fermezza di un capo. "Qualunque sia la decisione degli Atralidiani io propongo di dirigerci verso la mia terra, il Muslim. Credo che anche le tribù della Foresta Greetes potranno essere validi soldati dell'esercito di Solamia." "Io credevo che si trattasse di comunità isolate e poco socievoli. Non ci sono più lotte tra le tribù?" "E' vero che nessun clan ha buoni rapporti né con chi vive nella stessa foresta né con le genti al di fuori di essa, ma se c'è una cosa che ho imparato da quando siamo partiti da Deos è che Cron ha colpito ogni angolo di questa terra e che ormai tutti sono ridotti allo stremo: la riluttanza ad unirsi con uomini di origini diverse verrà spazzata via dalla speranza di distruggere definitivamente Cron." Luna parlò per la prima volta e si beffò di tanta sicurezza. "Non credi di esagerare con questo ottimismo? Ci vorrà qualcosa di più per convincerli ad attaccare un mostro come Cron, reputato da tutti imbattibile." "Per te combatteremmo contro mille Cron." Disse questo sotto voce, senza farsi sentire da Gor e accompagnò tale promessa con una carezza che fu leggera come un soffio sulla guancia di Luna. Era palese che Arat non stesse più parlando degli abitanti del Muslim ma di sé stesso e di ciò che era disposto a fare per lei. Disorientata (ma anche compiaciuta) Luna non aprì più bocca. In molte altre occasioni Arat aveva sfiorato Luna e ogni volta

diventava più ardito; tali attenzioni diventavano più evidenti quando Cablam era nei paraggi: il guerriero era geloso dell'illusore perché sentiva che anche quest'ultimo nutriva un certo interesse per Luna. Era la terza notte della la partenza del messaggero. Il tunnel di tali che comunicava con l'esterno rifletteva il cielo scuro in cui le stelle erano incastonare come diamanti. Luna eggiava perché non riusciva mai a dormire bene quando si trovava sotto terra ed incontrò un altro insonne. Cablam vagava sempre da solo tra le gallerie più isolate e se incrociava qualcuno non lo degnava nemmeno di uno sguardo. Questa volta invece l'illusore si affiancò a Luna e le parlò; ma la presenza della ragazza non era la causa che aveva scatenato la confidenza, lei era solo una muta testimone dell'espressione dei pensieri di Cablam. Luna non riuscì a sottrarsi. "Uomini e donne, che sciocchi animali." Questa fu l'affermazione di Cablam dopo un lungo viaggio fatto di parole dal molteplice significato, e perciò oscure. "Basano la loro vita su fragili fondamenta, su colonne distorte come i sentimenti. E tra i tanti non scelgono quelli nobili e forti, ma quelli incerti come l'amicizia, l'amore, la fedeltà. Tutta la loro vita è improntata sul sacrificio: sacrificano la vita credendo così di vivere. Sotterrano le loro potenzialità sotto un cumulo di speranza. La speranza porta all'attesa e chi attende non agisce. Questa non è vita." "Io non potrei vivere senza la speranza." disse Luna parlando a sé stessa, certa di non essere ascoltata dall'illusore. Invece lui era attento ad ogni sua parola. "Speranza? Sei certa di essere animata dalla speranza e dal sentimento di abnegazione? E se invece tu volessi far vedere a tutti quanto tu sia forte e quanto la differenza tra loro e te sia così grande da non potere appartenere allo stesso mondo? Pensaci bene, Luna. Che cosa ha ucciso la tua paura per la morte quando questa uccise Bind-Nebus? Che cosa ha frenato il tuo turbamento alla morte di Sargon? Che cosa ha sopito la pena che provavi per Kib? Che cosa ha inibito la tua collera per l'assassinio di Aza ed ha fermato la tua coscienza con suo padre, Zoton? Sei davvero ata attraverso tutte queste morti ed oggi hai il cuore libero da fardelli solo perché in te c'è una speranza?" Cablam abbandonò Luna che rimase sola con le domande dell'illusore ad infestarle il cervello. Il mondo che si portava dentro era in subbuglio ed anche quello che la circondava pareva non trovare pace. Di fronte a lei la parete di

roccia prese la forma di un viso, le pesanti labbra di pietra si mossero crepitando e ne uscì una voce cavernosa. "Io sono ciò che desideri." La metamorfosi allora invase tutta la parete e dalla roccia sbocciarono fiori neri sotto un cielo nero e la luna sorse accompagnata da stelle nere. I mari mutarono plasticamente in montagne, il sole in ghiaccio, il vento in terra; paesaggi idilliaci si alternavano a visioni apocalittiche in un rapido e incoerente susseguirsi. Sapeva che c'era una logica nascosta, ma lei non riusciva a vederla. Sarebbe mai giunto, infine, il tempo della comprensione? Luna temeva che questo non dipendesse solo da lei. Poi da una rosa sbocciò il volto di Ares, il sole illuminò i lineamenti di Arat e l'acqua si increspo' inondando il viso di Cablam. I tre uomini di pietra si guardarono ed incendiarono la roccia che li definiva. Infine i volti si fo tra loro e la parete divenne liscia, come una lavagna sulla quale poteva creare qualsiasi cosa. Ma fu un attimo, una fugace consapevolezza di potenza, una possibilità che non aveva saputo cogliere. La parete ritornò ruvida e irregolare, segnata dal tempo e dai picconi: ancora una volta Luna aveva perso il poco che credeva di conoscere ed aveva dimenticato ciò che possedeva.

Il messaggero ritornò da Atra con due notizie: innanzitutto il Consiglio Supremo aveva accettato di unirsi alla lotta contro Cron. La determinazione espressa da Und li aveva convinti ad allearsi prima ancora di sapere se anche la Famiglia Nimferidi sarebbe stata d'accordo. Già i Cavalieri dell'Aria avevano intensificato gli allenamenti per prepararsi alla battaglia ed una spedizione era partita alla volta della Barriera di Fuoco per recuperare i possenti colbi e poterli utilizzare nel conflitto. La seconda notizia era meno edificante, infatti era giunta la comunicazione che le ombre malefiche che avevano annegato Deos erano ritornate ed avevano coperto il cielo di Samas. Per giorni le figure oscure avevano volteggiato sopra l'oceano colorato dal sangue dei morti e avevano incendiato i cieli seppellendo la città sotto una pioggia di pietre. I devastatori erano poi scomparsi dirigendosi in volo verso la Caabia, da dove erano arrivati. Difficile fare un bilancio delle vittime; non si sapeva neppure se ci fossero dei superstiti nella città. La cosa sconcertante era che, come a Deos, anche a Samas avevano trovato la

morte anche i servi di Cron (i Seluvi); di solito nessun Mutato usciva dal proprio ambiente e non combattevano tra loro. Questo voleva dire che quei mostri volanti non erano relegati in una zona ristretta e soprattutto che non erano dei Mutati come gli altri. Le loro imprese seguivano un disegno diverso e il loro scopo era sconosciuto; tutto ciò faceva intendere che le cose sarebbero solo potute peggiorare. Alla partenza degli stranieri solo un piccolo gruppo di Underidiani era salito in superficie per salutarli (e per controllare verso quale direzione si dirigessero); Shuza abbracciò Luna (ma non troppo da sembrare una femminuccia sentimentale) e gli promise di crescere in fretta per combattere al suo fianco. Il viaggio proseguì su una zattera simile a quelle usate per allontanare i cadaveri da Und, ma più grande e dotata di lunghe aste per spingerla sull'acqua limacciosa della palude. Era la prima volta, da quando erano entrati a Und, che si ritrovavano tutti e cinque insieme in uno spazio ristretto, ma l'armonia non assomigliava a quella di un tempo (che pure non era delle più sincere). Sador era stato scarcerato solo pochi minuti prima della partenza del gruppo. Quando rivide i suoi due compagni fece solo una smorfia con la bocca che era difficile da interpretare, ma tra uomini non serve parlare per chiedere scusa o per ringraziare per l'aiuto offerto. Incontrando Luna, l'immelico la fissò per un lungo istante: non si capiva se fosse stupito di vederla ancora viva o se fosse arrabbiato che non fosse morta (anche se in questo caso avrebbe dovuto morire anche lui per ordine del capo Gush). Ora stava remando insieme agli altri uomini e non fece parola sulla discussione che era avvenuta giorni prima e sulla sua conseguente decisione di lasciare il gruppo. I cinque viaggiatori avevano nuovamente indossato i vestiti che avevano abbandonato durante la permanenza nella calda roccia di Und, ma ognuno di loro era profondamente mutato. Gor fece entrare a fatica il suo corpo nei vecchi vestiti: il lavoro nelle miniere di Und aveva ulteriormente ingrossato i suoi muscoli che ora tendevano la pelle della sua giubba facendo scricchiolare le cuciture. Ma più di tutto erano cambiati i suoi silenzi, mentre prima sembravano la muta accettazione degli ordini a lui impartiti ora sembrava che stesse meditando, nessuno sapeva cosa. Sador aveva già dichiarato di non essere più interessato allo scopo del loro viaggio (ma lo era mai stato?) e ogni occasione era buona per ribadire che era grato ad Arat per averlo aiutato ad uscire vivo da Und ma che appena possibile si sarebbe separato dal gruppo. Non parlava mai con Luna né parlava di lei con gli altri, come se non esistesse. Arat era sempre

più protettivo nei confronti di Luna come se fosse in debito con lei e non si vergognava più di far capire che il suo era anche un interesse di tipo sentimentale. Luna si sentiva diversa e non si riconosceva nella tuta di pelle nera. Erroneamente pensò che fossero le mutazioni che aveva subito il suo corpo e si affrettò a modificare la divisa dei soldati di Deos scucendo la manica destra e aprendo una finestra sulla schiena per lasciare sfogare il calore sprigionato dai simboli delle Famiglie di Atra e di Und. Ancora non aveva capito che era nuovamente evoluta nell'anima: la sua metamorfosi non era ancora completa e solo alla fine avrebbe finalmente trovato il suo posto nella storia. Solo Cablam era immutato, così come non si era cambiato d'abito nella scalata dei freddi Monti Kobit e nella permanenza dentro la cocente montagna di Und. La palude si trasformò a poco a poco in una pianura dalla terra dura e salata. Si trovavano nella parte occidentale del delta del Grande Fiume, la via d'acqua più ricca e trafficata dell'intera Solamia. Lì la terra non era così fertile come la Pianura di Ferso che si estendeva dalla riva Est del fiume e le coltivazioni erano ridotte solamente a tuberi; i viaggiatori stanchi non si stupirono quindi della povertà che trovarono a Dimeria, il primo centro abitato segnato sulla loro cartina. Non c'era una locanda, perciò dovettero barattare un po' di tali per essere ospitati nella stalla di un contadino e per avere qualcosa da mangiare. "Cosa pensi di quelle nuove creature che hanno attaccato anche Samas?" Arat si rivolgeva direttamente a Luna anche se tutti potevano sentirlo; in ato di queste cose parlava prima con i suoi uomini ma ora sembrava fidarsi più di Luna che di chiunque altro. I suoi compagni maschi decretarono che il suo cambiamento era dovuto all'interesse che provava per quella femmina e non perché fosse realmente convinto del suo valore, ma nessuno dei due immelici perse il rispetto che da anni avevano per lui ed aspettarono che il tempo ravvedesse Arat e gli chiarisse quale fosse il vero valore di un soldato. "Penso che il tempo a nostra disposizione stia per scadere. Non possiamo fermarci ora perché la battaglia tra i due Cron è incominciata e nessuno sarà più in vita quando sarà finita." Ciò che sembrava un anatema catalizzò l'attenzione di tutti su Luna, che rispose a chi non aveva ancora domandato.

"Cron Padre ha creato le ombre che hanno annegato Deos e Samas. Per questo quei mostri hanno ucciso anche i Mutati, perché non sono stati partoriti dalla stessa mente malata. Cron Figlio ora si trova di fronte un nemico più pericoloso di noi ribelli e temo che per rispondere all'attacco subìto dal padre non si tratterrà dal mettere a ferro e fuoco l'intera Solamia. Dobbiamo attaccare prima che il loro conflitto raggiunga l'apice o non ci sarà più nessun continente da salvare." Senza rendersene conto Luna guardò Cablam direttamente negli occhi; era una cosa che non faceva mai, anzi, era una cosa che nessuno riusciva mai a fare. Vi trovò il bagliore dell'interesse; forse per la prima volta da quando lo conoscevano Cablam aveva ascoltato le parole di un'altra persona e vi era rimasto addirittura impressionato. Luna non si entusiasmò della reazione ottenuta e temette per la sua vita e per quella dei suoi compagni anche se nulla nel comportamento dell'illusore poteva suggerire una simile conclusione: eppure sembrava che Cablam aspettasse solo questo per potersi finalmente rivelare qual'era realmente. Invece non ci furono cataclismi e sconvolgimenti planetari, Cablam diede le spalle al gruppo e sembrò addormentarsi. Fu Gor a dare mostra di sé e sembrava che non gli bastasse il fiato per dire tutto quello a cui aveva fortemente meditato fino a quel momento. "Come sai tutte queste cose? Da quanto tempo sei al corrente di questo secondo Cron?" "Tempo fa ho avuto una visione... " "Perché non lo hai detto subito? Perché ci tieni nascoste queste cose, non ti fidi di noi? Noi ci siamo fidati di te e ti abbiamo seguita. Anche nei momenti in cui la morte ci è venuta così vicino da strapparci alcuni tra i nostri migliori compagni noi non ti abbiamo abbandonata. Anche Sador, che a parole ha più volte rinnegato la sua adesione al gruppo, è ancora qui con tutti noi. Ti andiamo bene come muti servitori ma non ci ritieni degni di condividere la tua conoscenza?" Lo sfogo dell'immelico era impregnato dal conflitto interiore che turbava il corpo dell'uomo: voleva seguire la donna che gli aveva dato una speranza e le cui parole gli avevano fatto credere di essere determinante per la riuscita dell'impresa, ma si sentiva umiliato dal modo in cui Luna non lo faceva

partecipare al continuo evolversi della storia. Le facce che la circondavano le facevano capire che anche Arat e Sador condividevano, in diversa misura e in differente modo, il pensiero appena espresso da Gor. "Mi dispiace. Non pensavo... non credevo. Io non volevo escludervi, ma dentro la mia testa vedo un altro mondo e tante volte non è facile per me capire che cosa sto vedendo. Avevo bisogno di tempo per rimettere in ordine le idee e in questo modo tendo a chiudermi in me stessa. Perdonatemi. Cercherò di parlare di più con voi, perché sarei perduta senza il vostro aiuto." Il gigante dal cranio rasato la abbracciò fraternamente e soffocò tra i capelli di Luna una promessa: "amici come prima". Luna era sbalordita, continuava a trovare qualcosa di stonato tra l'aspetto di Gor e il suo atteggiamento, ma era contenta che la cosa si fosse risolta in un modo o nell'altro. Prima di addormentarsi il rinnovato gruppo decise di chiamare il nuovo nemico Capo Ombra, ma un nome non bastò a definirlo e non lo fermò dal tormentare i loro sogni. A Dimeria non c'era la possibilità di acquistate dei candù: il viaggio doveva perciò continuare a piedi almeno fino a Reka. Sador andò con loro adducendo come scusa il fatto che non poteva andare in nessun'altra direzione, ma ormai nessuno credeva più alle sue minacce. Arat, seguito dal resto del gruppo, prese la via che saliva in direzione Nord-Est; una volta quella strada era segnata dai solchi dei pesanti carri dei contadini che andavano al mercato di Reka, ma quando la percorsero loro i vecchi solchi erano ormai coperti dalla terra portata dal vento e l'erba ai margini aveva divorato la via riducendola ad una striscia giallastra. Ormai quasi tutte le strade di Solamia erano ridotte in quello stato perché nessuno le utilizzava più, o comunque non quanto un tempo. "Quanto manca ancora?" Sador soffriva terribilmente, non era abituato a camminare e si lamentava fin da quando avevano dovuto abbandonare la zattera. "Ancora un po'." Gli rispose Arat sbuffando. "Lo hai detto anche prima e non ci siamo ancora arrivati." piagnucolò Sador. "E se me lo chiedi ancora, più tardi, ti darò la stessa risposta." ruggì Arat, con quel tono di voce che usava per chiudere definitivamente le discussioni. Ma

Sador non capì. "Troveremo dei candù a Reka... Vero?" "Silenzio!" Questa volta l'ordine di Arat non riguardava solo Sador e non si riferiva al suo noioso ciarlare. Anche il brontolone immelico si accorse che la cosa doveva essere importante e si zittì immediatamente. Tutti si misero in ascolto per cercare di riconoscere ciò che aveva allertato il capo, ma si udivano solo il frinire degli insetti che si mescolava al flebile alito di vento che soffiava seguendo la direzione del loro cammino. Arat si guardò attorno; dietro di loro c'era il dosso che avevano appena superato e poi la strada piegava verso sinistra andando a nascondersi dietro una macchia di vegetazione. Avanti a loro la strada proseguiva diritta verso il centro del bosco e ai suoi bordi cresceva un folto sottobosco, soprattutto felci. "Andiamo avanti, in fretta." Tutti corsero dietro ad Arat anche se non avevano ancora capito il perché di quella tensione. Poi anche loro udirono il chiaro suono costante e ritmato di un gruppo di candù al galoppo. "Qui!" Arat indicò una macchia di felci alta fino a mezza coscia e dal fogliame verde e folto. Si appiattirono a terra e rimasero immobili; il giovane guerriero era sdraiato accanto a Luna e le teneva la mano sulla testa, come per impedirle di alzarla. Lei non muoveva nemmeno un muscolo ma era certa che avrebbe iniziato a tremare dalla paura se non fosse stato per il caldo e rassicurante tocco di Arat. Tutti e tre i guerrieri avevano estratto le armi, le stringevano in pugno e le nascondevano sotto lo strato di foglie secche che tappezzavano il terreno: non volevano che il bagliore del metallo tradisse la loro posizione ma, se li avessero scoperti, sarebbero stati pronti a rispondere all'aggressione. I candù erano ormai vicinissimi: non sapevano chi fossero ma in quei tempi bui le probabilità di trovarsi faccia a faccia con un brigante erano molto maggiori rispetto a quelle di trovare un comune viaggiatore. Sador cercava di trattenere il respiro affannoso che lo tormentava giorno e notte, mentre Gor cercava di appiattire il più possibile il suo enorme corpo tra il fogliame. Cablam era scomparso, ma Luna sentiva che in parte era ancora lì, percepiva la sua curiosità. Curiosità? L'illusore

aveva lasciato aperto uno spiraglio sul mondo dei comuni mortali perché qualcosa (o qualcuno) aveva risvegliato il suo interesse e questo la spaventava a morte, ora poteva accadere davvero qualunque cosa. I candù arono rapidamente oltre il punto in cui si erano nascosti. "Mercenari." Fece Sador. "Almeno sei." Disse Arat. "E armati fino ai denti." Concluse Gor. I candù erano ormai lontani ma Cablam non era ritornato dal suo rifugio di illusione e ciò insospettì Arat. Solo in seguito se ne accorse anche lui: il vento aveva invertito la sua direzione repentinamente ed era per questo che aveva udito in ritardo il rumore del secondo gruppo di candù che seguiva il primo. Prese Luna per il collo e la trascinò a terra. Non aveva fatto in tempo a sotterrare la demo sotto il fogliame ma non voleva muoversi rischiando così di fare oscillare le vistose foglie delle felci; sperò che il rosso affilato non si notasse tra la vegetazione. Il secondo gruppo era più lento, si riusciva a sentire il respiro affannoso delle bestie e il clangore delle armi pesanti che trasportavano. Arat guardò Luna per vedere se stava bene ed incontrò il suo sguardo: lei lo stava fissando già da prima. Lui perse il contatto con il mondo esterno e tutto il suo essere si concentrò su di lei: aveva paura ma era anche decisa, si sentiva al sicuro accanto a lui. Arat si sentì orgoglioso e contemporaneamente temette di non meritare tutta quella fiducia, temeva di deluderla. Luna gli sorrideva come se riuscisse a leggergli nei pensieri e forse poteva farlo realmente, ma lui non se ne preoccupò' perché non si vergognava più di dichiararle i suoi sentimenti più profondi. Camminarono per tutto il resto della mattina e per tutto il tempo Sador aveva continuato a lamentarsi come un bambino. Pranzarono con carne di manda essiccata e acqua sempre al riparo tra le felci del bosco, per evitare altri gruppi di banditi. Dopo la sosta tutti ripresero a camminare più lentamente, ma erano troppo stanchi anche solo per lamentarsi dei dolori ai muscoli. Giunse la sera e incominciarono a guardarsi attorno per trovare il luogo giusto per riposare. Stavano ancora camminando anche se la luce ormai era solo una linea viola sull'orizzonte. Si accorsero che il profilo del dosso di fronte a loro era illuminato come se un altro sole stesse attardando il suo tramonto. Subito

temettero che al di là, sul bordo della strada che non riuscivano ancora a vedere, ci fosse l'accampamento del gruppo di mercenari riunito per la notte. Quando il raziocinio vinse sulla precoce esitazione si resero conto che il bagliore era troppo esteso per essere solo un fuoco da campo. Occorreva però essere prudenti e i membri del gruppo si accinsero a raggiungere la cima del dosso rimanendo acquattati nella bassa vegetazione che cresceva ai margini della strada; facevano attenzione a non fare rumore, il vento li aiutava in questo portando i suoni nella direzione opposta. Giunti in una posizione che Arat reputava perfetta, il guerriero scrutò avanti a sé con circospezione: la strada scendeva, come aveva intuito, e proseguiva stringendosi in messo a due enormi massi che fuoriuscivano dalla terra eretti come soldati di guardia. Più avanti sorgeva un paese che fiancheggiava entrambi i lati della via ed era questo a illuminare di rosso la sera. Erano tutte case di legno costruite una addosso all'altra: era per questo motivo che l'incendio si era propagato dappertutto con tanta velocità. Le fiamme divampavano anche sui campi vicini che la siccità aveva reso aridi. Gli abitanti del villaggio, i superstiti, erano tutti in mezzo alla strada; qualcuno stringeva in mano il secchio che aveva usato inutilmente per cercare di contenere l'incendio, ma ormai non c'era più nulla da salvare. Quando giunsero gli stranieri nessuno si curò di loro: anche se erano dei banditi lì non c'era più niente da saccheggiare. Proprio in quel momento, come se l'inutilità dell'evento potesse ulteriormente infierire, cominciò a piovere con forza e l'acqua gelida spense i vari focolai che esalarono l'ultimo respiro in una colonna di fumo. Chi non era ferito cominciò a sollevare le tavole di legno annerite dal fuoco e ancora calde per cercare tra i resti qualcosa che ancora potesse servire, e a chi non aveva più niente serviva davvero tutto. Nessuno si domandò chi fossero quegli stranieri che erano armati come guerrieri ma che si misero a lavorare insieme ai contadini sporchi di fuliggine. Aiutarono ad estrarre i feriti dalle macerie e a raggruppare i molti cadaveri. L'unica donna del gruppo si prendeva cura dei moribondi, rassicurava le vedove e cullava i bambini orfani. Poi c'era una figura vestita di nero, se ne stava in disparte e pareva non appartenere a questo mondo. Qualcuno credette di riconoscere in lui l'adepto di qualche religione, ma la maggior parte credeva fosse una visione: era la morte che osservava come procedevano i lavori e progettava il suo prossimo intervento. Luna osservava l'indifferenza di Cablam e da essa ne ricavava la forza per

continuare ad occuparsi dei sopravvissuti: più i propri comportamenti si discostavano da quelli dell'illusore e meglio si sentiva. Stava finendo di fasciare il piede di un ragazzino che, per scappare dalla casa che stava crollando, aveva calpestato un chiodo; accanto a lui c'era quella che, per la somiglianza dei tratti somatici, non poteva che essere sua sorella maggiore. La ragazza era immobile e silenziosa, ma i suoi occhi mal celavano una grande sofferenza interiore: non aveva ferite visibili eppure sembrava sul punto di morire. "Dove ti fa male? Forse ti posso aiutare." La ragazza guardò Luna con gli immensi occhi azzurri e pianse; allora Luna rivide, in quelle lacrime, l'episodio che aveva causato tanto dolore. Il potere di Deos le permise di vedere il mercenario dai capelli rossi fare irruzione nella casa del falegname (il padre dei due ragazzi) che non fece in tempo ad alzarsi dalla tavola che si ritrovò l'impugnatura della demo che premeva contro la schiena: la lama rossastra gli aveva squarciato il petto e un fiotto di sangue bagnò la sua camicia. Il bambino gridò e si buttò tra le braccia della sorella, più spaventata di lui. Il gigante rosso scostò il piccolo con una sola mano e lo scaraventò contro il muro facendogli perdere conoscenza; poi prese la ragazza per il collo e infilò la lunga spada nella scollatura del vestito, con un unico strattone tagliò in due l'unico indumento della giovane che rimase nuda. Sbattuta a terra lei continuò a gridare, ma sentiva le urla di terrore che occupavano ogni casa del villaggio e capì che il suo dramma si stava consumato parallelamente a quello dei suoi vicini, perciò nessuno sarebbe accorso a salvarla. L'uomo si era già aperto i calzoni e le allargò le gambe. Iniziò a spingere e si spinse sempre più in profondità. Lei sentiva un dolore insopportabile ed era convinta di avere uno squarcio che la dilaniava dall'inguine fino allo stomaco. Non riusciva a muoversi, non poteva respirare, era sola con quel mostro tra le gambe. Solo dopo che l'intruso se ne fu andato, la ragazza si accorse che il tetto della casa era in fiamme e che rischiava di crollarle addosso. Coprì la sua vergogna con l'abito che stava rammendando prima dell'irruzione e ringraziò il cielo che il fratellino si stesse rianimando solo in quel momento; non aveva assistito a quello che le era accaduto. Se così non fosse stato non avrebbe avuto più il coraggio di guardarlo negli occhi. Corsero insieme fuori dalla loro casa pochi istanti prima che la struttura, indebolita dal fuoco, cedesse. Luna si sentì impotente perché non poteva aiutare la ragazza: il ricordo di quella notte l'avrebbe seguita come un ombra per tutta la vita, le scene concitate avrebbero rivissuto nei suoi incubi e il dolore provato per quella violazione si

sarebbe risvegliato ogni volta che un uomo avrebbe posato lo sguardo su di lei.

"Non puoi guarire tutti i mali del mondo." Cablam l'aveva scovata là dove Luna aveva cercato rifugio; non voleva vederlo, non voleva ascoltarlo, voleva solo restare sola. Ma il suo desiderio non fu esaudito. Cablam si fece largo tra le felci che nascondevano la cavità scavata nella roccia. Luna si era rannicchiata nello stretto spazio concessole dal grande masso di pietra grigia, che insieme a suo fratello segnavano l'ingresso Ovest del villaggio. Cablam si sedette accanto a lei rubandole molto di quello spazio e lei dovette adattarsi adagiandosi sul corpo dell'illusore. Il contatto la infastidì ma non poté sottrarsi. "Lo so che non vuoi starmi a sentire." Il tono di voce era quasi remissivo e Luna approfittò di quella debolezza apparente per aggredirlo. "Tu sai sempre tutto, vero?" "No. Non so cosa fare con te." "Perché? Che idee hai su di me?" Più Cablam sembrava accondiscendente e predisposto al dialogo (e non al solito monologo) e più lei era pronta a saltargli alla gola. "Vorrei esserti più vicino. Vorrei che tu non fossi così ostile nei miei confronti." Luna non riusciva a credere a quello che sentiva, ormai era giunta al limite della sopportazione e lo superò. "Tu! Io sarei ostile? Non credi che sia colpa tua se Arat ti è ostile? Non credi che la tua indifferenza sia la causa dei malumori del gruppo? Tu pretendi che gli altri provino per te sentimenti di fratellanza, senza però dare a tua volta affetto agli altri. Sei tu che per primo elargisci odio a piene mani e non puoi che raccogliere odio da tutti coloro che hanno avuto a che fare con te. E' colpa tua se gli altri non ti accettano."

"A me non interessano gli altri, non ho bisogno di loro. Però mi interessi tu." Cablam sorrise e non era un ghigno di derisione o un malizioso tranello, era un sorriso sincero. Ma Luna non lo ascoltava e non lo guardava, davanti agli occhi aveva solo gli sgradevoli atteggiamenti che l'illusore aveva tenuto fin da quando si erano incontrati; era con lo spirito colmo di rancore represso che gli rispose. "Ti sembrerà strano ma io non sono un elemento a parte, non potrei dire di essere viva se non riconoscessi come miei questo tempo e questo luogo. Io faccio parte di questo mondo e vivo con gli altri; per questo sto cercando di influire sulla storia, voglio aiutarli. Voglio legarmi a tutte le genti di Solamia e portarle con me, in un futuro migliore." "Non dovresti legarti a cose così effimere." "Effimere? La carne e il sangue, il dolore e la speranza sono le cose che rendono concreta la vita ed è a questo che mi appoggio. Mi è costato molta fatica trovare una mia identità e un mio posto; ancora oggi mi sento incerta ma ho trovato delle posizioni stabili e mi aggrapperò a queste fino alla morte." "Appunto. Queste decisioni ti porteranno alla morte." Luna era infuriata e se non fosse stato per quella sensazione di impotenza che si impossessava di chiunque entrasse in contatto con Cablam, allora gli avrebbe strappato il cuore dal petto e lo avrebbe straziato con gli artigli di tali. Cablam si alzò e Luna credette di essere libera, invece lui le parlò ancora una volta. "Tu meriti di meglio. Se seguissi le tue idee e il tuo istinto invece di limitarti a osservare regole imposte da altri, allora raggiungeresti vette inimmaginabili." Luna non voleva vedere, non voleva sentire, non voleva sapere. Voleva solo restare sola.

Partirono dal villaggio la mattina presto ma già molti erano al lavoro per cercare di ricominciare a vivere, qualcuno aveva lavorato tutta la notte e non si era ancora fermato. Nessuno salutò il gruppo di stranieri che si incamminò verso Reka. Anche i mercenari, che avevano incendiato il villaggio e che presumibilmente erano gli stessi che anche loro avevano cercato di evitare,

avevano imboccato quella strada. Erano molto più veloci di loro, visto che avevano i candù, ma c'era comunque il rischio di incontrarli. La cartina ereditata da Sargon evidenziava che poco più avanti c'era una biforcazione ed era presumibile che i briganti avessero preso la strada che raggiungeva il gruppo di piccoli villaggi che sorgevano nelle campagne della pianura piuttosto che quella che puntava solitaria verso Reka: il gruppo era abbastanza numeroso da non trovare ostacoli attaccando i piccoli borghi, ma non era assolutamente sufficiente per un assalto alla città fortificata. Reka era la città fluviale più importante del Grande Fiume. Si sviluppava su entrambe le sponde della via d'acqua e le due metà erano unite da ponti: erano centinaia, alcuni di legno e adatti solo al aggio dei pedoni, altri di pietra e abbastanza ampi da lasciar are due grossi carri da guerra contemporaneamente, uno per senso di marcia. Per questo era chiamata la città dei mille ponti. Sulla sponda Est si trovava il castello-fortezza che, al tempo della dominazione delle Famiglie, era un vero e proprio deposito di metalli e pietre preziose. Il commercio era fiorente e i ricchi commercianti pagavano una retta per poter conservare i propri beni mobili nella fortezza. Per renderla impenetrabile erano state costruite tre cinghie murarie concentriche, tutte alte e chiuse da pesanti portoni, inoltre la città poteva contare su un grande numero di soldati che si alternavano nella guardia giorno e notte. Questa era la situazione di Reka prima della Soppressione ma a quei tempi tutto era cambiato. Le voci che rivelavano la sorte toccata alla città erano numerose e confuse; chi diceva che Reka era una città fantasma, chi sosteneva che fosse il rifugio di un folto gruppo di ribelli che da un momento all'altro si sarebbero rivoltati contro Cron e altri raccontavano di avervi visto Mutati dalle sembianze umane che si raccoglievano per dare l'ultimo attacco alla già agonizzante Solamia. Qualunque fosse la verità, ciò non alterava i piani di Arat: doveva tentare di attraversare il Grande Fiume utilizzando uno dei ponti di Reka perché a valle della città il letto del fiume era troppo largo e profondo per guadarlo e a monte c'erano le rapide; avrebbero dovuto scalare il Monte fino al punto dove il Grande Fiume era solo un ruscello. La sera giunse senza portare cambiamenti, ma ciò non era una cattiva notizia visto che non avevano più incontrato altri gruppi di banditi. Distesero le coperte sul duro terreno e non accesero fuochi. La posizione scomoda e la scarsa razione di carne secca che avevano potuto mangiare non prometteva di ristorarli per poter affrontare in forze il giorno seguente. Arat era disteso di fianco a Luna ed

avevano unito le loro coperte per cercare un maggior tepore, lui ardeva ma era lei a riscaldarlo. Era così vicina: il viso era diverso dalla prima volta che l'aveva vista, le cicatrici che si era inflitta involontariamente la notte precedente la prova di Mali erano ancora più visibili sulla pelle abbronzata. Le sottili linee rosate erano come gocce di pioggia incarnate sotto la pelle: una le scendeva da un occhio come una lacrima, un'altra le tagliava diagonalmente il setto nasale, altre più piccole fregiavano la fronte. Era bellissima e anche quei segni parevano aggraziati su di lei. Lei si strinse a lui e Arat poté cingerla con un braccio; anche il suo corpo era cambiato? Quando l'aveva vista la prima volta a Deos non aveva notato le curve morbide che ora sentiva calde sotto la tuta di pelle. Ricordava però benissimo le sensazioni che lo accaloravano quando la vedeva eggiare per i cunicoli di Und con addosso quell'insignificante vestito. Anche lei lo aveva guardato con lo stesso interesse, almeno così aveva interpretato gli sguardi furtivi di Luna quando anche lui si era adeguato all'abbigliamento minimale dei soldati Underidiani. Arat la desiderava ma non si spinse oltre a questo, non voleva essere troppo precipitoso anche perché temeva di aver male interpretato certi segnali. Si girò voltandole la schiena per non essere tentato di ritornare sulla decisione presa ma le rimase abbastanza vicino da sentire la pressione del corpo di lei. Arat dormiva; Luna ne sentiva il respiro regolare mentre lei non riusciva a prendere sonno. Nell'agitazione della sua insonnia Luna si voltò scomponendo le coperte e si ritrovò il viso di Cablam così vicino che se uno dei due avesse offerto le labbra si sarebbero baciati. Luna era certa che Cablam fosse disteso lontano da lei e si sollevò per chiedere spiegazione all'illusore. Il suo moto fu così violento che discostò la coperta da Arat che le stava accanto, ma lui non si mosse e il suo torace continuò a muoversi nel lento respiro del sonno. Anche Sador dormiva e Gor le volgeva le spalle, con l'attenzione rivolta ai possibili nemici che potevano attaccarli. Normalmente i tre uomini sarebbero scattati in piedi all'udire i movimenti allarmati di Luna, ma in quell'occasione nessuno fece niente, come se nulla fosse cambiato dall'istante precedente. Il tempo si era fermato? Cablam non si fermò e prese a massaggiare le spalle di Luna con lenti movimenti circolari. L'illusore stava manipolando il tempo e lo spazio, aveva creato una di quelle bolle illusorie in cui spesso scompariva ed aveva deciso di includervi anche Luna? Ora forse voleva manipolare anche lei? "Mi dispiace che ieri sera tu ti sia sentita aggredita. Non volevo darti questa

impressione" Chi era quell'uomo che le parlava? Non era l'odioso e cinico essere che aveva assistito imibile alla morte di Kib, era il ionale e innamorato (di lei?) Cablam che l'aveva baciata sulla fronte una sera al Lago Golias. Un Cablam quasi umano, ma non totalmente. "Perché, quale impressione volevi dare?" Luna avrebbe voluto pronunciare le parole con più durezza, non per attaccare ma per difendersi da chi era già riuscito a creare una breccia, ma le mani calde di Cablam avevano rilassato i suoi muscoli e sciolto le sue difese. "Volevo farti partecipe del mio pensiero. Io so come ti senti perché un tempo anche io ho sofferto per le stesse ragioni: neppure io riuscivo a comprendere quale fosse il mio vero io e quindi non riuscivo a trovare il mio posto nella storia; speravo di aiutarti a disperdere le nuvole che offuscano la tua vista... " "Non c'è alcuna nube, io vedo chiaramente... " "Quelle che vedi sono allucinazioni." Luna si sottrasse con sdegno al massaggio che ora le sembrava davvero un tentativo di plagio. "No! Le tue sono le sole illusioni che mi confondono." "Io ho solo certezze." Poi Cablam continuò come se declamasse un testo sacro scritto dal Dio stesso e nello stesso tempo come se fosse stato scritto dal suo pugno. "Voglio un mondo migliore. Una vita dove gli errori si trasformino in vantaggi e dove la sopravvivenza sia un dono meritato e non elemosinato. Voglio che non esistano miracoli o illusioni perché non ci sia bisogno di confondere la mente con queste falsità per vedere la realtà. Voglio una realtà diversa, giusta e dinamica; l'esistenza deve essere sempre in movimento e non cristallizzata in una forma antica." Ecco l'ennesimo Cablam: l'illuminato, colui che conosceva i traguardi che anche lei si prefiggeva e sembrava anche conoscere la via per raggiungerli: pace, serenità, bellezza e ciò nonostante sempre in evoluzione, un caos fecondo. Luna credette di ritrovarsi in quella strada che Cablam le indicava, ma tutto quello che

aveva costruito per Solamia e, soprattutto, tutti i progetti che aspettavano di essere portati a compimento la incatenarono a ciò che già conosceva, così che scelse di credere al viso familiare di Arat piuttosto che rischiare di abbandonare tutto per seguire Cablam, quello sconosciuto. Cablam si allontanò da lei ma questa volta lo fece senza lasciare dietro di sé lo sgomento e la frustrazione; Luna non si sentiva tormentata dalle sue scelte e dalle sue rinunce, Cablam l'aveva lasciata libera. Quando riprese coscienza di sé si trovò seduta al fianco di Arat, Cablam era disteso sotto un albero caduto perché colpito da un fulmine e Gor montava di guardia. Sì, il tempo si era fermato, quegli istanti erano stati vissuti solo dall'illusore e da Luna ed ora il volere di Cablam l'aveva risvegliato. Lei si distese appoggiandosi alla schiena di Arat cercando un rifugio e questa volta l'immelico si accorse dei suoi movimenti e cambiò posizione per stringerla in un abbraccio, ma questo non riuscì e confortarla. Arat non avrebbe mai potuto difenderla da Cablam. Nonostante si sentisse minacciata dal potere dell'illusore sapeva anche che solo lei sarebbe stata all'altezza di un simile avversario.

Proseguirono il viaggio attraverso il bosco; sulla strada che stavano percorrendo avevano trovato troppe tracce recenti di zoccoli di candù. Erano sicuramente un branco numeroso e si spostavano in tutte le direzioni allontanandosi dalla strada principale solo per inoltrassi nelle laterali che promettevano di condurli in piccoli centri abitati. Finito il saccheggio però imboccavano nuovamente la via verso Reka. La luce del sole che trapelava dalle fronde degli alberi era tinta dal verde delle foglie degli alberi e al di sotto di questi cresceva un ricco sottobosco: ciò rallentava il cammino del gruppo ma rendeva più sicura la loro sopravvivenza. Di tanto in tanto incontravano dei sentieri che forse venivano usati dai cacciatori o dagli abitanti della zona per spostarsi senza correre il rischio di incontrare qualche male intenzionato sulla via principale, ma Arat non si fidava e preferiva rimanere nella parte più intricata del bosco. Raggiunsero un punto del bosco in cui molti alberi erano stati tagliati formando un buco nel tetto di rami e foglie; solo i cespugli più bassi erano rimasti a chiazzare l'erba. Il sole batteva sulle loro teste e illuminava le diverse tonalità di

verde che crescevano in quell'angolo di bosco. "Basta! Riposiamoci un po'." Erano proprio al centro di quel cerchio senza alberi, un posto troppo scoperto per fermarsi, ma la pazienza di Sador era giunta al termine. "Andiamo avanti. Cerchiamo un posto più riparato." Arat ormai non aveva più la forza per ordinare e la sua fu piuttosto una supplica. Sador, sordo e testardo, disse. "Ma io non ho la forza di muovere neppure un o. Perché questo posto non va bene?" La risposta giunse sotto forma di un grido.

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CAPITOLO 15

Dal bosco ombroso che circondava la radura uscirono degli uomini armati. L'attacco era troppo ben congegnato per essere stato improvvisato; no, quegli uomini li avevano seguiti ed osservati e poi avevano elaborato questa imboscata: evidentemente conoscevano bene la zona e non si erano lasciati scoprire. Arat e gli altri invece erano caduti in trappola come dei novellini, ma non c'era tempo per recriminare sugli errori commessi, bisognava lottare. La battaglia era più che disperata, il rapporto era di uno a tre, contando anche Luna che non era certo un'ottima schermitrice. Arat sperò di avere lì di fronte tutta la banda perché era certo che non avrebbero avuto scampo se fossero arrivati dei rinforzi. Luna si separò da Arat per dargli più spazio così che fosse più libero nei movimenti con la demo. Lui si preoccupò di questo allontanamento perché sapeva che non avrebbe potuto proteggerla, ma nello stesso tempo sperò che Luna cercasse l'isolamento che le era necessario per richiamare il potere di Deos e si sorprese a pregare che il miracolo che li aveva già salvati in ato si avverasse il prima possibile. Un bandito fermò la corsa di Luna e le sorrise, così sicuro di vincere che non aveva intenzione di darsi troppo da fare. Infatti si mise a giocare con lei come il gatto sazio che tormenta il topo terrorizzato; i colpi dell'uomo non erano potenti eppure Luna riusciva a pararli solo concentrando tutte le sue forze: non cercava di ucciderla ma mirava a stancarla. E ad ogni colpo la spingeva sempre più ai bordi della battaglia. Infine la disarmò, ma continuò a burlarsi di lei avvicinandosi con le braccia aperte e offrendo il petto indifeso, fu così che riuscì a sfregiarlo con gli artigli che ormai erano la sua unica arma. Con uno scatto improvviso l'avversario le gettò la demo addosso, fortunatamente di piatto, e l'arma pesante la schiacciò a terra. L'uomo le fu subito sopra ma ancora una volta non aveva intenzione di ucciderla. Un secondo bandito, che aveva assistito alla prodezza del suo compagno e voleva prendervi parte, comparve dal nulla, prese le mani di Luna e la bloccò a terra. L'uomo che le stava sopra le aveva divaricato le gambe e vi teneva sopra le ginocchia per bloccarle. A Luna non serviva vederlo negli occhi per capire quello che voleva fare ed urlò; riconobbe la stessa disarmante disperazione che

aveva assalito la ragazza violentata nel piccolo villaggio e nella sua mente riuscì a trovare solo pensieri funesti: Arat non poteva salvarla, era troppo lontano, lei non era abbastanza forte per contrastare due uomini e in tutto quel trambusto di paura e dolore non riusciva a trovare l'appoggio necessario per raggiungere il potere che l'avrebbe potuta salvare. Quando vide il pugnale che il suo assalitore teneva in pugno, evidentemente per aprire facilmente la tuta di pelle che la proteggeva, lei riusciva solo a pensare che non voleva subire quello che aveva già vissuto tramite i ricordi di quella sfortunata ragazza. Il ghigno di soddisfazione del bandito si congelò, tutto il mondo rimase bloccato in quell'istante di tremendo terrore. La lama che un attimo prima brillava al sole si oscurò traando il corpo del secondo uomo. Lo squarcio era enorme, il sangue del bandito che le serrava le mani le colava sul viso e il calore del liquido le diede la nausea. Luna non riusciva a capire quello che era successo e capì ancora meno quello che accadde dopo: l'assassino estrasse l'arma dal compagno e se la conficcò nella gola. Prima che il bestione le crollasse addosso Cablam lo scaraventò via, di lato. L'illusore le tese la mano, sorridente. "Farei qualunque cosa per te, Luna. Darei anche la mia vita." Un mercenario comparve alle spalle di Luna. Il gigante armato di demo sembrava essere stato evocato dallo stesso Cablam per essere messo alla prova. E fu molto convincente: l'illusore tese un dito verso l'assalitore e un lampo azzurrino scaturito dall'uomo disarmato pose fine alla vita dell'altro. Luna sorrise a Cablam e lui le rispose in egual modo, non erano mai stai così vicini e Luna non si era mai sentita così bene come in quel momento. Ma un altro avversario raggiunse Cablam alle spalle e affondo la spada con precisione; Luna vide la punta della lama perforare lo stomaco del suo insolito alleato. Cablam si inginocchiò e calò su di lei come un angelo nero, le sue ampie vesti nascosero Luna alla vista del mondo e lei si sentì protetta da ogni male. Il viso dell'illusore era ancora illuminato dal potere e la sua energia era l'unico sole in quell'universo costruito solo per loro due; ma Luna sentiva la vita dell'uomo uscire con il sangue, presto sarebbe morto. Cablam aveva le labbra socchiuse e un rivolo rosso gocciolava da un angolo. Luna lo baciò, come se potesse fermare l'inesorabile dissanguamento e riportare in vita l'uomo. Le labbra erano calde ed ora che le sentiva languidamente appoggiate alle proprie, Luna capì di averle desiderate fin dalla prima volta. Poi il sapore ferroso del sangue le ricordò che lo

stava perdendo e che non avrebbe mai scoperto gli infiniti segreti di Cablam. Lui morì tra le sue braccia e lei sentì aprirsi un vuoto nell'anima che nessun altro dolore le aveva mai inflitto. Ma la notte tessuta nel mantello di Cablam non la celò ancora per molto: l'assassino dell'illusore allontanò il cadavere con un calcio e l'impietoso sole scoprì Luna. Non riuscì a difendersi e non poté impedire che l'uomo le legasse mani e piedi. Si ritrovò caricata sulla spalla del bandito come un sacco. Mentre lui si allontanava, Luna sollevò la testa e riuscì a distinguere Arat impegnato nella lotta contro due uomini. Non le servì urlare perché lui venne subito richiamato dal suo sguardo. Arat non smetteva di pianificare neppure mentre combatteva. Anche nelle azioni più pericolose cominciava a pensare a cosa avrebbe dovuto fare dopo aver vinto lo scontro. Non si era mai chiesto il perché, ma dopo tanti anni si era convinto che visualizzare il futuro lo aiutava a concentrarsi sul presente e a battersi con più valore per restare vivo e poter vivere il futuro che aveva visto. Quella volta però aveva la mente vuota e già sentiva la paura riempire i luoghi che di solito erano colmi di certezze. All'improvviso sentì Luna invocare il suo aiuto. Quando si voltò in quella direzione capì subito che non poteva aver sentito la voce della ragazza, l'uomo che l'aveva presa era lontano e già la loro sagoma si confondeva con il fogliame della boscaglia. Lo sgomento che provò gli fece perdere il contatto con la realtà per un istante, quanto bastò ad uno dei suoi due avversari per portare a termine un fendente. La ferita non lo tormentava quanto il rimorso di aver abbandonato Luna. Ogni colpo che assestava era fortificato dalla rabbia che provava contro sé stesso per non essere riuscito a proteggerla. Non fu facile ma alla fine Arat, Sador e Gor uscirono vincitori dal conflitto. Nessuno riuscì però ad esultare. "E' colpa mia se sono riusciti a prenderla." Arat stava fasciando la gamba di Gor dopo che lui aveva curato la sua ferita al braccio destro. Sador perquisiva i cadaveri dei banditi nella speranza di trovare qualche indizio per individuare il loro covo. Non si avvicinò nemmeno a quello di Cablam, aveva visto che Arat si era già accertato della sua morte e a lui interessava sapere solo quello. "Mi dispiace, Arat, ma non ho trovato niente. Ho preso loro i pochi soldi che avevano e ho tenuto per me le gor, le avevo quasi finite." "Cosa pensi di fare, Arat?"

"Che domande fai, Gor? Andrò a cercarla." "Se è ancora viva..." "Sador, non parlare. Taci, almeno per una volta. Lei è viva e io riuscirò a trovarla. Se volete potete aiutarmi, altrimenti, addio e che la fortuna accompagni il vostro cammino." Dopo aver salutato alla maniera dei cavalieri erranti Arat si riallacciò il cinturone con la demo alla vita e si incamminò verso il punto in cui aveva visto inoltrarsi il rapitore di Luna. "Io vado con lui." Gor aveva scandito bene quelle parole ma non si era ancora mosso. Guardava Sador e aspettava che il suo amico dicesse la cosa che era giusto dire in quel momento. Stranamente Sador non sbagliò. "Va bene, vengo anche io! Speriamo che la fortuna non abbia troppa paura di fare la nostra stessa strada." Gor aveva trovato il luogo in cui i banditi avevano legato i loro candù prima di attaccarli, ma per ora continuavano a spostarsi a piedi, portandosi dietro le cavalcature. Arat era avanti agli altri due, controllava il terreno e i segni del aggio di uomini lasciati sugli alberi: purtroppo il gruppo di assalitori si era mosso molto e la zona era piena di rami spezzati e di impronte che andavano in diverse direzioni. Arat non parlava ma non occorreva ascoltarlo per capire che era frustrato. Gor e Sador restarono in silenzio, sapevano che se c'era qualche traccia sicuramente Arat l'avrebbe trovata meglio di chiunque altro. Sapevano anche che nessuna parola avrebbe potuto rincuorarlo e che avrebbe dovuto affrontare da solo il malessere che gli marciva dentro. Nessuno avrebbe dato mai la colpa ad Arat per quello che era successo, ma lui non era altrettanto benevolo con sé stesso: si incolpava di aver messo in pericolo la vita di Luna e continuava a pensare che ora lei stava subendo torture inimmaginabili solo per colpa della sua leggerezza. Ispezionando il luogo del rapimento continuava a demoralizzarsi per la desolante carenza di tracce certe che indicassero la direzione verso cui spostare le ricerche; nel contempo la sua mente era tormentata da lampi che gli facevano rivedere frammenti delle azioni concitate avvenute poco prima: l'allontanamento di Luna

dal campo di battaglia, il grido muto di lei mentre veniva portata via. Ma c'era anche la strana sensazione della confusione, o meglio dello sgomento di non essere più confuso. Arat sapeva dare un nome a tutto questo ed era sempre quello: Cablam. Nessuno di loro ne aveva ancora parlato, ma Cablam era morto. L'essere che li aveva così lungamente tormentati e che non li aveva mai lasciati se ne era andato per sempre. Era morto anche in maniera troppo comune, era morto come muore ogni uomo. Anche se Arat non credeva che fosse un essere soprannaturale (nonostante tutto) si era sempre aspettato una fine ben diversa per lui. Ma anche da morto non smetteva di preoccuparlo, Arat non poteva dimenticare che l'illusore aveva dato la vita per cercare di salvare Luna. Lei lo aveva visto morire per lei e questo creava un legame tra i due che nulla avrebbe potuto spezzare, nemmeno l'amore di Arat. Decise di affrontare un problema alla volta: prima avrebbe trovato Luna e poi si sarebbe preoccupato di quello che lei provava per Cablam. Presero la via che fino a prima dell'agguato avevano solo costeggiato restando nascosti nella boscaglia. Le impronte che Arat aveva seguito imboccavano quella strada e si dirigevano verso Reka. In realtà neppure lui era troppo sicuro delle conclusioni a cui era arrivato, ma non aveva altri elementi su cui appoggiarsi e concluse che se il gruppo che aveva preso Luna era ben organizzato (e gli sembrava proprio che lo fosse) era plausibile che si accame nelle vicinanze di una grande città dove potevano rivendere quello che avevano rubato e dove avrebbero speso tutto il guadagno in droga, alcool e prostitute. Sador, che aveva quasi dimenticato quanto era comodo viaggiare in groppa ad un candù, giurò a sé stesso che si sarebbe ucciso piuttosto di camminare per una distanza maggiore di quella che di solito separa il tavolo dove si mangia dalla latrina. Avrebbero potuto viaggiare più velocemente ma Arat continuava a trattenere il candù, non voleva rischiare di perdere qualche segno rivelatore a causa dell'andatura troppo sostenuta. Ad un bivio Arat prese la stretta via che abbandonava la strada principale per inoltrarsi in mezzo ai campi. "Questa strada dovrebbe arrivare ad una casa o ad una comunità. Voglio chiedere se qualcuno ha visto are un uomo o un gruppo di uomini con una prigioniera." Arat spiegò il suo piano a Gor e Sador che non avevano chiesto spiegazioni: ormai avevano deciso di aiutarlo e nella loro semplice filosofia era naturale

eseguire tutto quello che gli veniva impartito senza discutere. Anche questa volta aveva avuto ragione. Il sentiero portava ad una casa isolata che sembrava abitata. "Che fortuna !" "Avrei preferito trovare un piccolo villaggio. Quando la gente vive assieme è più facile che qualcuno trovi il coraggio di parlare ad uno sconosciuto. Chiunque abiti qui deve aver lottato molto per sopravvivere e certamente ha imparato a dubitare degli estranei." Smontarono dai candù e si avvicinarono lentamente alla capanna di legno. Era tutto tranquillo, ma i tre uomini erano pronti a qualsiasi evenienza. La porta di ingresso era aperta e si sentivano diverse voci provenire dall'interno. Era strano che nessuno fosse venuto loro incontro e questo cominciò a preoccupare i tre che presero subito in mano le armi. "Siamo amici, vorremmo solo chiedere un'informazione." Arat si accorse subito di come stonavano quelle parole con la visione di loro tre che impugnavano già le armi, ma alla prudenza si era sommata la paura. Si sentiva una voce maschile e il fatto che l'uomo non uscisse a chiedere spiegazioni o semplicemente per cacciarli era sospetto. Con un solo gesto della mano Gor e Sador si misero in posizione per ottenere la miglior copertura, Arat si sarebbe fatto avanti per primo. Si affacciò con cautela all'ingresso della capanna e fu il primo a capire il perché di ogni cosa. C'era una donna distesa sul letto, era immobile e quasi non si sentiva respirare ma dal sudore che la bagnava e dal disordine in cui erano le coperte si capiva che quello era il momento di calma dopo la tempesta. Il suo compagno era seduto per terra e teneva in braccio il figlio che aveva appena aiutato a nascere. L'uomo uscì dalla sua casa e si avvicinò ai tre guerrieri che erano tornati vicino ai loro candù. Si appoggiava leggermente su un bastone ma dall'andatura si capiva che non ne aveva bisogno realmente: evidentemente non si sentiva al sicuro e voleva essere armato (anche solo di un bastone), ma, non essendo certo di trovarsi in pericolo, aveva simulato di doverlo usare per camminare. "Salute a te." "Salute a voi." "Siamo in viaggio da molto tempo e veniamo dalla costa occidentale di Solamia.

Un gruppo di uomini ci ha assaliti ed ha rapito un componente del nostro gruppo. Volevamo sapere se hai visto are nessuno... " "Io non ho visto niente." Arat si avvicinò all'uomo che involontariamente strinse con più forza il bastone tra le mani, Arat aveva invece lasciato la sua demo legata in bella vista alla sella del suo candù. Parlò sottovoce. "Ti prego. Quella che hanno preso è mia moglie e voglio ritrovarla... Anche io vorrei avere la benedizione di un figlio." Arat non era un attore e il coinvolgimento emotivo che esprimeva con tali parole era reale e sincero. Gor e Sador si accorsero per la prima volta di quanto Luna si fosse impossessata dell'animo del loro capo: l'uno non ci pensò troppo, in fondo non erano affari suoi; l'altro cominciò a dubitare che le azioni di Arat fossero guidate esclusivamente dalla ragione e cominciò a ripensare che forse per lui era meglio cambiare strada. Ma nessuno di questi pensieri oltreò la soglia della mente dei due pensatori, quindi l'uomo che era appena diventato padre continuò indisturbato a parlare con Arat. "Non ho visto veramente nessuno... ma ho sentito dire che pochi giorni fa è arrivato dal Nord un gruppo di uomini che si sono accampati nei boschi che circondano la città di Reka. Mi dispiace ma non so altro." I candù galoppavano spronati al massimo; Arat voleva raggiungere il luogo indicato (anche se con poca precisione) al più presto, prima che fosse troppo tardi. Il ritmo affrettato degli zoccoli sul terreno dava il tempo al cuore di Arat: gli sembrava di avere una mandria di candù selvaggi trattenuta a stento dalla cassa toracica, il sangue premeva sulle tempie come se volesse fargli esplodere il cervello. Cercava di ritornare alla ragione, ma non riusciva a frenare quel turbinio di pensieri che gli molestavano la mente: vedeva Luna torturata e uccisa, si vedeva arrivare troppo tardi per salvarla e piangere con il suo cadavere tra le braccia. La rabbia e l'avventatezza erano sue compagne e anche se sapeva che non erano delle buone consigliere da esse trasse la forza per andare avanti. La notte era calata e l'abbassamento della temperatura li aveva costretti ad indossare i mantelli. I tre uomini si erano dipinti le mani e la faccia di nero per impedire che la luce lunare si riflettesse sulla pelle pallida, vanificando ogni loro sforzo di are inosservati.

Il piano era semplice: avvicinarsi il più possibile al covo, individuare con precisione dove si trovava Luna ed infine andarla a prendere. Ma 'semplice' era una parola che stonava con tutto il contesto e Gor lo fece subito notare demolendo il primo punto del piano. "Ma sei sicuro che i banditi di cui ci ha parlato quell'uomo siano gli stessi che hanno preso Luna?" "No! Ma non ho nessun altro indizio. Non saprei dove cercarla altrimenti." "Incominciamo bene. Tu sì che sai dare fiducia ai tuoi uomini." L'affermazione di Sador era caustica, ma Arat non poté non dargli ragione. Ciò nonostante si aspettava che entrambi gli immelici lo seguissero... e così avvenne. Luna aveva stregato anche loro. Per una volta la fortuna era dalla loro parte. I due uomini non fecero nulla di sbagliato o di azzardato, avevano preso tutte le precauzioni e si stavano muovendo con prudenza, ma Arat li aveva visti ugualmente. Indossavano entrambi un mantello al quale erano fissate delle foglie di felce, così che quando si acquattavano tra il sottobosco si mimetizzavano perfettamente. Erano sicuramente delle sentinelle in ricognizione e stavano ritornando al loro campo base, o almeno così sperava. Gor e Sador rimasero indietro per badare che i candù non scapero e non fero rumore mentre Arat prese a seguire i due uomini. Non temeva di allontanarsi troppo dai suoi due compagni, a distanze regolari tracciava un segno inconfondibile (per lui) sulla corteccia di un albero ed era sicuro di poter ritrovare facilmente la strada. Non temeva neppure di essere scoperto, lui era nato nelle terre del Muslim ed era abituato ad aggirarsi nel sottobosco senza fare rumore. Durante la sua infanzia seguire il padre che partiva per la caccia, a sua insaputa, era stato il suo gioco preferito; le punizioni che doveva subire quando i genitori se ne accorgevano non lo avevano mai fermato ed ora questa sua qualità si rendeva utile. Si era avvicinato abbastanza da sentire le voci dei due uomini, ma non abbastanza per capire il senso delle parole. Sembravano rilassati e badavano meno a non commettere errori: all'occhio esperto di Arat questo poteva significare solo che erano quasi arrivati a destinazione. Infatti. Il più alto dei due chiuse a conca le mani e le avvicinò alla bocca, ne uscì il verso del ero dalla coda bianca nel periodo dell'accoppiamento. La femmina del ero rispose, ma

essendo ancora troppo presto per i naturali riti di corteggiamento degli animali era sicuramente un altro uomo a produrre tale suono: era il segnale per le guardie che (Arat ne era certo) piantonavano i limiti del campo base. Li aveva trovati! Ma Arat non era soddisfatto, voleva vedere se Luna era lì con loro e dove la tenevano prigioniera: non voleva attaccare un intero branco di banditi prima di essere sicuro che fossero i rapitori.

Una leggera brezza faceva ondeggiare i rami carichi di foglie: il suono prodotto era meno suggestivo di quanto potesse sembrare anche perché poteva celare il rumore del o del nemico alle tue spalle. Gor aveva legato saldamente i candù al tronco di un albero mentre Sador tagliava tre strisce di stoffa da una delle coperte assicurate alla sella: doveva fasciare il lungo muso degli animali per chiudere le sensibili narici. Era indispensabile evitare che gli odori degli altri animali, soprattutto predatori, andassero ad allarmare i candù, altrimenti questi ultimi si sarebbero messi a sibilare per la paura rischiando così di far scoprire la loro posizione. Temevano, infatti, che quelli che Arat stava seguendo non fossero gli unici sorveglianti in quel bosco. I due immelici si erano acquattati dietro il grosso tronco di un albero abbattuto. L'umido della sera rendeva ancora più intenso l'odore di terra e di funghi. "Credi che l'abbiano rapita loro?" Gor rispose a Sador mimando il gesto di fare silenzio, forse non erano soli. Ma Sador non lo stava guardando. "Forse l'hanno già uccisa." Gor lanciò un'occhiataccia all'irriducibile parlatore e già nella mente si pentiva di non aver preparato un bavaglio anche per lui con la stessa stoffa che aveva reso inoffensivi i candù. Sador non colse al volo il messaggio che traspariva da quello sguardo. "Ancora una volta mi domando perché ho seguito Arat." Gor scosse il capo, non poteva che arrendersi all'inarrestabile monologo. Essendo troppo vicini l'uno all'altro, bastò una sola rete per intrappolarli

entrambi. I candù non erano irrequieti perché non potevano annusare il loro odore e anche se i tre avevano fatto anche il minimo rumore Gor non avrebbe mai potuto udirlo, frastornato com'era dalle parole di Sador. Anche i tre uomini che li avevano catturati portavano gli stessi mantelli mimetici che indossavano i due che Arat aveva seguito, era probabile quindi che fero parte della stessa banda. Gor sperava che i tre non fossero al corrente della presenza di Arat nel bosco, ma fu solo per un breve attimo. Infatti Barba Grigia disse a Capelli Rossi di legare saldamente i due prigionieri e di imbavagliarli, ma di lasciare loro libere le gambe quel tanto che bastava per camminare speditamente: volevano seguire 'il giovane dai capelli lunghi' (Arat) e portare così tutti e tre gli intrusi di fronte al loro capo. Barba Grigia era sicuramente il più alto in grado tra i tre uomini. Anche quello sciocco di Sador si era accorto che Nober (questo era il suo nome) aveva sicuramente un ato nell'esercito regolare anche se non era chiaro di quale Famiglia. Era sicuramente un immelico, come lo erano anche gli altri due, ma data l'età avrebbe benissimo potuto prestare servizio in una delle legioni create da ciascuna Famiglia (nell'ormai lontano periodo dell'Abbondanza, prima della Soppressione) nella quale erano raggruppati tutti i 'non puri'. Nober comunicò con Azzìn (il più basso del gruppo) senza bisogno di parole, ma esclusivamente con l'uso di gesti. Azzìn si mosse velocemente e in silenzio; si avvicinò ad un albero e fece un cenno di assenso con la testa. Era rivolto a Nober ma fu anche un segnale per Maesu che si diresse verso un altro albero, sempre senza disturbare la quiete del bosco. Dopo un attimo, durante il quale scrutò la corteccia intagliata, anche lui fece lo stesso cenno di Azzìn. Continuarono ad avanzare in questo modo per un po' di tempo; Gor e Sador li seguivano sempre sorvegliati da Nober e dalla sua spada. Gor purtroppo aveva capito quello che stava succedendo. Se conosceva bene Arat (e lo conosceva benissimo) poteva intuire che durante l'inseguimento dei due uomini si fosse fermato di tanto in tanto a tracciare dei segni sulle cortecce degli alberi per poter ritornare indietro. Era evidente che Nober e i suoi uomini avevano trovato e riconosciuto questi segnali e che li stessero seguendo per arrivare da Arat. Ad un certo punto Azzìn e Maesu smisero di seguire le tracce lasciate da Arat e presero a camminare più velocemente ma sempre con prudenza. Nober era teso e anche gli altri due parevano meno spavaldi di quanto lo erano all'inizio. La spiegazione era semplice: si erano resi conto che Arat aveva preso la direzione corretta per il loro covo (loro speravano di trovarlo

disperso in mezzo al bosco) e cercavano di affrettarsi per dare l'allarme.

La notte stava per volgere al termine quando Arat prese a tornare sui suoi i. Non aveva ottenuto molte informazioni, ma era riuscito a vedere che una donna era tenuta prigioniera . Non era certo che fosse Luna ma sperava che lo fosse perché questo voleva dire che l'aveva trovata ed era viva . Il sistema di protezione tessuto attorno a quella donna era tale da far credere che i rapitori considerassero quest'ultima molto importante e questo non faceva che aumentare le convinzioni di Arat. Mentre seguiva a ritroso i segnali che aveva inciso sugli alberi pensava a come entrare superando la sorveglianza e soprattutto a come uscirne vivo (insieme a Luna e agli altri due). Il fruscio delle foglie nascose al suo udito i leggeri i dei due uomini che stavano per attaccarlo da entrambi i lati. Arat venne colto di sorpresa dalla duplice aggressione ma non per questo la sua risposta fu meno pronta e decisa. Le armi dei due uomini (dagli abiti li aveva riconosciuti come i compagni dei due che aveva pedinato) erano grossolane e non potevano certo competere con i fendenti della sua demo micidiale. Non erano neppure degli eccellenti spadaccini, ma erano pur sempre in due contro uno e stavano dando del filo dal torcere al giovane guerriero. Anche se con grande fatica, Arat era riuscito a ferirli entrambi: quello dai capelli rossi si premeva con forza il braccio destro per fermare l'emorragia mentre quello più basso zoppicava vistosamente a causa della ferita alla coscia. "Fermati se non vuoi che li decapito entrambi con un solo gesto!" La voce di Nober era forte e Arat la sentì chiaramente, come la sentirono anche Gor e Sador, legati saldamente l'uno all'altro (Sador riusciva a guardare Gor negli occhi e perciò aveva i piedi sollevati da terra). L'uomo che serrava tra le mani la spada che minacciava di uccidere i suoi due amici aveva negli occhi l'energia e la determinazione per compiere tale gesto. Li avevano rinchiusi in una prigione scavata sotto la terra; il sole stava per sorgere ma loro rimasero soli nel buio. Non avevano potuto parlare con nessuno né qualcuno aveva fatto loro domande, potevano solo aspettare. "Bene! Alla fine sei riuscito a farci entrare nel loro covo, Arat."

Questa volta il sarcasmo di Sador aveva ferito chi era già impazzito dal dolore; Arat saltò al collo della immelico con una precisione tale che sembrava quasi riuscisse a vedere oltre tutto il nero che li circondava. Non servì l'intervento di Gor per separare i due; Arat aveva ripreso in fretta le sue capacità intellettive e si era fermato in tempo, poco prima di trasformarsi in un assassino. "Ti prego Sador, abbi pietà di me e taci una buona volta!" Nel silenzio di Sador non solo si poteva comprendere che finalmente aveva capito ma si poteva intuire che dava al ragazzo tutte le ragioni. "Siamo più nervosi adesso di quando era vivo Cablam." Gor, nella sua semplicità, fece luce sul problema oscuro che tutti temevano di affrontare. Arat cominciò per primo. "Non riesco a credere che ce ne siamo liberati così facilmente." "Perché, tu ti senti libero? Io riesco ancora a sentire addosso la sua presenza." "Sì. E' quasi una dipendenza mentale. Anche se è morto non riesco a pensare a lui in questi termini, è come se vivesse ancora." Gor pose fine alle elucubrazioni mentali sull'argomento con la stessa naturalezza con cui ne aveva dato il via. "Ma è morto. Questa è l'unica certezza che ci deve bastare." L'ultimo pensiero di Arat, che non condivise con i suoi compagni, fu per Luna. Era già mattino inoltrato quando i tre prigionieri vennero tirati fuori dalla prigione e portati di fronte al capo dei mercenari (o almeno supposero che lo fosse). Enroe (questo era il suo nome) non appariva certo maestoso: non era molto alto e aveva i muscoli sottili, molto più adatti ad una donna che al comandante di un esercito. Ma era forte perché comandava una vera e proprio armata. Nella loro base e nei nascondigli limitrofi, c'erano almeno un migliaio di uomini. Arat aveva sentito alcuni di questi parlare di altri gruppi più distanti ma con i quali erano in contatto. Certamente erano poco esperti e non erano da considerarsi al livello dei soldati di Atra o di Und, ma erano piuttosto organizzati. Arat rimase scioccato nell'apprendere tutto ciò, credeva di avere a

che fare solo con un gruppo di banditi (anche se numeroso). Enroe squadrò con i suoi occhi neri i tre prigionieri. Aveva saputo di come il più giovane fosse riuscito ad eludere la sorveglianza (anche se solo in un primo momento), ciò significava che erano soldati esperti e che i sistemi da lui adottati erano ancora da perfezionare. Non poteva permettersi di sbagliare un'altra volta altrimenti, la prossima volta, invece di tre uomini sarebbero arrivati interi eserciti. "Chi siete e che cosa cercate?" Anche la voce di Enroe rivelava la sua sottigliezza fisica, ma dagli occhi scaturiva tutta la sua convinzione di essere il migliore. "Io sono Arat. Loro sono Gor e Sador. Siamo soldati di ventura e... " "... e volevate unirvi al mio gruppo." "Veramente no." Arat si pentì di essere stato così brusco. Si vedeva che Enroe si era offeso per questa sua risposta, decise allora di continuare a parlare senza dare modo al suo ascoltatore di parlare (e magari di emettere la sentenza di morte). " Siamo in viaggio da molto tempo e veniamo da Samas. Insieme a noi viaggiava anche una donna, ma è stata rapita." Enroe non parlava, il suo silenzio sconcertò Arat. Il guerriero non voleva accusare direttamente i presenti di aver preso Luna, anche perché non ne era ancora certo ma voleva... doveva fare in modo che gli fero vedere la donna che tenevano prigioniera. "Abbiamo seguito delle tracce che ci hanno portato fino a voi." "Quindi pensate che noi abbiamo rapito la vostra donna." "Io ho visto che tenete una prigioniera." Arat non era più così sicuro di saper gestire la conversazione, ma Enroe era ancora piuttosto calmo e, soprattutto, nessuno li aveva ancora uccisi. "Hai visto giusto, ma sei sicuro che si tratti della stessa persona? Perché non mi

descrivi la donna che avete perso?" Si stava prendendo gioco di lui? Arat non ne era convinto, ma non poteva fare altro che giocare al gioco che Enroe aveva scelto. "Si chiama Luna. Ha i capelli neri e gli occhi blu, ha la mano destra cinta dal tali... " "Allora è una donna di Und!" "No! E' una Deoscuridiana pura." Un uomo dal cranio rasato e con la barba ispida si avvicinò ad Enroe; i due uomini confabularono sotto voce, poi Enroe si rivolse nuovamente ad Arat. "Stai quindi parlando di una donna di una certa età... " "No, è poco più giovane di me... " Il particolare dell'età di Luna non aveva risvegliato nulla, in un primo momento, poi Arat si rese conto che non potevano esistere puri di Deos della sua età: i pochi sopravvissuti della Famiglia erano dispersi in tutto il continente e se avevano avuto dei figli erano sicuramente di sangue misto. La giovane età di Luna poteva essere presa come una menzogna sulla sua origine se quelli erano dei semplici briganti, ma se erano gli uomini che l'avevano rapita allora avrebbero alzato il prezzo per il suo rilascio (e questa era la prospettiva migliore che gli veniva in mente). Nuovamente il tipo con la barba si isolò insieme ad Enroe. Non si riuscivano a sentire le parole dei due ma dai gesti si capiva che si trattava di una discussione molto animata. Alla fine Enroe si allontanò bruscamente dal suo interlocutore e con o veloce andò incontro ai tre prigionieri. Lo sguardo deciso non lasciava dubbi sulle sue intenzioni ma non aveva in mano nessuna arma: nonostante questo Arat e gli altri non si sentivano affatto al sicuro. Lo schiaffo che raggiunse la guancia di Arat non fece male più delle parole pronunciate subito dopo da Enroe. "Come hai potuto perdere l'unica speranza di Solamia? Sei un incapace!" Solo quando il focoso animo di Enroe si fu placato Bengas (l'uomo dalla barba ispida) invitò Arat e gli altri due a sedersi. Li avevano slegati e avevano dato loro una tazza di zuppa calda per rifocillarli. Bengas era piuttosto calmo, molto

misurato nei modi e nelle parole mentre Enroe tradiva in ogni momento il suo spirito irruento. Fu Bengas a parlare per primo. "Conosciamo bene la storia di Luna, è stato Danur a raccontarcela." Bengas si fermò cercando con prudenza di non dare troppi indizi ad Arat e contemporaneamente sperando di trovare nel giovane la reazione che tanto desiderava. Per Arat fu come un fulmine a ciel sereno: non credeva di ricordare ancora quel nome, l'aveva sentito una volta sola ed era ato così tanto tempo da allora (ma soprattutto erano successe così tante cose). "Danur, il Deoscuridiano. L'abbiamo incontrato poco prima di inoltrarci nell'Altopiano degli Efesi... Lui e Luna si sono parlati... beh! non proprio parlati... " "Sì, ho capito, si sono parlati senza parole, come solo i Deoscuridiani possono fare." "Quindi voi siete i combattenti della sua armata... " "Solo io faccio parte del gruppo originario, Enroe e il suo gruppo di ribelli si sono uniti a noi insieme a molti altri. Mentre attraversavamo il Paese da Ovest a Est abbiamo arruolato migliaia di uomini, tutti pronti a dar battaglia a Cron... " "Peccato che tu, grosso idiota, abbia permesso che catturassero l'unica donna in grado di trasformare il sogno di sconfiggere Cron in realtà." Enroe si riferiva chiaramente ad Arat. La rabbia che incendiava i suoi occhi neri non spaventò però il guerriero; il rimorso di non essere riuscito a proteggere Luna era un tormento così profondo che nulla poteva più fargli del male. Bengas ricominciò a parlare, ma il suo tono pacato non riuscì a sedare l'ostilità che era già nata tra i due giovani capi. "Sono stati sicuramente i Mutati. L'hanno rapita per portarla da Cron." "Non può essere, non erano Mutati... " "Sono gli ultimi ad essere sbarcati a Solamia. Esteriormente hanno mantenuto le loro caratteristiche umane ma anch'essi sono stati plagiati da Cron. La donna che hai visto qui, nel nostro campo è una di loro e ci ha parlato di una prigioniera

giunta poco prima che noi catturassimo lei." Arat si sentì crollare il mondo addosso, non solo aveva perso Luna ma l'aveva lasciata cadere proprio nelle mani di Cron. Non c'erano parole per descrivere il suo stato d' animo, era devastato ed era adirato con sé stesso. L'unica cosa che poteva calmarlo era agire immediatamente, scovare il luogo in cui avevano nascosto Luna e riprendersela.

***

Luna non stava sognando, non era neppure in stato di 'volo'. Stava seguendo qualcuno, sentiva invocare il proprio nome e cercava di raggiungere la fonte di questo richiamo. Non avrebbe potuto descrivere il luogo in cui si trovava perché anche se aveva gli occhi aperti non riusciva a vedere, ogni suo senso era spento in quella dimensione onirica e la sua attenzione era concentrata unicamente nella capacità di ascoltare. Ad un tratto il richiamo si spense, ma non ci fu il silenzio: il rumore del suo nome si era sciolto nel suono di un respiro. Cablam era lì. Luna era felice di vederlo ma era anche triste perché sapeva che quello che vedeva era in realtà un uomo morto. In verità non ne era ancora del tutto convinta: sin da quando l'illusore si era accompagnato al loro gruppo lei aveva avuto la sensazione che Cablam non potesse morire ed in qualche misura ne era ancora convinta. "L'ho fatto per te." Sembrava che con questa frase Cablam volesse confermarle che aveva abbandonato la vita per lei. Luna era ancora più confusa. Il movimento non fu affatto violento e neppure brutale, come uno poteva immaginare. Eppure, nonostante non ci fosse tensione e paura nell'aria, Luna si ritrovava con il collo stretto tra le mani di Cablam. La sensazione di soffocamento giunse immediata, la percezione era accelerata dallo stupore che le saliva al cervello. Luna si stupì di sorprendersi: non credeva che in una situazione di pericolo e di imminente morte il cervello potesse pensare. Eppure pensava. Rifletteva sul perché di quel gesto: sapeva che se Cablam avesse voluto soffocarla non avrebbe dovuto fare altro che desiderarlo e il tutto sarebbe accaduto, invece le teneva entrambe le

mani sul collo. Sentiva la pressione delle dita della uomo sulla pelle, ma non era abbastanza forte per farle esalare l'ultimo respiro. Eppure stava per morire, l'aria non riusciva ad entrare nei polmoni e già la sua faccia era livida e sacrificata in un'espressione di sofferenza. Poi Cablam la liberò, le sue mani non si erano allontanate dal collo di Luna ma la stretta mortale era cessata. Tra i respiri affannosi di lei si confuse il sussurro di Cablam. "Il tempo dell'Adunanza è vicino. E tu non sei ancora pronta." Lo sguardo era quello di un padre preoccupato che conosce ciò che potrà ferire la figlia ma che è consapevole di non poter evitare che questo accada. Infine Cablam la lasciò andare e Luna si svegliò. Gli occhi blu notte si riaccesero e immediatamente andarono a cercare il volto di Arat, ma questa volta lui non era accanto a lei. Luna era sola, rannicchiata sul fondo della gabbia in cui l'avevano rinchiusa; nel torpore che ancora la confondeva riconobbe la presenza di Cablam che, invece, non l'aveva abbandonata. Luna era disorientata dalle parole dell'illusore: era certa che "l'Adunanza" di cui aveva parlato non era l'alleanza che Arat e lei stavano cercando di creare. L'illusore le aveva spedito un messaggio dall'oltretomba per dirle che presto si sarebbe riunita con qualcuno e che in quell'occasione avrebbe dovuto difendersi. Non era pronta. Questo lo sapeva anche lei, da tempo una vocina petulante le parlava nella mente e insisteva a dirgli che si stava preparando per l'incontro sbagliato. Anche dopo morto Cablam non aveva intenzione di lasciarla in pace e continuava a non spiegarle chiaramente cosa volesse da lei. Tutto questo mistero, tutto il peso del potere e degli obblighi che ne derivavano la fecero esitare; fu così che la semplice donna che c'era in lei si sciolse in un pianto liberatorio che però rivelava tutta la sua debolezza. La gabbia di metallo risaliva lentamente in un gran fracasso di ferraglia: era ancorata al soffitto e con un argano la facevano scendere e salire. Dondolando tanto da averle causato il mal di stomaco la sua prigione era stata calata per permettere al suo carceriere di darle il piatto con l'unico pasto del giorno. Anche quando aveva raggiunto il soffitto la gabbia non accennava a frenare il suo movimento altalenante. La nausea e la paura le serravano lo stomaco ma sentiva che il suo corpo aveva bisogno di energie, si sforzò quindi di mangiare cercando di non annusare lo strano odore che emanava la carne e, per distrarre lo stomaco che già si ribellava all'invasione del cibo, osservò ciò che accadeva sotto i suoi piedi.

La grande sala era circondata da mura di pietra, ma i buchi che si aprivano numerosi su di esse non conferivano certo l'idea di solidità. Un tempo era stata una roccaforte sicura ma ormai aveva perso ogni elemento di resistenza. I banditi si erano accampati lì da molto tempo a giudicare dalla sporcizia che regnava. Gli uomini condividevano quello spazio con gli animali che avevano evidentemente rubato alle fattorie del circondario. C'erano anche delle donne il cui compito era quello di preparare i pasti. Giunse la notte, nessuna guardia era stata assegnata a lei, ma era inutile perché non sarebbe potuta scappare da lassù; sei uomini alla volta invece si davano il cambio per fare la ronda attorno alla rocca. Luna non dormì affatto, vide avvicendarsi i turni di guardia e osservò tutti quelli che si alzavano dal giaciglio per orinare. Solo poco prima della alba Luna si rese conto di non aver assistito ad un comportamento che, a rigore di logica avrebbe dovuto avvenire: nessuno aveva fatto sesso. Era molto strano che in un gruppo misto non si fossero formate coppie più o meno stabili. La promiscuità in cui vivevano non poteva essere un deterrente, tutt'altro, e a parte la ronda, Luna non aveva notato altri movimenti che avrebbero dovuto segnalare uno stato di allerta. Durante tutta la mattina Luna osservò con maggior attenzione coloro che animavano la grande sala. Alcuni uomini si dedicavano alla manutenzione delle armi, altri erano semplicemente seduti sulle panche. Le donne erano più attive solo quando dovevano preparare il pasto. Quasi non si rivolgevano la parola, non c'erano rapporti e Luna non vedeva gli elementi che potevano giustificare la convivenza tra quelle persone. Sembravano pupazzi: presi e messi assieme da qualcun altro, loro continuavano a comportarsi come se nulla di ciò che facevano fosse frutto di una loro scelta. Allora Luna capì ciò che non aveva compreso prima. Non erano uomini e donne, erano Mutati maschi e femmine. Ripensò a tutti quelli che aveva incontrato lungo il cammino: erano tutti molto dai neonati umani dai quali erano stati plasmati, ma nulla vietava a Cron di mantenere intatto l'aspetto umano e di plagiare solo la mente delle creature intinte nell'Acqua di Rasia. Essendo Mutati potevano però solo scimmiottare i comportamenti umani e soprattutto non avevano desideri sessuali: nessun di loro era dotato di organi riproduttori. Luna intuì anche che quei Mutati erano stati creati apposta per lei. Fino ad ora aveva sempre dovuto difendersi da loro, questi invece non avevano cercato di ucciderla: era quindi evidente che il loro compito era quello di catturarla e di portarla intatta fino a Cron. Forse che Cablam voleva avvisarla proprio di questo

incontro? E se sì come faceva l'illusore a conoscere i piani di Cron? Tra i nomi dei due uomini che più la tormentavano da quando era arrivata a Solamia si fece largo una domanda che non poteva non nascere in lei: perché in quella radura il Mutato le aveva usato violenza? Perché non aveva rispettato l'ordine scritto da Cron nel suo codice genetico e non l'aveva semplicemente rapita? Forse che ogni tanto anche i Mutati potevano contenere tare genetiche? Forse non l'aveva riconosciuta o non conosceva il suo compito... Oppure... Un'idea entrò con violenza a distorcere la bella visione che aveva avuto di Cablam quel giorno. Luna vide l'illusore plagiare la semplice mente del Mutato e costringerlo a comportarsi contro la sua natura. La figura di Cablam si oscurò dietro al velo dell'infamia che forse aveva compiuto: indurre il Mutato ad aggredire Luna per permettergli di difenderla. Forse l'illusore aveva architettato tutto perché lei si sentisse sempre più legata a lui, forse era tutta un'illusione, forse Cablam non era neppure morto. Eppure le parole che lui aveva pronunciato solo per lei venivano direttamente dal cuore e i suoi occhi erano apparsi sinceri. Luna non fece in tempo a studiare bene l'intricato dubbio perché un arrivo inaspettato (non solo per lei) sconvolse l'ambiente della sala comune. Un uomo grande, troppo grande per essere umano entrò nella sala accompagnato da altri Mutati dalle dimensioni normali. Il gigante era il capo e gli altri lo riconoscevano come tale solo per le sue misure spropositate. Come i loro cugini anche questi Mutati umanoidi possedevano un cervello troppo semplice per capire le differenza tra gli esseri basandosi su comportamenti e su gerarchie sociali: loro vedevano Mat (il nome del gigante) simile a loro e quindi lo consideravano parte del gruppo, ma lo consideravano anche più grande e più forte e quindi lo riconoscevano come un essere superiore, il leader. Mat sfiorò con lo sguardo lo strano uccellino chiuso nella gabbia e proseguì verso il centro della sala. Senza bisogno di impartire l'ordine tutti si fecero da parte ed uscirono all'esterno, con lui rimasero solo i Mutati che erano entrati con lui e tre che non avevano seguito gli altri. "Allora! Come è successo?" Mat non aveva alcuna inflessione nella voce, ogni rapido e convulso movimento degli occhi rivelava il debole equilibrio del suo stato mentale. Rispose uno dei Mutati che vivevano nella rocca. "Come ho già riferito tramite il messaggero, le nuove leve di Mutati avevano cessato di arrivare a Reka. Per questo motivo avevamo diminuito la sorveglianza

del porto della città; solo un ristretto gruppo di guardiani era rimasto nel forte, sul lato Est del Grande Fiume." "Non dirmi cose che già conosco." Luna non poteva vedere lo sguardo di Mat perché le dava le spalle, ma vide l'interpellato sudare e perdere la poca sicurezza che aveva. Rispose con la paura nel cuore. "I ribelli sono entrati senza troppi problemi nel primo cerchio della città, hanno scalato la cinta muraria e sono entrati nella parte centrale. Sono ancora lì, non sono riusciti ad attraversare il fiume e a penetrare nella fortezza perché le nostre guardie hanno sollevato il ponte levatoio, ma continuano l'assedio." Mentre parlava indicava su una cartina la posizione dell'uno e dell'altro gruppo, Mat osservava in silenzio. Luna era sorpresa dalle notizie che aveva sentito. Innanzitutto aveva scoperto che Reka, per tutto questo tempo, era stata la base d'appoggio dei Mutati: partivano da Lubra e risalivano il Grande Fiume fino al porto di Reka, poi da lì potevano raggiungere ogni luogo dell'entroterra di Solamia senza troppe difficoltà. Dopotutto l'ottima posizione era stata la fortuna della città, Cron l'aveva semplicemente sfruttata per diffondere in maniera profonda i suoi strumenti di morte e soprattutto per rifornire le sue legioni di nuovi Mutati visto che le sue creature non potevano procreare nuove generazioni. In questo modo Luna aveva anche scoperto come mai le armate di suo padre avevano fallito nella loro impresa, molto tempo prima: i primi Mutati erano approdati ad Aruni, ma quando tutto l'esercito era schierato per fronteggiare il nemico in quella direzione ecco che i Mutati sbarcati a Reka colsero suo padre alle spalle. Non vi fu via di scampo. Mat le aveva svelato anche la presenza di gruppi di resistenza e questo fece scoppiare di gioia il suo cuore. Fino ad allora aveva conosciuto soldati che avevano represso il loro desiderio di libertà e aveva parlato con capi che rifiutavano in principio l'idea di sacrificarsi per cercare di dare un diverso futuro alle nuove generazioni; tutti avevano poi cambiato idea solo per convenienza o perché non avevano scelta o ancora perché convinti che il potere di Luna potesse sempre proteggerli dalla sconfitta. Sapere che c'erano uomini che pur non avendo l'appoggio di grandi eserciti (o di 'salvatori' dai poteri straordinari) già combattevano per liberarsi da Cron la riempiva di orgoglio e le dava nuova forza per continuare ad andare avanti. Purtroppo nella pur breve discussione di Mat,

Luna aveva colto anche una pessima notizia, anche se in principio non l'aveva considerata tale: Cron aveva cessato di 'produrre pezzi' per il suo esercito di Mutati e questo poteva significare solo che il suo interesse si era spostato, evidentemente reputava di primaria importanza sbarazzarsi prima possibile di Capo Ombra. Questo poneva Solamia ancora più in pericolo perché rischiava di diventare il campo di battaglia per due superpotenti: nulla sarebbe sopravvissuto allo scontro. Mat decise di attaccare i ribelli chiusi tra il muro esterno della città e le mura della fortezza. Voleva riprendersi la città per poter partire dal porto di Reka: il suo solo scopo era quello di portare Luna a Cron il prima possibile e quella era la via più breve. Tutto il branco dei Mutati lasciò le rovine del castello che gli erano servite da rifugio; alcuni cavalcavano candù ma la maggioranza erano a piedi. Luna era stata legata alla sella, il Mutato che le aveva sempre portato il pasto da quando era loro prigioniera cavalcava di fronte a lei strattonando per le briglie il suo candù. Reka era una città fortificata, come tutte le città che avevano all'interno qualcosa di valore da proteggere. La cinta più esterna era stata abbattuto già al tempo della prima battaglia contro Cron, non c'erano quindi più sbarramenti e ponti levatoi. La seconda cinta, più interna, era ancora funzionante e i ribelli si erano asserragliati al di là di questa. Tra loro e i Mutati chiusi nel forte c'era solo il fiume, ma era impossibile assalire la fortezza con il ponte levatoio alzato; la situazione era giunta ad uno stallo perché i Mutati non agivano, il loro compito era semplicemente quello di mantenere la posizione e di non far entrare gli umani. Il terreno a Ovest delle mura esterne declinava in una valle e poi risaliva fino a raggiungere il limite del bosco di alberi e felci. Proprio lì Mat raggruppò i suoi Mutati e li dispose per la battaglia: i pedoni in prima fila, al centro c'erano le femmine e i più deboli, ai lati aveva posizionato i più forti mentre dietro a tutti c'era la cavalleria sui candù. La marcia della prima fila incominciò lentamente, dopo l'urlo lanciato da Mat. Luna era nelle retrovie, l'avevano legata al tronco di un albero, nel punto in cui il bosco finiva e la vista si spostava libera giù nella valle erbosa, fino alle mura della città. Da quella posizione Luna poté vedere le piccole figure scure che uscivano dalla Porta Ovest di Reka. Erano i ribelli che scendevano in campo, pronti a combattere.

All'inizio i due gruppi avversari avanzarono l'uno contro l'altro senza irruenza, sembrava si stessero studiando oppure che entrambi temessero l'altro. Ad un certo punto, come se entrambi gli schieramenti avessero percepito l'aura fremente del nemico, si corsero incontro: lo schianto generò confusione e gli uomini si mescolarono ai Mutati. L'azione sembrava statica da quella distanza, a Luna pareva che la massa eterogenea di corpi si fosse fermata, ma i bagliori che luccicavano sulle armi svelavano i movimenti che tormentavano lo spazio ristretto tra gli avversari. Poi l'equilibrio si ruppe e i Mutati presero il sopravvento addentrandosi tra le fila dei ribelli. Fu allora che Mat diede l'ordine di attaccare e i giovani Mutati si mossero per premere sui lati. Le prime file dei ribelli vennero massacrate mentre le ultime cercarono riparo correndo indietro, verso le mura della città. Quello fu il segnale per la cavalleria che partì al galoppo, irruppe nella battaglia e fece piazza pulita dei pochi e stanchi superstiti. Velocemente poi si gettò all'inseguimento dei ribelli che scappavano per le vie della città abbandonata. Molti fuggiaschi vennero decapitati in qualche vicolo dell'anello più esterno di Reka; i feriti non riuscivano a sottrarsi alla furia dei candù inseguitori e trovavano la morte sotto i loro zoccoli. Un gruppo molto ristretto riuscì a raggiungere la cinta più interna e fece in tempo a chiudere la porta borchiata. Quella barriera fermò la cavalleria ma ostacolò ogni via di fuga ai ribelli quando dal forte uscirono i Mutati che fino ad allora erano rimasti in attesa di quel momento. Non erano numerosi, ma erano riposati; i ribelli si difendevano bene, ma ormai era solo la forza della disperazione a sostenerli. Bastò che un solo Mutato superasse la stanca difesa degli umani: l'intruso aprì la porta ai Mutati che erano rimasti chiusi fuori e la battaglia finì. Le urla disumane (ma purtroppo appartenevano agli uomini della ribellione) che salivano dalla città fecero sorridere Mat: aveva ripreso il possesso del porto di Reka e in tempi brevi avrebbe potuto partire con la preziosa donna. Cron sarebbe stato finalmente soddisfatto. Mat lasciò Luna legata e sorvegliata da quattro guardie, voleva entrare in città senza di lei per perlustrare le vie ed essere sicuro che non ci fossero sopravvissuti: non voleva correre rischi. Il fruscio delle foglie era molto rilassante e Luna si vergognò della calma che regnava in lei, aveva appena assistito ad un massacro e sembrava che questo non l'avesse toccata. Avrebbe voluto addolorarsi per la sorte dei ribelli ma era più disturbata dalla scomodità della posizione in cui l'avevano legata, inoltre le catene le avevano scorticato un polso (quello non protetto dal tali). Si era forse

così abituata a vedere morire la gente che era diventata totalmente cinica? La domanda venne spazzata via da una raffica di vento che strappò alcune foglie dall'albero al quale era abbracciata. C'era qualcosa, una presenza, forse solo un suono diverso dagli altri ma le guardie erano ferme, non avevano sentito nulla. Una macchia informe di felci saltò addosso ad un Mutato e gli tagliò la gola. Altre ombre verdi fecero lo stesso e in pochi istanti uccisero tutte le guardie. Un uomo, non molto alto e dai muscoli sottili e nervosi, uscì dal travestimento di foglie e si avvicinò a Luna. I suoi occhi neri scrutarono la ragazza soffermandosi prima sul guanto di tali e poi, molto più intensamente, sugli occhi blu. Allora Luna capì quello che stava cercando e la luce arancione accese le due notti scure. "E' lei! Slegatela e andiamocene in fretta." Luna non protestò, non sapeva chi fossero quegli uomini (sì, erano esseri umani) ma per il momento era contenta che la stessero portando il più lontano possibile da Mat e soprattutto da Cron. Quando finalmente si fermarono Luna volle domandare finalmente chi fossero e che intenzioni avessero, ma non ci fu bisogno di parlare: Arat le corse incontro e l'abbracciò tanto forte che quasi la soffocò. I singhiozzi che soffocavano il pianto del guerriero le fecero capire ancora una volta quanto lui le fosse devoto. Quando i due giovani si sciolsero dalla stretta nessuno vide traccia di debolezza nel volto di Arat. "Dobbiamo andare." La voce di Enroe riportò tutti e due alla dimensione reale delle cose: erano troppo pochi per affrontare l'armata di Mat, dovevano scappare. I ribelli presero a salire verso Nord, continuando a seguire il corso del Grande Fiume. Enroe guidava tutto il gruppo tenendosi nascosto nel fitto del bosco, ma più di una volta aveva deviato per percorrere le sponde più tranquille del fiume. La sua intenzione era quella di attraversare il Grande Fiume là dove era solo un ruscello, sui ruvidi pendii del Monte e di proseguire verso Est, verso la terra del Muslim e la Foresta Greetes. La sera il gruppo eterogeneo di fuggitivi si fermò e accese un timido fuoco; la cena consisteva in una zuppa amara di radici ed erbe di bosco con pane duro: tutti la divorarono. Erano stanchi, avevano già percorso molta strada e ciò veniva confermato dal fatto che il letto del Grande Fiume si era notevolmente ristretto rispetto alle dimensioni che aveva a Reka, ma era ancora impossibile attraversarlo perché non c'erano ponti e le acque erano tormentate dalle rapide.

Enroe contava di salire ancora lungo le pendici del Monte e di raggiungere la base dei ribelli a Est di quest'ultimo. Nel buio della notte giunsero gli uomini che erano rimasti indietro per controllare i movimenti dei Mutati. Quando arrivarono nessuno stava ancora dormendo, così tutti udirono le ultime notizie e cioè che come era prevedibile le ricerche di Luna erano incominciate immediatamente e che Mat aveva spedito un messaggero dal porto di Reka: evidentemente doveva comunicare a Cron che il suo piano era fallito e che Luna era ancora libera. Una strana euforia venne condivisa da tutti i giovani ribelli, ma le notizie non erano finite e a giudicare dalle facce di chi le portava non erano certo da festeggiare. "Abbiamo scoperto chi erano gli uomini che sono stati massacrati a Reka. Come avevi subito sospettato, Enroe, si trattava del gruppo di Gangi. C'era anche lui ." Enroe non fecce un fiato e si allontanò dal gruppo che mantenne un dignitoso silenzio. Quando il buio fagocitò la sua figura ognuno commentò l'accaduto. "Non avevano neppure parlato con il Consiglio." "No! L'avevano fatto ma avevano ricevuto l'ordine di non attuare il piano." "Gangi ha sempre voluto fare di testa sua." Bengas era seduto al fianco di Luna e vedeva quanto quelle mezze frasi riuscivano ad incuriosirla. Era evidente che cercava di capire di cosa gli uomini stavano parlando e decise di darle una spiegazione. "Gangi era come un fratello per Enroe, sono cresciuti insieme e hanno sempre combattuto assieme. Ma Gangi è sempre stato più spericolato, e a mio avviso molto, troppo avventato nelle sue scelte. Enroe si sente in colpa perché era lì quando i Mutati massacravano il suo amico, ma non è potuto intervenire." "E' stato a causa mia, se non avesse dovuto liberarmi forse avrebbe potuto... " "No. La colpa è solo di Gangi. E' partito per la missione senza avvertire il Consiglio che coordina i movimenti dei vari gruppi. Quando Enroe ha organizzato il piano per liberarti lo ha concepito come un attacco a sorpresa con pochi uomini e lo scopo era quello di allontanarsi subito dopo averti ripresa. Pensa che ha voluto con sé solo altri cinque uomini ed ha escluso a priori i tuoi

amici perché non era sicuro della loro conoscenza del luogo. Enroe non si aspettava di trovare l'esercito di Mat e non sapeva neppure che Gangi era riuscito ad impossessarsi di Reka (anche se per pochi giorni). Quando ti ha trovata era troppo tardi per impedire il massacro e comunque non aveva abbastanza uomini per farlo. " "Comunque sia andata mi dispiace molto per quegli uomini e per Enroe... " "E a me dispiace di averti persa." Arat si era avvicinato a Luna senza che lei se ne accorgesse, si sedette accanto a lei e le cinse le spalle con il braccio. Luna cercò di rincuorare Arat, non era colpa sua, non era colpa di nessuno, dopotutto quella era una guerra. Bengas riprese il colloquio con Luna. "Luna, so che hai conosciuto il generale Danur." "Diciamo che il nostro incontro è stato breve ma denso di significati. Spero che la sua missione sia stata soddisfacente." "E' stata davvero un'avventura. Quando il generale è ritornato dal suo viaggio solitario e ci ha raccontato del suo incontro con la Feteh... beh! Io e tutti gli uomini abbiamo pensato che avesse incontrato qualche strega che lo aveva reso pazzo. All'inizio eravamo solo in venti, per lo più immelici istruiti nell'arte della guerra da Danur stesso. Il nostro viaggio attraverso le terre del Nord non è stato entusiasmante: nessuno voleva arruolarsi nell'esercito che avrebbe restituito la libertà a Solamia, anzi difficilmente la gente ci rivolgeva la parola. Poi incominciarono a circolare le notizie della distruzione di Deos. Quello fu un brutto colpo, la gente si era chiusa ancora di più e i Mutati che da sempre infestano le diverse regioni sembravano ancora più attivi del solito. Infine cominciarono a diffondersi voci di una donna e del suo eterogeneo gruppo di guerrieri, si diceva che ovunque asse la gente ritrovava la speranza e si rinvigoriva di rinnovato coraggio." Luna non poté non sorridere a queste parole: dal racconto sembrava che tutto quello che era accaduto a lei e ai suoi compagni fosse stato di semplice attuazione, invece solo loro potevano sapere quanto avevano sofferto. Bengar continuò il suo racconto. "Da un po' di tempo siamo venuti a conoscenza che i Toblak sono usciti dalle

loro montagne e si sono uniti ai soldati dell'Ovest, quelli che sono sopravvissuti alla strage di Samas. Atra ha recuperato il controllo che aveva sui colbi e si parla anche di un'alleanza tra i neri Atralidiani e il popolo sotterraneo di Und. Ora non dobbiamo più cercare di convincere la gente ad ascoltarci, sono in molti infatti che si offrono come volontari. Sei riuscita a fare moltissimo per il nostro Paese, Luna." "E c'è ancora molto da fare."

Enroe condusse l'intero gruppo attraverso i boschi del Monte, era molto esperto della zona e conosceva tutti gli espedienti per evitare i Mutati e i briganti. Arat non si trovava più molto a suo agio nei panni di sottoposto, era ormai abituato a dare ordini e ad operare delle scelte mentre Enroe non lo metteva neppure al corrente delle sue mosse. Tra i due uomini non c'era molta simpatia: uno riteneva l'altro un inetto e un presuntuoso, l'altro riteneva il primo inaffidabile ed intemperante. I pendii del Monte non erano ripidi, quella era la montagna più vecchia del continente ed il tempo aveva corroso la sua antica imponente altezza. Fu facile anche attraversare il Grande Fiume, che in quella zona non era più grande di un ruscello. Infine Enroe li condusse a Erser; molto tempo prima era solo un gruppo di case di poveri pastori che vivevano esclusivamente del latte delle loro capre ma ora era un forte costruito dagli uomini di Danur, un centro di raccolta dei ribelli e una scuola per chi voleva apprendere l'arte della guerra ed usarla contro il nemico di tutti, Cron. Luna ritrovò nuovo vigore nel vedere l'entusiasmo dei giovani (e dei meno giovani) soldati, li vedeva allenarsi con furore e li sentiva discutere sul loro avvenire. Poi, quando si sparse la voce che lei era la Feteh, Luna sentì il peso degli sguardi, quelli diffidenti e quelli adoranti; ancora una volta si rese conto delle aspettative che tutti avevano su di lei ed ancora una volta si trovò inappropriata. Non riuscirono ad incontrare Danur che se ne era andato da alcuni giorni; voleva spingersi più a Nord, nelle Terre di Nessuno, per vedere se veramente erano così disabitate o se anche lì si potevano trovare nuovi elementi per l'esercito della liberazione. Luna, prima di ripartire, confidò a Bengas la scoperta del secondo Cron (Capo Ombra) e della lotta tra i due (padre e figlio). L'immelico si rese conto di quanto poco tempo fosse rimasto per i preparativi e si impegnò a far

giungere queste novità al generale Danur al più presto. Arat ed Enroe misero da parte i loro dissapori e si salutarono con la promessa di un'alleanza: Enroe sarebbe stato l'anello di congiunzione tra gli alleati dell'Ovest e quelli che sarebbero presto diventati gli alleati dell'Est. Arat, Gor, Sador e Luna partirono all'alba cavalcando candù freschi e carichi di provviste, scesero lungo il versante Est del Monte per dirigersi verso le praterie del Muslim; presto sarebbero giunti alla Foresta Greetes dove avrebbero incontrato la tribù in cui era nato Arat e dove lui avrebbe rivisto, dopo tanto tempo, suo padre.

***

"Cosa vuol dire che l'avete persa?" Cron colpì il messaggero dalle sembianze umane che rotolò per terra. "Avevamo preso Reka e Mat, il capo, aveva dato ordine di controllare la città. Nessuno pensava che ci fossero altri ribelli nei dintorni. Nessuno immaginava che un piccolo gruppo potesse... " "Non dovete pensare, non dovete immaginare. Dovete fare quello che vi dico. Io voglio Luna a Lubra, subito." Il messo avrebbe voluto andarsene ma Cron non lo aveva ancora congedato. eggiava nervosamente attorno al Mutato, come un avvoltoio su una carogna. Non erano soli, in un angolo della stanza c'era Katrisha che si stava pettinando i lunghi capelli: era nuda di fronte allo specchio che rifletteva tutto il suo corpo perfetto. Lei faceva qualsiasi cosa per essere guardata, ma sapeva che nessun Mutato l'avrebbe mai desiderata: non era scritto nel loro patrimonio genetico, loro sapevano solo fare i soldati. Lei era stata una donna (o almeno si era comportata come credeva si comportassero le donne) solo con Cron, ma ormai nemmeno lui la guardava più come una volta. Era sempre più preso dai problemi che il padre (ma non doveva essere morto da tanto tempo ormai?) gli causava e dalla ricerca forsennata e (per ora) infruttuosa di Luna, la donna misteriosa il cui

ato le era sconosciuto ma il cui presente le era anche troppo chiaro: portarle via l'affetto (?) di Cron. Katrisha non era una creatura intelligente ma sapeva che se non voleva che quella straniera invadesse prepotentemente il suo territorio avrebbe dovuto ucciderla alla prima occasione. Il messaggero venne infine allontanato, con grande liberazione di quest'ultimo. Cron rimase crucciato e tormentato, per niente liberato dal peso dei suoi insuccessi e dall'inesorabile trascorrere del tempo che rischiava di compromettere l'Adunanza. Contrariato dall'inettitudine dei suoi fantocci, Cron cercò sollievo avvicinandosi alla finestra e inspirando l'aria del mare. Era uno dei pochi ricordi che aveva di sua madre: anche da piccolo era inquieto e lei gli aveva insegnato a rilassarsi con la respirazione controllata e il suono del mare. Questa era l'unica eredità che gli aveva lasciato quando suo padre la uccise. Dall'alto della torre poteva vedere le onde avvicinarsi disegnando nastri di schiuma bianca sull'acqua verdazzurra. Poi le braccia di Katrisha gli cinsero le spalle; non si voltò neppure quando la Mutata iniziò a strofinarsi voluttuosa contro la sua schiena. Cron immaginò che fosse Luna a corteggiarlo in modo così provocante e l'idea lo eccitò: decise di sfogare su quel corpo di femmina i suoi desideri e le sue frustrazioni. Il piacere di Cron aumentò quando si mise a pensare a quanto si sarebbe arrabbiata Katrisha quando le avrebbe detto che, per tutto il tempo, lui aveva pensato a Luna.

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CAPITOLO 16

"Avevi ragione, Arat. Il Muslim è un luogo incantevole." Luna era affascinata dalle verdi colline che si innalzavano dolcemente sulla vasta pianura; qua e là, dipinti con un verde più scuro, i boschi impreziosivano il paesaggio. La serenità che dominava quella terra era sconcertante, sembrava un paradiso in terra e soprattutto pareva ignoto alla furia dominatrice di Cron. Naturalmente era solo apparenza, un tempo quelle aree erano dense di popolazione ed ora erano deserte. Però era un vuoto che non angosciava e che infondeva un benefico senso di calma; questo stato d'animo cullò Luna fino alle porte della Città di Legno: questo era il nome con cui era chiamata la Foresta Greetes dai suoi abitanti. Subito i semouak si imposero come i padroni della zona. Gli alberi erano altissimi; i tronchi avevano lo stesso colore ramato della pelle di Arat e sembrava che anche loro fossero cresciuti superando mille sofferenze e lottando in mille battaglie ottenendo il medesimo risultato: un monumento alla forza e al coraggio. I primi millenni della creazione li avevano visti crescere ma poi nulla per loro era mutato, le ere avano e i semouak erano sempre lì, a rivendicare il loro diritto alla vita. Nonostante per quei colossi il tempo si fosse pietrificato, ai loro piedi altre forme di vita si erano evolute. Luna più volte vide affacciarsi da un cespuglio un paio di occhi neri e il suo sguardo colse diverse ombre sfrecciare tra i tronchi; ma nessun rumore la inquietò perché Arat le infondeva la sua tranquillità: lui ricordava quei luoghi e riconosceva quelle presenze come innocui animali della foresta. Luna si accorse, suo malgrado, del perché i candù di razza Muslim che stavano montando fossero più piccoli e affusolati dei loro cugini dell'Ovest: solo così potevano galoppare velocemente in quell'intricato rompicapo di radici che avviluppavano il terreno; con la loro andatura saltellante zigzagavano alla ricerca di un appoggio sicuro, ma causavano degli sconvolgimenti di stomaco a chi li cavalcava. La corsa terminò in un luogo imprecisato della foresta, ma Arat annunciò con sicurezza: "Siamo arrivati!"

Luna ed i due uomini, estranei al luogo, si guardarono intorno in cerca di capanne di legno o di altre costruzioni che rivelassero la presenza della tribù che stavano cercando, ma non videro altro che gli ampi fusti dei semouak, bassi cespugli e piccoli animali muoversi nel sottobosco. Arat si mise a ridere ed infine rivelò l'inganno ai suoi amici. "Quello è il villaggio degli Amouak." Indicò con il dito lo strano cielo fatto di grossi rami strettamente intrecciati tra loro a grande altezza, sopra le loro teste. Quello che prima era apparso loro come un cielo ora lo stavano calpestando come se fosse il terreno: il villaggio infatti era stato costruito sulle braccia ramificate dei semouak. erelle e pedane prendevano il posto di strade e piazze mentre le foglie verdi che crescevano cercando il sole celavano il villaggio agli occhi del resto del mondo. La città sugli alberi si raggiungeva tramite una serie di pedane issate tramite carrucole e un gioco di pesi e contrappesi; i più giovani e agili invece si arrampicavano sulle funi usando solo la forza dei loro muscoli. Il primo Amouak che incontrarono era un giovane coetaneo di Arat i due si abbracciarono e si salutarono. "Semouak!" "Semouak!" Caser era un amico d'infanzia di Arat e la lunga separazione non aveva intaccato il loro affiatamento. Nessuno della tribù aveva mai condannato Arat per aver abbandonato la sua casa; all'epoca era piccolo ed aveva solo seguito la madre (quella sì da biasimare), quindi il suo arrivo (e quello dei suoi compagni) venne accolto serenamente. Mentre camminavano per il villaggio, Luna si stupì di quanto anche le leggende più strane potessero avere un fondo di verità. Le storie che circolavano sulle tribù della foresta erano varie, tra queste quella più affascinante era quella che gli abitanti fossero il frutto di un antico connubio tra gli uomini e gli animali: dagli accoppiamenti nacquero esseri che per diversi aspetti riprendevano le caratteristiche di entrambe le razze. Ancora adesso Luna poteva riconoscere gli occhi di un cerbiatto sul viso di una ragazza, la forza di un bisonte di Ghata nei muscoli di un guerriero, la criniera fulva del gatto selvatico sulla testa di una bambina. Queste ed altre figure mitologiche le avano accanto, inconsapevoli del fascino che emanavano. Caser li stava conducendo da Tèotro, il padre di

Arat. Lui era un Deoscuridiano puro; aveva combattuto contro i Mutati ed era riuscito a sopravvivere; la ritirata che seguì la disfatta di Aruni disperse l'esercito e lo condusse nella Foresta Greetes. Qui rimase sposando una tribale, la madre di Arat; quando questa scappò con il figlio piccolo nessuno gli disse di andarsene, era un uomo forte e coraggioso e si era conquistato il rispetto degli Amouak. Grazie alla sua figura di grande guerriero e di uomo saggio aveva guadagnato il ruolo di capo della tribù ed era con questo titolo che l'uomo accolse il figlio. Arat si sentiva assoggettato dalla presenza paterna e le sue parole vibravano incostanti non riuscendo a dominare i propri sentimenti. Sapeva che Tèotro non aveva mai perdonato il figlio di aver seguito la madre e a nulla valeva cercare di fargli capire che nessun bambino era in grado di decidere a quell'età e che quindi non vi era colpa nelle sue azioni. Quando Arat terminò il racconto un lungo silenzio si distese sottolineando che il rancore era ancora vivo e presente. "Così sono questi i vostri nemici, Cron e Capo Ombra." La voce di Tèotro era molto simile a quella di Arat, sebbene si sentissero le scalfitture che il tempo vi aveva inciso. Arat, corrugando la fronte, corresse il padre scoprendo una sicurezza che temeva di aver perso, di fronte al genitore. "Come sarebbe a dire 'vostri', questi sono i nemici che minacciano Solamia, sono anche i nemici degli Amouak." "No! Questi nemici non sono quelli che io riconosco. Gli Artex, quei maledetti Mutati che continuano ad attaccarci, quelli sono i nostri nemici. Noi Amouak siamo impegnati ogni giorno nelle nostre battaglie, non abbiamo tempo e uomini da sprecare per la vostra guerra." Il capo si alzò dal trono scolpito nel legno e si allontanò chiudendo il discorso.

La notte era ormai scesa, il volto pensieroso di Arat era illuminato dal falò su un grosso ramo di semouak: il legno dell'albero era così duro da non temere più il fuoco. "Sei preoccupato?" La voce di Luna riportò Arat nel presente.

"Sono davvero desolato. Siamo venuti fino qui per cercare aiuto, ero certo che tutto si sarebbe svolto nel migliore dei modi... Invece raccolgo solo incomprensione e indifferenza." "Abbiamo incontrato le stesse difficoltà ogni volta che ci siamo avvicinati ad un popolo, poi però si sono sempre convinti delle nostre ragioni." "Ma questa è la mia famiglia, pensavo che con loro sarebbe stato diverso, credevo che mi avrebbero dato ascolto... La verità è che mio padre mi odia, mi odia perché sono il figlio di mia madre." "Non credo che Tèotro provi del rancore per te, eri solo un bambino quando te ne andasti. E anche se così fosse ora lui è il capo della tribù e non metterà mai i suoi problemi personali davanti alla sopravvivenza della comunità, è un uomo saggio." Arat non sembrava convinto di quello che gli stava dicendo e Luna trovò naturale consolarlo avvicinando la testa di lui al proprio petto ed accarezzandogli i lunghi capelli con la mano femminile che ancora possedeva. Ciò che provarono li colse impreparati, nonostante da tempo ormai il loro rapporto si fosse via via modificato. "Vieni con me." Luna era contenta di vedere nuovamente la luce dell'entusiasmo negli occhi di Arat, ma c'era una nuova fiamma che ardeva in fondo alle pupille. Luna la riconobbe ma non si imbarazzò. "Dove vuoi portarmi?" "Che cosa c'è? Non ti fidi più di me?" arono da un semouak all'altro usando i rami che si intersecavano tra loro; allontanandosi dal villaggio i tratti facilmente percorribili erano sempre più ridotti ma la tessitura che abbracciava l'intera foresta era stabile e solida ormai da millenni. I suoni che animavano il villaggio si erano ormai spenti e il fruscio della foresta aveva preso il suo posto; Luna strinse ancora di più la mano di Arat. "Hai paura?"

"No!" Luna mentiva. Il cammino proseguì finché Arat si fermò e sciolse la mano di Luna dalla stretta delle proprie dita. "Ecco, siamo arrivati." I rami di più alberi si erano intrecciati in modo da formare una rete fitta e compatta al centro della quale c'era un tronco di semouak. La circonferenza media di queste piante era abbastanza ampia da poter essere abbracciata da venti uomini messi in circolo; l'esemplare che stava di fronte a loro era grande quasi il doppio. Era il principio, l'albero dal quale erano caduti i semi che avevano poi germinato dando vita alla Foresta Greetes. Il vecchio tronco era segnato da una profonda cicatrice che si addentrava nel legno scavando una nicchia piuttosto ampia. L'albero era morto ma continuava a reggersi in piedi perché tutti i suoi figli, che lo circondavano, lo sorreggevano. Arat accompagnò Luna all'interno dell'albero cavo; i rami dell'apice erano stati distrutti dal fulmine che uccise il semouak e al loro posto c'era un foro circolare aperto sul cielo notturno. La luna bianca illuminava l'interno del tronco e rivelò il segreto che custodiva: la struttura morta ma ancora solida era servita da appoggio per diverse erbe e fiori rampicanti. La luna si spense e il cielo rotondo divenne buio, Arat si avvicinò di più a Luna e la cinse tra le braccia. Luna sentiva i suoi sospiri tra i capelli mente lei respirava il profumo caldo del suo petto. Quando la luce si riaccese, la seconda luna li sorprese legati in un bacio. Le labbra di lui premevano avide e lei si rendeva conto di quanto poco conoscesse quel nuovo gioco. Luna avrebbe voluto rispondere con la stessa ione, ma si sentiva impacciata e riusciva solo a pensare a quanti errori avrebbe commesso se solo ci avesse provato. Arat l'aveva capito e sorrise mentre la stava ancora baciando, così che Luna sentì i denti bianchi di lui sfiorarle le labbra. Basta. Luna aveva capito che non ci sarebbe mai riuscita, era meglio andarsene adesso prima di peggiorare la situazione. Allontanò il viso da quello di Arat ma non poté fare di più perché lui la teneva stretta a sé. "Non scappare." Non era un ordine ma una supplica; anche Luna non voleva andarsene e si abbandonò nell'abbraccio di Arat. La mano di Arat si posò sulla testa di lei e

scivolò sui capelli ricci; le carezze la rassicurarono e contemporaneamente le regalarono fremiti incontrollabili. "Non ti dispiace se ti accarezzo?" La voce vellutata di Arat la toccò profondamente. "Mi piace. Fallo ancora." Lui non chiedeva che di esaudire i suoi desideri. Le dita affusolate scesero lungo il collo sottile, lo circondarono e lo strinsero dolcemente. Luna non riuscì a trattenere un gemito di piacere, ma non provò vergogna per aver espresso in modo così esplicito ciò che provava. Le mani si spostarono sulle spalle e sulla schiena, lì la sensazione di piacere era più intensa perché il contatto non era contenuto dalla pelle della divisa di Luna. Inebriata da tutte queste nuove sensazioni Luna si sentì cedere le gambe e Arat la aiutò a distendersi sull'erba sempre restando aderente al suo corpo. Le carezze si appropriarono di ogni centimetro del corpo di lei che incominciò a fremere; avrebbe voluto toccate il suo uomo come lui faceva con lei ma era paralizzata dal piacere e dalla paura che un solo gesto sbagliato avrebbe spezzato l'incanto. Lui continuava a toccarla e stringerla e le braccia di Luna si aggrapparono al suo petto muscoloso; lei cominciò a detestare i vestiti che si intromettevano nell'abbraccio e desiderò di sfiorare con tutto il corpo la pelle di Arat. "Ti spiace se ti bacio?" "No." Fu un sospiro, un gemito, Luna lo desiderava e si abbandonò in quel miscuglio controverso di sentimenti e sensi. Lui slacciò il corpetto militare che ingabbiava Luna; ogni centimetro di pelle chiara che veniva portato alla luce della luna era bagnato dai baci di Arat. Le sue attenzioni si concentrarono sui seni sodi e rotondi e la sensazione di godimento che Luna provava si propagò come un'onda scendendo verso l'inguine; non poté trattenere i respiri profondi che premevano contro la cassa toracica. Arat aprì abilmente le fibbie che si allacciavano alla vita di Luna e la tuta le scivolò di dosso: era nuda ed ancora una volta si sorprese di non vergognarsi; sentiva di poter lasciare le voglie di Arat libere di sfogarsi con le proprie ma non riusciva a rispondere a quelle attenzioni con le stesse carezze. Non voleva però che Arat si fermasse.

Lui divorò con lo sguardo il corpo di Luna, poi si tolse convulsamente i vestiti e si distese sopra di lei. Trovò il suo posto tra le gambe della sua amata e ne percepì l'umido calore. Quando Arat si presentò sulla soglia, pronto ad entrare, Luna si risvegliò dall'estasi e si ritrovò nuda, spaurita e inesperta. Si irrigidì e istintivamente cercò di scappare da ciò che la preoccupava, la sua prima volta, ma lui la baciò apionatamente e la strinse contro il petto impedendole di pensare e di muoversi. E Luna ritrovò la serenità. Arat entrò dentro di lei, senza impeto e senza fermarsi. Inizialmente il bruciore fu così intenso che Luna non riusciva a sentire altro che quello; Arat non si muoveva e le inondava di baci il viso per rincuorarla. Poi con movimenti lenti, sempre più ampi riuscì a stimolare la sua sensibilità. Luna imparò i i di quella danza e finalmente entrambi i corpi giunsero alla medesima armonia. Non sapeva cosa stava provando Arat, ma lei era certa che nulla poteva essere paragonato a quello che lei stava sentendo: il piacere fisico si irradiava dalle gambe e risaliva verso la testa, elevandosi ad un'estasi mentale. Non c'era posto per altro, tutta la sua esistenza era concentrata in quell'attimo. Dopo che le due energie vitali si furono amalgamate, Arat si adagiò stanco al fianco dell'amata e si addormentò. Luna era troppo eccitata dalla scoperta della ione e rimase sveglia a guardare l'uomo bellissimo che le stava accanto. La seconda volta che si incontrarono, quella stessa notte, Luna divenne più intraprendente e imitò sul corpo di Arat i movimenti con cui l'uomo l'aveva deliziata. Provò una sensazione diversa dalla prima volta; forse perché era più consapevole e meno impaurita. Si addormentarono entrambi che già i chiarori dell'alba annunciavano il nuovo giorno; erano sereni e sicuri l'uno dell'altro, ma un uccello nero volò sopra di loro oscurando il cielo e l'ombra di Cablam entrò nei sogni dei due amanti. Luna non volle scoprire perché l'uomo che se ne era andato le avesse nuovamente fatto visita ed Arat si domandò quanto l'illusore fosse ancora nei pensieri di Luna.

Il villaggio degli Amouak era in piena attività. Il sole del mattino già inoltrato faceva risplendere le foglie verdi che ricoprivano il cielo; in quella luce i bambini correvano tra i rami con uno scopo ben preciso che però sfuggiva alla logica degli adulti e le donne preparavano le pietanze che avrebbero sfamato la famiglia. Tutti gli uomini erano già scesi nel bosco a caccia e a raccogliere le bacche e le radici commestibili.

Luna e Arat camminavano tenendosi per mano; lei aveva la sensazione che tutti li osservassero anche se in realtà nessuno badava a loro. Ma non erano gli altri a giudicarli; era Luna che si sentiva quasi a disagio in quel nuovo ruolo e, sebbene desiderasse stare sempre vicino ad Arat, non riusciva ancora a vederlo come un comportamento naturale. La colpa di tutto era come sempre lei; Luna si sentiva diversa e non riusciva a riconoscersi, come se la propria pelle fosse diventata un abito che non aveva mai indossato e nel quale non ritrovava la personalità che aveva dentro. La stretta di Arat, che pareva sensibile alle tensioni che la tormentavano, la richiamò dalle sue inutili elucubrazioni mentali e lei non poté che dargli ragione: erano un uomo ed una donna che si erano piaciuti e che si erano amati, tutto ciò era normale ed avrebbero continuato con naturalezza, finché sarebbe durata. Arat entrò da solo nella costruzione al centro del villaggio, dove risiedeva suo padre. Voleva parlare in maniera ufficiosa sperando di poterlo convincere della validità dell'alleanza. Luna sapeva quanto Arat fosse cocciuto e non cercò di fermarlo, ma da quel poco che aveva capito anche Tèotro era un testardo; non riusciva ad immaginare a come si sarebbe concluso un loro incontro senza l'intervento della diplomazia ufficiale ad attutire il colpo. Tèotro era anche un uomo scaltro, aveva evidentemente intuito quella mossa del figlio ed era partito (in via del tutto eccezionale) con il gruppo di cacciatori, prima dell'alba. Ma in questo comportamento si rivelava anche tutto il suo buon senso: sapeva che nessuno dei due si sarebbe spostato dalle sue opinioni e non voleva che la prepotenza di entrambi incrinasse il loro già difficile rapporto. Qualche giorno nella tribù avrebbe assestato le ardenti ioni di guerra di Arat e lo sfogo di adrenalina disperso nella caccia avrebbe reso più tranquillo Tèotro. L'ozio però non era una delle attività preferite da Arat che decise perciò di andare a trovare Animba, la seconda moglie di Tèotro che guidava la tribù in assenza del consorte. Portò Luna con sé sperando che le donne potessero parlare e trovare l'accordo che i due uomini non erano riusciti a raggiungere. La trovarono nella Casa Comune, ma dovettero aspettare che terminassero le udienze per poterle parlare. Animba aveva i capelli rossi, la sua struttura fisica era sottile e sinuosa ma dietro gli occhi di un verde così chiaro da sembrare gialli, si vedeva la determinazione di una donna forte. Il trono del capo era troppo grande per lei e la faceva sembrare una bambina seduta sulla poltrona del padre, i suoi piedi non toccavano neppure il pavimento. Nonostante questo il carisma di Animba riempiva la sala; era conosciuta come una donna saggia e capace e tutti coloro che si rimettevano al suo giudizio rispettavano le sue parole

come fossero quelle di Tèotro. Quella mattina c'erano solo due udienze: suocera e nuora che litigavano e due uomini che rivendicavano il possesso di un cervo. Animba disse che le due donne dovevano vivere in due case separate: quando la nuora andava a trovare la suocera con il marito ed i figli doveva rispettare le regole della padrona di casa, allo stesso modo la suocera non doveva intromettersi nelle faccende tra il figlio e sua moglie quando andava a trovare i nipoti. Per quanto riguardava i due cacciatori, soci all'inizio della battuta di caccia ma in disaccordo appena catturata la preda, la soluzione era semplice: tutte le parti doppie dell'animale dovevano essere equamente spartite mentre con le parti singole (cuore, fegato, cervello... ) dovevano organizzare un banchetto con entrambe le famiglie per suggellare l'antica amicizia. "Arat, assomigli sempre di più a tuo padre, anzi sei più bello." Animba si era tolta la veste di colore rosso che la elevava al rango di giudice ed era rimasta con un abito verde che aveva due profondi spacchi ai fianchi, sotto portava dei pantaloni dello stesso colore. Gli occhi giallo dorato di Animba brillavano amichevoli sopra un sorriso ammiccante. "Non devi essere in collera con tuo padre. Lo sai che è un tradizionalista; i cambiamenti lo innervosiscono ma non temere, sono certa che proprio in questo momento sta pensando alla proposta che gli hai fatto. Lo rilassa molto scendere dal villaggio e impegnarsi nella caccia." "Io spero che il suo risentimento nei miei confronti non lo induca a prendere una decisione sbagliata che costerebbe cara a tutti gli Amouak." "Arat, non essere così ingiusto. Il benessere della tribù è il primo pensiero per Tèotro. Quando ieri si è allontanato senza darti una risposta ufficiale era appunto uno stratagemma per poterci ragionare in tranquillità. Anche io, come te, credo che questa alleanza sia utile alla tribù ma Tèotro ha bisogno di tempo: deve riconoscere il pericolo reale e tangibile in questo Cron così lontano. Per la mentalità di Tèotro i nemici sono gli Artex che ogni giorno minacciano le nostre vite." "Ma se tu sei dalla mia parte allora potresti convincerlo a... " "Io sono dalla parte di Tèotro. Fino ad oggi ha sempre preso le decisioni più

giuste e lo farà anche in questo caso." Arat non era soddisfatto ma non aveva nemmeno tentato di chiedere a Luna di intervenire per perorare la loro causa. I due giovani si allontanarono sperando che tutto si risolvesse per il meglio, ma il pensiero di entrambi si rabbuiò quando si resero conto del tempo che stavano perdendo e quella era proprio una di quelle cose che non potevano permettersi di sprecare.

Arat l'aveva lasciata sola per la prima volta da quando erano arrivati tra gli Amouak; era andato a trovare alcuni suoi amici di infanzia che in quel periodo si trovavano nella casa degli uomini. Il nome del luogo lo definiva perfettamente: era uno spazio riservato agli uomini e tassativamente proibito alle donne. "Ti senti abbandonata?" Era Gor. Era entrato per cercare il capo ma aveva trovato Luna che si provava gli stivali che Arat le aveva fatto confezionare dal calzolaio della tribù (erano più morbidi per camminare sugli alberi). "Non ho sempre bisogno di essere accompagnata!" Rispose con un tono brusco per niente attinente alla situazione, come se in realtà avesse risposto alla stessa domanda ma in un contesto diverso e in un certo senso fondamentale per la sua vita. "Lo so che non hai bisogno di nessuno." "Alle volte anche io ho bisogno di aiuto." La sensazione di continuare a parlare di un argomento diverso da quello proposto dalle domande di Gor non l'abbandonava; anche l'immelico pareva sorpreso dalla piega che stava assumendo quella semplice e anche banale conversazione (almeno nelle sue intenzioni). Infine Luna parlò liberamente di ciò che la tormentava a tal punto da essere sempre nei suoi pensieri e da impedirle di pensare a qualsiasi altra cosa. "Tu credi che Tèotro abbia ragione di rifiutare la nostra proposta? Non credi che

gli stiamo facendo un torto chiedendogli di affidarci la vita delle persone che per anni lui ha protetto e guidato come un padre?" "Hai sbagliato persona a cui rivolgere queste domande. E' vero che anche io ho delle idee personali a riguardo, ma non mi ritengo abbastanza intelligente da esporle agli altri e farne un dibattito. Sono abbastanza sveglio da capire che Arat è un uomo perspicace e un capo valido, l'ho scelto come mio superiore per le sue capacità e da lui mi farò guidare. Credo che farà sempre la giusta scelta, sia per sé stesso che per me. Arat ha deciso che è giusto assecondare il tuo istinto e il tuo potere ed io, anche se nutro qualche riserva, darò la vita per portare a termine lo scopo che voi avete scelto per me." Luna lo fissava in silenzio e ripensava ai momenti in cui l'immelico (e in diverse occasioni anche Sador) aveva manifestato i suoi dubbi su di lei. "Non ti invidio affatto, Luna. Devi prendere decisioni importanti non solo per te o per un gruppo di uomini, come potrebbe fare un generale: tu puoi influire sulla vita dell'intero popolo di Solamia. E' una responsabilità molto grande." Arat entrò nella stanza proprio in quel momento e Luna non fu mai tanto felice di vederlo. La discussione con Gor l'aveva addolorata e già sentiva crescere in lei l'incertezza che ad ogni nuova prova credeva di aver superato e che invece continuava a seguirla da quando era arrivata a Deos. Con Arat si liberava di ogni fardello e si sentiva libera di essere un semplice essere umano: lui era la sua forza e la sua debolezza. Tèotro e i cacciatori non rientrarono quella sera, ma nessuno si preoccupò per questo: quando la caccia era infruttuosa o insufficiente i cacciatori restavano fuori per due o tre giorni; in quei tempi di Soppressione succedeva sempre più spesso.

"Londo, Geto, Bran ed io ci dirigeremo verso Est, quella è la direzione in cui si sono allontanati. Tu, Caser, con la tua squadra andrai verso Sud: si dirigono sempre verso quelle zone quando non trovano abbondanza di prede." L'organizzazione per ritrovare Tèotro e i cacciatori, che mancavano ormai da troppi giorni, venne affidata ad Arat e al suo amico Caser. Animba dissipò i dubbi dei più anziani appoggiando incondizionatamente le decisioni dei due giovani. Luna era preoccupata; temeva per la vita di Tèotro perché la sua morte avrebbe portato scompiglio nel villaggio, però se il potere decisionale fosse stato

ereditato da Animba forse i tempi di attuazione di un'alleanza tra le tribù della Foresta Greetes e le Famiglie sarebbero stati più brevi. Non era un pensiero molto nobile, considerando anche il fatto che Tèotro era il padre di Arat; ma in questi momenti, in cui i drammi quotidiani prendevano il sopravvento, lei tendeva a pensare a quanto questi potevano aiutare o meno la causa di tutta Solamia. Arat era tornato ad essere vigoroso e concentrato sull'obbiettivo; nei giorni precedenti (dopo la partenza di Tèotro) era rimasto apatico e silenzioso. Anche se era visibilmente preoccupato per il padre, Arat si trovava a suo agio nelle situazione critiche come se il rischio e la tensione tirassero fuori la sua parte migliore. Animba aveva invitato Luna nella sua stanza; il tassen fumante aspettava nelle tazze di legno ma entrambe le donne avevano la gola serrata dalla preoccupazione: gli uomini che amavano erano lontani, forse in pericolo di vita. "Dobbiamo parlare, dobbiamo essere pronte nel caso che le decisioni non possano essere prese da Tèotro e da Arat." La prospettiva non piaceva a Luna, l'idea di comportarsi come se Arat fosse già morto le riusciva sgradevole. Ma Animba aveva ragione, molte cose dipendevano dalla riuscita dell'alleanza, cose tanto grandi che non potevano essere compromesse dalla morte di un solo uomo, neppure da quella di Arat. Il mattino seguente il sole si levò come ogni altro giorno; nulla, nel suo colore e nel suo aspetto, rivelava il tremendo svolgersi di quella giornata. Arat guidava il triste corteo funebre, il suo candù trascinava una barella costruita con il legno che avevano trovato nella foresta e le coperte da campo. Il cadavere di Tèotro non era stato coperto e tutti videro i segni della battaglia che aveva combattuto: i globi oculari erano stati strappati dalle orbite presumibilmente dopo la morte e il suo ventre era squarciato come se gli organi interni fossero esplosi. Gli uomini che avevano seguito Arat ora sfilavano con i candù bardati con altre barelle sulle quali trasportavano i resti martoriati degli altri cacciatori. La disperazione dilagò di casa in casa, i pianti per la perdita di un figlio si confondevano con quelli delle vedove e degli orfani. Arat pianse molto tempo dopo, soffocando le lacrime nell'abbraccio di Luna finché si addormentò come un bambino. Animba, il nuovo capo della tribù, teneva gli occhi fermi puntati verso il gruppo

di uomini alti e forti che le stava di fronte. "Gli Artex non si sono mai comportati così; di solito agiscono in piccoli gruppi mentre Arat dice di aver trovato numerose tracce. Non capisco." "Le cose stanno cambiando ed andranno sempre peggio." Arat stava accusando tutti quegli uomini ed in parte rimproverava anche Tèotro per la sua mancanza di fiducia nei suoi confronti. Poi continuò feroce. "Cron non ha più tempo di giocare con voi, le solite scaramucce non gli interessano più ed è per questo che ha aumentato il numero degli Artex. Vuole mangiarsi l'intero continente in un solo boccone! Dobbiamo organizzarci in fretta; solo con l'alleanza delle forze di tutta Solamia potremo sperare di sopravvivere."

Il suono del corno, che una volta era appartenuto a qualche animale, venne emesso da un giovane Amouak che vi soffiava a pieni polmoni; Luna si svegliò di soprassalto. Pur non conoscendo tutte le usanze locali era facile riconoscere quel suono come un allarme generale: gli Artex si avvicinavano al villaggio. La lotta si svolgeva con il medesimo copione: i Mutati tentavano di risalire i fusti dei semouak e gli uomini cercavano di ricacciarli indietro. I guerrieri Amouak indossarono caschi e armature che li facevano assomigliare agli animali più forti e aggressivi della foresta. Gli Artex erano antropomorfi, ma la loro pelle rossa era dura come una corazza; Arat e gli altri dovettero affrontare un nemico che si batteva a colpi di spada. Luna estrasse l'amlin dal fodero, ma non riuscì a servirsene. Forse era per la vicinanza di Aruni, il luogo dove suo padre aveva lottato o forse era l'orgoglio che, fino ad ora sopito, si era improvvisamente risvegliato, ma certamente era perché le voci dei suoi antenati le urlavano di dare sfogo al potere che alimentava la Fonte. Luna chiese perdono ai Familiari che erano morti per fortificarla e giurò che da quel momento avrebbe lottato come una Deoscuridiana. Gli occhi color arancio sbocciarono come due fiori alieni nel cuore della foresta: fu allora che la terra immobile da millenni si ridestò e nei suoi movimenti inglobò numerosi Artex seppellendoli per sempre nelle sue viscere. Si allontanò sempre di più dal centro della battaglia per cercare di fermare gli Artex che si trovavano nelle retrovie. Le lacrime di sangue che versava ininterrottamente da ore le avevano irritato gli occhi; cercò perciò di

chiuderli per trovare il refrigerio necessario per riprendersi ma ciò non le permise di vedere il pericolo che le piombò addosso. Arat eggiava nervosamente per l'ampia sala della Casa Comune. "Sono uno stupido, avrei dovuto insistere per farla rimanere nel rifugio." "Ma lei è una combattente, ce lo ha dimostrato più volte. E poi lei non sarebbe mai rimasta in disparte." "Allora avrei dovuto stare più attento, è la seconda volta che... " "Lei non è morta. Lei è la Feteh, non lo dici sempre anche tu? Sono certo che è viva." "Anch'io ne sono convinto e so anche che questa è un'altra manovra di Cron per portarcela via. E' per questo che la cercherò prima che possano abbandonare la foresta. Avrò bisogno di aiuto, c'è qualche volontario?" Oltre a Sador e Gor anche molti giovani Amouak si unirono alla spedizione: non sapevano cosa voleva dire Feteh ma avevano visto la terra seguire il volere di quella donna e capivano che quel potere doveva rimanere a Solamia per difenderli da Cron.

Questa volta non era stata rapita, si era lasciata prendere. L'imboscata l'aveva sorpresa, ma avrebbe potuto reagire e sotterrare letteralmente tutti gli Artex che l'avevano assalita, ma poi aveva riconosciuto i Mutati dalle sembianze umane che aveva incontrato solo a Reka. Non essendo gli stessi, forse erano sbarcati a Samboa o in uno dei porti della costa Est del Paese, già usate da Cron per dare inizio all'incubo che ancora torturava Solamia. Aveva un piano: sapeva che i Mutati non avrebbero permesso agli Artex di ucciderla e sapeva che il loro scopo era quello di portarla da Cron; doveva assolutamente scoprire la posizione precisa di Lubra. L'avevano incatenata alla parete di una grotta. L'umidità aveva indebolito la roccia e la ruggine aveva corroso il metallo: senza dubbio avrebbe potuto liberarsi dalle manette che le stringevano i polsi, ma non era ancora riuscita a scoprire il grande segreto, l'ubicazione dell'isola su cui nascevano i Mutati e in

cui viveva Cron. Si rendeva conto che il tempo stringeva e che presto sarebbe arrivato Arat con i soccorsi vanificando ogni suo progetto. Lui non era a conoscenza delle sue intenzioni, la credeva caduta in trappola e in pericolo di vita. Non avrebbe lasciato superstiti tra i suoi rapitori. Ma non poteva forzare i tempi, non sarebbe servito fare domande ad un Mutato, si sarebbe ingoiato la lingua piuttosto di parlare; avrebbe dovuto aspettare e sperare che Arat tardasse il tempo necessario. Luna era accudita da uno dei Mutati umanoidi che le portava dell'acqua quando credeva avesse sete e la copriva con una coperta quando intuiva avesse freddo. Tutti gli altri avevano il compito di impedire che gli Artex fero del male a Luna: erano progettati per trovare ed uccidere, non sapevano che il loro creatore voleva possedere quella donna, viva. Sapeva che i Mutati stavano aspettando qualcosa, e quel qualcosa arrivò. Assomigliava straordinariamente a Mat, sia come dimensioni che come modo di muoversi e di guardare, ma non era lui, era un altro capo giunto lì per istruire i soldati. Non si fecero problemi a parlare di fronte a Luna, forse perché si sentivano sicuri oppure perché non sapevano pensare. Il sosia di Mat diede le istruzioni al gruppo di Mutati, spiegò loro la strada che dovevano percorrere per raggiungere Samboa (Luna aveva visto giusto, era da lì che arrivavano) e poi finalmente diede le coordinate e la rotta per raggiungere Lubra. Luna sperava che ci fosse una mappa da rubare o un foglio scritto da cui copiare i dati, ma erano solo nozioni trasmesse oralmente e imparate a memoria dai Mutati. Le memorizzò anche lei. Sembrava che Arat avesse atteso esattamente quel momento per fare irruzione, invece fu solo un colpo di fortuna che non fosse giunto troppo presto. Una ventina di Amouak entrarono nella grotta urlando e brandendo le armi. I Mutati, colti di sorpresa, reagirono con una frazione di secondo di ritardo e le prime perdite furono le loro. Gli uomini della tribù erano numerosi, ma non era facile battere gli Artex, ora liberi di sfogare i loro istinti, e i Mutati che anche se non molto intelligenti erano nati e creati appositamente per dar battaglia. Nella rissa generale la figura di Arat si faceva largo tra i nemici usando la demo come una falce in un campo di erba gramigna. Si avvicinò a Luna sfoggiando un

sorriso rassicurante, affondando contemporaneamente la lama rossa nella pancia del Mutato che aveva osato frapporsi tra loro. Luna gli rispose con il medesimo sorriso, poi gli occhi blu-notte si scaldarono nell'arancio; il potere di Deos parlò la lingua muta delle creature volanti che vivevano rintanate nelle buie profondità di quella caverna e ordinò loro di obbedire al suo volere. Dimenticando l'odio istintivo per quella zona troppo illuminata, fecero il loro ingresso tutti uniti in una nuvola compatta di corpi pelosi e ali battenti; gli artigli che fino ad allora avevano usato per catturare insetti, divennero armi da usare contro i Mutati. Puntavano dritti verso i globi oculari, lacerandoli ed evitavano gli esseri umani che erano in mezzo a loro. Quando fecero ritorno al villaggio Arat andò subito a chiedere udienza ad Animba; c'era già un folto numero di persone: erano le persone più influenti del villaggio che chiedevano di conoscere i piani per il futuro. Il giovane non attese il suo turno e parlò con voce altisonante. "La proposta che ho rivolto a Tèotro è ancora valida ed ora la ripropongo al nuovo capo degli Amouak." Animba parlò con grande saggezza e il suo discorso riuscì a tranquillizzare gli anziani che in precedenza si erano schierati con Tèotro quando si era rifiutato di aderire all'alleanza, ma risvegliò anche l'interesse dei giovani guerrieri che si erano esaltati all'idea di un confronto faccia a faccia con Cron. I vecchi Amouak videro nell'alleanza un ritorno alle origini, al tempo in cui la differenza tra i popoli non era così marcata. I giovani riconobbero nella decisione di allearsi l'apertura verso il mondo esterno che da sempre bramavano e già pensavano alla vita diversa e libera che avrebbero vissuto quando l'intera Solamia sarebbe diventata proprietà di tutte le genti.

Arat, Luna, Sador e Gor partirono la mattina di quella che sempre più si prospettava come una nuova era. Un gruppo di Guerrieri del villaggio li seguì per un tratto della strada; si volevano incontrare con la tribù dei Dislouak che confinavano con il loro territorio. Arat parlò con il loro capo e non incontrò resistenze quando propose l'unione delle tribù e di Solamia; la notizia della fine che avevano fatto Tèotro e i suoi uomini aveva già fatto il giro della foresta e gli Artex erano diventati più aggressivi con tutte le tribù. Cron faceva sempre più paura e fu per questo che gli uomini misero da parte le antiche divergenze per

unirsi e combattere l'unico vero grande nemico. Arat e il suo gruppo ripartì puntando verso Sud, verso Aruni, mentre gli Amouak rimasero nel villaggio diventato alleato. Una delegazione dei Dislouak partì per incontrarsi con la tribù dell'Est, i Fersouak e da questi partirono uomini per parlare con gli Zanouak. Man mano che i vari gruppi si incontravano i legami tra tribù si intrecciavano e il vessillo dell'alleanza si distese su tutta la Foresta Greetes.

***

Cron era sempre più cupo; il giorno in cui aveva percepito l'arrivo di Luna a Deos era stato il suo ultimo giorno sereno, dopo di allora nulla era andato come avrebbe dovuto. Non riusciva ad essere completamente insoddisfatto; se fosse stato troppo semplice catturare quella donna si sarebbe chiesto se era abbastanza forte e se era degna di affiancarlo. Invece Luna era potente e sempre più determinata, era riuscita a sopravvivere agli attacchi dei Mutati di mezza Solamia ed aveva evitato due suoi tentativi di rapirla. Ma tutte queste qualità erano indirizzate contro di lui e questo era sicuramente un difetto da correggere, ma quanto tempo aveva ancora? Il tempo dell'Adunanza era vicino ma ancora non ne conosceva l'esatto tempo e luogo; Luna doveva arrivare prima possibile perché lui potesse istruirla al meglio. Il fallimento dei suoi marescialli lo irritava, non era abituato ad apparire debole e Luna continuava a renderlo ridicolo continuando a sgusciargli tra le dita. Ma non c'era molto da fare, doveva ancora aspettare. Avrebbe tranquillamente atteso che fosse lei, con le sue forze a giungere a Lubra; anche se fosse arrivata con intenzioni bellicose e alla testa di un esercito lui non l'avrebbe temuta, solo Cron può vincere Cron. Il problema era proprio questo, da tempo un misterioso silenzio era piombato sulla figura nera che da sempre lo perseguitava ma questo non significava affatto che lui fosse scomparso o che avesse rinunciato ai suoi propositi. Suo padre era sempre in agguato: Cron era certo che avrebbe presto tentato di portargli via Luna e questa era la cosa peggiore che potesse accadere. L'ipotesi che venisse uccisa da un Mutato era certamente meno irritante. L'unica cosa che poteva fare era facilitare l'arrivo della Feteh a Lubra; aveva già

bloccato l'afflusso di Mutati, ma quelli che erano già presenti sul territorio di Solamia avrebbero continuato ad attaccarla e anche se il potere di Deos la proteggeva dai suoi mostri non poteva certo salvarla dal desiderio di conquista di suo padre. Nulla aveva più importanza, Solamia e la sua gente, suo padre che non voleva morire, gli immelici che circondavano Luna, nulla. L'Adunanza si doveva compiere, Luna ne doveva far parte e lui era il suo avversario. Dopo di questo tutta Solamia sarebbe stata in suo potere.

***

La lunga strada diritta iniziava ai confini della Foresta Greetes e scendeva in direzione Sud, verso la Rocca Salina; la monumentale roccaforte costruita dalla natura era l'ultimo grande ostacolo che li separava da Aruni. Nel Mare di Savra che bagnava il porto militare c'erano le bolle di vetro che contenevano la città subacquea di Nim, la loro ultima meta. Luna provava una strana sensazione nel sapere che erano quasi arrivati ad Aruni; il viaggio che avevano intrapreso con Sargon aveva lo scopo di raggiungere la città via mare per cercare le prove dell'esistenza della famigerata Lubra e della presenza di Ledon. Invece tutto fu diverso fin da subito, fin dalla prima morte. Eppure Luna non poteva dire di aver sprecato tempo e vite; aveva conosciuto il mondo che voleva salvare ed ogni giorno conosceva di più sé stessa, ma soprattutto aveva contribuito a porre le basi sulle quali costruire una nuova civiltà multirazziale dopo la sconfitta di Cron. Avrebbe perso tutto questo se avesse solo osservato il continente da lontano mentre il vascello navigava da Samas ad Aruni. Arat controllava spesso la cartina che un tempo era appartenuta a Sargon; non c'era pericolo di sbagliare direzione perché quella era l'unica strada che attraversava la piatta prateria, cercava solo dei punti di riferimento per vedere quale fosse la reale distanza tra il punto in cui si trovavano (circondati da sterpaglia e cactus) e la Rocca Salina. Luna e i due immelici non trovavano il coraggio di chiedergli quanto tempo avrebbero impiegato ad arrivare a destinazione perché ogni qual volta il capo consultava la cartina scuoteva la

testa: evidentemente le proporzioni erano errate e la strada era molto più lunga di quanto non fosse segnato. Arat decise di spiegare ai suoi compagni il motivo per cui voleva raggiungere in fretta Aruni. La ragione principale era che se la città non era occupata dai Mutati allora quello era il porto migliore dal quale partire con l'esercito alla volta di Lubra. Giunti alla città però avrebbero dovuto anche procurarsi le navi per il trasporto degli uomini. Per questo motivo era necessario suggellare un patto con la Famiglia Nimferidi: loro possedevano la più grande flotta navale del continente ed erano i custodi delle mappe nautiche più precise al mondo. Con le informazioni che Luna aveva sottratto ai Mutati sarebbe stato semplice trovare l'ubicazione di Lubra. Arat frenò bruscamente il o regolare del candù. "Hai ragione, Arat." Disse Sador come se l'altro avesse parlato. "Lungo la strada ci sono le tracce di un carro trainato da un bue, ma qui i segni si fermano. La terra è stata spazzata per cancellare le tracce, ma il lavoro è stato eseguito in fretta e si notano le tracce di più candù. Forse il carro è stato attaccato e i banditi lo hanno spinto fuori strada... " Gor allungò il collo per guardare oltre il bordo della strada: il fosso che correva parallelo alla via e che nel periodo delle piogge si riempiva di acqua era in secca ma un carro di legno vi si era rovesciato e il bue che lo trainava, rimasto schiacciato dal peso stava silenziosamente soffrendo per i suoi ultimi istanti di vita. "Chiunque fossero se ne sono già andati e pare che abbiano anche già preso quello che gli interessava." Il contenuto del carro era sparso tutto intorno: erano casse vuote e stracci… se c'era qualcosa di valore era stato certamente preso dai banditi. Arat scivolò con attenzione sulla ghiaia e raggiunse il fondo del canale; traò il povero bue con la demo e poi pulì la lama sul pelo dell'animale morto. "Questa sera si mangia carne fresca." concluse Gor. Luna si avvicinò al carro con la sicurezza di chi sa cosa trovare e sollevò alcune tavole di legno che si erano spezzate con la caduta. "Anch'io ho trovato della carne." La 'carne' che Luna aveva trovato tremava di fronte ai tre uomini con gli occhi

arrossati dalle lacrime ed il petto scosso dai singhiozzi. Era difficile stabilire se fosse una ragazzina o una donna: il corpo formoso e slanciato rivelava che era certamente matura, ma aveva ancora un aspetto acerbo ed un'insicurezza nei modi che non potevano are inosservati. Era molto bella e Luna non poté esimersi dal fare il paragone con sé stessa, forse perché sapeva che anche Arat l'avrebbe fatto (dopotutto era sempre un uomo). Anche se la gelosia che si impossessò di lei le suggeriva di demolire immediatamente la rivale, la verità era troppo palese per sfuggirle: aveva la pelle bianca e perfetta, i capelli neri le incorniciavano il viso dolcissimo; anche se la brutta avventura le aveva arruffato i capelli e scomposto le vesti, il tutto era comunque armonioso e la faceva sembrare attraente perché indifesa (infatti tutti i maschi si prodigarono per aiutarla). A tutto questo andava aggiunto un fisico mozzafiato ed una carica sessuale innata che si esprimeva in ogni suo gesto, anche il più insignificante. Luna si guardò dopo molto tempo: la sua pelle era abbronzata per le lunghe cavalcate, le cicatrici bianche le segnavano il viso e il marchio di Atra era diventato ancora più evidente. La mano sinistra era indurita dai calli che l'uso delle redini le aveva donato; era poi impossibile non vedere il luccicante metallo che le imprigionava l'avambraccio destro. Lei era orgogliosa di quei segni di riconoscimento; ogni simbolo era una tappa del suo viaggio attraverso il Paese e, soprattutto, alla scoperta della sua vera essenza. Ma forse non la rendevano attraente e si ritrovò a pensare che forse Arat sarebbe stato affascinato più dalla nuova seducente ragazza che dalla sua compagna di tante battaglie. Il racconto della disavventura della spaventata ragazza terminò con una sonora soffiata di naso, poi aggiunse: "Dimenticavo, il mio nome è Katrisha."

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CAPITOLO 17

Katrisha venne accolta nel gruppo con grande gioia di Sador. Arat era molto meno entusiasta: la donna avrebbe rallentato il gruppo ma non poteva abbandonarla in mezzo alla pianura desolata. Decise intanto di portarla con loro; quella sera avrebbero preparato l'accampamento ed il fuoco per cucinare la carne e lui avrebbe pensato alla soluzione migliore per tutti. Katrisha era riuscita a farsi costruire una specie di tenda da Sador e Gor. I due immelici non potevano non subire il fascino di quella donna misteriosa e non si erano lamentati del lavoro extra: alla fine erano stanchi e sudati, ma un sorriso ebete era stampato sui loro volti e si leggeva nei loro occhi la speranza (dettata più dal testosterone che dalla logica) di un gesto concreto di riconoscenza da parte della 'divina creatura'; la femmina li ringraziò frettolosamente e si infilò nel giaciglio da sola, spazzando via ogni sogno dei due uomini. "Si è addormentata?" "Credo di sì. Senti come il respiro si è fatto lento?" Tutti e quattro si zittirono per ascoltare quello che Luna aveva evidenziato. "Chi credi che sia?" "Una spia di Cron." "Per te, Sador, tutti sono spie di Cron." "E' meglio pensare sempre al peggio e sbagliarsi piuttosto che non dubitare mai di nulla e restare fregati." "Sador non ha torto. La sua storia è abbastanza credibile ma ci sono troppi punti oscuri. Se è vero che Kumit, il porto a Nord-Ovest di qui, è stato preso dai Mutati di Cron, come è riuscita a scappare da lì senza essere vista? Il suo carro da viaggio è molto vistoso ed è persino riuscita a portarsi via molti bagagli, troppi per una fuga. Inoltre è molto strano che un padre lasci andare la figlia attraverso queste terre pericolose (in questi tempi terribili) senza una scorta

adeguata. E poi è stata molto vaga quando ci ha parlato degli 'zii' che la aspettavano a Dibio, a Sud-Est del Grande Fiume." "Io sono d'accordo con te, Gor, ma considero ottima l'idea di Arat: la portiamo con noi senza però darle troppe informazioni sulla nostra meta. Lungo la strada avremo modo di conoscerla e di scoprire se è veramente quello che dice di essere." "A proposito, io non so ancora dove volete andare." "Sador, se fumassi meno etas e ascoltassi di più gli altri lo sapresti. Arriveremo ad Aruni dopo aver attraversato la Rocca Salina... " "Ma sei impazzita? E' impossibile scavalcare le pareti di sale di quel posto maledetto e anche se ci riuscissimo non sopravviveremmo al deserto infuocato che è racchiuso nel cuore della Rocca." "E' la via più breve; e poi non hai ancora imparato a fidarti dei miei poteri, Sador?" "Preferisco affidarmi alle mie pur scarse capacità piuttosto che dipendere da una donna che possiede tanto potere ma che non sempre sa come usarlo." Sador non voleva essere offensivo e Luna non se la prese, ma Arat non gradì affatto le parole dell'immelico e parlò come se volesse rimproverarlo. "E' comunque l'unica strada che mi fido di percorrere. Dopo che Luna ha scoperto che anche la città di Samboa è sotto il controllo di Cron non è pensabile puntare in quella direzione. Le notizie che Katrisha ci ha fornito di Kumit potrebbero essere vere: anche Enroe aveva il sospetto che altri porti fossero caduti nelle mani di Cron e comunque non credo sia una buona idea rischiare. Anche se la presenza di Mutati fosse solo un'invenzione di Katrisha non sappiamo se al porto ci siano navi in buone condizioni per portarci ad Aruni. are per la Rocca Salina è sicuramente la via più difficile ma anche quella che con più probabilità ci condurrà ad Aruni e poi a Nim." Ormai le decisioni erano state prese, la partenza era prevista alle prime luci dell'alba.

Katrisha aveva bisogno di nascondersi agli occhi degli altri per pochi istanti; per questa ragione aveva raccontato di aver bisogno di una tenda per prendere sonno: lei aveva paura degli spazi aperti e degli animali. Aprì il sacchetto di pelle che portava legato alla cintura; in mezzo a sfere di vari materiali c'è n'erano tre che parevano di un metallo simile al tali. Quando Arat l'aveva perquisita, mentre lei fingeva ancora di essere incosciente, aveva pensato che si trattasse delle pedine del Bixtra, il gioco a cui tutti gli abitanti del Muslim avevano giocato almeno una volta. Se ne infilò una in bocca: il diametro era poco più piccolo dell'unghia del suo pollice, ma a contatto con la lingua pareva tre volte più grande. Immediatamente Katrisha sentì la nausea salirle dallo stomaco e fu tentata di sputare la biglia; non lo fece perché questa incominciò a perdere consistenza e a sciogliersi in un liquido freddo. Invece di scendere naturalmente per la gola la materia cominciò a espandersi e a foderarle le pareti del palato, a risalire i seni nasali fino a spingersi nei canali uditivi e a raggiungere l'orecchio. Cron non le aveva detto che avrebbe provato una così terribile sensazione di soffocamento, le sembrava veramente di morire. Non aveva più la sensazione del suo corpo ma il suo padrone le aveva spiegato che in quello stato il suo corpo appariva come durante lo stadio di sonno profondo. I suoi sensi e il suo spirito erano collegati con la parte più profonda dell'essere che era Cron.

- Mi hai chiamato presto! Possibile che tu sia già riuscita a scoprite tutto? -Ho scoperto che più ti sono lontana e più ti desidero, anche per te è cosi? ... -Cron, perché non mi rispondi? - Non avrai mica sprecato una delle sfere per dirmi solo questo! -Non arrabbiarti con me, ma Luna è così poco interessante. Pensavo fosse più alta e sinceramente anche molto più bella visto che vuoi che prenda il mio posto, al tuo fianco. -Quello è il posto di Luna, da sempre.

- Non trovo in lei tutto quello che tu mi hai raccontato. In tutto il tempo che siamo state insieme mai una volta ha usato il potere e io credo proprio che non ne abbia affatto. -Perché tu sei stupida e la tua mente è troppo piccola per comprendere la vastità di ciò che è Luna. -Però sono abbastanza sveglia da capire quanto lei sia innamorata di Arat, il bel guerriero che non la lascia mai e che la guarda sempre con desiderio. Ammetto che se non fossi perdutamente innamorata di te potrei invaghirmi del bellissimo soldato dagli occhi verdi. -Ricordati che tu sei lì per accertarti che nulla sia cambiato nei propositi di Luna. Voglio assicurarmi che nulla e nessuno interferiscano con i suoi progetti perché in parte coincidono con i miei. Lei deve arrivare a Lubra. E' qui che avverrà l'Adunanza. -Se mi credi così stupida perché hai mandato me qui? -Perché nonostante tutto il tuo cervello è l'unico che avrebbe sopportato questo tipo di trasmissione cerebrale. Creare un altro Mutato con le stesse qualità avrebbe richiesto del tempo che io non ho. Mio padre presto ritornerà dall'oblio in cui si è nascosto ed io non voglio perdere l'unico vantaggio che possiedo: Luna vuole venire da me, anche se con intenzioni diverse da quelle che auspicavo. -E non temi che uccida la mia rivale per amor tuo? -Ah! Ah! Ah! Non essere ridicola... e non permetterti più di contattarmi senza aver adempiuto al tuo compito!

Le ultime parole di Cron si fecero liquide e gorgogliarono come l'ultima acqua che fuoriesce da un imbuto. Katrisha deglutì ciò che rimaneva della sostanza che aveva ingerito e la sentì pesante alla bocca dello stomaco. Tormentata dai crampi cercò di prendere sonno e si ripromise di uccidere Luna alla prima occasione, anche a costo di disubbidire al suo unico Dio. Il sole non era ancora spuntato ma Arat era già sveglio da molto tempo. Era

seduto accanto a Luna che dormiva ancora e mentre consultava la cartina geografica del Muslim giocherellava con una ciocca di capelli di lei. Poco dopo si svegliarono tutti tranne la 'principessa' che si fece lungamente attendere prima di uscire dalla tenda. Presero la via che scendeva verso Sud; avevano oltreato un leggero declivio ed ora si muovevano su di una piana dalla terra dura e con poca vegetazione. In questa regione esistevano ancora delle popolazioni che fin dall'alba dei tempi avevano praticato il nomadismo sopravvivendo alle difficili condizioni di vita senza perdersi d'animo per il continuo e costante progredire del deserto e per la conseguente riduzione delle risorse. Incontrarono uno di questi clan mentre stava smontando le tende (che erano la loro casa); avevano quasi prosciugato la riserva d'acqua di un piccolo stagno e si apprestavano a partire per andare verso Est; si sarebbero fermati ad un'altra pozza e lì avrebbero piantato il loro accampamento fino alla partenza successiva, sempre inseguendo l'acqua. Le donne del gruppo accolsero i viaggiatori servendo loro una bevanda dissetante (acqua bollita con l'aggiunta di foglie e fiori secchi, il tutto lasciato raffreddare), come era loro tradizione, mentre gli uomini rimasero in disparte con le armi in braccio, come era sempre prudente fare. Luna parlò anche con loro della nuova idea che sembrava unire tutta Solamia. Tutti loro l'ascoltarono con sincero interesse e parvero tutti molto entusiasti del progetto. Poi il capo del clan spiegò a Luna come si svolgeva la loro vita e perché continuavano a vivere in quel modo: erano uomini e donne che avevano imparato dalla natura, erano vivi grazie ad essa ed erano vivi nonostante essa. L'acqua e i pochi animali che vivevano lì erano i loro alimenti mentre la siccità e la conseguente morte delle loro prede erano i loro nemici. Queste tribù avevano semplicemente accettato che questo era l'ordine delle cose e non facevano altro che adoperarsi per ottenere il meglio da ogni situazione: non sfruttavano mai fino in fondo le oasi in cui si fermavano perché sapevano che le avrebbero distrutte e così facendo avrebbero solo cancellato una loro futura risorsa. Sceglievano di continuare a spostarsi proprio per mantenere intatto l'equilibrio delicato del sistema in cui erano nati per caso. Da qualche tempo nel loro mondo erano entrati a far parte anche i Mutati e loro li avevano accettati come l'avanzare del deserto e la scarsità di acqua nel periodo secco. Combattevano e alle volte vincevano, altre invece soccombevano, ma non era altro che il normale alternarsi delle diverse fasi della vita. Luna non chiese loro se volevano unirsi al resto degli uomini di Solamia per

combattere Cron e riuscì anche ad evitare che lo fe Arat. Non temeva un rifiuto e neppure li riteneva guerrieri meno validi di quelli che aveva incontrato fino ad ora. La verità era che ammirava la loro saggezza e l'equilibrio che erano riusciti a stabilire con ciò che li circondava. Aspirava a raggiungere lo stesso traguardo tra il suo io esteriore e terreno e il suo potere interiore e spirituale. Salutò con gioia il popolo che coraggiosamente aveva accettato l'armonia delle cose e se ne andò consapevole di aver appreso qualcosa di importante da loro.

Il cielo si apprestava a scurirsi e Luna si accingeva ad accendere il fuoco. Arat e i due immelici si erano allontanati per cercare di catturare qualche animale commestibile: era molto probabile che quello sarebbe stato il loro ultimo pasto visto che il giorno dopo avrebbero dovuto attraversare il deserto di sale racchiuso tra le mura della Rocca Salina. Se tutto procedeva per il meglio entro sera sarebbero giunti ad Aruni, ma non avrebbero trovato nulla da mangiare o da bere lungo il cammino. Arat le aveva insegnato come preparare un fuoco adatto a cucinare e a farlo durare poi anche per tutta la notte come riparo contro le bestie, ma il suo compito era reso più difficile dalla presenza di Katrisha. "Allora, partiremo domani all'alba?" "Sì!" "E quando arriveremo ad Aruni?" "Credo che arriveremo alla Rocca Salina quando sarà ata circa metà della giornata, considerando il tempo che ci vuole per attraversarla arriveremo a destinazione poco prima di sera." "Arat mi ha detto che arrivati ad Aruni si adopererà per trovare una scorta per portarmi a Dibio." "Se Arat ha detto questo vuol dire che è quello che farà. E' un uomo di parola." "Voi invece resterete ad Aruni?" "Più o meno." "Accidenti che risposte caustiche. Non mi sopporti oppure hai un segreto da

mantenere?" "Un po' di tutte due le cose. No! La verità è che sono pensierosa, ma se tu continui a parlarmi non riesco a concentrarmi... e non riesco neppure ad accendere il fuoco." "Io riesco a pensare anche se continuo a parlare. E quali sono questi pensieri così complicati da estraniarti dalla realtà?" "Rifletto su quello che sto facendo." "Accendere un fuoco?" "No. Io sto cercando di prepararmi ad affrontare il mio avversario." Appena Katrisha udì tali parole prestò molta più attenzione alla giovane donna che rimaneva accucciata accanto alla legna accatastata e le parlava senza neppure guardarla. Luna continuò mantenendo un tono dimesso per non far capire a Katrisha che in realtà in quel momento era lei stessa ad essere messa sotto esame. "Il mio antagonista è anche il nemico di tutta Solamia, anche il tuo. Tu conosci il suo nome!" "Cron." A Luna non serviva osservare la giovane donna per capire quello che stava provando in quel momento. La voce di Katrisha rivelava la rabbia che le scaturiva come un vulcano in eruzione, ma Luna percepiva anche l'angoscia con cui tentava di soffocare questo sentimento: non era adirata con Cron perché era il dittatore di tutte le genti, provava invece risentimento verso di lei che lo aveva descritto come tale. Luna aveva intenzione di portarla sempre più vicino alla verità che fino ad ora aveva tenuto nascosta. "Io lo fermerò. Riporterò la serenità in questa terra che ha tribolato troppo tempo a causa di questo essere maligno." "Sei così sicura di te. Quale poderosa arma hai per opporti a Cron che fino ad ora si è rivelato come un essere superiore e onnipotente? Devi disporre certamente di un esercito numeroso ed infallibile."

"Io sono l'arma che lui stesso ha scelto: sono il suo punto debole." "E in tutto questo che ruolo ricoprono Arat e gli altri due? Sono solo i tuoi servitori?" "No... Certo che no... " Luna era confusa. Era confusa perché era spaventata. Era spaventata perché non riusciva a trovare una risposta. Non era un sistema per sviare l'attenzione di Katrisha (che evidentemente era molto interessata ai segreti dell'esercito di Solamia); Luna non riusciva più a trovare, nella porzione del cervello dove le idee e i propositi nascevano e prendevano forma, il disegno che fino ad allora aveva rigorosamente seguito: non vi era più un esercito di diverse genti unito nella lotta contro il male comune. L'idea per la quale aveva abbandonato una vita normale e serena e per la quale molte persone erano morte in quel viaggio non era scomparsa dalla sua persona, aveva solo cambiato di posto e quindi era mutato il suo valore. Era seppellita nel suo cuore in mezzo ai ricordi ed alle cose che si ama ricordare anche se non sono più di vitale importanza. Per molto tempo si era domandata se era giusto quello che stava facendo, poi, presa dagli eventi (e dai risultati ottenuti), aveva dimenticato di pensarci: aveva semplicemente seguito l'onda che aveva preso vita dal primo impulso senza fermarsi ad osservare se stava prendendo la direzione giusta. Ora si guardava attorno e non ricordava più dove fosse. Katrisha era rimasta esterrefatta dall'impudenza di quella sciacquetta. Luna era davvero intenzionata ad uccidere il suo unico amore e creatore! La rivelazione era devastante per il suo delicato e imperfetto equilibrio mentale, ma aveva anche degli aspetti comici: la mutata trovava assolutamente ridicolo che un semplice essere umano potesse arrogarsi il diritto di eliminare la creatura più perfetta che fosse mai venuta al mondo. Cron non poteva morire. Ma la presunzione con cui Luna si credeva superiore al suo signore era un'offesa che andava lavata col sangue; con il sangue di Luna, ovviamente. Katrisha pensò di approfittare di quell'istante, proprio mentre Luna pareva persa nei suoi pensieri. Era facile: la rivale le stava voltando le spalle, era inginocchiata vicino alla legna accatastata e stava cercando di accendere il fuoco. Sarebbe bastato prendere quel legno che era proprio vicino al suo piede, Luna l'aveva scartato perché era troppo grande per ardere prima che il fuoco divame con forza. Ma era ideale per l'uso che ne voleva fare Katrisha, un colpo secco alla nuca e alla vista del sangue di Luna avrebbe ritrovato la serenità.

Katrisha prese in mano il grosso bastone; non pensò se era abbastanza pesante da ferire Luna, non pensò se era capace di infliggere un colpo sufficientemente forte da spaccarle il cranio, non pensò neppure a come giustificare la sua morte di fronte agli altri. Non pensò ma lo fece: la mano si levò sopra la testa, poi il braccio calò con violenza; il sangue rosso e caldo di Luna la annegò nell'estasi suprema di quell'azione liberatoria. Ma visualizzare nella sua testa l'assassinio della donna che tanto odiava era più facile che compiere quello stesso atto nel mondo reale. Le sue dita non riuscivano neppure ad impugnare l'arma che aveva scelto per il suo scopo. Katrisha era rimasta immobile senza poter compiere nessuno dei movimenti necessari per avverare il suo sogno: sentiva di essere capace di muoversi in qualunque direzione ma non era in grado di compiere l'azione che desiderava. Ecco perché Cron rideva di lei quando lo minacciava di uccidere Luna, lui sapeva che Katrisha non poteva farlo perché lui l'aveva 'programmata' in modo che non potesse mai farlo. L'istante che seguì la sua presa di coscienza, Katrisha aveva già dimenticato che aveva provato a mettere in pratica la sua intenzione di uccidere la rivale e che aveva scoperto che per lei era impossibile attuarla. Si ritrovò a pensare, come sempre, che prima o poi l'avrebbe fatto veramente, alla migliore occasione. Luna si voltò e vide Katrisha con lo sguardo fisso su di lei: non la stava realmente guardando, così le prese la mano e riuscì a riportarla dal luogo in cui si era persa. "E tu, Katrisha a cosa pensi di fare?" "Non lo so. Esistere non è sufficiente ma è molto difficile per me credere nel futuro, forse perché non riconosco il mio ato. Come ogni essere vivente vorrei fare la cosa migliore per me, ma per raggiungerla bisogna anche scegliere il percorso corretto... " Il monologo di Katrisha, che sembrava scritto apposta per creare ancora più dubbi in Luna, venne interrotto dall'arrivo degli uomini e dalle parole di Arat. "Ce ne andiamo per poco tempo e già vi troviamo a filosofeggiare. Allora, avete fatto amicizia, alla fine?" Il confronto che le due donne avevano ingaggiato era solo sospeso, entrambe rimasero deluse di non aver potuto approfondire la conoscenza dell'altra e rimasero in silenzio a ragionare sulle risposte ottenute con l'esasperazione di non aver potuto porre altre domande.

I tre cacciatori pulirono le prede dalle interiora e le arrostirono al fuoco, la carne era molto saporita e fece storcere il naso a Katrisha. Mentre Katrisha faceva la smorfiosa con Gor e Sador (lo faceva solo per convincerli che gli era indispensabile che le costruissero la solita tenda per dormire), Luna comunicò ad Arat che aveva trovato il modo per scoprire chi fosse Katrisha e cosa volesse da loro. Ma doveva attendere di giungere alla Rocca Salina e, soprattutto, Arat doveva fidarsi di lei senza chiedere spiegazioni. Arat accettò senza riserve; lo sfavillio che animava gli occhi di Luna aveva una luce più ardente e la novità non lo lasciò stupito, si stava avvicinando la resa dei conti e sicuramente anche lei era stata presa da quel fervore e quell'impazienza che colpiscono tutti i soldati immediatamente prima dell'inizio della battaglia. Si appoggiò a lei incondizionatamente. Quando la notte portò con sé il sonno, tutti (tranne Gor che era di guardia) si distesero nei loro giacigli e Arat accarezzò Luna fino a farle capire che lei era l'unica donna che amava.

Katrisha non dormiva anche se dall'esterno pareva proprio che stesse sognando. Era la seconda sfera di metallo che ingeriva e questa volta la sensazione di soffocamento era molto meno insopportabile. A differenza dalla prima volta aveva la percezione fisica del metallo che si insinuava fino al cervello... così avvenne il contatto.

-Aspettavo una tua chiamata, ma spero che non sia per dirmi una sciocchezza come l'altra volta... questa volta non scamperesti alla punizione. -Non temere, non ti farò perdere tempo. E' molto difficile parlare con Luna, è sempre persa nei suoi pensieri. Alle volte si dispera solo perché degli sconosciuti non comprendono quello che lei vuole fare per loro e altre volte è euforica perché qualcuno le ha dimostrato di apprezzare e condividere i suoi sforzi, ma si tratta solo di fasi che precedono e seguono quelle in cui è scoraggiata. Non avrei nulla da dirti se non fosse che ho potuto parlare con uno degli uomini del gruppo. Si chiama Sador ed è visibilmente attratto da me: questo, unito alla mia sapiente dialettica, mi ha permesso di raggiungere dei risultati.

-Quando hai finito di adularti puoi incominciare con il resoconto dei fatti. -Se non incominci ad essere un po' più gentile non ti dirò un bel niente... -Ma tu non puoi disubbidirmi. Non puoi fare quello che vuoi, tu puoi solo fare quello che io ti permetto di fare. E ora parla. -Luna conosce tuo padre, o meglio è a conoscenza della sua esistenza ma non comprende il suo scopo. Non intuisce le tue trame, ma è conscia che tu la vuoi a Lubra. Non è spaventata di questo ma è molto confusa. Sador è convinto che non sia troppo affidabile ma si rende conto che è molto forte: crede (e non è il solo) che lei possa seriamente minacciare il tuo potere. Mi sembra di aver capito che intendono andare a Nim. Tutto il loro viaggio è stata solo una ricerca di aiuto presso tutti gli abitanti di questo continente. Vogliono veramente formare un esercito per venire a combatterti; non sono ridicoli? -Bene! Per una volta non mi hai deluso. Continua a starle accanto... -Quando verrai a prendermi? Voglio andarmene da qui. Temo che Luna sospetti che il nostro incontro non fosse poi così casuale, forse ha capito che sono una spia. -Credi? Non ti preoccupare, te ne andrai molto presto.

Il ritorno nel corpo non fu piacevole, lo stomaco si ribellava alla presenza del liquido estraneo. Katrisha ò un'altra notte insonne a maledire Luna e tutto quello che essa rappresentava; solo immaginarne la morte violenta le dava un po' di sollievo.

***

Lio aveva raccolto le imponenti ali membranose attorno al corpo, aveva rallentato il respiro e il battito cardiaco preparandosi ad un'altra delle freddissime notti che si alternavano ai giorni infuocati della Caabia. Ma un tuono lo ridestò

da quel torpore. "Mi hai chiamato, Padrone?" "Ordino che vi leviate in volo, dirigetevi verso Aruni. Dovete coprire tutto il cielo di Solamia con le vostre ali nere. Lenti e inesorabili dovete cancellare il sole dal cielo e la speranza dai cuori." "Saremo neri e inevitabili come la Morte." "No!" ruggì il Creatore, facendo impaurire colui che si era appena battezzato 'Morte'. Niente devastazioni, nessun incendio, non attaccherete alcun villaggio o essere vivente di Solamia. Dovete solo volare alle spalle di Luna, dovete seguirla da lontano ma non dovete ancora raggiungerla; voglio che si senta oppressa dalla vostra presenza, voglio che si ricordi di me." Una luce azzurra si irradiò dal Creatore che scomparve in una nuvola di vapore. Lio si apprestò a dare gli ordini alle altre creature anche se era un po' deluso: gli sarebbe tanto piaciuto danzare nel cielo e vedere i focolai bruciare nella notte al suono delle grida di dolore delle genti di tutta Solamia.

***

Luna non riusciva a prendere sonno, aveva visto Arat allontanarsi per dare il cambio a Gor ed era ancora sveglia quando iniziò il turno di Sador. Arat allora la serrò in un forte abbraccio; Luna sentiva il suo respiro regolare e si accorse del momento in cui lui prese sonno, solo allora anche lei incominciò a dormire ma non riuscì a riposare: nonostante la stretta calda e sicura del suo uomo, la mente di Luna venne ghermita e portata in 'volo'. Lei conosceva la mente che la stava guidando e si lasciò andare. Suo padre era seduto su uno scranno di pietra che in realtà era la fortezza di Cron a Lubra; i suoi piedi appoggiavano su Imm, la città che per molti rappresentava un sogno e per altri una menzogna. "Sei così vicina che non devi perderti proprio adesso. Fai attenzione perché la

tua mente è così vasta che potrebbe trascinarti molto lontano. Non temere, io continuerò a guidarti." Ledon le appariva giovane come quando partì da Aruni e le sorrise come ogni buon padre sapeva fare per tranquillizzare la propria figlia. Il sorriso non si spense neppure quando la testa venne spiccata dal collo con un taglio netto e gli occhi continuarono a guardare Luna con orgoglio. Dietro il busto dell'uomo decapitato comparve un cavaliere nero dal drappo rosso, il pugno serrava ancora la spada con cui aveva ucciso Ledon.

Come previsto arrivarono ai piedi della Rocca Salina poco prima che il sole iniziasse ad infuocare l'aria con i suoi raggi più caldi. Di fronte ai cinque piccoli esseri si ergevano le imponenti pareti di sale pietrificato: erano troppo spesse per essere abbattute e troppo alte e lisce per essere scalate con facilità. Alcuni raccontavano di essere riusciti nell'impresa e che erano sopravvissuti al calore infernale del deserto di sale, ma pochi credevano che queste storie fossero vere. Tutti aspettavano che Luna compisse l'ennesimo miracolo e lei non li fece attendere: si perse nei riflessi bianco latte dei cristalli di sale. Fu una strana esperienza quella che accomunò gli uomini e le donne di quel gruppo; era difficile stabilire se il potere che Luna deteneva avesse agito sulla struttura molecolare della parete di sale o su quella delle persone, forse su entrambe. Sembrava che una magica pioggia avesse sciolto i legami che da millenni solidificavano quelle mura, separando le particelle di sale l'una dall'altra. arono attraverso il muro semitrasparente ed ogni granello ava attraverso la pelle, la carne e le ossa. Si ritrovarono dall'altra parte con il proprio corpo immutato e dietro di loro nulla aveva modificato la parete salina. Ma ora avrebbero dovuto affrontare il deserto. La distesa piatta e bianca era circondata dalle alte mura; con lentezza si incamminarono verso Sud. Al di là di quella parete avrebbero trovato il Mare di Savra e, sulla costa, la città di Aruni. Seguirono le impronte lasciate da qualcuno che era riuscito a superare l'altissima barriera (allora qualcuno era riuscito a farcela!), ma in quel luogo nulla accadeva da millenni e quelle orme potevano davvero risalire alla notte dei tempi. Sador pareva sollevato dal fatto che un altro essere umano avesse attraversato quella

spianata ed anche Gor si sentiva più fiducioso. Katrisha non riusciva a vedere nulla di positivo il tutto quello; sudava copiosamente e respirava a fatica. Con grande sforzo riuscì a dire a Luna: "Non potevi far are anche quei maledetti candù, attraverso la parete? Ci saremmo risparmiati questa tortura." "Era troppo faticoso per me pensare anche a loro, ma due i non ci faranno male." rispose Luna seccata, facendo sorridere Arat che pensò a quanto fosse adorabile quando faceva la cattiva. Parevano trascorsi anni da quando erano entrati nella rocca ma il sole era rimasto immobile come se fosse inchiodato al centro del cielo bianco, a testimoniare che il tempo doveva ancora are. Tutti soffrivano per l'elevata temperatura e per la secchezza dell'aria. Luna trovava sempre più faticoso mettere un piede davanti all'altro, ma le sue sofferenze svanivano appena guardava l'elegante Katrisha annegare nel sudore e nella disperazione. Non era più la bambola perfetta ed anche la sua prudenza stava per cedere sotto i colpi del sole martellante. "Perché non fai comparire qualche nuvola per coprire questo dannato sole? Oppure, visto che sei così potente, fai calare direttamente la notte." La rabbia che Katrisha aveva in corpo le permetteva di andare avanti ma la stava anche portando su un terreno pericoloso, ed era lì che Luna la stava aspettando per coglierla in fallo. "Se avessi saputo che avrei dovuto soffrire in questo modo non sarei venuta qui." Le impronte che fino a quel momento avevano segnato la loro strada si interruppero e disteso di fronte a loro trovarono uno scheletro umano bianco quanto la crosta di sale sulla quale era adagiato. Ormai giunta sull'orlo dell'isteria, Katrisha lanciò un urlo le cui vibrazioni fecero dissolvere le ossa in polvere. "Non ne posso più! Io non ci volevo venire qui." Poi una calma improvvisa si impossessò di lei, nessuno parlò e si sentiva il sale che si crepava per il grande calore; fu un attimo di pochi secondi, le due donne si fissarono ed ognuna attendeva che l'altra fe la prima mossa. Katrisha cedette per prima e lo fece in modo plateale e melodrammatico; si avvicinò a

Luna e, dall'alto della sua statura, tempestò la Deoscuridiana con una pioggia di pugni e schiaffi. "E' tutta colpa tua. E' tutta colpa tua! Perché sei venuta? Perché Cron vuole te?" Nessuno di quei colpi inferti con rabbia raggiunsero Luna sebbene lei stesse immobile, poi Luna colpì rapida e precisa affondando il braccio armato con il tali nel ventre della Mutata. L'inutile e scoordinata danza delle mani di Katrisha si fermò e tutto il suo corpo si irrigidì diventando come pietra; usando solo il braccio destro ancora infilato tra le viscere di Katrisha, Luna la sollevò e la scaraventò a terra. La morte non giunse per lo squarcio o per l'impatto con il duro suolo; la crosta di sale si aprì un attimo prima che il corpo la sfiorasse e si richiuse subito dopo cristallizzando in quell'istante l'ultimo respiro della Mutata. La bambola perfetta avrebbe riposato in eterno in quella bara trasparente che permetteva di vedere tutta la sua bellezza, fatta eccezione per quell'antiestetico buco nel ventre circondato da sangue rappreso. Nessuno dei tre uomini fece un fiato; Gor e Sador erano abituati a non fare troppe domande ed Arat sapeva che se Luna l'aveva uccisa significava che non sarebbe servito interrogarla per scoprire qualcosa di più su Cron; dopotutto se lui aveva mandato Katrisha da loro voleva dire che era sacrificabile. Dopo l'accaduto il tempo sembrava correre più velocemente, come se prima seguisse il piano di Luna e si muovesse a rilento per sciogliere la lingua della Mutata. L'attraversamento della parete Sud della Rocca Salina non fu meno emozionante dell'altro. I piedi affondarono nella sabbia e il naso venne stuzzicato dal profumo dello iodio; la spiaggia ampia scendeva dolcemente verso il mare, la spuma bianca che arricciava i bordi delle onde era messa ancora più in evidenza dal contrasto con la sabbia nera di origine vulcanica. Luna riconobbe la voce del mare ed anche il Mare di Savra le disse le stesse parole che udì la sera del suo arrivo a Deos, pronunciate allora dalle onde dell'Oceano di Kesho: "qui sei giunta dopo lunghe sofferenze e da qui dovrai ripartire per andare incontro ad altre." La prospettiva non era allettante ma per il momento si accontentò di essere arrivata fin lì sana e salva. " Quella deve essere la Postazione di Aruni." Arat indicò sulla destra un'alta torre nera arroccata su un promontorio a strapiombo sul mare. Ma Luna non lo stava ascoltando; si era già incamminata in

quella direzione. La torre era a base quadrata, molto più alta degli altri edifici che costituivano l'intero complesso e che si chiudevano in un quadrato attorno al cortile interno. L'intera costruzione sembrava sbocconcellata da qualche strana e immensa creatura; le stanze avevano enormi brecce nelle pareti e in molti punti si potevano vedere le scale interne. Solo pochi muri, oltre a quelli portanti, erano ancora in piedi; infatti la struttura pareva non crollare più in forza di qualche miracolo che per la solidità delle sue fondamenta. Nella Postazione di Aruni (come nelle altre tre posizionate ai quattro punti cardinali, in altre città di mare del continente), al tempo in cui suo padre prestava lì servizio, c'erano gruppi armati appartenenti alle diverse Famiglie ed un reparto di immelici fidati. Questa collaborazione non aveva nulla a che fare con la solidarietà, piuttosto tutti temevano l'arrivo di un nemico esterno al continente e nessuno si fidava a lasciare la difesa dei confini solo ad una delle Famiglie nobili. Ma fu una precauzione inutile contro le armate di Cron. Luna camminava avanti e indietro nella stanza seguendo gli stessi i che, ne era sicura, aveva percorso suo padre nei momenti in cui aveva dovuto prendere importanti decisioni. Dall'alto della torre Luna guardò attraverso il foro che aveva ampliato la finestra e che dava sul mare; il golfo a mezza luna si stringeva attorno alla piccola isola di Wiki, dove il vulcano ormai spento rappresentava l'ingresso al mondo di Nim; al di là dell'anello di terra si allargava verso l'orizzonte l'Oceano di Savra, nero e misterioso sotto un cielo stellato. Scendendo le scale a chiocciola della torre, Luna fece un incontro tanto inaspettato quanto gradito. "Danur! Non pensavo di trovarti già qui." Il Deoscuridiano si era lasciato crescere una folta barba dalla prima (e unica) volta che si erano incontrati, due ciocche di peli bianchi invecchiavano il suo aspetto ancora giovanile. "Ad essere sincero neppure io credevo di giungere qui tanto presto, ma sono avvenuti cambiamenti tanto radicali quanto inaspettati: sono giunto qui da Samboa con una nave, però parleremo di questo più tardi. Ora è meglio che tu e i tuoi amici vi facciate un bel bagno e mangiate qualche cosa." Danur aveva ragione, Luna si sentiva fortificata dopo essersi lavata e dopo il

semplice ma caldo pasto. Anche gli altri parevano rinati, l'attraversata del deserto di sale li aveva spossati più di quanto si fossero resi conto. "Mi è dispiaciuto non averti incontrato ad Erser, Luna, ma mi hanno riferito che Enroe si è comportato da ottimo padrone di casa." "Ha fatto molto più di questo visto che mi ha anche salvato dai Mutati dalle sembianze umane che mi avevano rapito." Luna non voleva in nessun modo sottolineare il fatto che Arat aveva invece mancato nella sua missione, ma il guerriero lesse questo nelle parole di Luna e ne soffrì molto. "Bengar mi ha parlato di un certo Capo Ombra... " "Sì! E' colui che ha creato i mostri neri che hanno annegato Deos e bruciato Samas. Combatte una guerra molto personale contro Cron." "Allora non riesco proprio a spiegare la decisione di Cron di richiamare tutti i Mutati umanoidi... " "Spiegati meglio! Cosa è successo e come hai fatto a trovare una nave a Samboa?" "Quando sono tornato ad Erser, voi eravate già ripartiti. Abbiamo organizzato una spedizione per vendicarci del massacro ai danni di Gangi e del suo gruppo, ma quando siamo giunti a Reka non abbiamo trovato neppure uno dei Mutati giunti da Lubra per rapirti. Erano ripartiti in fretta e furia, avevano addirittura abbandonato una delle loro navi. Avevano aperto una falla nello scafo ma non era un danno troppo grave, evidentemente anche quello era stato fatto in velocità e con poca perizia. Abbiamo riparato la nave e siamo scesi lungo il Grande Fiume. Inizialmente credevamo che si trattasse di una trappola e che i Mutati ci attendessero poco più a valle, pronti ad attaccaci. Invece abbiamo raggiunto l'Oceano del Sud senza incontrare nessuno. Ci siamo riforniti di viveri ed abbiamo deciso di rischiare e di proseguire la navigazione seguendo la costa e puntando verso Est. Così facendo siamo arrivati fino a Samboa. Giunti al porto i pochi esseri umani che erano rimasti ci dessero che un'intera armata di 'Mutati che assomigliavano a uomini' era partita la mattina di quello stesso giorno.

Capite? Cron teneva in pugno i principali porti di Solamia, avrebbe così potuto renderci la partenza per Lubra molto difficile, ma si è ritirato." Arat e gli altri uomini avevano apostrofato la fine di questo discorso con frasi che svelavano il loro stupore e la loro incredulità: come poteva Cron, il demone che aveva soggiogato per tanto tempo l'intera Solamia, compiere delle scelte tattiche così scellerate? Luna invece, che non si intendeva affatto di tattiche militari, non si stupì affatto e spiegò ai suoi uomini quello che l'istinto (o il potere) le suggeriva. "Cron sa benissimo che i suoi Mutati non possono competere con le ombre divoratrici di Capo Ombra, era quindi inutile tenerli qui, in attesa che suo padre scegliesse un'altra città da distruggere, magari proprio Reka o Samboa." "Questo è vero, ma..." Arat le stava parlando come un adulto che tenta di spiegare 'cose troppo difficili' ad un bambino. "... non devi dimenticare che lui deve anche difendersi da noi, e togliere i presidi dai principali porti del paese non è esattamente quella che si dice una buona mossa." "Ho inviato alcuni uomini anche a Kumit, ma sono pronto a scommettere che anche lì troveranno covi di Mutati abbandonati in tutta fretta." "Forse sta richiamando le forze verso Lubra. Forse vuole concentrare lì tutte le forze per combattere il nostro esercito." L'ipotesi di Sador (che perdeva sempre tutte le occasioni per stare zitto) fece spazientire Arat che gli rispose bruscamente. "Non è una tattica vincente, Cron avrebbe dovuto invece aumentare la sorveglianza su quelle città e cercare di impedirci di salpare verso Lubra... " "Ma Cron vuole che noi arriviamo a Lubra. Anzi vuole che io ci arrivi, al più presto." La risolutezza delle parole di Luna spiazzò Arat che rimase senza parole. Infatti fu Gor a fare la domanda che tutti volevano porle. "Ma allora perché vuoi fare una cosa di cui non solo Cron è al corrente, ma fa addirittura parte dei suoi piani? Perché vuoi andare da lui?"

"Perché è lì che avverrà l'Adunanza ed è lì che tutto si concluderà." Luna non aveva scelto quelle parole: la frase le era scivolata fuori dalla bocca come se fosse lì da tanto tempo ad aspettasse di uscire. Luna prese conoscenza (e coscienza) di tutto questo nell'istante in cui pronunciò quelle parole che pesavano come una condanna: come una condanna perché erano altrettanto inevitabili. Neppure per gli uomini che l'avevano seguita fino lì era facile accettare un simile fatto: addentrarsi nella tana del nemico sapendo che questo era proprio ciò che quest'ultimo voleva. Luna chiedeva a loro un atto di fede e come tale doveva essere dato senza meditare sui pro e contro e senza cercare di razionalizzare l'evento. Ma non era forse stato così fin dall'inizio? Non era stato forse un atto di fiducia abbandonare Deos per inoltrarsi nel continente di Solamia infestato dai Mutati? Non era stato forse un atto di fede il fatto di aver accantonato tutte le morti che Luna aveva causato (anche se non per volere suo) per continuare a seguirla? Luna era il loro credo e la loro religione e come suoi adepti non avevano fatto altro che osservarla senza pretendere reali spiegazioni e senza chiedere segni tangibili della sua vera forza. Come suoi fedeli avrebbero continuato a seguirla trascinando con loro l'intero popolo di Solamia. Quella era la sera delle decisioni, così si stabilì che Luna doveva raggiungere Nim, scortata da Arat, per ottenere la partecipazione dell'ultima Famiglia all'alleanza. Danur contava di poter usare la loro flotta per portare a Lubra il suo esercito: gli immensi mercantili di legno che erano sopravvissuti alla forza dei Seluvi in quanto immuni al cancro che aveva distrutto la flotta di navi in metallo di Samas. Sperava di poter trovare il punto esatto in cui sorgeva Lubra grazie alle mappe nautiche chiuse negli archivi di Nim, e soprattutto con l'aiuto dei punti di riferimento che Luna aveva carpito ai Mutati che aveva incontrato nella Foresta Greetes. Gor e Sador sarebbero rimasti ad Aruni ed avrebbero aiutato Danur e i suoi uomini a gestire la raccolta degli uomini che, una volta istruiti a dovere, avrebbero dato corpo all'esercito di Solamia. Quella fu per Luna un'altra di quelle notti in cui il sonno era turbato da presagi e i sogni erano sempre più simili a visioni. Aveva chiuso gli occhi ma sentiva ancora nelle orecchie le parole che aveva pronunciato: con l'Adunanza si concluderà il suo viaggio. Il senso di tale concetto non era così evidente e perciò non riusciva a raccogliere la pace necessaria per addormentarsi. Teneva gli occhi chiusi ma era fin troppo sveglia e la sua mente si arrovellava a pensare. Quando

aveva sentito per la prima volta la parola 'Adunanza', essa era stata pronunciata da Cablam, o meglio dall'apparizione di Cablam che le era giunta in sogno dopo che lui era morto. A quel tempo aveva liquidato la faccenda pensando che lo spettro si riferisse all'alleanza di tutte le genti di Solamia, ma già allora temeva di mentire a sé stessa. Ora era certa che non si trattava di questo, sapeva che l'evento si sarebbe svolto a Lubra ma non era più certa che l'esercito, che ormai aveva incominciato a prendere corpo, entrasse a far parte di tale avvenimento. L'Adunanza riguardava lei e, nella visione che aveva del futuro, non riusciva a ritrovare al suo fianco né Arat né le persone che aveva incrociato lungo il percorso che aveva compiuto fino a quel momento. Ma con chi allora doveva aggregarsi? E perché a Lubra?... Luna non era più sicura che i fatti si sarebbero svolti come aveva sempre immaginato fino a quel momento e non aveva più la visione della conclusione di tutto quello che era incominciato molto prima della sua nascita. I dubbi si nascosero tra le immagini dei sogni e il sonno confuse ciò che lei aveva finalmente compreso con quello che aveva paura di abbandonare. La mattina giunse come un incubo per Luna, che non aveva dormito abbastanza. Temeva di incontrare Arat perché non voleva leggere nei suoi occhi la devozione e il rispetto che lui provava per la donna che aveva saputo unire tutta Solamia sotto un unico ideale; quella era la donna che si era coricata la notte precedente ma non era più sicura che si trattasse della stessa che si era alzata quella mattina. Invece fu proprio il viso di lui che le dette il buongiorno dopo averla baciata sulla fronte. Luna non aveva neppure il cuore di piangere tanto si sentiva colpevole, ma riuscì a nascondere le sue angosce (più e sé stessa che a lui) perdendosi nell'abbraccio apionato che, senza parlare, richiese ad Arat. Fu lui a liberarla dagli incubi che non la lasciavano in pace anche se ormai si era fatto giorno. "Oggi è una giornata storica. Non siamo mai stati così vicini alla meta. Pensa, Luna, finalmente realizzeremo il sogno di sconfiggere Cron: tu sei nata per realizzare questo ed io ho l'onore di essere con te in questo momento straordinario. Ora non pesano più tutti i morti e le sofferenze che ci siamo lasciati alle spalle perché tutto quello che è accaduto doveva accadere per far sì che noi oggi fossimo qui, ad un o dalla vittoria." Le parole di Arat infervorarono Luna che in quel momento aveva bisogno di sentirsi dire quello che doveva fare. Forte delle idee di Arat scacciò i pensieri che nuovamente si affacciavano alla sua coscienza e si rese conto che era

ridicolo tornare sui propri i quando era arrivata già a quel punto: da quel momento doveva sforzarsi di far tornare tutto apposto, come era prima. L'idea di dover allontanarsi da Aruni la confortava; i preparativi per il raduno dei soldati, che presto sarebbero giunti da ogni parte del continente, metteva a dura prova il suo proposito di continuare a considerare tutto quello che aveva fatto come assolutamente giusto. Sentiva di non essere più fedele a ciò che sentiva dentro, ma si sentiva in debito con quelle persone e rimase con la sola certezza che era necessario che lei li aiutasse a proseguire su quella strada che proprio lei aveva contribuito ad ideare. Perciò si preparò con molto entusiasmo a raggiungere Nim: voleva credere di essere ancora utile alla causa di Solamia e voleva nello stesso tempo dimenticare che nel buio di tutti i suoi dubbi aveva intravisto la luce che le disegnava il progetto risolutivo dell'Adunanza. Scappò per non restare da sola contro il male che la stava cercando per battersi con lei. La sabbia nera era rilucente di bagliori cristallini accesi dal sole del mattino, il mare rinchiuso tra le braccia della scogliera era trasparente e lasciava vedere il fondale di roccia vulcanica. Era stato il vulcano Wiki che durante la sua fase eruttiva aveva creato l'isola che prendeva il suo nome e le rocce che la circondavano. Quando il fuoco delle sue viscere si spense definitivamente nulla poté opporsi all'opera erosiva delle acque, così si crearono la spiaggia e il golfo che chiudeva il Mare di Savra come fosse una piscina. Luna e Arat osservavano dalla spiaggia il vulcano che affiorava dal mare, il suo profilo aguzzo e frastagliato lo faceva sembrare uno spruzzo d'acqua solidificato per l'eternità. Quel cono nero era l'unico ingresso conosciuto per raggiungere la città sommersa di Nim. Il ponte di pietra candida che collegava l'isola agli scogli era stato distrutto al tempo della prima ondata di Mutati. In seguito era stata costruita una rudimentale funivia: una cassa di legno, che portava due eggeri alla volta, scorreva a mezz'aria su corde ancorate ai pilastri del ponte abbattuto. Ma anche quel mezzo era stato abbandonato dopo diversi incidenti. Non era pensabile attraversare il breve tratto di mare a nuoto o con le piccole imbarcazioni che c'erano al porto perché i Seluvi (presenti lungo tutte le coste del continente) li avrebbero certamente attaccati. Arat però non si preoccupava; infatti Luna risolse subito il problema, come sempre a modo suo.

"emo la funivia." Le pupille nere si erano già affilate nell'ellisse graffiante, il ribollio insolito che cominciò a tormentare l'acqua era un chiaro segnale che di lì a poco Arat sarebbe stato testimone di un altro prodigio della Feteh. Le corde marcite dal tempo e dalla salsedine uscirono dall'acqua e si sollevarono tendendosi tra i resti del ponte di pietra; la cassa di legno emerse carica di alghe e mitili. Dopo che ebbero preso posto su quel relitto traballante, la carrucola incominciò a girare e la cassa scricchiolante iniziò a muoversi; nessuno stava azionando il meccanismo e più volte le ruote di metallo che scorrevano sulla corda tesa galleggiarono nel nulla là dove un pezzo della fune era rimasto sul fondo del mare. Arat fu davvero lieto di scendere da quel trabiccolo; anche se si fidava dei poteri di Luna l'attraversata sulla funivia fantasma era un'esperienza troppo assurda per un tipo realistico come lui. Salirono le pendici del vulcano e raggiunsero la sommità; da lì si vedeva il Mare di Savra che con il suo fondale nero legava l'isola di Wiki al continente e, dalla parte opposta, l'acqua blu cobalto dell'Oceano di Savra era impreziosita dalle enormi perle di vetro che racchiudevano la città: alcune bolle emergevano per metà al di sopra della superficie ma più numerose erano quelle che si perdevano nelle profondità oceaniche. Al centro dell'isola si apriva il cratere nero che un tempo era stato la bocca del vulcano. Camminarono sul tappo di lava ormai solidificata che aveva chiuso per sempre quell'enorme bocca e poi si inoltrarono nelle gallerie nascoste nella roccia lavica. Un tempo attraverso quei canali scorreva, rosso e ardente, il magma; Arat e Luna trovarono solo il tiepido calore che ancora riscaldava il cuore del vulcano. Quattro soldati, due uomini e due donne. Facevano la guardia all'ingresso della città; erano in piedi ai lati di una spaccatura della roccia attraverso la quale si vedeva l'oceano. Da quella distanza non si riusciva a capire come mai l'acqua non irrompesse prepotentemente nella galleria, ma una volta più vicini i due si accorsero che un grosso tubo di vetro, che scendeva in profondità, era stato fuso ermeticamente con la roccia formando una specie di oblò. Era stupefacente, attraverso quella finestra sull'oceano facevano capolino i pochi pesci che ancora sopravvivevano agli attacchi dei Seluvi, ma più stupiti di loro erano i guardiani della porta che non si mossero finché Arat e Luna non furono che a pochi i da loro. Il loro comportamento era comprensibile visto che da anni nessuno più era arrivato a Nim dal continente; Arat e Luna sollevarono le mani e ne mostrarono i palmi per mostrare che erano pacifici (anche se Arat aveva ancora

la demo allacciata al fianco). Ripresisi dallo stordimento iniziale i soldati li invitarono con fermezza ad entrare: due di loro li accompagnarono dal loro superiore, uno rimase di guardia e il quarto corse subito a chiamare rinforzi: se erano arrivati in due nulla poteva escludere che ne arrivassero degli altri, magari con intenzioni bellicose. La donna precedeva e l'uomo continuava a puntare la lancia verso i due estranei, ma non vi era l'ombra dell'aggressività nei suoi occhi. Entrambi avevano i capelli tanto neri da avere riflessi verdastri, ma molto più affascinanti erano i loro lunghi occhi a mandorla con le iridi che rubavano i più bei riflessi verdazzurri ai colori dell'oceano. "Benvenuti. Spero che la marea che vi ha condotti qui non vi intrappoli negli scogli, così sarete liberi di seguire le correnti che vi mostreranno la via per ritornare nell'oceano." Ad un orecchio che ignorava il complicato senso della lingua (e della cultura) di Nim, questa frase poteva sembrare un caloroso invito ad andarsene il prima possibile; in realtà traducendo dall'arzigogolato Nimnos la frase di benvenuto diceva pressappoco: 'spero che non siate arrivati qui per cose poco gradevoli (per voi e per noi) e vi auguro di ripartire in serenità e arricchiti di nuove gioie'. L'uomo che li aveva accolti era Nutus, il cerimoniere. Era un uomo magro e indifeso ma alle sue spalle c'erano sei uomini armati e impettiti nelle loro sfarzose divise militari. Arat e Luna vennero accompagnati negli alloggi per gli ospiti ed invitati a rinfrescarsi e riposarsi. "Rierò io più tardi per condurvi dal Comitato." Nutus si congedò facendo un profondo inchino ma serrò a chiave la porta dietro di sé ed Arat era sicuro che le guardie che li avevano scortati fin lì erano rimaste a piantonare l'ingresso. Arat osservò la porta che si era appena chiusa e poi rivolse uno sguardo beffardo a Luna. "Lo sai anche tu perché ci hanno chiuso dentro. Hanno paura, come l'hanno avuta anche tutti gli altri che abbiamo incontrato. Ma noi li salveremo dai loro stessi timori così potranno difendersi da Cron." Era incredibile come con il trascorrere del tempo Arat si fosse sempre più apionato ad un'idea che inizialmente aveva apertamente deriso, ma era terribile la sensazione che Luna aveva di perdere ogni interesse per l'impegno

che si era presa di fronte a Lòren, sua madre, e di fronte alle persone con cui aveva parlato e infine convinto. La sua idea di dimenticare i dubbi e di seguire ciecamente il disegno fino ad allora elaborato non era servita a molto, ogni cosa che faceva cominciava a perdere di significato. Ma andava avanti lo stesso, non fosse altro per quello che leggeva negli occhi di Arat ogni volta che lui la guardava: quando si specchiava negli occhi verdi di lui Luna si vedeva proiettata nella giusta direzione, alla testa dell'esercito di Solamia. Ma non era la stessa cosa che vedeva quando timidamente cercava di ritrovarsi nel più profondo del proprio cuore. Era allora che cercava l'oblio tra i baci apionati di Arat: lei aveva bisogno di quelle certezze che solo lui poteva darle. Lo stava usando come ancora di salvezza e più si fidava dell'aspirazione di quell'uomo più restava incatenata a quella realtà delle cose. Non fu semplice richiamare all'ordine Arat che, eccitato per la prevista conclusione favorevole (era sempre più ottimista), voleva festeggiare in anticipo proponendo a Luna di fare un lungo bagno insieme. Luna fece molta fatica a spiegare che non era cortese comportarsi in quel modo, soprattutto in una città come Nim, dove la correttezza morale e il comportamento controllato erano di vitale importanza; inoltre non sapevano quando Nutus avrebbe fatto ritorno. Curiosando per la camera con addosso solo il telo con cui si era asciugata, Luna scoprì un armadio colmo di abiti femminili di tutte le taglie e di tutti i colori: era un chiaro invito dei loro ospiti di godere di tutte le comodità, d'altra parte era anche una forzata richiesta di adeguarsi allo spirito e al costume che vigeva in quel luogo. Luna indossò un abito blu che le fasciava la vita, ma nascondeva le curve del suo corpo e soprattutto celava ogni centimetro della sua pelle. Anche le mani erano coperte dalle maniche dalla lunghezza sproporzionata. Era così che tutte le donne di Nim si vestivano, la bellezza non poteva così diventare una colpa e le imperfezioni non offendevano nessuno. Quando Luna si guardò allo specchio non vide nessuno dei segni che in diverse occasioni si erano impressi sul suo corpo a testimonianza della maturazione della sua anima. Solo le cicatrici lasciate sul viso dagli uncini di tali parlavano delle traversie che aveva incontrato lungo il percorso, ma più di tutto erano i suoi occhi a spiegare quanto fosse cambiata. Voltò immediatamente lo sguardo quasi le ripugnasse la nuova immagine di sé. Uscì dalla camera irrompendo nel salotto che aveva in comune con Arat e fu contenta di non aver bussato come la buona educazione avrebbe richiesto in una

simile circostanza; se l'avesse fatto si sarebbe persa la visione di Arat, ancora umido del vapore del bagno, coperto solo da un piccolo telo legato alla vita. Improvvisamente Luna desiderò che Arat si fe avanti e che le togliesse l'abito di dosso, ma lei stessa lo aveva rimproverato solo qualche attimo prima per aver proposto la stessa cosa; sicuramente il guerriero non avrebbe commesso lo stesso 'errore' una seconda volta. Purtroppo. Lei sentiva il bisogno di un contatto fisico visto che continuava a sentirsi sempre più lontana da lui e da tutto quello che la circondava. Luna scelse un abito anche per Arat che non fece troppe storie per addobbarsi come un perfetto gentiluomo di Nim, ma pretese di portare al fianco la sua fedele demo. Nutus arrivò in quel momento. Prima di entrare bussò alla porta che dal corridoio introduceva nel salottino in cui c'erano Luna e Arat, ma fu un puro atto di cortesia condito da una certa dose di ipocrisia: i due ospiti non potevano in alcun modo impedire l'ingresso del cerimoniere perché la porta era chiusa a chiave dall'esterno. Dopo aver fatto scattare la serratura, Nutus fece il suo ingresso sfoderando il migliore dei suoi sorrisi di circostanza ed invitò i due stranieri ad un giro turistico per la capitale sommersa. Anche Arat aveva capito che era un invito al quale non potevano rifiutare; era chiaro che appena fossero usciti un gruppo di soldati fidati si sarebbe introdotto nelle loro stanze e avrebbe perquisito le poche cose che si erano portati da Aruni: anche Nutus sapeva che loro sapevano e nonostante questo il gioco delle parti andava rispettato; 'la forma innanzitutto' era l'imperativo assoluto. Nim, prima della Soppressione, si considerava la più bella e ricca città di Solamia, ed effettivamente la realtà dei fatti non andava molto lontano da questa convinzione. I Nimferidiani erano convinti di essere il popolo eletto, al di sopra di tutti (ma questa era l'idea che tutti gli appartenenti alle Famiglie avevano nei propri confronti). Avevano fissato canoni di ricchezza e bellezza che consideravano universali, ma che corrispondevano, non a caso, a ciò che loro possedevano. Ricco era chi possedeva vistosi bracciali e collane con centinaia di fili di perle (indossati sia da uomini che da donne, anche se in maniera leggermente diversa) e soprattutto che poteva vantarsi di avere in casa il posto per esporre enormi statue in pietra o in leghe metalliche e dipinti che occupavano intere pareti. Bello era l'occhio chiaro, di tutte le tonalità di colore che ricordavano il mare, i capelli lisci, lucidi e neri, con un leggero riflesso tendente al verde. E i Nimferidiani erano proprio così, con i corpi esili e aggraziati e i visi tanto delicati da mettere seriamente in difficoltà lo straniero che cercava di distinguere gli individui di sesso femminile dagli individui di

sesso maschile. Ad essere sinceri non era semplice neppure riconoscere un individuo dall'altro visto che i tratti somatici si erano uniformati e armonizzati in un unico tipo. Ma anche in questo paradiso era calata la mano di Cron. Con la cessazione del commercio, unica fonte di guadagno per Nim, e con il seguente isolamento dal resto del mondo le cose cambiarono radicalmente: le pietre e i metalli grezzi non potevano più raggiungere i laboratori degli artigiani della città e neppure i prodotti alimentari coltivati nelle terre a Est del Grande Fiume riuscivano più ad arrivare sui banchi dei mercati cittadini. Eppure la mentalità della Famiglia Nimferidi non si fece abbattere da questo stravolgimento, semplicemente cambiò la moda: divenne raffinato ed esclusivo adornarsi con gioielli semplici e sottili (sempre in vista, sopra ai lunghi vestiti) ed era molto più elegante possedere in casa miniature di diversi materiali piuttosto che pesanti e gigantesche sculture. Per sopravvivere il popolo subacqueo si era convinto che tutto ciò che prima era benessere era diventato obsoleto ed aveva incominciato a considerare le restrizioni alle quali erano costretti come ad un migliore atteggiamento nei confronti della vita. Luna però riconosceva nei sottili bracciali chiusi con una sola perla le privazioni alle quali i Nimferidiani erano costretti. Altero, sicuro e distaccato il popolo di Nim non voleva ancora riconoscere che la loro civiltà era stata schiacciata. Anche l'atmosfera nella sala del Comitato era pregna di miope superbia: i Nimferidiani avevano distorto le parole ed avevano letto la storia accaduta con gli occhi di chi non voleva vedere. Sembrava quasi che rinnegassero la miseria in cui vivevano come se le ristrettezze non colpissero chi non ne riconosceva i sintomi; erano così risoluti nel plagio che perpetuavano nei propri confronti che avevano adattato le abitudini alle necessità in modo che sembrassero libere scelte: anche la magrezza eccessiva, dovuta all'unico pasto che potevano permettersi, era considerato una scelta di vita e di rango. Per fortuna il Comitato non negava che la presenza di Cron era un male dal quale era auspicabile liberarsi e pur non entusiasmandosi eccessivamente per la notizia dell'alleanza tra i diversi popoli di Solamia non si tirò indietro, anche se mantenne una sua personalissima interpretazione di adesione all'accordo. I termini erano chiari: i Nimferidiani avrebbero dato immediatamente l'autorizzazione a ristrutturare le navi della flotta per utilizzarle nella battaglia ed avrebbe anche messo a disposizione di Luna i migliori cartografi per aiutarla a riconoscere sulle mappe navali il punto in cui era ubicata Lubra, ma si

rifiutavano categoricamente di scendere personalmente sul campo di battaglia. Luna accettò tutte le condizioni sperando che Arat non intervenisse con delle obbiezioni. Quando entrambi uscirono dalla sala e si ritrovarono da soli nelle loro stanze Arat non perse un minuto e sbottò. "Come hai potuto accettare una simile condizione? Perché ti sei arresa subito e non hai cercato di convincerli a partecipare attivamente all'impresa?" "Abbiamo ottenuto le navi che ci servivano ed abbiamo il permesso di usare le loro carte nautiche. Non è forse tutto quello che volevamo da loro?" "Loro hanno paura di combattere perché in guerra si deve essere sempre disposti a morire. Hanno paura di continuare a vivere nell'incubo che Cron ha loro riservato fino adesso, ma hanno ancora più paura di svegliarsi e di ribellarsi." "Allora hanno appena concluso il migliore affare della loro vita: se vinciamo saranno anche loro a beneficiare della morte di Cron, se perdiamo per loro non cambierà nulla e continueranno ad accontentarsi di questa vita fino alla morte." Arat era esterrefatto, guardò Luna come se non l'avesse mai vista prima di allora e lei ritrovò in quello sguardo il guerriero che a Deos suggeriva al buon Sargon di liberarsi di lei al più presto. "Sembra quasi che approvi un simile comportamento." "Non lo approvo affatto, ma cerco di vedere le cose dal loro punto di vista. Non hanno una tradizione nell'arte della guerra, addirittura ai tempi della loro massima ricchezza le navi che erano il fulcro del commercio erano guidate da Immelici ed anche i soldati che le proteggevano dai pirati non erano di Nim. Hai visto le guardie che ci scortano, sono dei manichini con delle belle divise ma non sono dei guerrieri." Arat continuava ad avere la rabbia e la frustrazione scolpite sul suo adorabile viso. Luna cercò ancora di convincerlo a lasciare perdere. "Loro non ci servono, non sanno combattere. Le navi di Nim saranno condotte da equipaggi formati da tutte le razze e porteranno a destinazione il numeroso esercito che già si sta muovendo per tutta Solamia." La notte entrambi dimenticarono le strategie militari e i problemi di etica e di

giustizia. Erano solo un uomo ed una donna stretti in un saldo abbraccio. Ormai avevano imparato a conoscersi: le carezze di entrambi si insinuavano in luoghi che, certamente, avrebbero gradito l'interessamento. I corpi scivolavano l'uno sull'altro e si cingevano e si penetravano in un costante e armonioso unico movimento. Quando il sonno li colse abbracciati, i due amanti si separarono, ma solo nel mondo onirico: Arat si sentì forte e impavido guerriero, mentre lottava contro un Cron più ombroso che mai; Luna si ritrovò sedotta ed amata da un avversario ancora più pericoloso, Cablam. La mattina successiva Luna appariva turbata: quando Arat ne chiese il motivo lei minimizzò e disse che non era niente. La verità era che non voleva dare voce alla terribile sofferenza che l'aveva colta: aveva tradito Arat: non era solo un tradimento tra amanti ma soprattutto era un inganno nei confronti del suo compagno d'armi. Sentiva di aver fallito e di non essere degna di tutta l'ammirazione che le dimostravano le persone a lei vicine. Più tardi Arat abbandonò la città sommersa lasciando Luna da sola. Non fu facile convincerlo che lei non correva alcun rischio, ma alla fine il buon senso prevalse; Arat doveva informare Danur dei nuovi sviluppi e seguire i lavori per riportare la flotta nelle condizioni di attraversare l'Oceano di Savra. Luna salutò il suo uomo con una strana sensazione nel cuore, era serena come non lo era più stata da qualche tempo e sentiva che la lontananza di Arat le alleggeriva il cuore di un peso che era diventato col tempo sempre più gravoso; anche se questa nuova sensazione la rendeva indifesa lei si sentiva finalmente libera.

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CAPITOLO 18

Luna scoprì in sé un nuovo entusiasmo. I dubbi che le avevano dilaniato la mente e che avevano in parte intaccato il sincero rapporto che la legava ad Arat parevano dissolti, anzi sembrava non fossero mai esistiti. Il suo nuovo compito la prendeva totalmente e lavorava per ore senza dare segni di cedimento. Rimaneva a lungo chiusa nella stanza che il Comitato le aveva messo a disposizione per consultare le carte nautiche, ma l'isolamento non le era pesante. In parte sicuramente ciò era dovuto al fatto che la sala che occupava, insieme ad alcuni dei più eminenti cartografi di Nim, si trovava nella zona più alta della città e cioè in una delle sfere che affioravano dall'acqua: in questo modo potevano sfruttare in maniera ottimale la luce del sole che ogni ora risplendeva nella stanza dotata di pareti di vetro trasparente. Ma soprattutto era pervasa nuovamente dalla stessa vitalità che l'aveva spinta ad intraprendere il lungo viaggio, ed ora questa energia era incanalata nella ricerca della reale e precisa ubicazione dell'isola di Lubra. Luna aveva decantato a memoria le parole che aveva udito pronunciare ai Mutati nella Foresta Greetes: era solo una poesia senza alcun significato per lei ma i cartografi annotarono diligentemente ogni sillaba, ogni dato. Poi gli uomini di Nim cominciarono a confrontare diverse mappe, anche quelle disegnate da altri popoli navigatori, a ricavare rotte, a calcolare distanze ed a comparare i risultati. Quando questi erano incerti (quasi sempre) e le probabilità evidenziavano due o più possibilità allora interveniva Luna: seguendo nozioni di nautica che non sapeva di possedere e soprattutto basandosi sul suo istinto ritrovato guidava la scelta verso questa piuttosto che quella soluzione. Dopodiché si ricominciava tutto da zero tenendo conto dei risultati ottenuti per vedere se ritentando si otteneva il medesimo esito. Quando il cielo si scuriva e la luce non era sufficiente per riconoscere i numeri e i segni sulle cartine, allora e solo allora si rassegnava a sospendere la ricerca, ma soltanto fino all'alba del giorno dopo. La notte però non le portava il sonno che le avrebbe permesso di dormire, prese così l'abitudine di girovagare per la città. Si rese conto che quasi tutti gli abitanti di Nim soffrivano della medesima insonnia: invece di perdersi per vicoli solitari si ritrovò a eggiare per strade animate di gente che continuava a vivere ed a lavorare seppure con i limiti dati dall'illuminazione artificiale. Alcune volte si accorse di essere seguita: erano sicuramente uomini mandati dal Comitato che voleva conoscere in ogni momento dove fosse e cosa stesse facendo. La cosa

non la disturbava e non si sentì in trappola. In molti casi invece Nutus si offriva di accompagnarla nel suo vagabondare per guidare i suoi i: non vi era nulla di repressivo in questo, ma solo un solido orgoglio nazionale e un naturale piacere nel mostrare le bellezze della propria patria cercando forse innocentemente di celare le parti di cui andava meno fiero. Durante una di queste sere Nutus la accompagnò nel luogo che lui aveva chiamato 'la Sala delle Stelle Oceaniche'. Così l'uomo guidò Luna nella parte bassa della città, cioè quella che più si inabissava nelle oscurità marine. Dopo aver sceso una scala stretta Luna si ritrovò in una sfera così piccola che il buio, costretto in uno spazio così angusto, diventava quasi palpabile. Nutus si mosse nel fruscio delle sue vesti e sollevò la tenda che copriva le parete di vetro. Grande fu lo spettacolo che quell'uomo spalancò di fronte a Luna. In quella notte acquatica brillavano stelle dalle forme più svariate e dai movimenti aggraziati: là dove il buio si era solidificato nella roccia nera dei piedi del vulcano crescevano piccole piante dai fusti sinuosi che accarezzavano dolcemente il mare con le loro dita luccicanti. I coralli dagli scheletri luminescenti incrostavano la pietra ricamando l'oscurità. Dove le notte era acqua e i venti erano correnti oceaniche, infiniti e infinitesimi pesci e crostacei danzavano di mille vibrazioni e si spostavano come pigre stelle comete.

La costruzione di una nuova teleferica che potesse riallacciare Nim alla terra (e i Nimferidiani all'alleanza con le altre Famiglie) proseguiva di pari o con i lavori nei cantieri navali. Ma Luna non sembrava molto interessata a questa parte del piano. Era concentrata solo ed esclusivamente alla ricerca di Lubra sulle cartine che, nella zona in cui avrebbe dovuto sorgere la malefica isola, portavano scritte in diverse lingue ma tutte con lo stesso significato: 'zona inesplorata'. Scoprire l'ubicazione di Lubra era diventata una questione personale, che esulava da tutto il resto. L'impegno di Luna nello studio spaventava anche i cartografi di Nim. Noti in tutto il mondo per il loro morboso attaccamento al lavoro furono contenti di poter approfittare di un giorno di festa nazionale per godere di una pausa e riprendersi dai giorni di estenuante ricerca, chinati sulle mappe blu e bianche. L'inattività non giovava affatto all'animo di Luna, si sentiva oppressa da tutto il tempo che aveva e le pareva di perdere attimi preziosi perché non aveva nulla da

fare. Così quel giorno la sua eggiata era più simile ad un nevrotico vagare piuttosto che ad un quieto bighellonare, come se la mancanza dell'impegno vitale 'trovare Lubra' non le permettesse di sopravvivere. E pensare che una volta, nella sua altra vita (come poteva diversamente chiamare il periodo in cui aveva preso il nome di Narciso?), era stata sempre molto felice di avere dei periodi di tempo in cui oziare, senza incontrare gli amici e senza interessarsi alle sue letture preferite. Ma non era necessario risalire a tempi così lontani, era ancora vicino il ricordo di quando desiderava non avere nulla da fare (ad esempio salvare un popolo da un dittatore) per permettersi di are giornate intere con Arat. Il paragone tra i suoi ancestrali ricordi e quelli che invece risalivano a pochi giorni addietro le fece aprire gli occhi su quanto lontano in realtà le pareva il tempo dell'amicizia e dell'amore con Arat. Lo sentiva tanto distante che si sentiva estranea a quei sentimenti, non come se non fossero mai stati suoi ma come se il tempo avesse mutato la sua percezione di quello che era stato. In realtà non era ato così tanto tempo, nell'intimo sentiva ancora il profumo di lui; Arat non era neppure così lontano, se lo avesse desiderato quel giorno avrebbe potuto arrivare ad Aruni e rivederlo. Invece no, lei aveva preferito restare da sola, lì... ...Lì, dove? Aveva eggiato senza guardare la direzione che aveva preso ed ora si ritrovava in un quartiere di Nim che non aveva mai visto prima. Non ci volle molto a capire che quella era la zona delle arti e dei mestieri. La via era sicuramente più trafficata di quelle più sottostanti, in cui si trovavano le aree di ricreazione e le librerie. Lavoranti e compratori erano affaccendati in azioni frenetiche che parevano tutte intercettare il percorso del tutto casuale di Luna: coloro che portavano dei carichi ingombranti e visibilmente pesanti la urtavano e subito dopo bofonchiavano delle scuse serrando i denti per lo sforzo; chi riusciva a vederla le chiedeva cortesemente scusa e deviava di quanto bastava per riuscire ad evitare lo 'scontro', ma erano evidentemente seccati da quell'invasione. Luna faceva di tutto per non intralciare i lavori ma era impossibile: se riusciva a togliersi dal aggio di un uomo subito rischiava di entrare in collisione con un altro. Infine riuscì a far cadere una sottile signorina che era appena comparsa da dietro una tenda. Spontaneamente si chinò per aiutarla, ma invece di limitarsi ad offrire il proprio braccio come appoggio (come voleva la regola di comportamento per questi casi) Luna prese la giovane e la sollevò (era davvero magrissima) dimenticando quanto fosse scortese per i Nimferidiani il contatto fisico. La giovane apparve visibilmente scossa: era seccata per il fatto di essere stata urtata e per aver

dovuto sopportare il contatto con una estranea (per fortuna era solo una donna); inoltre la maldestra 'soccorritrice' le aveva involontariamente sollevato la lunga manica dell'abito facendole scoprire il braccio in pubblico. La Nimferidiana si allontanò velocemente continuando ad inchinarsi e a scusarsi. La cosa che stupì di più Luna fu che per tutto il tempo che rimase nel suo campo visivo la donna aveva continuato a camminare all'indietro (rivolgendo gli inchini verso Luna) e neppure una volta intralciò il via vai di persone che animava la strada. Luna rimase a lungo ad osservare la tenda colorata dalla quale era uscita la magra ragazza, sopra l'entrata di quella bottega non vi era alcuna insegna e, a differenza degli altri laboratori, sembrava che non ci fosse alcuna attività in corso. Ma proprio il fatto che non ci fosse alcun movimento palese la spingeva a credere che al di là di quella copertura si svolgesse in verità qualcosa di straordinario e nessuno poteva toglierle dalla mente che quel luogo era direttamente collegato allo splendido disegno che aveva intravisto sul braccio della Nimferidiana che aveva urtato. Nulla poteva fermarla.

"Ti sei occupato tu, Arat, di spedire un messaggero ad Enroe?" "Sì, Danur. Appena giungerà la risposta mi preoccuperò personalmente di riferirtene il contenuto." "Altre novità?" Sador alzò la mano ed attese in silenzio di essere nominato. "Sador!" "Ti ricordo che questa mattina è arrivato dall'Ovest Gabrin con i suoi mercenari. Ti ha chiesto udienza ed è da allora che aspetta." "Già! Gabrin. Tu lo conosci, vero Sador?" Sador annuì severamente; da quando era giunto ad Aruni aveva preso seriamente a cuore il suo compito e lo svolgeva (straordinariamente) con la massima diligenza. "Allora verrai con me a parlare con lui. Per tutti gli altri la seduta è aggiornata. Potete tornate tutti ai vostri compiti." Quando Danur uscì dalla stanza Gor sbuffò sonoramente. Quando Arat lo guardò

sorpreso il gigante rispose alla domanda che aveva letto nei suoi occhi. "Non riesco a sopportare tutta questa rigidità e tutte queste riunioni. Non pensavo che fare la guerra potesse essere così noioso." "Ah! Ah! Ma come credi che sia altrimenti possibile coordinare in maniera efficace un esercito di migliaia e migliaia di uomini? Questa struttura rigorosa impostata dall'ordine militare è necessaria se si vuole battere ogni nemico." "Eppure io rimpiango i tempi in cui attraversavamo il continente con Luna e ci battevamo con tutti i Mutati che incontravamo. Mi sembrava di servire veramente la causa. Ora è diverso." "Certo che è diverso. La battaglia si è spostata ad un livello superiore. In questa fase stiamo raccogliendo le forze in modo da attaccare Cron con una potenza tale da non dargli il modo di riprendersi. Non potremmo mai batterlo nemmeno se sterminassimo tutti i Mutati che infestano Solamia." "Eppure non puoi negare di rimpiangere il tempo in cui eri tu a comandare ed eri tu a dirigere il potere di Luna sempre più verso la meta." "Io sono un militare. Sono stato cresciuto da un soldato e anche quando mi sono allontanato da lui sono diventato un soldato di mia volontà. Quindi riconosco che al di sopra di me ci sia chi è più alto in grado." "Non mi hai convinto, comunque l'importante è che ne sia convinto tu. Adesso cosa fai? Vai anche oggi alla spiaggia, di fronte all'isola di Wiki?" "Non lo so. Ho molto da fare... " Arat fu contento che Gor fosse uscito in fretta dalla sala, soprattutto perché temeva che l'omone si fosse accorto che la sua allusione lo aveva colpito nell'animo. Non sapeva che Gor (e chi altro ancora?) fosse a conoscenza del fatto che, da quando aveva lasciato Nim, aveva preso l'abitudine di eggiare sulla spiaggia di sabbia nera che guardava direttamente il vulcano inattivo. A questo punto era certo che tutti sapessero anche del perché asse lì tutto il suo tempo libero, ma quello che lo faceva soffrire era che lo sapeva benissimo anche lui. Aspettava Luna: per la prima volta aveva qualcuno a cui dedicare il proprio interesse, ma non si sentiva a disagio per questo per il fatto che ciò che attendeva non si era mai fatto vedere. Luna lo aveva forse dimenticato? Impossibile.

Eppure lei sapeva che Arat non poteva giungere a Nim finché i lavori sulla teleferica non fossero completati; lei al contrario avrebbe potuto raggiungerlo usando i suoi poteri come aveva fatto la prima volta, per raggiungere l'isola. Inizialmente si era consolato dicendosi che lei era sicuramente presa dal suo compito, cioè trovare la posizione dell'isola di Lubra studiando le mappe nautiche, ed ancora oggi si ripeteva le medesime parole, tuttavia non riusciva a farsene una ragione. Quella sera non si spinse fino al mare di Savra, come faceva tutte le sere, come se potesse prendersi una piccola rivincita: lei non lo avrebbe trovato ad aspettarla. Ma fu una soddisfazione di breve durata perché subito la sua mente razionale gli ricordò che se Luna non era venuta tutte le altre notti non sarebbe arrivata neppure quella. Contro di lei non si poteva vincere.

Affascinata dal mistero (vero o presunto) celato dalle pesanti coperture, Luna scostò la tenda ed entrò. La penombra della piccola stanza era colorata dalle vivaci sostanze racchiuse in varie ampolle che occupavano fittamente gli scaffali alle pareti. La camera era resa soffocante dall'apparente stato di confusione che regnava e dalla pesantezza dell'aria: aromi pungenti di spezie si avviluppavano agli odori dolciastri delle resine; ad ogni respiro questo potente profumo riempiva i polmoni e pareva proprio che togliesse lo spazio al vitale ossigeno. Nonostante tutto questo rendesse l'ambiente claustrofobico non si sentiva affatto oppressa. La ragione andava sicuramente ricercata nel costante suono che riempiva lo stretto spazio tanto da non lasciare intendere da quale punto della stanza provenisse: un martellio delicato e frettoloso, accompagnato da uno più cupo e pacato. Luna era eccitata, era sempre più incuriosita da quella situazione e si rese conto che era da molto tempo ormai che non provava una cosa simile. Nell'angolo più nascosto della stanza c'era un paravento illuminato da una luce opalescente; la lampada al di là del paravento rischiarava lo sfondo sul quale si delineava un'ombra. Per un po' Luna rimase a guardare quella rappresentazione di ombre cinesi dove il protagonista era un improbabile animale con tre teste, tre paia di gambe e braccia ed un unico corpo metamorfico. Infine Luna si affacciò per scoprire il segreto nascosto dietro al paravento. Una giovane donna era distesa su un tavolo di legno, era nuda dalla vita in su ed una bambina si era seduta a cavalcioni proprio là dove la spina dorsale risale prima di arrivare ai glutei. La bimba stava massaggiando la schiena della donna con due martelletti

di legno: il ritmo affrettato era dato dalla pallina contenuta all'interno di ciascun martelletto. Ad ogni delicato colpo sul muscolo la pallina sbatteva e sprigionava l'intenso aroma delle essenze. La terza figura era quella di un vecchio dai capelli radi e bianchi; curvo sul braccio della donna stava compiendo un lavoro meticoloso: appoggiava la punta di un sottile chiodo di legno sulla pelle e poi con una piccola mazza dava due colpi secchi. Il tatuaggio che il vecchio aveva eseguito sul braccio sinistro della ragazza era ricco di particolari e splendente di colori. Mentre la donna si rivestiva l'artista di Nim si voltò verso Luna che poté scrutare le sue purpuree orbite vuote. Il viso era rinsecchito tanto che anche il naso era diventato solo una piega al centro della faccia; due gengive nerastre le sorrisero e lei rispose al silenzioso saluto senza chiedersi come il vecchio avesse potuto accorgersi della sua presenza se non aveva gli occhi per vedere. Lui le prese il braccio ed incominciò a tastare ogni placca di tali, ogni cicatrice esposta; Luna si sentiva ipnotizzata da quelle fosse accese da un cupo rossore che un tempo avevano accolto i globi oculari e non fece resistenza. "Quanta storia è già stata scritta." L'interesse del vecchio Nimferidiano si accese di più quando afferrò il braccio ancora intonso di Luna. "Vieni domani, quando la luce del sole da rosa diventa gialla come i frutti dell'idissicu." La donna che aveva disturbato con il suo ingresso inatteso si chiamava Louita. Questa fu molto loquace con Luna, addirittura amichevole e 'intima', comportamento molto insolito per un Nimferidiano soprattutto nei confronti di una straniera. Ma l'interesse che il Thafee aveva dimostrato per Luna aveva tranquillizzato la ragazza e soprattutto aveva tolto tutte le sovrastrutture sociali e culturali che separano le diverse razze: Louita l'aveva vista per quello che era sempre stata, cioè una sua simile. La nimferidiana le spiegò che il vecchio era l'unico Thafee esistente al mondo. Quest'uomo aveva rinunciato in giovane età alla facoltà di vedere con gli occhi (da solo se li era strappati fuori dalle orbite) per elevare la propria capacità di vedere a livelli metafisici. Lui era l'unico capace di vedere come la storia ata avesse inciso la pelle di ognuno e la ricalcava usando segni e colori che tutti potevano riconoscere. Louita infine declamò: "Il futuro dipende molto dalle strade che hai percorso nel ato; il Thafee ti dà la possibilità nel presente di decifrare il ato ed ipotizzare il futuro. Ma devi fare attenzione quando cercherai di decodificare il linguaggio che il Thafee

scriverà per te: la storia ata è scritta sulla nostra pelle e quella futura galleggia sul mare, mutevole ad ogni alito di vento, ad ogni battito di pinna e ad ogni sasso gettato dalla riva." Quando Luna entrò nel salotto a lei riservato fu sorpresa di vedere lì Arat; non era solo, lo accompagnavano uomini che lei non conosceva ma che giustamente riconobbe come facenti parte dell'esercito di Danur. "Abbiamo ripristinato la teleferica. Siamo venuti qui per portare al Comitato le ultime novità riguardanti la riparazione delle navi e anche per sapere come proseguono le ricerche della corretta ubicazione di Lubra."

Luna notava come Arat si sforzasse di mantenere un contegno e di parlare misurando le emozioni, ma lei riusciva a leggere nei suoi occhi il desiderio di correrle incontro e di baciarla. Non volle però accorgersi dello stupore che la colse quando si rese conto di non nutrire la medesima ione. Arat dovette ripartire in fretta e non ci fu modo per i due di rimanere soli, in questo modo lui non poté sospettare che la freddezza di Luna non fosse dettata dalla timidezza (che riconosceva anche come propria) per la presenza di estranei. Ritornò ad Aruni con una strana felicità in corpo: era contento di averla rivista anche se era deluso di non essere riuscito a stare veramente con lei, ma era soprattutto eccitato all'idea che al prossimo incontro, sicuramente meno formale, sarebbero finalmente stati insieme. Arat aveva trovato conferme alle sue speranze nei silenzi di Luna e aveva interpretato i suoi sguardi come promesse di profondi sentimenti amorosi. Tutto questo dimostrava come il cuore innamorato offuscasse tutti i sensi che la ragione accendeva.

Luna si distese sulla panca come Louita aveva fatto il giorno prima; il rapido trottare dei martelletti avevano il dono di far affiorare le tensioni fisiche e le discrepanze emotive e le faceva confluire verso la zona lombare della schiena, il leggero peso della bambina faceva fuoriuscire dal corpo tutte quelle negatività. Il massaggio, il rumore ovattato e gli aromi speziati contribuivano ad assopire i sensi di Luna che non si accorgeva neppure dell'ago intinto nell'inchiostro che il Thafee le introduceva in profondità nella pelle. Le sembrava di galleggiare sul mare ondoso e il tamburellìo monotono divenne la scia sulla quale le onde dei

suoi pensieri si infransero creando schiumose visioni e deliri di bolle. Era il ato? Di certo era un viaggio alla scoperta di sé stessa. Era il futuro? Ciò che vide la cambiò profondamente ma per lei non fu una sorpresa: da tempo (anche se temeva il momento in cui sarebbe avvenuto) si sentiva pronta per are allo stadio successivo di maturazione. Il mondo invece rimase quello che era.

***

Il cupo umore di Cron impauriva i suoi servi. Nella loro semplice mente, basata sulla costanza di determinati eventi e sulla ripetitività di alcune azioni, avevano attribuito il malumore del loro creatore alla perdita di Katrisha. Era una cosa piuttosto ovvia visto che, in questo modo, Cron aveva perso ogni contatto con Luna. Ma non sempre le cose più evidenti sono anche le più giuste. Nel momento stesso in cui Cron aveva mandato Katrisha a Solamia era conscio del fatto che la Mutata non avrebbe mai più fatto ritorno a Lubra. Certo non immaginava che fosse uccisa così presto ma questo non era poi una cosa così negativa: dimostrava solo che le capacità di Luna erano ad un ottimo livello, era l'unica donna degna a ricoprire il ruolo di sua compagna. Katrisha era comunque riuscita a compiere la sua missione, della quale non era completamente al corrente: grazie al suo aiuto ora Cron sapeva che suo padre non era vicino a Luna e che non poteva corromperla con i suoi propositi. Il suo stato ombroso (più ombroso del solito) era però dato proprio dalla presenza di questo scomodo padre che non dava segni di cedimento. Al contrario, era più attivo che mai ed aveva già incominciato a muovere i suoi servi alati su tutto il continente, all'inseguimento della preda più ambita: Luna. Cron aveva appreso questa notizia nel modo più umiliante che potesse esistere, glielo aveva riferito il suo stesso avversario: suo padre aveva ristabilito il collegamento mentale che da sempre esisteva tra loro ma che ormai da tempo nessuno dei due aveva permesso all'altro di usare, ed aveva permesso tale rivelazione. Suo padre dimostrava così che non aveva nessuna intenzione di lasciargli spazio in questo mondo, ma che aveva intenzione di combattere. Con queste intenzioni aveva mostrato al figlio le sue armi, come un assassino che sadicamente faceva vedere alla vittima inerte il coltello con cui poi lo avrebbe ucciso.

Con tali premesse Cron si trovò, forse per la prima volta, a dubitare che i fatti futuri si disponessero esattamente come lui aveva progettato, ma nello stesso tempo la costante pressione da parte di suo padre lo spronava ancora di più a credere in sé stesso e nel suo disegno del destino. Luna, ancora una volta e ancora di più, avrebbe fatto la differenza; con lei al suo fianco, Cron era sicuro di vincere e finalmente sarebbe stata scritta la parola 'fine' su questa guerra eterna tra i due Cron più potenti che la storia di quel Mondo avesse mai conosciuto.

***

Arat la stava aspettando in camera. Questa volta era da solo e quando Luna entrò le corse incontro e la serrò in un abbraccio. Luna lo conosceva bene ed aveva imparato a capirne lo stato d'animo anche dalle impercettibili (per gli altri) vibrazioni del suo corpo; sapeva quindi che l'uomo non era completamente sereno e in qualche modo lei ne era la causa. "Ti ho aspettata per molto tempo. Nessuno sapeva dirmi dove fossi ed io non sapevo... non sapevo... con chi eri." Luna non si sentiva affatto in colpa per questo, lei non sapeva che Arat sarebbe arrivato e aveva una cosa molto importante da fare. Invece, il fatto di non essere addolorata per aver causato un dispiacere (anche se del tutto involontariamente) ad Arat, la disorientava: non riconosceva come suo il cinismo con cui aveva accolto le accorate parole del suo amante. Eppure lui era sempre Arat, perché non riusciva a ritrovare la coppia che si era creata in una notte simile a quella tra i semouak della Foresta Greetes? Ma lei era la stessa Luna? Il pensiero di avere scoperto in sé un'altra Luna, diversa sia da quella che aveva abbandonato la famiglia adottiva che da quella che aveva incominciato a catalizzare su di sé tutte le speranze di libertà di Solamia, era per lei motivo di sconforto e di paura. Era sconfortata dal pensiero di aver solo perso tempo camminando sulla strada sbagliata; ma era soprattutto impaurita perché, per la prima volta, le pareva di accettare meglio l'idea che tutto ciò che aveva realizzato fino ad allora fosse una fase di maturazione per poter evolversi in qualcosa di nuovo e diverso, piuttosto che credere che quello che stava affrontando in quel momento fosse solo un istante di smarrimento che avrebbe superato proprio

grazie a tutto ciò che aveva costruito fino ad allora. Arat interpretò la lunga pausa di Luna come un momento di confusione; il forte sentimento che provava per lei lo spinse a cercare dentro di sé la calma e la ragione per poterle instillare sicurezza usando le parole giuste. Voleva davvero aiutarla a fare chiarezza nei suoi pensieri. "Non devi preoccuparti se ora ti senti persa. Gli eventi che tu hai contribuito a generare ora si stanno sviluppando e consolidando. Ma non devi temere, tu sei ancora necessaria alla causa... " Arat si era avvicinato e le aveva preso la mano ma lei, con un gesto di stizza, si era liberata e gli aveva voltato le spalle. Arat allora interpretò questo suo atto come un segno; era convinto di aver trovato il motivo dell'indisposizione di Luna. "...Forse mai come ora abbiamo bisogno di te, il tuo potere è il collante che tiene unito l'esercito e il tuo coraggio rende forti i soldati." Sicuro di sé, come era sempre stato, Arat cercò nuovamente un contatto afferrando il braccio di Luna certo di ritrovare la sua tenera amante ed allo stesso tempo forte compagna. Invece lei si allontanò ancora una volta ed una smorfia di dolore si impresse sul suo volto; quando lui incontrò i suoi occhi si rese conto che lei aveva paura, paura di essersi 'tradita'. Con vigore ma senza essere violento Arat sollevò la lunga manica del vestito e scoprì li braccio fasciato che Luna nascondeva. "Che cosa ti hanno fatto!" Uno strano connubio tra rabbia e preoccupazione scosse tutto il corpo di Arat che già aveva appoggiato la mano sull'elsa della sua demo ed aveva compiuto un o, pronto per scaraventarsi fuori dalla stanza a vendicare l'onore della sua donna (e il proprio). "Non ti devi preoccupare, mi sono fatta un tatuaggio." Luna parlava con leggerezza e si sorprese alquanto nel vedere il volto di Arat piegarsi in un espressione torva. Ma lei continuò a parlare. "Sai, il Thaffee mi ha detto... " "L'aria viziata di Nim ti fa male. Hai forse perso il senno? Tu sei qui per compiere il gesto più alto che una persona può compiere, sei qui per donarti al

tuo popolo con tutta tè stessa ed in cambio tutta la gente che fino ad ora ti ha seguita metterà a repentaglio la propria vita, per te. Per te che hai fatto germogliare in loro l'idea di libertà e di salvezza, per te che hai indicato loro il percorso da seguire per realizzare questo unico ed immenso sogno. E tu, invece di dedicarti a loro ti perdi dietro queste... queste stupidaggini." Luna non aveva mai sentito Arat parlarle così, neppure la prima volta che lo aveva incontrato, quando lui la considerava una spia di Cron. La rabbia che aveva dentro però non riuscì ad uscire e neppure ci riuscì la disperazione per aver compreso di aver perso di lui tutto quello che aveva faticosamente conquistato. Riuscì solo ha piagnucolare. "Non è stupido. Tu non puoi capire ma è importante per me. Ho scoperto ciò che desidero veramente... " Lei sapeva che Arat non avrebbe capito. Infatti lui non smise di attaccarla e continuò come se quelle stesse parole non ferissero anche lui nel più profondo del cuore. "Vuoi rinunciare? Adesso che siamo arrivati fino a qui, insieme, vuoi tirarti indietro?" "Cerca di comprendermi. Non è stato facile per me fare quello che ho fatto, ma è stato ancora più difficile credere di poterlo fare. Ora è vero, sono qui e vedo i risultati e ne sono anche soddisfatta. Nonostante questo non riesco a liberarmi dalla sgradevole sensazione di non produrre nulla con il mio operato. Continuo a lavorare per far sì che il progetto che abbiamo iniziato possa finalmente concretizzarsi, ma non riesco più a vedere in questo la realizzazione di me stessa. Sono come in un limbo in cui agisco ma in cui nulla si muove e si trasforma, tutto è statico e senza valore. Il mondo è sempre lo stesso ed io invece mi sento diversa, non mi sento più di appartenere a questo mondo." "Ma tu sei l'essenza di questo mondo. Nulla di quello che è successo e che accadrà nell'immediato futuro sarebbe potuto avvenire senza di te, è per questo che ti devi sentire completa e appagata." "Anche la ragione mi spinge a pensare in questi termini, ma una parte del mio essere non è daccordo. Non so se definirlo istinto o potere, so che è lo stesso stimolo che ho seguito quando ho deciso di venire qui, a Solamia. Ebbene ora mi sta dicendo che questa è per me una fase di stallo e che ho bisogno di un evento

che scuota le mie fondamenta e che mi liberi da questo perenne stato di attesa. Dopo ci sarà la vita vera e non questo placido e immobile girotondo che noi chiamiamo vita." "L'evento che aspetti sei stata tu stessa a concepirlo, non te ne rendi conto. E' la battaglia che stiamo per sostenere; e non sei sola, insieme a te c'è un intero popolo che attende di affrontare la tua stessa sorte." Con l'entusiasmo di un bambino che scopre da solo la soluzione ai suoi problemi, Arat aveva trovato una spiegazione semplice ad un problema tanto profondo e tanto complesso come quello di scoprire chi siamo, da dove veniamo ma soprattutto dove stiamo andando. Per la prima volta Luna si rese conto di quanto Arat fosse limitato, rispetto a lei, e di come stessero parlando letteralmente due lingue diverse. Per quanto lei cercasse di allontanarsi dal concetto, ormai più che definito, della battaglia contro Cron, e cercasse di spostare il discorso su altri Universi, tanto più Arat non riusciva a seguirla ed alla fine si ritrovava sempre lì, a Solamia. Arat ritornò ad Aruni e l'amarezza che portava nel cuore non lo lasciò riposare quella notte: c'era solo un breve tratto di mare che lo separava da Luna, ma lui sentiva che erano più distanti che se fossero ai poli opposti dell'Universo. L'aveva persa e si sentiva a sua volta perduto.

Il Thafee aveva sciolto le bende ed aveva terminato di pulire il braccio dal grasso che le aveva spalmato sulla pelle subito dopo aver compiuto l'opera per evitare che i colori usati seccassero la pelle e rovinassero di conseguenza il disegno perfetto. Il tatuaggio ora faceva parte di Luna e, come gli altri segni che adornavano il suo corpo, raccontava una parte della sua storia. Il nero era l'unico colore utilizzato e sfumava dal grigio nebbia al nero totale. Sulle dita le linee si avvinghiavano come viticci e si intrecciavano come scheletrici rami; sul dorso della mano e su fino al gomito i giochi di forme si avvicendavano formando nell'insieme un disegno il cui significato era molto più complesso della semplice somma dei singoli elementi: anime in pena, bestie fameliche, luci ombrose, sconvolgimento degli elementi, giochi universali.

Luna chiese al vecchio perché il ricamo si interrompeva bruscamente sul polso, come se qualcuno avesse ritagliato fuori dall'insieme solo quella striscia larga meno di due dita. Il Thafee rispose con la lentezza dei millenni e con la loro stessa imponenza. "Ciò che manca non fa parte della tua storia, non ancora, ma quando il tempo ti farà partecipe allora gli eventi lasceranno il loro inconfondibile segno." La criptica risposta del vecchio chiarì le idee a Luna, in fin dei conti finché c'era spazio sulla sua pelle la sua storia sarebbe ancora trascorsa e le avrebbe inciso le carni ad ogni loro incontro. Il giorno in cui il racconto avesse riempito l'ultima pagina, anche la sua vita sarebbe finita.

Nutus entrò nel salotto che avevano concesso a Luna con un irruenza che poco si addiceva alla sua natura di Nimferidiano ed alla sua posizione di cerimoniere della Famiglia, ma la notizia era a dir poco esaltante, così almeno si era giustificato. "I suggerimenti che, con tanta lungimiranza, ai concesso al nostro gruppo di esperti cartografi ha permesso finalmente di trovare l'esatta posizione di Lubra. I cartografi stessi ammettono che può esserci un errore di un quarto di grado, ma sono tutti concordi nel giudicare l'impresa un successo." Chi conosce la cultura nimferidiana non deve stupirsi di tutto questo entusiasmo per un progetto al quale essi stessi avevano posto il veto. I Nimferidiani non avevano certo cambiato idea sulla loro partecipazione iva alla battaglia, ma erano esaltati dal trionfo da loro ottenuto: erano stati chiamati a scoprire il luogo in cui sorgeva Lubra e ci erano riusciti. Certo la conferma dei loro studi poteva venire solo dagli uomini che da lì a pochi giorni sarebbero partiti seguendo le coordinate che loro avevano calcolato, ma era una pura formalità: erano certi delle loro ragioni.

La notizia della ricomparsa di Capo Ombra giunse a Nim tramite un messaggero. Le Ombre al suo servizio si erano distese sopra tutta la costa Ovest e si spostavano lente ma inesorabili verso Est; secondo gli ultimi dispacci avevano già coperto le vette dei Monti Kobit ed erano in vista di Samboa. Volavano sopra

Solamia senza distruggere le città che incontravano, come avevano fatto con Deos e Samas: si limitavano a togliere la luce del sole al popolo che da anni viveva nell'oscurità della tirannia di Cron ed entravano nel cuore della gente come neri presagi di morte e di disfatta. L'ordine di Danur era perentorio: partire alla volta di Lubra, subito. Tutti questi eventi accaddero prima che il sole finisse di compiere il suo ciclo. Un simile fatto non poteva lasciare indifferente Luna: forse era finalmente giunto il tempo dei cambiamenti.

Luna aveva appena terminato di fasciarsi nella nera divisa dei soldati di Deos. Aveva apportato una leggera modifica tagliando anche la manica sinistra all'altezza della spalla: ora la parte superiore della divisa era costituita quasi esclusivamente dalla pettorina che si allacciava al collo lasciando scoperti tutti i simboli che marchiavano il suo corpo. I pasti poveri di carboidrati e di proteine che venivano serviti a Nim avevano snellito il suo corpo e anche l'inattività forzata aveva contribuito a sgonfiarle i muscoli; fu per questo che quando si guardò allo specchio le sembrò di vedere un'altra persona, una che non era Luna ma ne indossava solo gli abiti. Il gesto di prendere il coltello fu freddo e distaccato, pareva che fosse la mano di qualcun altro a stringerlo; il gesto di recidere la lunga ciocca che stringeva nel pugno dell'altra mano era calcolato e risoluto. "Accidenti, che cambiamento. Se non indossavi la tenuta di Deos non ti avrei riconosciuta." "Stai bene con i capelli corti." Luna era contenta di rivedere Sador e Gor, non li aveva più visti da quando era giunta a Nim. L'incontro con Arat invece fu più triste, lui cercava di nasconderlo ma era visibilmente scioccato dal cambiamento di Luna, forse perché ora anche fisicamente lei non assomigliava più a quella che era partita insieme a lui da Deos. Arat riuscì ad avvicinarsi a Luna in un momento in cui tutti erano presi dai preparativi per ritornare ad Aruni, erano quindi soli e non c'era più bisogno di fingere. "E' giunto finalmente il grande giorno. O forse dovrei dire che è un grande giorno per tutti tranne che per te." "Perché dici questo? Ti stai sbagliando."

"L'ultima volta che sono stato qui, la discussione che abbiamo avuto... Mi era sembrato di capire che nutrivi dei dubbi." "E' vero, non posso negarlo. Mi trovo molto cambiata e mi sono ritrovata a dubitare di tutte quelle cose che avevo posto come basi per costruire quello che oggi è indiscutibilmente una realtà, l'esercito di Solamia. Tutto questo mi ha destabilizzata ma non ho rivoluzionato totalmente il mio modo di pensare: credo ancora che Cron debba essere distrutto." "Eppure qualcosa è cambiato." Il tono di voce con cui Arat lo disse lasciava intendere come questa frase fosse rivolta sia alla imminente partenza che alla situazione sentimentale tra loro. Arat soffriva moltissimo per entrambe le questioni. "Non ti devi preoccupare, conosco il mio ruolo. So che molta di quella gente è venuta qui seguendo un sogno che io stessa ho fatto credere realizzabile se solo tutti insieme avessero percorso lo stesso cammino. Credo ancora che la partenza dell'esercito verso Lubra sia di vitale importanza ed io sarò lì, dove tutti quei soldati si aspetteranno di trovarmi. Ma una volta concluso questo capitolo io sarò libera e non verrò con voi verso Lubra." "Perché, perché mi stai facendo questo?" "Ho capito che la mia visione della conclusione coincide con questo evento, con la partenza dell'esercito. Non c'è nulla dopo per me ed è per questo che non verrò con voi, perché devo trovare da sola la mia strada. Posso comunque dirti che il mio futuro è incontrare Cron a Lubra, ma non sarà in testa all'esercito di Solamia." "Tutto ciò è sbagliato. Tu hai solo timore di combattere in prima fila, è normale che giunta alla vigilia della battaglia tu ti sia lasciata prendere dallo sgomento e che ora tu creda si tratti di qualcosa di soprannaturale piuttosto che di un'umanissima paura." "Non è così. Non tutto può essere semplificato dalle regole che governano il mondo che tu conosci. Ci sono più cose in cielo ed in terra... ed io le conoscerò, ma devo rimanere sola." Anche se Luna appariva fortemente convinta di quello che stava dicendo il

conflitto interiore la stava lacerando. Non era semplice abbandonare tutto quello che aveva dato per certo ed iniziare dal principio, senza neppure una base su cui appoggiarsi; il sentimento che Arat provava ancora per lei certamente non la aiutava a ritrovare la serenità necessaria. "Quindi questo è un addio, ci lasciamo per sempre." Luna interrogò il suo cuore sperando di trovare una risposta che fosse la più sincera possibile ed anche la meno dolorosa per tutti e due, ma non trovò altro che amore per sé stessa e rinnovato entusiasmo per l'ignoto che la attendeva al di là dei confini conosciuti. Il sentimento che provava per Arat si era trasformato in una tiepida brezza che aleggiava trasparente nell'immensità del suo essere; non era scomparso, era entrato così tanto a far parte di lei che era diventato un suo elemento, ma aveva perso il contatto con l'uomo che l'aveva generato. Ora quello stesso uomo viveva solo per avere una risposta da lei. "Le nostre strade sono parallele, vanno sicuramente nella stessa direzione ma non sarei sincera se non dicessi che sono inevitabilmente divise." Arat, da uomo intelligente e risoluto quale era, apprezzava la schiettezza di Luna, ma non per questo soffrì meno. Il fatto che Luna non avesse comunque abbandonato la causa, anche se non credeva potesse esistere altro metodo che l'esercito per portarla a compimento, era una magra consolazione. Fu solo la flebile speranza di rivederla, quando tutto questo fosse giunto al termine in qualunque modo possibile, a sostenerlo in quello che era il peggiore momento della sua vita.

Danur ed i suoi collaboratori (Arat primo fra tutti) avevano fatto un buon lavoro. La vasta regione che circondava Aruni era diventata troppo piccola per contenere tutte le armate che erano giunte da ogni parte di Solamia. Un gruppo di immelici, fedeli alla Famiglia Nimferidi, aveva diretto i lavori di riparazione della fiera flotta di Nim, forte di molte migliaia di vascelli, ed aveva assegnato ad ognuna di essi un equipaggio scelto tra tutti i migliori navigatori del continente, senza distinzione tra razza o Famiglia. Un grande sogno stava per avverarsi; un sogno che Luna aveva contribuito a far emergere dal cuore della gente e che ora, per un tragico gioco del destino, non riconosceva più come suo. Ma dare la colpa al destino era inutile; nulla di tutto quello che era accaduto, a

partire dal giorno in cui era nata, era da attribuire al fato ed alla fortuna: Luna era artefice della sua vita e di quella degli altri. Luna si arrampicò sulla torre della postazione di Aruni traata dai venti, ne raggiunse il punto più alto proprio quando il sole fu allo zenit. Le lunghe carovane, gli squadroni dei soldati, gli stormi di colbi, tutti arono sotto la torre, simbolo della rovina e dello sfacelo di Solamia che si ergeva nel suo ultimo spasmo per sorreggere lei, Luna, la speranza delle genti. Rimase con le braccia alzate al cielo e con le palme delle mani rivolte verso terra, come a proteggere i suoi guerrieri. Nel fiume di gente che ava sotto la torre riconobbe Tok, il piccolo e coraggioso Toblak che era giunto fin là per proteggere la sua famiglia. Vide luccicare i giovani occhi bianchi di Shuza dall'esile corporatura schiacciata dalle pesanti armi: alla sua vista ebbe un moto di rimorso, il ragazzino era troppo piccolo per andare in guerra e non era l'unico in età così giovane. Ma ormai lei non poteva più fermare quella macchina da guerra e tutto si sarebbe svolto come era stato deciso. Luna riconobbe tutte le persone che aveva incontrato nel suo lungo viaggio e lei venne riconosciuta anche da quelli che la vedevano per la prima volta. Le diverse Famiglie sentirono il legame con Luna grazie ai simboli che le segnavano il corpo mentre gli immelici e le tribù ritrovarono in lei la forza e la speranza che ogni singolo uomo vuole possedere per ribellarsi al potere dei malvagi. Quando i primi battaglioni giunsero alle navi gli animi di tutti erano pronti a battersi; con loro c'era lo spirito dei Deoscuridiani sacrificati in nome della causa, ombre di morte ravvivate dalla luce arancione degli occhi di Luna. Eppure lei sentiva di ingannarli, sentiva di lasciarli partire verso il nulla... Il nulla. Ma non poté fermare la serie di eventi che si svolsero in una predeterminata sequenza. La notte arrivò più nera del solito oscurando il tramonto prima che questo potesse pavoneggiarsi con i suoi gialli e rossi. Le uniche stelle che brillavano in cielo erano quelle delle cinque costellazioni: Deos, Atra, Und, Nim e Imm. Quando la prima luna scomparve spegnendo la notte in un buio disorientante, il vento iniziò a soffiare e distese sulla faccia del cielo un velo di nubi viola; poi due palpebre si aprirono bucando la coltre e scoprendo gli occhi della notte: le due lune gemelle si mostrarono per la prima volta insieme, sfavillanti della medesima luce. Allora si udì la voce della notte uscire dalla bocca circondata dalle cinque costellazioni e fu un grido di guerra rimbombante come un tuono. Le navi salparono così, tra il rumore della paura dell'uomo e quello del cozzare delle onde oceaniche sulle assi di legno degli

scafi. Fu il coraggio e il valore di quegli uomini a generare la corrente diretta verso Lubra e fu il loro spirito battagliero ad animare il vento che sospingeva la flotta. Qualcosa cambiò ma solo Luna se ne accorse. Dall'alto della torre quadrata vedeva il volto della guerriera che si stagliava in cielo farsi sempre più cupa, gli occhi si spensero e ridivennero solo due satelliti nel cielo nero ed anche il grido di battaglia divenne un gemito, quasi un pianto. Il suono della notte perse la sua energia combattiva e rimase solo un sospiro, come un battito d'ali.

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CAPITOLO 19

Un battito d'ali? La comprensione non si accese nella mente di Luna come un faro nella notte ma comparve con tutta l'oscurità intessuta nella trama del suo mantello nero. "Cablam." Luna non seppe dare un tono alla voce e non riuscì a riconoscere i sentimenti che provava in quel momento; era molto sorpresa di vedere l'uomo che aveva sacrificato la propria vita per lei, eppure le parole che pronunciò dopo furono la prova che ormai lei non poteva più sorprendersi di niente. "Oppure devo chiamarti Capo Ombra?" Lei riusciva a specchiarsi per intero nei grandi occhi di Lio; la creatura si rintanò nell'angolo opposto e i suoi movimenti fecero scricchiolare la torre ridotta ad una rovina. Cablam sfoggiò uno di quei sorrisi che avevano sempre irritato Arat e che invece tanto affascinavano Luna. "Cron, Cablam, Capo Ombra. Sono solo una parte dei nomi che gli altri hanno usato per definirmi, ma nessuno è mai stato capace di conoscermi." I raggi del sole non giungevano a nessun uomo sul quale non pesasse la coscienza, benevolo fardello che placa il malvagio spirito che aleggia in ognuno di noi, ma Cablam viveva sotto un eclissi perenne e in quell'oscurità nulla poteva essere giudicato. "Quanta gente avrei potuto salvare se solo ti avessi riconosciuto!" E il pensiero di Luna volò verso le navi che si dirigevano verso Lubra. Verso quale destino stavano navigando quegli uomini e quelle donne di Solamia? Luna avrebbe voluto raggiungerli per estirpare dai loro cuori la speranza che lei stessa vi aveva piantato e che solo ora aveva riconosciuto come vana. Cablam rispose ai pensieri non espressi di Luna. "No! Quelle idee insane alimenteranno le false speranze fino alla fine. Quegli uomini non cambierebbero rotta nemmeno se tu stessa andassi da loro a predicare la verità. Non sarebbero capaci di comprenderla." La voce di Cablam

diventava sempre più gradevole e intima man mano che l'uomo si avvicinava a Luna. "Non è colpa tua se hanno creduto all'alleanza e a questa guerra sovrumana: quando profetizzavi la vittoria dell'esercito su Cron credevi in quello che dicevi, ma le tue certezze sono basate sugli insegnamenti che ti giungono dal mondo esterno. Tu sei giunta in questo mondo ed hai creduto nelle persone che vi hai incontrato; a cominciare da Lòren fino all'ultimo abitante di Solamia. Ma sono solo uomini, credono a cose da niente senza conoscere nulla. Sono stati loro a confondere le tue percezioni e sono stati sempre loro ad inseguire la visione del futuro che loro stessi ti hanno ispirato. Tu non hai colpa." Aveva infranto le difese di Luna che rimase inerme, in attesa dell'invasione. Cablam si avventò come un rapace sulla preda ma non ci fu furore di battaglia e odore di sangue. Luna non vedeva, non udiva, non sentiva, le più elementari sensazioni percettive erano scomparse; il suo cervello non riceveva più impulsi dal mondo esterno e per questo, per lei, il mondo non esisteva più. Non percepiva neppure il proprio battito cardiaco, la tensione dei muscoli: anche la sua esistenza era scomparsa. Nel nulla che la circondava e che contemporaneamente la invadeva era difficile per lei credere ancora di possedere un io cosciente eppure non era vuota. La voce di Cablam entrò a far parte del mondo in cui Luna era prigioniera; la sensazione era strana perché le parole non erano onde percepite dall'orecchio e poi trasmesse al cervello come impulsi elettrici. Egli esisteva e basta, non c'era bisogno che questo fosse provato dalle leggi della fisica e della fisiologia umana. Fu come se l'essenza di Cablam toccasse quella di Luna: ogni contatto era un'esperienza e ad ogni esperienza seguiva una rivelazione. Erano come due amanti che cercavano di comprendersi nell'intimo cercando di giungere alla perfezione. L'antico Cron faceva parte di lei e decideva quello che Luna poteva sentire, lei era concentrata nell'osservazione di sé stessa; non era il forte che plagiava il debole ma il maestro che ampliava gli orizzonti all'allievo. "La speranza e il timore sono la stessa cosa per gli Uomini, sono entrambi demoni. Tu hai giocato con loro e con loro hai danzato, li hai mescolati e li hai presentati al popolo di Solamia sotto una nuova veste; il timore che provavano per Cron è diventato la speranza di vincerlo e la speranza di sopravvivere ogni giorno ai Mutati si è trasformata nel timore di morire senza aver mai vissuto veramente. Tu hai dato loro solo quello che loro ti hanno chiesto, non volevano

conoscere la verità ma solo credere nelle loro fantasie." "La sera, contro cui lo stesso sole deve arrendersi docile sciogliendosi in un immenso e caldo abbraccio, la sera, dolce e delicata, è stata ormai scacciata dal nero esercito della notte. Le nubi, raccoltesi come agnelli o cuccioli al richiamo del padrone, urlano la loro furia tremenda ed io penso. Penso a cosa dirti." "Il cielo selvaggio e il vento, spavaldo e indomito, sembra che mi chiamino e mi recitino all'orecchio versi e parole. Quale può essere la scelta giusta?" "Ecco la folgore, veloce e sicura, come Lio che ci sta conducendo nel luogo in cui il momento si fermerà. Le navi funeste si tingono dei colori del cielo e il viola si fa nero. Il ruggito della tempesta non può essere ignorato e la paura e l'incertezza colpiscono i diversi cuori che palpitano all'unisono." "Lio vola senza fermarsi, è tempo. Che splendido oceano ci osserva da là sotto, immenso e profondo, con mille tesori nascosti sul fondo dove sempre la quiete regna sovrana anche se fuori la tempesta dilaga e chiede, selvaggia, esoso pedaggio. Quante vite vale il mondo conosciuto? Forse troppe per un 'articolo' troppo vecchio e mal utilizzato." "Affidati a me, Luna. Senza timore, mia innocente. In questo luogo dal futuro incerto sei confusa e non capisci se sei sveglia o assopita. In quell'aria di sogno, sogno mostruoso, incubo dalle spoglie d'idillio, lì, proprio lì ti verrò a cercare. Ricordi il tempo? Quando? Quando ti sei accorta che tutto era vuoto, senza senso e la sensazione che tutto fosse sbagliato ti attanagliava la mente. Quando uscivi dal tuo corpo, sola, e ti domandavi... Cosa? Chi? Chi sono io? E loro? Ma perché adesso, qui? Perché?" "Sentirsi inutile e naufragare, orrore, in sé stessi. La consapevolezza del fallimento, del destino che se la ride, che ride di te, troppo sommessamente per essere udito dagli altri e troppo forte per essere ignorato dalla tua mente. Piangere? E' l'unica difesa dell'uomo verso sé stesso; l'estremo riparo della mente da sé stessa... No! Non puoi. Non questa volta; ora la tua anima è inquieta, ora puoi saziarla con la verità." "La luce del sole incendia di riflessi bianchi la superficie dell'oceano; le navi sono ombre nere dietro a noi, Lio vola veloce. No, la luce non ti è amica: acceca il tuo sguardo, assopisce la mente nel caldo torpore. La notte ti è sorella, compagna più di quanto lo sia il giorno, cinico e fiero, elevato a simbolo di gioia

e pace per scelta degli uomini." "L'oceano, tranquillo e sereno signore, re incoronato da sprazzi di rosa; il tramonto incipiente rende più intenso il colore viola delle acque profonde. Non esistono Re o Dei che guideranno i tuoi i lungo la strada tracciata dal destino. Il destino non esiste e gli Dei sono scomparsi; soffocati dalle loro stesse creature: la perfezione e l'ordine. Hanno generato un ordine così perfetto che non c'è più bisogno di loro. Peggio! La loro perfezione era così ordinata che il creato è morto appena nato. Il caos è energia, il movimento è vita; finché una creatura è libera di oscillare tra due mutazioni continuerà a vivere ma costringila a scegliere un punto qualsiasi in cui fermarsi, dai a questo punto la denominazione di perfetto, ed hai decretato la morte di quella creatura." "Guardo quell'incendio lontano; sempre più copioso sgorga il sangue infuocato dal cielo e dal mare. La notte livida sarà la cicatrice di questa ferita. Impossibile! Per la tua ferita non bastano un giorno, una notte, un giorno ed un'altra notte per guarire. Non bastano! Nessuno ti aiuterà a capire; il cielo e la terra, il giorno e la notte, la menzogna e la verità, il giusto e l'ingiusto. Nulla di tutto questo ti aiuterà; dopotutto sono solo simboli di grandi estremi, ma agli estremi si muore dentro, meglio muoversi nel mezzo. Certo, essere moderati, ma non perché incapaci di estremismi; moderati per comando e scelta, sì! Con gli estremi in pugno, tuoi servitori. Essere un Dio. Illusione suprema? No! Dominio del Mondo... No! Di più... Dominio dell'essere, dello spirito dell'Universo... Rivelazione... Sì! Consapevolezza. Prendi un uomo e rendilo consapevole di sé e di ciò che lo circonda, costui diventerà un Dio e alla consapevolezza si accompagnerà la conoscenza e il potere. Il potere di cambiare le cose? No! Nessuna modifica, nessuna ritrattazione. Nulla. Gli estremi si cancellano, il mezzo non esiste; esiste solo lui, niente altro. E' da questo punto che si ricomincia, anzi si inizia; senza ato e senza ancora un futuro, un eterno presente." "E' questa, Luna. Questa è la mia nascita, la nostra nascita. Tu vuoi un mondo migliore, non devi accontentarti di raccattare i cocci di quello vecchio, altrimenti otterrai solo ciò che rimane delle rovine del primo. Fino ad ora non hai sbagliato; hai dovuto percorrere la strada sbagliata per capire quale era la giusta meta. Hai dovuto vedere gli errori del nostro Creatore per non commetterli a tua volta il futuro, in quel futuro che noi creeremo dal nulla. " "Continuo a dire noi perché ho bisogno di te come tu hai bisogno di me."

Queste ultime parole di Cablam non furono fumo soffiato nella mente di Luna, ci fu lo spostamento d'aria e il fragore delle scintille elettriche nel suo cervello; era tornata, era cosciente, sentiva la sabbia sotto i piedi ed il vento sulla pelle mentre l'odore di salsedine le solleticava l'olfatto. Le mani calde di Cablam cingevano le sue e dietro a lui c'era il mastodontico Lio, disteso sul bagnasciuga. "Credo di essere impazzita." disse Luna con un pizzico di commozione nel risentire la lingua scivolare in bocca e sbattere contro i denti modulando nuovamente la voce. "Non confondere la pazzia con il sapere. Ora ciò che sai non potrà mai più essere cancellato e le certezze che hai elaborato saranno le tue armi contro Cron." "Cron?" "Mio figlio, colui che hai cercato da quando sei arrivata a Solamia; dovete incontrarvi. Lui cercherà di trascinarti dalla sua parte ed è convinto che non potrai resistergli. Io non lo fermerò." Luna spalancò gli occhi, capiva benissimo quello che Cablam intendeva ma volle che lo dicesse a chiare lettere. "Sì! Ancora una volta dipende da te, la scelta ultima sarà tua. Sarai sola ma non ti devi preoccupare, questa volta hai le armi giuste con cui combattere." Senza aggiungere una parola Cron sollevò il braccio ed indicò un punto preciso alle spalle di Luna, lei si voltò e vide la roccaforte di Cron: erano arrivati a Lubra. Il colle rosso con la testa coronata dalla fortezza nera e i piedi affondati nell'oceano blu. Luna era sola di fronte alla ripida scalinata che si arrampicava sulle pendici del colle, Cablam era scomparso con la sua Ombra (Lio) e l'aveva lasciata ad affrontare Cron. Nessuna guardia Mutata l'avrebbe fermata, non c'erano trabocchetti da evitare; Cron la stava aspettando. Adunanza. Era stata questa parola a sconvolgere (e ad espandere) la sua mente, anche se lo aveva fatto sottilmente e senza l'irruenza di una valanga come invece ci si aspetterebbe da una tale rivelazione. Era solo un dubbio, all'inizio, confuso tra le molte altre incertezze; alcune erano appena nate in risposta al difficile compito cui era chiamata da Solamia mentre altre l'avevano seguita da quel mondo lontano che per un certo periodo era stato la sua casa. L'Adunanza era sia la domanda che la risposta e lei aveva dovuto percorrere una lunga e tortuosa strada per capirlo. Ma non era ancora finita.

Luna era sempre più padrona del suo destino ed ora si rendeva conto che poteva gestire anche il destino degli altri. Ma le sue mani tremavano ed i suoi movimenti erano incerti. Era difficile per lei separarsi con un taglio netto dalla sua parte umana e sentimentale e forse non avrebbe neppure dovuto farlo, forse il suo potere stava proprio nella molteplicità delle forze che spingevano i suoi pensieri contemporaneamente in diverse direzioni. Aveva solo la forza di una donna e la potenza data dalla consapevolezza di tutto ciò che aveva capito della propria natura. Eppure aveva bisogno solo di questo. Strano a dirsi ma era stato proprio Cablam a donarle la libertà di cui ora godeva l'inebriante sapore; ciò che possedeva (o da cui era posseduta, ora era la stessa cosa) era un'arma potente e proprio per questo Luna avrebbe dovuto fare attenzione per non correre il rischio di ferire qualcuno o se stessa. Certo qualcuno alla fine avrebbe sofferto, ogni scelta porta con sé questo pesante fardello e Luna era chiamata a compiere la scelta più difficile che un essere vivente potesse fare: rinunciare a sé stessa come semplice individuo e convogliare ogni sua essenza ed energia in un unico punto, ma era serena e pronta a farlo. Quello era il punto senza tempo e senza spazio in cui sarebbe avvenuta l'Adunanza, Cron e Cablam sarebbero giunti entrambi all'appuntamento: cosa sarebbe successo dopo nessuno poteva saperlo. L'unica verità era che presto la storia come fino ad ora era esistita sarebbe finita; il tempo come tutti lo conoscevano si sarebbe esaurito. Anche il libro che portava scritto sulla sua pelle si era concluso; Cablam stesso aveva scritto l'epilogo di quel romanzo che era la sua vita ata cingendole il polso con un bracciale di cristallo che prendeva il giusto posto tra le linee del tatuaggio come se fosse il pezzo mancante del puzzle: non aveva cerniere o saldature e aderiva stretto alla carne come se da essa fosse emerso per rivelarsi agli occhi del mondo (quel mondo che stava per finire). A segnare il trascorrere del tempo che le rimaneva c'era il continuo trillo dei dischetti metallici assicurati ai tre cerchi che le foravano ciascun lobo: il tintinnio cambiava ad ogni suo movimento, ad ogni sospiro di vento, ad ogni alito di pensiero perché il tempo è relativo ed il suo scorrere è influenzato da ciò che ci circonda e da ciò che abbiamo dentro di noi.

Come Luna aveva immaginato il portone di metallo della rocca era aperto, poté

così entrare nell'immenso cortile: era deserto, nessun Mutato le sbarrò la strada. Perché avrebbero dovuto? Era Cron che la voleva lì. Le mura di cinta avevano il colore del crepuscolo e la terra odorava di carne putrida; a fatica Luna riuscì ad attraversare la corte perché gli stivali continuavano ad affondare nel fango; quando questo si richiudeva sulla sua caviglia la sensazione era proprio come se una salda mano la stesse trattenendo. Luna si fermò sulla soglia dell'edificio centrale, guardava il salone che stava per ingoiarla ma riusciva a vedere solo l'oscurità. "Vieni avanti, non ti preoccupare se hai gli stivali sporchi." La voce la stava palesemente prendendo in giro, infatti appena Luna mise piede nella sala si rese conto che il luridume e il fetore nauseante del cortile erano amplificati all'interno dell'ambiente: il pavimento non era saldo come la roccia delle pareti, le sembrava di camminare su cuscini di pelle. Un 'cuscino' mugolò sotto il suo piede ed un altro si svuotò di parte del suo contenuto con un conato. "Vieni... Vieni." La voce continuava a parlarle ma lei non riusciva a capire da quale punto provenisse, sembrava che l'intera stanza le parlasse. "Mi hai cercato per tanto tempo ed ora che sono qui non mi vedi neppure?" La risata che seguì servì ad innervosire Luna che inciampò' su qualcosa che sperò essere una corda e non le viscere di qualcuno. Un braccio le circondò la vita, una mano le sollevò il viso, poi sentì il petto di lui sollevarsi in profondi respiri; era così vicino che avrebbe potuto baciarlo, oppure ucciderlo. No! Era ancora troppo presto per entrambe le cose, ma il tempo si consumava tintinnando ad altissima frequenza. Lui la prese in braccio e lei non si oppose. Quando Luna riappoggiò i piedi il terra il pavimento da incubo era scomparso e fu una semplice roccia a frenare la sua caduta verso l'abisso. Un cigolio, un tuono e la luce improvvisa. Ma erano solo un cardine arrugginito, una pesante persiana che si apriva sbattendo e la luce del sole che entrava prepotentemente dalla finestra. Finalmente un volto si dipinse sull'uomo che non era un uomo perché era Cron. La luce illuminava solo quel viso e niente altro in quella stanza, ma anche se non fosse stato così Luna non avrebbe potuto guardare altro, non avrebbe potuto perché quello era l'unica cosa che conosceva alla perfezione in tutto quel caos. "No. Questo no."

Ma l'implorazione di Luna non mutò la realtà. Cron sfoggiava senza ritegno lo stesso sorriso e le stesse labbra, nei suoi occhi neri brillava lo stesso sguardo. Sembrava... No, era realmente... Lui... Ares, il suo acerbo ed innocente amore. "Sono proprio io. Dal momento in cui sei nata ho capito che noi due ci saremmo ritrovati insieme, ma sapevo che per raggiungermi avresti dovuto attraversare molte difficoltà. Ho deciso così di farmi conoscere da te prima, prima che i pensieri degli altri distorcessero la realtà in una immagine illusoria. Ora sai chi sono veramente." Luna era stordita, le immagini che i suoi occhi vedevano in quell'istante si accavallavano a quelle dei suoi ricordi, lontane nel tempo e nello spazio. La comprensione giunse bruciante come una frustata; ecco perché Ares dipingeva i luoghi che lei sognava, ecco perché si capivano senza parlare, ecco perché solo con lui era riuscita a raggiungere un tale grado di intesa che nulla aveva di simile con i sentimenti che provano tutti i giovani. Lui era come lei, loro erano uguali. Ma gli antichi sentimenti per Ares apparirono sbiaditi quando si confrontarono con ciò che Luna aveva conosciuto di Cron: il rosso sangue degli innocenti che aveva visto uccidere, il nero delle notti di terrore in cui Solamia (in cui lei) aveva vissuto. L'affresco si dissolse e tutto ritornò chiaro. "Infatti io ti conosco. Ti riconosco come dittatore e carnefice. Creatore orribile di mostri malvagi. " "Non essere sciocca, non farti fuorviare dalle azioni che devo compiere per raggiungere il mio scopo, io sono troppo complesso per essere compreso solo leggendo ciò che faccio. " "Il tuo scopo è perfido e tu sei un criminale... " "Ostilità? E' questo che raccolgo dopo tanto paziente lavoro? Dopo che ti ho lasciato vivere? Dopo che ti ho permesso di raggiungermi?" "Non mi hai risparmiato la vita, non puoi uccidermi: hai bisogno di me e sei stato proprio tu a rivelarmelo con i tuoi goffi tentativi di rapirmi." "Goffo! Io non sono goffo. Se non fosse stato per mio padre..." L'odio che viveva in Cron prese il sopravvento e fu lui a continuare: anche l'espressione del suo viso era mutata come se fosse un'altra persona a parlare. "L'essere che tu conosci come Cablam avrebbe dovuto donarmi il suo potere molto tempo fa, come suo

padre aveva fatto con lui e come tutti i Cron del ato avevano fatto. Ma no! Lui si sentiva diverso, si sentiva superiore al destino e più forte della tradizione. Lui si faceva domande e non si è dato pace finché non ha trovato una risposta a tutti i perché. Ed ora che cosa ne ha guadagnato? Nulla. Io possiedo tutta quest'isola e tra poco otterrò anche tutta Solamia, lui ha solo le vesti che indossa. Io sono al comando dell'esercito più perfetto che possa esistere, lui è a capo solo di sé stesso." "Ecco perché non si è sacrificato per te, sei così ottuso che avresti sprecato il potere che lui ti avrebbe donato. Cablam possiede tutto ciò che non poteva essere posseduto e governa ciò che fino ad ora era ingovernabile." "Lo adori fino a questo punto? Sei stata tu a santificarlo oppure è stato lui stesso ad elevarsi a Dio?" La voce di Cron divenne melliflua e le sue parole si fecero accondiscendenti. "Ma tu non hai colpa, dopotutto hai subito la sua presenza ed udito il suo salmodiare per tutto questo tempo, le sue parole ti hanno sviato e confuso." Luna si sottrasse con un gesto di stizza alla carezza di Cron suscitando in lui una tale collera che la sua mano si chiuse in un pugno e il colpo che le inflisse fu tale che la scaraventò contro il muro. Luna premette con forza la mano sulla guancia dolorante e il suo sguardo severo sottolineò le sue parole. "Non sono cieca, non sono sorda: la mia mente è sgombera dai demoni che tu mi inviavi per manipolare e plasmare i miei pensieri a tuo piacimento." "Già! Devo ammettere che quelle farneticanti illusioni che ti colpivano la notte e quelle speranzose visioni di una Imm capitale di un mondo libero e sereno erano geniali. Per tutto il tuo viaggio hai seguito questi segnali ed hai quasi ignorato gli avvertimenti che Cablam ti inviava. Mi dispiace molto di non potermi prendere il merito di tutto questo." Luna si sorprese nell'udire un tono quasi modesto in quella frase. "Non ero io a mandarti quei messaggi." E così dicendo Cron indicò un punto imprecisato del pavimento. Come lei aveva accettato l'invito ad entrare nel buio della sala, così ora un raggio di sole ubbidì a Cron ed andò a illuminare il luogo esatto da lui segnato. La porzione bagnata dalla luce era un esplicativo esempio di come doveva essere tutto il pavimento che lei aveva dovuto attraversare: un groviglio di corpi nudi, di membra e teste si contorceva e pulsava a ritmo sincopato; Luna non riusciva a capire dove finiva

un uomo e dove iniziava un altro. Improvvisamente, ma lentamente, come se fosse stato richiamato, un unico essere si fece strada attraverso quel magma di carni luride ed in putrefazione e rimase isolato dal resto della febbricitante colonia. Non era certo bello da vedere: l'uomo (se quello era un uomo) era scosso da tremiti che devastavano la sua figura, scivolava e si raggomitolava sopra gli altri corpi sporchi di feci e di umori viscerali; alle volte si alzava in piedi di scatto, come se il burattinaio avesse tirato con uno strattone i suoi fili e poi ricadeva senza opporre resistenza. Non sapeva come, non capiva da che cosa l'aveva riconosciuto, ma Luna conosceva quell'uomo. Era Ledon, suo padre: mentre i suoi muscoli venivano sconvolti da spasmi spastici la sua mente veniva tormentata da allucinazioni e deliri. Così il popolo di Solamia era stato ispirato dai pensieri di un folle, la Imm che tutti chiamavano in diversi modi ma che significava sempre libertà era solo la visione di un essere che non aveva più nulla dell'uomo che era stato. Luna ricordò il cavaliere dal drappo rosso che nelle sue visioni spiccava di netto la testa dal collo di suo padre con una grande spada, quella era la sola immagine reale che suo padre le inviava per descrivere la pazzia che lo devastava. Un fulmine azzurrino scaturì dalle dita impreziosire dal tatuaggio e da quelle cinte dal tali e colpì il corpo di quello che un tempo era suo padre. Sotto lo sguardo color arancio di Luna si spegneva la luce deviata che animava ancora l'uomo morto ormai da tempo, ma dietro la pupilla di serpente le lacrime della figlia che continuava ad esistere incendiarono il cuore di Luna. "Che cosa volevi dimostrare con questo? Volevi che vedessi quanto può offrire una persona per seguire i suoi ideali oppure volevi farmi vedere come sei bravo a ridurre in schiavitù anche il migliore degli uomini?" "Volevo solo farti capire come si possa finire male a seguire i suggerimenti sbagliati e quanto si possa arrivare vicino alla morte perseguendo una scopo che non è il nostro." "Immagino che tu ti riferisca a quello che mi ha detto Cablam... "Cablam... Cablam. Lo vedi? Non fai altro che pronunciare il suo nome. E quello che ha fatto. E quello che ha detto. Stai seguendo il suo progetto senza domandarti se questo sia in realtà giusto... Non contraddirmi e guardati." La finestra che fino a qualche istante prima le mostrava l'oceano blu, ora

rifletteva il blu dei suoi occhi; nonostante questa trasformazione lo specchio continuava ad essere l'unica fonte luminosa della sala. L'intera figura di Luna era catturata dallo specchio, tanto che se non fosse stata certa di essere nella sala avrebbe potuto tranquillamente accettare l'idea di trovarsi fisicamente dall'altra parte dello specchio; ma forse il "là" era "qua" e viceversa. "Guardati." Cron le parlava all'orecchio. Luna sentiva il suo respiro sul collo ma la sua immagine non veniva riflessa; attorno a lei c'era un buio profondo che minacciava di divorarla. "Non è forse la mano di Cablam che stringe il tuo polso e che guida i tuoi i lungo il sentiero che lui ha scelto per te?" Lo specchio rivelò ciò che Cron aveva descritto; Luna istintivamente si toccò il polso sinistro aspettandosi di trovare le calde dita di Cablam, ma il tatto non si ingannò e riconobbe il bracciale di cristallo molato. "Ascolta! Non sono forse le parole di Cablam che perennemente attraversano la tua mente? Cablam è padrone dei tuoi pensieri è per questo che non sei libera di esprimerti con parole diverse da quelle che lui ha scritto per te." Lo specchio mise in luce il profilo di Cablam accostato all'orecchio di Luna, ma lei udì solo il tintinnio metallico dei diversi dischi appesi agli orecchini. "I tuoi trucchetti da illusore da strada non mi toccano. Stai offendendo la mia intelligenza mostrandoti così meschino e scriteriato." "Ostile e testarda. La cosa mi irriterebbe se la sfida non mi eccitasse tanto. D'altra parte quando Cablam ti ha lasciato nelle mie mani avevo immaginato che la sua sicurezza doveva avere delle solide basi. E' convinto che nulla di ciò che dirò comprometterà la crescita del germoglio che ha seminato in te." Garbatamente ma con determinazione Luna porse la sua mano a Cron, desiderava essere condotta nel mondo costruito da quell'uomo per poi distruggerlo. Cron la accolse nella sua mano forte e sicura, voleva far vedere a quella donna le sue conquiste per distruggere tutto ciò che Cablam aveva costruito. Un viaggio onirico, ecco come apparve agli occhi di Luna il susseguirsi dei corridoi e delle sale della roccaforte. Il nero era l'unico colore che si stendeva su quelle pareti; lungo i muri i corpi dei Celibredi, Mutati a guardia del palazzo, si fondevano con le colonne che terminavano sul soffitto formando archi rampanti. Seguendo una regola che sembrava vivesse e palpitasse nell'aria stessa del castello e secondo la quale esisteva una possibile convivenza tra ogni

cosa ed il suo opposto, la costruzione sembrava fosse costruita solo a metà oppure che fosse parzialmente distrutta. "Che cosa ha fatto la società umana!" intervenne grave Cron mentre percorrevano uno dei tanti corridoi bui. "Ha fermato l'evoluzione della specie." Entrarono in una stanza alla cui vista Luna non poté trattenere un brivido. Animali imbalsamati la guardavano con i loro occhi di vetro e rimanevano statici nell'atteggiamento che un uomo aveva scelto per ciascuno di loro; alcuni erano chiusi dentro bacheche di vetro, altri erano stati derubati del corpo e la loro testa spuntava innaturalmente dalle pareti. "La scienza, la medicina, anche la magia hanno bloccato la selezione naturale dell'uomo permettendo anche ai meno forti di sopravvivere e di riprodursi, così facendo hanno indebolito il patrimonio genetico della specie." Tali parole riempivano l'aria profumata dalla carta pressata e dalla pelle conciata dei manoscritti rilegati posti ordinatamente sulle quattro pareti della biblioteca. "Tra gli animali il debole soccombe mentre il forte dà vita ad una generazione degna (e capace) di sopravvivere. Per l'uomo non è così; anche le guerre, unico vero flagello capace di selezionare gli uomini forti dai deboli, sono state dimenticate e seppellite dalla politica e dal commercio. La specie umana è stata logorata da tutto questo, altrimenti l'uomo sarebbe il vero dominatore e non l'essere indifeso quale è. Povero illuso, cerca di contrastare senza riuscirci la potenza della natura." Le pareti della stanza erano ricoperte da ogni genere di armi: demo, amlin, gordum, anaud, frecce e archi, gaidìn e tutti gli strumenti di offesa appartenuti alle diverse tribù, da quelli primordiali ai più moderni. Pareva che Cron stesse leggendo un libro e accompagnasse Luna attraverso le parole e dentro le pagine costruite come stanze nella fortezza. "Poi l'isolamento e la ricerca della purezza della razza ha portato a concepimenti tra parenti e al parto di uomini malati ancora prima di emettere il primo vagito. Io, Cron, ho racchiuso nel mio sangue la perfezione di tutte le razze; le madri che hanno dato vita ai Cron, i miei antenati, sono state scelte dopo una selezione minuziosa. Io sono il risultato perfetto di millenni di accoppiamenti intelligenti." "Perdonami se interrompo la tua autocelebrazione, ma queste che racconti sono

cose che tutti conoscono. Tutti sanno che l'uomo non è sempre riuscito a compiere la giusta scelta e certamente non può essere definito un essere lungimirante: non si contano le volte che per ottenere un piccolo bene immediato ha sacrificato una grande ricchezza futura. Lo sviluppo della società è stato confuso con quello economico ed è diventato più importante possedere che essere. Si è preferito amare le cose e desiderare gli altri piuttosto che imparare il significato dell'amore assoluto e la vera potenza dei desideri. I piccoli sbagli si sono sommati trasformandosi nell'universo di colpe che rendono l'uomo il piccolo essere che è. Non si può trovare una società che non abbia lacune e che non abbia fallito nell'unico compito che era stata chiamata a svolgere: elevarsi al di sopra del proprio limite. Ma elencare gli errori non è affatto un o avanti verso la soluzione. Vedere e non muoversi per migliorare è peggio che non vedere affatto. Tu, Cron, cosa credi di poter fare? Qual è il potere che ti può elevare al di sopra degli altri e che per questo di dà il diritto di decidere della vita di tutti?" Cron rimase ammutolito. Sentiva le parole di Luna e percepiva in esse un certo interesse: lei voleva davvero conoscere ciò che aveva da offrirle e in fondo al cuore aveva cancellato l'odio che aveva imparato a provare per lui dal momento in cui aveva fatto ritorno a Solamia. Luna lo guardava come se fosse la prima volta che lo vedeva e come se non sapesse nulla del suo ato; non perché avesse dimenticato ma perché era così conscia di tutto ciò che era stato e di ciò che era in quel momento che poteva proiettarsi esclusivamente nel futuro: non in quello che seguiva il ato ma in quello senza tempo, quello in cui tutto sarebbe iniziato per la seconda volta. Solo così poteva valutare, senza ipocrisia e senza rancori, se l'avvenire da lui disegnato fosse una valida alternativa a quello che si stava già consumando. Luna non era più la figlia di Lòren che viveva per vendicare la sua Famiglia, non era più colei che aveva lottato per trascinare Solamia fuori dal torpore e per istigarla contro Cron, il suo torturatore; non era nemmeno la donna che aveva capito il suo errore ed aveva avuto il coraggio di cominciare da un altro punto. Non era più un essere appartenente a quell'universo! E quello che di lì a poco sarebbe iniziato era la Battaglia, perché non possono esserci spinte dinamiche senza movimento e non c'è movimento se non ci sono due entità che si scontrano. Questo era la Battaglia, uno scambio, un incontro, una condivisione, l'Adunanza. Luna doveva solo trovare il suo avversario: Cablam si era già proposto, ora toccava a Cron.

Questi riconobbe per la prima volta il potere che elevava Luna al di sopra degli altri e per la prima volta dubitò di essere giunto anche lui al suo stesso livello. Ma fu una frazione di secondo di cui non conservò alcun ricordo. "Ciò che impedisce all'uomo di elevarsi è l'uomo stesso. La sua natura primordiale era una valida base ma millenni di sbagli ne hanno ormai minato la costituzione. Sono orgoglioso di farti conoscere la mia soluzione." Le parole pronunciate con tanta enfasi si impregnarono degli odori di sangue e sudore che riempivano la stanza nella quale Cron l'aveva condotta; Luna sgranò gli occhi: le Gestanti erano distese una accanto all'altra, abbandonate nude sul pavimento. Alcuni ominidi si affaccendavano attorno a loro, chi le puliva grossolanamente, chi spazzava via da terra i resti di carne e sangue, chi raccoglieva i neonati espulsi da quei corpi eternamente gravidi. Le Mutate avevano perso tutto ciò che di femminile c'era in una madre e se non fossero state nude con le gambe divaricate si sarebbe potuto dubitare che fossero delle femmine. La mancanza di mammelle dimostrava che l'allattamento non era una delle loro mansioni mentre la flaccidità e la sovrabbondanza delle carni lasciavano intendere che nessuna di loro si era spostata da quel pavimento e che non lo avrebbe mai fatto. La testa rasata e i tratti somatici abbrutiti dai medesimi sforzi impedivano di riconoscere una certa individualità; erano semplicemente cloni di una Gestante originaria, colei che aveva dato il via a questa prima fase dell'orribile catena di montaggio dei Mutati. Disgustata dalla scena raccapricciante, Luna reagì. "Sei riuscito a trasformare il concepimento, il travaglio ed il parto in una fabbrica di mostri, hai degenerato il ruolo di madre in quei luridi ed abominevoli esseri." "I miei scopi hanno bisogno di carne fresca; nonostante il modo in cui vengono al mondo, i neonati partoriti sono del tutto simili a quelli umani, sarà l'Acqua di Rasia a ricrearli in modo da trasformarli nei diversi Mutati." Cron rispose ma senza giustificarsi, poi proseguì accompagnando Luna nel suo mondo delle meraviglie. Meravigliose mostruosità, questo vide Luna: meravigliose perché mai alcuna mente avrebbe potuto concepirle (ma Cron poteva), mostruosità perché quelle creature nulla avevano di sano e di armonioso.

I Manipolatori, Mutati alti e scheletrici dalla testa ovale e con una lunga schiena che lasciava vedere le creste vertebrali sotto la pelle nera, erano coloro che predisponevano la sorte dei neonati plasmando i loro corpi e ricavandone i molteplici servi di Cron. Prendevano quei fagottini di carne che piangevano dimenando le piccole e paffute gambine con le loro lunghe braccia e li immergevano in una vasca di pietra. L'Acqua di Rasia penetrava nella bocca e nel naso dell'infante che così riprovava la sensazione prenatale di respirare un liquido; purtroppo i piccoli non morivano annegati, quell'acqua malvagia riservava per loro un destino ancora peggiore: le cellule dei tessuti venivano modificate e tutto il corpo del bambino diventava mollo e inconsistente tra le mani dei Manipolatori. Sui banchi sterili i neri Mutati plasmavano i corpicini per dare loro una nuova forma ed una determinata natura: era così che nascevano i Carmid e i Leda, i Ramib, i Lobrati e tutti i diversi Mutati. Infine il Manipolatore si dirigeva verso una delle quattro immense pareti formate da celle cuboidali, ne apriva una come un cassetto e vi introduceva il Mutato al primo stadio perché maturasse in attesa delle manipolazioni successive. Solo alla fine sarebbe stato un Mutato adulto. Cron aveva sospeso il trasporto dei Mutati nel continente ma non ne aveva fermato la produzione: quello era l'esercito preparato per attaccare Solamia. Nella rocca vi erano già migliaia e migliaia di Mutati maturi pronti a dare battaglia agli uomini che presto sarebbero giunti sulle navi. "Ma che cosa stai facendo in questo antro, chi ti credi di essere?" "Io sono l'essere perfettissimo... " "Io non vedo nulla di perfetto. Non sei diverso da quell'essere nel quale era degenerato il mio povero padre e le tue parole sono simili alle feci che fuoriuscivano da quel corpo. Tu sguazzi nel liquame delle tue idee malate come un maiale che si bea dei suoi escrementi; ti credi un Dio ma sei solo il Re del porcile perché questo è l'unico mondo che vedi e che comprendi. Ma c'è tutto un altro mondo là fuori che ti schiaccerebbe se solo tu osassi uscire da questa fortezza. Lentamente la Natura sta già spazzando via i tuoi mostri incapaci di trovare un equilibrio con quel mondo che continuano a devastare: ma ciò che otterranno sarà solo di trovare presto la morte." Il silenzio piombò tra loro mentre attorno i rumori della fucina degli orrori continuavano incessantemente. Cron ruppe la quiete. "Non è mia intenzione preservare le antiche civiltà, ma non ho alcun interesse a circondarmi di un popolo di deformi. Queste creature sono i miei mostruosi giullari, anche se

spietati come i migliori guerrieri. Hai ragione quando dici che la loro sorte è segnata, ma lo è già dalla nascita perché io ho deciso che sia così. Quando ci sarà l'Adunanza, io ne uscirò vincitore; dopo di che i miei Mutati invaderanno tutta Solamia. Sarà un'operazione di proporzioni immense e nessun essere potrà sopravvivere alla forza distruttiva del mio esercito. Quando tutti i popoli di Solamia avranno smesso di respirare, le Gestanti smetteranno di produrre i neonati e i Manipolatori non creeranno più Mutati. Le creature che sono già nate scompariranno quando il loro breve ciclo vitale si esaurirà e non ci saranno eredi perché i Mutati non possono riprodursi. Il mondo resterà deserto e sarà finalmente mio. Allora sarà il momento, il nostro momento. Luna, noi due daremo vita a un nuovo popolo di Dominatori. Il seme del potere è in me e tu sei la terra forte e fertile dalla quale nascerà la nobile stirpe." La fragorosa risata di Luna fu come un vento giocoso che spazzò via le pesanti nubi gonfiate dalle parole di Cron. "Sei un cattivo venditore, Cron. Cablam mi ha proposto di essere Dio e tu mi offri solo di diventare una Eva legata alla costola di un Adamo egoista ed arrogante, la cui massima aspirazione è quella di vivere in un paradiso costruito da Dei ormai morti e circondarsi da creature capaci solo di adorarlo." L'offesa fu grande e Cron si rivoltò contro Luna con tutta la sua furia. "Il tuo rifiuto non è nei miei piani, sarai mia anche senza il tuo consenso." Come se queste parole nascondessero un comando, emesso con suoni ai quali l'orecchio umano era sordo, I Celibredi mimetizzati nell'ombra presero Luna e la trascinarono con violenza verso il tavolo di lavoro dei Manipolatori. Cron se ne andò e Luna rimase sola con quelle funeree creature. I Celibredi ritornarono a fondersi con il buio della stanza, in attesa del prossimo richiamo, mentre il Manipolatore si chinò su di lei come un dottore di fronte ad un reperto da studiare. La scrutava e la tastava incuriosito, ma per niente confuso; i globi oculari, completamente lucidi, neri e ovali, rimanevano immobili mentre il piccolo naso, non diverso da quello di un teschio, vibrava ad ogni respiro. I lenti ma decisi movimenti del Manipolatore confo Luna che non fu pronta a reagire quando si ritrovò sospesa a mezz'aria, trattenuta delle sottili dita legnose del Mutato. Subito dopo l'Acqua di Rasia la coprì completamente. Il liquido maledetto premeva per entrare nel suo corpo e Luna sentiva di aver

bisogno di aria; ancora una volta il potere racchiuso in lei prese il sopravvento, l'acqua si tinse del rosso del sangue delle lacrime di Luna e le mani che prima cercavano di liberarsi si strinsero attorno alle braccia del Manipolatore. La potenza del fulmine contrastò la forza del Mutato trascinandolo dentro la vasca; Luna uscì fuori appena in tempo per vedere che fine avrebbe fatto se fosse rimasta ancora immersa nell'Acqua di Rasia: il manipolatore si era trasformato in una massa gelatinosa e pulsante che galleggiava sulla superficie. L'accaduto non generò scompiglio tra gli altri Manipolatori (non era compito loro occuparsi dei prigionieri) che continuarono imibili il loro lavoro. Ma presto i Celibredi avrebbero reagito; Luna si arrampicò sulla parete suddivisa a cassettoni ed entrò in uno dei cubi-cellette. Sbirciando furtiva dal suo nascondiglio (che condivideva con un essere che respirava nell'angolo opposto) Luna vide una scena che si svolgeva al di fuori di tutto il trambusto che la sua fuga aveva creato tra i Celibredi. Uno dei tanti Manipolatori aveva disteso sul tavolo un bambino, poteva avere tre anni, ma forse era nato da una Gestante solo tre ore prima. Gli effetti dell'acqua di Rasia avevano già modificato la creaturina: la pelle aveva il colore e la consistenza (almeno all'apparenza) del marmo bianco segnato da venature bluastre, era senza capelli, ciglia e sopracciglia ed aveva due grandi occhi azzurri e terrorizzati. Le giunture delle membra a livello della spalla, del gomito e del polso erano ridotte al minimo. Anche le gambe erano in quelle condizioni e nell'insieme lo facevano assomigliare ad un burattino. Gli occhi, di un azzurro celestiale, erano le uniche cose che si muovevano; freneticamente e a scatti cercavano ovunque finché trovarono gli occhi di Luna, allora quegli occhi parlarono chiedendo aiuto. Una stretta al cuore, un dolore alla gola, una fitta nel cervello: l'impossibilità di fare qualcosa addolorava Luna. Il Manipolatore staccò di netto le gambe alla creatura spaventata; non ci fu versamento di sangue e il cucciolo non gridò visto che non aveva la bocca, ma i suoi occhi erano colmi di sofferenza e questo bastò a far piangere il cuore di Luna. Ora sembrava proprio un bambolotto, con le gambe amputate appoggiate su una mensola insieme ad altre simili. Era ancora vivo e, seppure menomato, appena il Manipolatore si allontanò cercò una via di scampo. A fatica si trascinò sulla superficie scivolosa facendo forza sulle braccine; quando giunse al bordo del tavolo il Manipolatore lo prese con una sola mano e lo rimise nella posizione iniziale, cancellando con un solo gesto l'arduo tentativo di fuga. Le ricerche dei Celibredi si spostarono altrove, così Luna poté uscire dal suo

nascondiglio senza temere alcuna reazione da parte degli indaffarati Manipolatori; non si voltò nella direzione della creatura la cui sofferenza le aveva toccato il cuore, doveva abbandonarla al suo destino come aveva fatto con il popolo di Solamia. L'Adunanza doveva svolgersi altrove e la lotta si sarebbe conclusa con un altro avversario. Attraversò la stanza dalle pareti a cassettoni e imboccò un cunicolo stretto e buio; Luna non riusciva a vedere e non era sicura di dove conducesse ma si fidava del proprio istinto. Quel aggio faceva parte di un labirinto che irretiva tutta la rocca, i cunicoli avano sotto il pavimento oppure erano scavati nelle pareti più spesse. Luna li percorreva con o sicuro e con determinazione decideva quale percorso fare; non stava scappando, era venuta a cercare Cron e non aveva paura, si sentiva sicura. In fondo al cunicolo che aveva imboccato per ultimo Luna vide una luce danzante e si affrettò a raggiungerla; sollevò la pesante grata che ostruiva il aggio e si trovo in una stanza la cui architettura ricordava quella gotica di Deos. Non era mai stata lì ma sapeva che quella sala vuota e buia era la preferita di Cron; decise di attenderlo lì, quello era il luogo designato. Luna si affacciò alla finestra che guardava l'oceano: il tempo si era contratto e la luna era di nuovo alta e grande nel cielo e presto sarebbe scomparsa dietro il nero sipario delle cinque costellazioni. Mentre la luce argentea piano piano si spegneva, Luna riuscì a scorgere le navi della speranza che erano partite da Aruni. Le avrebbe viste anche se quella fosse stata una notte senza luna perché il suo cuore vedeva più dei suoi occhi e sentiva... riusciva a sentire dentro di sé il palpito che viveva nel petto di quegli uomini che, nonostante si stessero avvicinando, erano in realtà tanto lontani da lei che la distanza tra loro non poteva essere in alcun modo colmata. Luna non poté non pensare a tutte le persone che l'avevano aiutata e a quelle che l'avevano amata. Lei era cresciuta grazie a questi sentimenti, si era fortificata assorbendo le energie di tutti coloro che le erano stati vicino, grazie a loro era diventata più grande di chiunque altro e molto più potente di quanto tutti credevano. Doveva molto a quei piccoli uomini chiusi nelle loro speranze, ma era decisa a portare a termine il suo compito. Nessuno di loro avrebbe potuto capire la sua scelta, nessuno, neppure Arat perché anche lui era solo un uomo e per questo limitato dalla sua condizione. Esistono molte cose, molte più cose... cose mai viste, cose che potranno esistere se solo... Luna aveva tentato di

spiegarglielo, ma anche le parole sono limitate perché sono state create dall'uomo e riescono a definire solo i concetti ristretti che l'uomo stesso può concepire... Ma ci sono cose... molte cose... molte più cose... La luce della luna si spense e le stelle rimasero mute, Cron era entrato e l'aveva vista. "Allora sei qui." Cron, sfacciatamente sicuro, si avvicinò a Luna. "Sì! E come puoi vedere sono ancora in me. Non sei riuscito a trasformarmi nella tua Gestante personale." "Non ti avrei mai fatto un torto simile, volevo solo correggere qualche tua idea." "La mia mente sta bene così!" Il tono di Luna fu forte almeno quanto il fulmine azzurro che scaturì dalle sue mani e che colpì Cron in pieno petto. La potenza dell'urto lo scaraventò contro il muro, ma Luna sapeva che era ancora vivo e non era suo intenzione ucciderlo, non così e non ora. Infatti Cron si risollevò, dietro a sé le pietre si erano crepate ed infossate per la violenza dell'impatto e le vesti ancora fumavano per lo scontro con il fuoco celeste. "Incominci così, senza neppure avvertirmi?" "Volevo che ti fosse chiaro e inequivocabile il concetto che non accetterò mai di allinearmi alle tue idee, e questo mi sembrava il modo migliore per fartelo capire." "Allora la mia prossima mossa non può che essere questa." L'ombra di Cron si distese sul muro alle sue spalle e il suo profilo si mutò in quello di un gigantesco guerriero; il nero selvaggio uscì dal teatrino delle ombre cinesi e si impossessò della terza dimensione, diventando ancora più imponente e terribile. L'energumeno oscuro si mosse come una nuvola che attraversa il cielo notturno e coprì Luna, ma ancora una volta il fulmine azzurro esplose e trafisse la notte antropomorfa che si dileguò ferita andando a rintanarsi entro i confini dell'ombra di Cron. Luna si muoveva a fatica, il cervello ancora le pulsava in seguito alla pressione subita ed i polmoni si gonfiavano spasmodicamente alla ricerca dell'aria che poco prima le era stata negata. Dalla bocca le uscì un rivolo

di sangue, segno che l'ombra era riuscita a ferirle le viscere senza squarciarle la pelle. Cron le parlò ancora e questa volta il tono divenne pietoso. "Sei troppo debole. Lasciati possedere e tutto il male cesserà." "No! Non credere di poter vincere solo perché questo corpo, che per ora chiamo mio, sta sanguinando. Le mie idee sono chiare, il mio spirito è forte; non ho bisogno della tua comione, non ho bisogno di te. Non sarò mai tua perché tu non riuscirai mai a prendermi." "Se non sarai mia allora non sarai di nessuno!" Con uno scatto felino Cron prese Luna per la gola. La mano si strinse e il braccio la sollevò da terra. Il carnefice era là, di fronte alla finestra mentre Luna penzolava nel vuoto; non riusciva a capire se desiderasse di più riprendere a respirare e precipitare da quella torre a strapiombo sull'oceano, oppure rimanere soffocata da quell'artiglio che la tratteneva. Il dubbio venne sciolto, ma non fu Luna a trovare la soluzione; le mani ondeggianti dell'oceano salirono fino a lei e la afferrarono per le gambe trascinandola con loro. L'impatto con la superficie dell'acqua fu violento e la caduta proseguì sempre più in profondità. Nastri di sangue usciti dalle orecchie di Luna bagnavano l'acqua salata e salivano verso il soffitto di quel sepolcro sottomarino affiorando alla tanto desiderata aria. Ormai la pressione era diventata insopportabile e Luna morì. O meglio, un istante prima di accorgersi che la vita le respirava ancora dentro immaginò che quella dovesse essere la morte. "Sei ancora viva." La voce di Cron le gorgogliava nelle orecchie superando il tappo di sale e sangue. "Questa è la tua ultima possibilità." "Sei così limitato da credere ancora che per vincere sia sempre necessario uccidere il proprio nemico. Più ti riveli a me e più mi convinco che tu non sei affatto un avversario degno di me." "Se non temi la morte sarai subito messa alla prova." Il secondo atto del dramma notturno si aprì con l'entrata in scena della splendente luna la cui luce bagnò il corpo inerme di Luna disteso sul pavimento. Le rocce delle mura sussultarono al rintocco dei suoi i; sembrava che anche l'aria, rinchiusa nella rocca per millenni, riconoscesse nel suo respiro la voce dell'antico padrone: Cablam entrò nella stanza. Si guardò intorno soffermandosi

solo un istante in più sui due attori che impegnavano la scena. Sembrava uno spettatore arrivato in ritardo ma per niente seccato di aver perso il primo atto, del quale conosceva già lo svolgimento. Cron non fu contento dell'intervento di Cablam, ma se lo aspettava; abbandonò l'ormai inoffensiva Luna e si preparò a colpire l'antico e rinnovato nemico. "Padre, ora sono io il padrone. Non hai alcun diritto su di me, su questa terra e su ciò che esiste su di essa." "Il mio potere è infinito e posseggo ogni cosa, anche ciò che tu ancora non conosci." "Allora vai a governare altri universi e lascia a me questo mondo." Il tono di Cron non divenne mai supplichevole, ma si leggeva con facilità quanto il figlio si sentisse inferiore al padre, e lo era davvero. "Non avrei difficoltà ad accontentarti. Ma c'è un problema: questo mondo sta per collassare, per annullarsi, e rischia di trascinarsi tutto dietro. Tu non faresti altro che perdere tempo mentre io posso cambiare il destino." "Il mio destino era quello di governare dopo di te; io ho proseguito il lavoro che tu avevi abbandonato per seguire altre strade. Se non volevi cedere il tuo potere perché mi hai messo al mondo? Sono forse il tuo unico errore?" "Per molto tempo ho pensato proprio questo di te. Ma quando Luna è nata ho capito che fin dall'inizio la mia strada era quella giusta, quella che mi avrebbe portato al compimento del nostro futuro, mio e di Luna." "Luna è mia. E' nata per essere la mia sposa. Io so che è con lei che avverrà l'Adunanza." "Non hai torto, anche nella tua semplice e incompleta essenza sei riuscito a capire che il tuo svolgersi è legato all'Adunanza, ma non hai capito quale sia il giusto posto per te. L'Adunanza è l'incontro tra i due antagonisti; ormai tutti sappiamo che Luna è una delle due parti, io sono il suo avversario. Ma anche tu fai parte di questa unione, anche se non ne sarai il protagonista. Tu, Cron, sei il pretesto, la scusa per far sì che questo incontro avvenga. Sei nato solo per questo, per dar modo a Luna e a me di focalizzare le nostre energie in questo luogo ed in questo tempo."

Gli occhi di Cron rivelavano tutta la sua rabbia ma lasciavano trasparire anche un altro tipo di rancore: sentiva che ciò che apprendeva da suo padre era la verità e quindi provava un grande odio per colui che l'aveva creato solo allo scopo di usarlo come artificio per i suoi piani. La follia che lo aveva sempre posseduto si liberò dalla tenue presa della ragione e parlò senza freni. "Tu non ami Luna, tu vuoi combatterla e distruggerla! Non te lo permetterò! Lei è mia!" "Tu sbagli, come sempre. Luna ed io ci incontreremo, ci scontreremo e ci uniremo più volte; il tutto nascerà proprio da questa altalena di sentimenti e dall'avvicendarsi di lotte e riappacificazioni, dalla convergenza dei nostri spiriti diversi e dallo scontro dei nostri caratteri affini. Perché Luna ed io siamo uguali, solo noi siamo diversi da tutti gli altri e ci apparteniamo l'un l'altro." Cron non ascoltava più le parole di Cablam, ormai l'odio che provava per suo padre lo aveva totalmente avvolto e completamente inondato. Il suo sguardo si posò su Cablam come un avvoltoio mentre la sua mente stava già tessendo la magia che avrebbe distrutto (o, meglio, che pensava avrebbe potuto distruggesse) il detestato rivale. Quando incontrò i suoi occhi però non vi lesse paura e neppure rabbia, aveva l'impressione di eseguire le mosse che il suo stesso padre aveva determinato per lui; Cron era completamente fuori di sé. Cablam si mosse avvicinandosi a lui con le braccia aperte, come un padre (che non era mai stato) verso il figlio (mai amato). Lo stupore non demolì il proposito di Cron che avanzava concentrando ogni energia dentro di sé, pronto a farla esplodere. L'incontro fu inevitabile perché nessuno si negò alla chiamata. Le braccia di Cablam non si allacciarono in un abbraccio al figlio, bensì incrociarono le mani di Luna (Cron non si era accorto che era riuscita ad alzarsi) e il legame che formarono era destinato a non dissolversi più. Cron vide che gli occhi del padre erano puntati sui suoi ma non lo stava guardando, il suo sguardo lo attraversava e si incontrava con quello di Luna comparsa come un incubo alle sue spalle. Stretto nel cerchio delle loro braccia, Cron si lasciò andare e il panico prese il posto della determinazione. Perse il controllo dell'energia di cui si era caricato e questa prese ad invaderlo come un germe dalla potenza devastante. L'Adunanza aveva avuto luogo e i due avversari avevano iniziato il loro confronto. Cron si spense nel momento in cui l'energia incenerì il suo essere. Tra le braccia di Luna e Cablam infuriava una colonna di luce che racchiudeva tutta

la forza dell'universo. I due si avvicinarono e si strinsero concentrando l'energia in un filo sempre più sottile, finché si fo nell'abbraccio che generò la scintilla.

***

La navigazione sembrava non giungere mai alla conclusione e uanto più il tempo si dilatava tanto più la pazienza degli uomini veniva meno. Il carico delle navi si appesantì dei molteplici umori dei eggeri, tanto che sembrava riuscissero a rallentare la corsa dei vascelli. Arat, come tutti, era ato attraverso il primo stato euforico e aveva cantato le canzoni che i soldati di solito intonavano per caricarsi prima della battaglia. Poi quando le lanterne si accesero per tentare di combattere il buio, i canti divennero meno assordanti e si formarono diversi gruppi che si lasciarono andare a musiche malinconiche e a ballate che raccontavano di donne sole che attendevano invano il ritorno del marito o del figlio partito per la guerra. Quando l'alcool spense gli animi e assopì le coscienze, i sogni non furono clementi e disturbarono il brevesonno dei guerrieri con visioni apocalittiche bagnate da fiumi di sangue di amici e parenti. In quella notte, Arat poteva vedere il lontananza la Rocca nera stagliarsi contro un cielo senza stelle. I pensieri di guerra lo avevano indebolito e la sua mente cercò un sostegno ricordando i momenti piacevoli che aveva trascorso durante la sua vita. L'unica cosa che riusciva a visualizzare era Luna, il suo viso, la sua voce, persino il suo profumo. Dov'era Luna? Era accanto a lei che Arat voleva stare. Ma era ormai impossibile; il tempo in cui erano stati davvero vicini apparteneva ad un ato lontano. Tutti erano svegli sulle navi nonostante i capitani avessero ordinato agli uomini di riposare: la vista della rocca di Lubra, seppure ancora lontana, aveva fatto are il sonno ed ognuno si era isolato dagli altri, raccolto intorno ai propri pensieri. Arat guardò la luna come per cercarvi il riflesso del volto della sua Luna e straordinariamente lo trovò, ma non era un'allucinazione o la proiezione dei propri desideri. La luna era grande più del solito, come se i due satelliti si fossero fusi tra loro creando una terza creatura; era al centro del cielo nero, là

dove di solito prendevano posto le cinque costellazioni, ma tutte le stelle erano scomparse. La faccia luminosa che il satellite mostrava agli uomini che la guardavano era segnata da crateri, da mari, da montagne e le ombre scolpivano su quel disco le fattezze di Luna. Era proprio lei, tutti l'avevano riconosciuta, ma solo Arat si soffermò a pensare che, forse, la faccia oscura della luna aveva il profilo di Cablam. Improvvisamente una colonna di luce tagliò in due il cielo; originatasi in un punto preciso della fortezza di Cron, saliva fino a perdersi nel bagliore del gigantesco satellite. Subito i soldati dell'intera flotta alzarono gli occhi al cielo e insieme a loro l'intero popolo di Solamia. In ogni punto di quella terra era scesa la notte e la luna era visibile da ogni essere vivente; all'unisono tutti furono spettatori del medesimo evento. Il filo azzurro nel quale si era concentrata la colonna accese la notte con la luce accecante del fulmine; nubi nere si ammassarono attorno a quel filamento che era diventato l'asse attorno al quale ruotava l'Universo. Questo fu quello che videro, ma nessuno di loro comprese l'accaduto. Non fu però tutto quello che accadde. Nonostante non ci fosse più alcun essere capace di ricordare e raccontare, gli eventi che si susseguirono non si svolsero senza suoni e colori. La terra si sciolse in un tumultuoso mare di magma rosso, le acque si sollevarono in bianche colonne di vapore mentre l'aria si incendiò per i gas eruttati dalla terra. Ciò che avvenne dopo non aveva più un tempo in cui avvenire, non aveva più uno spazio in cui verificarsi e non c'era più materia da devastare: lo sconvolgimento universale era avvenuto.

***

"Che cosa è successo?" La voce di Luna interruppe il silenzio. "Eravamo l'epicentro." La risposta di Cablam fu come l'anello che increspa la superficie dell'acqua che

seguiva il primo e che precedeva il terzo, generato dallo stesso sasso gettato nella medesima fonte. "L'epicentro di cosa?" chiese Luna smuovendo il terzo anello d'acqua e guardando il quarto che stava per generarsi dallo stesso punto. "L'epicentro della fine. Noi siamo stati il centro, la sorgente dell'onda che si è espansa raggiungendo ogni cosa." "Dove siamo ora?" Lo specchio d'acqua era totalmente increspato dalle onde circolari che continuavano a generarsi e ad allontanarsi spinti da quel primo e unico sasso. "E' il punto in cui fine e inizio coesistono. Questo è il luogo del sapere e della conoscenza, attorno c'è il Nulla." "Il Nulla?" Non erano persone, non erano nemmeno voci; quello che stava accadendo non era nemmeno un discorso: conoscenza, consapevolezza di esistere là dove l'esistenza ancora non esisteva. Il sapere di trovarsi in un tempo quando ancora il tempo non trascorreva. Energia che aveva il potere su tutto perché il Tutto era ancora da definire. "Ciò che è stato è scomparso e verrà ricordato come insegnamento della Conoscenza. Ciò che è ora rimarrà sempre e ovunque. Ciò che deve ancora essere, inizierà da qui e si espanderà all'infinito."

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EPILOGO

La conoscenza ora acquisita è nata in un tempo ato oppure nascerà in un tempo futuro. Ciò che si conosce viene dal ato per illuminare il presente e dare potere nel futuro. Ciò che si prevede viene dal futuro per tormentare il presente e annullare il potere del ato. Non sono consapevole del tempo in cui la conoscenza di questi accadimenti viene compresa. Purtroppo non sono al corrente dell'andamento di quella mutevole creatura che è il tempo, questo perché, seppure il mio sapere sia illimitato, la vostra comprensione è racchiusa nella realtà in cui vi hanno costretto. Quindi non posso affermare con sicurezza se gli eventi da me raccolti hanno già modificato la struttura del tempo, della materia, della filosofia, dell'esistenza. Per questa ragione non so se questo è l'epilogo o il prologo della storia che ha parlato di questi eventi straordinari. Chi verrà a conoscenza di quello che ho appena raccontato potrebbe essere un abitante del tempo precedente a tutto ciò oppure un discendente di questo evento. La conoscenza donerà appagamento a chi aveva cercato inutilmente la spiegazione degli eventi primordiali che portarono alla creazione della realtà in cui vive, ma nello stesso tempo incuteranno terrore a chi aspetta nel futuro il momento che distruggerà la sua realtà per dare spazio ad una nuova esistenza. Chi conoscerà senza comprendere non sarà illuminato dalla luce del sapere, né si abbandonerà nell'abisso dell'oscuro, ma certo, futuro. Forse chi non conosce la propria posizione nell'Universo e non comprende ciò che essa comporta, vivrà veramente. Colui che si disseterà di questo sapere vivrà una vita tormentata, continuando a guardarsi alle spalle ed aspettando che l'ombra funesta prenda forma dalla sua stessa figura, oppure perderà il sonno attendendo il rombo scrosciante che precede l'arrivo dell'inevitabile ondata che tutto travolge e devasta. Pace a coloro che non credono e non sanno quello che fanno.

Tormento a coloro che sanno e credono nel loro tragico epilogo. Estasi a coloro che sperano e credono di aver trovato la propria genesi.

FINE

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Messaggio dell'autrice:

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