ione Proibita Virginia Locke
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Traduzione di Erika Arcoleo - Samuele Gibilaro
“ione Proibita” Autore Virginia Locke Copyright © 2015 Virginia Locke Tutti i diritti riservati Distribuito da Babelcube, Inc. www.babelcube.com Traduzione di Erika Arcoleo - Samuele Gibilaro Editor Samuele Gibilaro Progetto di copertina © 2015 Virginia Locke “Babelcube Books” e “Babelcube” sono marchi registrati Babelcube Inc.
Sommario
Titolo Pagina Copyright Pagina ione Proibita Prologo: ione Proibita Capitolo 1: Frutto Proibito Capitolo 3: Dove lei dorme Capitolo 4: Lascia che ti tenga con me Capitolo 5: Una volta ancora Capitolo 6: Nei Boschi Capitolo 7: Primo Mattino Incontra Virginia
ione Proibita
di Virginia Locke
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Per diciotto anni, Evan ha bruciato di ione per la donna che gli è proibito toccare. Quando l’innocente Sarah viene a conoscenza del suo interesse per lei, gli si offre volentieri. Evan cerca di utilizzare questa opportunità per spaventarla, ma nessuno dei due riesce a controllare i loro oscuri desideri...o il terrificante costo di essere scoperti. Questo è un lavoro di fantasia. Tutti i personaggi in questo libro sono inventati, e qualsiasi analogia con persone, vive, scomparse o non ancora nate, è assolutamente casuale.
Prologo: ione Proibita
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Bohemia, 1315
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Evan LA PRIMA VOLTA CHE LO CAPII, fu quando avevamo dodici anni. Venivo da un giorno di lavoro ai campi per prendere da bere alla fontana del villaggio. La mia vicina e migliore amica era seduta sul bordo, guardando l’acqua. Il suo cesto di mele era adagiato vicino i suoi piedi. Erano quasi tutte sparite. Nessuno poteva resistere al suo sorriso, così riusciva a vendere tutte le sue mele. Cominciai a camminare più veloce, pensando di sedermi accanto a lei tenendole la mano e pagare per una mela con i soldi che avevo guadagnato la scorsa settimana. Tre ragazzi erano appoggiati al davanzale di una finestra di un negozio, davanti a me. Ognuno di loro aveva una mela. Ridevano mentre le avano avanti e indietro, strofinando i loro pollici, in maniera oscena, sullo strato soffice e rosa del frutto, parlando di quanto mature fossero. Uno di loro la leccò, poi le diede un morso. Disse che era dolce, che non vedeva l’ora di comprare ancora le sue mele. Mi girai, afferrai la mela dalle sue mani, e gliela sbattei in faccia. Gridò appena del sangue ricoprì il frutto. Si infiltrò nella sua bocca e giù per il mento. Uno dei suoi amici mi chiese quale cazzo fosse il mio problema e mi
prese per una spalla, allontanandomi da lui. Mi mossi selvaggiamente e colpii la sua mascella. L’altro amico provò ad affrontarmi, ma lo scansai e gli diedi un calcio dietro le ginocchia. Non ricordo molto di quello che successe dopo. Non lo sentii quando uno di loro mi ruppe il naso, o quando mi fratturai la mano colpendo i denti di Johan, o ,ancora, quando mi tennero per terra e cominciarono a turno a prendermi a calci. Notai appena il negoziante interrompere la lite e urlare ai tre ragazzi per essersi uniti contro di me, anche se ero stato io a cominciare. Ma ricordo il momento in cui vidi il viso di Sarah sopra di me. La luce del sole faceva rispendere i suoi capelli dorati, come se avesse un’aureola attorno al pallido volto. Il nostro villaggio aveva appena acquisito un’icona della Vergine Maria, e gli occhi di Sarah erano dello stesso colore cobalto del suo abito celestiale. Sembrava un angelo mentre mi guardava dall’alto con devastazione. E io ricambiai lo sguardo, egualmente devastato, mentre metteva le mani sotto la mia testa per appoggiarla al suo grembo, chiedendomi perché. Non potevo dirle perché l’avevo fatto. Non volevo sapesse cosa stavano pensando di lei quando comprarono le sue mele—cosa pensavano quando guardavano il suo corpo. Così mi alzai, e corsi più veloce che potessi nella direzione opposta, fino a quando non riuscii più a sentirla urlare freneticamente il mio nome, mentre cercava di raggiungermi. Quella sera mio padre mi prese da parte per parlare di quello che era successo. Gli raccontai del modo in cui avevano toccato le mele che avevano comprato— con violenza, con aria di sufficienza, come se fosse stata lei. Mio padre disse che dovevo lasciar perdere. Disse che Sarah era carina, e che i ragazzi stavano cominciando a notarla, e che non avrei mai più dovuto scatenare un’altra rissa. Mi resi conto in quel momento, che quei ragazzi che non l’amavano— che la consideravano soltanto come un frutto da raccogliere non appena maturo— avevano più diritti su di lei che io. Capii che tutti intorno a me avrebbero considerato questi sentimenti, che erano cresciuti lentamente dentro di me, più scandalosi delle intenzioni di quei ragazzi. E sapevo che lei non sarebbe mai stata mia.
Capitolo 1: Frutto Proibito
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Bohemia, 1321 Sei anni dopo...
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Evan SENTII LA PORTA DELLA CUCINA aprirsi e sollevai lo sguardo dal mio piatto di pane e burro. La ragazza guardò in basso, sistemando grinze invisibili dalla sua gonna. Non potevo vedere il suo volto, ma riuscivo a scorgere le delicate curve delle sue caviglie, quei fianchi tondeggianti creati affinché la mano di un uomo potesse afferrarli, e i suoi riccioli d’oro. Dannazione. Sarah era tornata a casa prima. Mia madre morì dando alla luce mio fratello undici anni fa. Nemmeno lui è sopravvissuto. Da quel giorno, mio padre ò sempre più tempo via per lavoro, lasciandomi spesso con la famiglia di Sarah. Recentemente, ha venduto la nostra casa al villaggio, trasferendosi in città. Mi ha chiesto di andare con lui, ma non potevo, perché Sarah è qui. Ma soltanto perché lei era qui, non voleva dire che io potessi starle attorno. Era proibito, nel nostro paese, alle persone nate nello stesso giorno di sposarsi.
Non importava che avessero genitori diversi. Non importava se non avessero legami di sangue. Il consiglio considerava questa gente “spiriti gemelli.” Quando la incontrai per la prima volta, pensai che saremmo stati per sempre assieme. Mi rese felice, perché non c’era nessuno tanto gentile o tanto bello quanto Sarah. Strinsi i denti. Starle vicino era un’agonia, ma non riuscivo comunque a lasciarla. Non l’avrei mai fatto. Così cominciai a correre verso casa dopo il lavoro, così che potessi mangiare e fare il bagno prima che lei arrivasse. Poi, sarei sgattaiolato fuori prima di cena, per ritornare soltanto quando i suoi genitori sarebbero stati a casa. Niente uccideva la mia erezione più velocemente di sua madre che chiedeva di are le patate, o uno dei terribili giochi di parole di suo padre. Quando loro erano intorno, ascoltare la sua risata sexy non mi faceva venire voglia di stenderla sul tavolo e scopare la sua dolce, piccola fica fin quando tutto quello che riuscisse a fare era urlare il mio nome . Sotto il tavolo, le mie mani si racchio in due pugni. Non dovrei pensare di lei così. L’amore non dovrebbe essere oscuro. Non dovrebbe essere crudo. Non dovrebbe rendere un uomo folle. Ma il mio amore per lei lo faceva. Odiavo il dolce suono delle sue risa. Odiavo il suo bellissimo sorriso. Odiavo il modo in cui lo mostrava a tutti—anche agli uomini che la guardavano, lascivamente, mentre era girata. Lo odiavo così tanto, che ogni volta che lo vedevo volevo distruggerla, così che non potesse più essere innocente e bellissima—così che non potesse mai più sorridere a nessun’altro. Sapevo che quei pensieri fossero sbagliati. Una persona non dovrebbe possederne un’altra interamente, e io avevo ancora meno diritti, dato che il consiglio aveva deciso che io e lei non ci saremmo mai appartenuti. Avrei dovuto seguire mio padre. Che stupido sono stato. Vorrei non esserle così vicino. Se fossi nato un giorno prima, o dopo, questi sentimenti non sarebbero proibiti. “Ciao Evan,” canticchiò, posando la sua cesta sul ripiano. “Le ho vendute tutte oggi.” Guardai il contenitore vuoto, immaginando tutti i sorrisi che doveva aver dato via. Tutte le mele. Sospirai pesantemente, cercando di tenere a bada tutte le cupe emozioni troppo vicine alla superfice.
“Stai bene, Evan? Ultimamente sembri giù.” Si abbassò, offrendomi la visuale delle sue tette. Erano così sode e...Buon Dio, erano sempre state così? Da quando avevamo compiuto ventuno anni, ero sempre più consapevole del suo aspetto. Il suo corpo sembrava sempre troppo vicino al mio, come se stesse respirando sulla mia pelle nuda. Come se, nonostante la sua posizione della stanza, mi toccasse continuamente. Premette la sua guancia sulla mia fronte. La sua pelle era così morbida, e odorava di fiori. Come poteva avere questo profumo dopo aver ato un’intera giornata in paese, discutendo con i negozianti tra la sporcizia e il fumo? Le sue labbra sfiorarono l’attaccatura dei miei capelli. Erano soffici—troppo. Dovrebbe essere proibito avere labbra così morbide, e lei dovrebbe evitare di toccare qualsiasi cosa con loro. “Sei bollente,” sussurrò. I miei occhi si concentrarono sulle sue labbra, e lei le inumidì con la lingua. Sentii di perdere il controllo. Volevo spingerla contro il tavolo e salire su di lei, prendendo quelle labbra tra i miei denti finché non avessi sentito il sapore del sangue. Volevo marcare la sua bocca, così nessun altro uomo si sarebbe mai sognato di baciarla. “Sto bene,” dissi. Sembrava forzato anche alle mie orecchie. Lei si accigliò. “Stai lavorando troppo nei campi di nuovo, non è vero? Ieri sei tornato almeno dopo cena. Era buio.” Non abbastanza, volevo dire. Non era mai abbastanza buio. Questi pensieri sembravano apparire nell’oscurità. Di sera, quando sono sdraiato sul letto, cerco di rimanere perfettamente immobile, così da sentire il suo respiro dall’altra stanza. Quei piccoli rumori che faceva inconsciamente nel sonno, mi rovinavano. Mi giro su un fianco, premo la testa contro il muro, e prendo la mia erezione tra le mani. Comincio a sfregare, cercando di liberarmi di questi demoni. Non funziona mai. Più lo facevo, più la volevo, fino ad arrivare al punto di non riuscire nemmeno a guardarla direttamente negli occhi. Così non lo facevo.
“Scusa se te l’ho chiesto,” sussurrò, con la voce tremante. Sentii un dolore al petto, ma non feci niente per confortarla. Era meglio mettere distanza tra di noi. Se avesse avuto paura, mi sarebbe stata lontana. “Vado a fare un bagno. Potrai utilizzare l’acqua, quando avrò finito,” disse. Il mio cazzo si contrasse. Grazie a Dio ero seduto e il tavolo mi copriva, perché se non fosse stato così, avrebbe visto quanto desiderassi scivolare in quella calda acqua che aveva toccato ogni parte del suo corpo nudo. Senza un’altra parola, andò lentamente di sopra.
***
Sarah MI SEDETTI SUL BORDO del mio letto e asciugai i capelli. Evan ancora non mi parlava. Odiavo quanto il mio spirito gemello e io ci fossimo allontanati ultimamente. Prima, lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per me—troppo, direbbero alcune persone, ma loro non riuscivano a capire il nostro amore. Però, forse avevano ragione. A volte, mentre lavorava nei campi, mi nascondevo nella foresta e guardano i suoi muscoli brillare sotto il sole. Non era l’uomo più forte del nostro paese, ma era bellissimo. Non ero l’unica ad averlo notato, o che lo osservava. Nemmeno la mia migliore amica Rosalind era immune. Sin dal bel mezzo dell’estate, aveva ato molto tempo con Evan, e quando glielo chiesi mi sorrise soltanto. Non mi piaceva. Odiavo ancora di più mentire su chi stessi guardando. Otto, dicevo, e le ragazze ridacchiavano mentre le mie guance arrossivano. Pensavano lo fi perché mi pie, ma in realtà lo facevo perché mi vergognavo. Non riuscivo ancora a capire perché non riuscissi ad ammettere che fosse Evan il ragazzo per cui venivo. Lui era il mio spirito gemello. Non dovrei volerlo vedere? Soltanto poche delle altre ragazze lo avevano, e a nessuna di loro interessava sapere qualcosa in più sulla loro metà. Loro non facevano le corse
per tornare a casa soltanto per vederlo, e quando lo facevano, non sarebbero andati così di fretta da cadere. Presi un respiro profondo mentre distendevo le ginocchia sbucciate. Non mi importava del dolore. Qualsiasi quantità di sofferenza valeva la pena di parlare con Evan. Inoltre, conferiva un senso di permanenza al nostro incontro. Questa notte, avrei toccato la pelle scorticata e ricordato di averlo visto, e per un po’, non avrei sentito la solitudine che mi consumava quando andava via. Le molle del mio materasso rimbalzarono due volte, non appena mi sdraiai sulla schiena. Perché non mi diceva cosa c’era che non andava? Tutto quello che volevo era stargli vicino. Quando avevo controllato la sua temperatura, avevo permesso alle mie lebbra di soffermarsi alla sua attaccatura dei capelli. Lo avevo assaggiato—sporcizia e sudore e polvere. Mi piaceva quel sapore. Era duro e amaro e asciutto, proprio come lui. Mentre quel pensiero si faceva strada nella mia testa, una strana, forte sensazione riempiva lo spazio tra le mie gambe. Deglutii, cercando di respirare. No, pensai. Non di nuovo. Il mio corpo non ascoltava. Faceva male come un livido, e quando strofinai le mie gambe assieme, cercando di alleviarlo, fu bellissimo, nonostante intensificò il dolore. Premetti il palmo contro il mio posto segreto e trattenni il respiro. Perchè il mio cuore batteva così forte? Perché le mie guance erano così calde? Perché succedeva ogni volta che pensavo ad Evan ed immaginavo il suo lungo, slanciato corpo, il suo silenzio, e l’oscurità nei suoi occhi quando mi guardava? Sentivo quelle parti contrarsi quando lo faceva, come se mi stessero chiedendo di fargli qualcosa. Dio, cosa avevo che non andasse? Ero malata? Volevo parlarne a qualcuno, ma non sapevo chi. Madre mi ha detto che non dovrei pensare alle mie zone proibite. Era sbagliato, aveva detto. Peccaminoso. E nonostante tutto, a una parte di me piaceva. Non volevo che il fastidio andasse via. Volevo che crescesse e crescesse e crescesse in qualcosa. Il mio corpo ne aveva bisogno.
Avevo il fiato corto, e il mio corpo era così bollente e fragile che perfino respirare sembrava troppo difficile. Mi alzai e barcollai verso la porta. ai le mani sulle mie cosce. Erano scivolose. scivolose e... Stavo morendo. Doveva essere così. La mia vista si appannò, e tutto quello a cui riuscivo a pensare era Evan. Avevo bisogno che mi afferrasse. Avevo bisogno che mi dicesse che tutto andava bene. Se stavo per morire, volevo almeno vederlo. Volevo che mi dicesse qualcosa di dolce—che mi dicesse di non odiarmi. Andai nel corridoio. Faceva stranamente caldo per Settembre, ma l’aria sembrava fredda sulla mia pelle sensibile. Mi diressi il più velocemente possibile verso il bagno. Evan era li, si stava lavando. Aprii la porta con forza. Sbatté contro il muro. Evan era nella vasca da bagno, facendo qualcosa con le sue gambe. No, con qualcosa tra le sue gambe. Sbucava fuori dall’acqua, e gli teneva una mano attorno. “Cristo!” Urlò, saltando. Lasciò andare l’enorme cosa tra le sue gambe e ,per la prima volta, lo vidi nella sua interezza. Cosa era? “Evan...” mormorai, supplicando per qualcosa che non capivo. Non riuscivo ad allontanare lo sguardo da quello strano oggetto, e i brividi tornarono, ancora più forti, crescendo nel mio petto, rendendo i miei capezzoli duri e le mie gambe strette. “Esci fuori di qui!” Sembrava disperato. Qualcosa non andava. Perché mi odiava così tanto? Mi girava la testa. Caddi in avanti, sulla vasca. “Evan,” sussurrai. “Per favore, aiutami.” Non appena alzai il volto, la mia guancia sfiorò la cosa tra le sue gambe. Si contorse, muovendosi verso la mia bocca, lasciando una sottile scia di qualcosa di umido e—uscii la lingua—salato. “Devi andare via, adesso.” La sua voce era bassa. Pericolosa. Ma non riuscivo
comunque a muovermi. “Cosa è questa cosa?” mormorai, paura e curiosità crescevano dentro di me. Sapevo istintivamente, che non dovevo vederlo. L’avvertimento di mia madre risuonò nella mia testa. Non dovrei pensare a queste cose tra le nostre gambe— quelle zone peccaminose che differenziano gli uomini dalle donne. Ma madre non era qui, e la sua voce era offuscata dal martellare nella mia testa. Mi avvicinai e lo toccai. Evan ansimò e si appoggiò al muro. “Cos’è?” chiesi, gattonando verso il bordo della vasca. Il mio ginocchio colpì l’acqua. Schizzando sul mio seno, e il proibito posto tra le mie gambe. Il suo calore mi provocò nuovamente quella sensazione di fastidio. “Vai via,” mormorò. Stava respirando più faticosamente che mai. “Ho qualcosa che non va.” Sollevai lo sguardo, supplicandolo di vedere quel dolore che non riuscivo a spiegare. “Credo di stare morendo.” La sua espressione si addolcì. “Cosa?” “C’è questa sensazione che provo tra le gambe ogni volta che penso a te. Fa male, e sembra come fuoco, un fuoco che non riesco ad estinguere. Voglio toccarlo, ma è vietato. Non mi è permesso farlo, Evan. Anche tu provi questa sensazione, quando pensi a me?” I suoi occhi erano così grandi. Le sue labbra dischiuse, il suo petto si gonfiò e iniziò a seguire il veloce ritmo che batteva dentro di me. “Ti ecciti quando mi stai intorno, Evan? E’ per questo che mi eviti?” Guardò il soffitto. Strinse i pugni. “Non posso farlo.” “Vorrei sempre toccarmi, ma non posso,” Continuai. Lui gemette. “Forse dovrei toccare le tue parti. Forse se lo fi, e tu toccassi le mie,
entrambi ci sentiremmo meglio.” Mi buttai in avanti prima che potesse rispondere. La protuberanza tra le sue gambe colpì la mia vista. Bruciò, ma non me ne preoccupai. Lo presi e strinsi con cautela. Avevo paura di fargli male, di toccarlo. Ma Evan era eccitato— anche io lo ero. Se lo toccava da quando ero arrivata. Forse era un modo per calmare la sua eccitazione. Gemette nuovamente, e borbottò un’altra bestemmia. Dio l’avrebbe odiato se avesse continuato a imprecare. Glielo avrei detto, ma il mio cuore batteva così veloce che riuscivo a malapena a pensare. Continuai a massaggiare con il pugno tremante. “Non ti preoccupare. Ti salverò! Placherò il tuo desiderio!” “Che diamine sto facendo?” Ulrò lui, e mi spinse. Caddi in acqua, con un tonfo. “Evan!” “Me ne vado, e non osare seguirmi.” Mi aggrappai al bordo della vasca non appena chiuse con violenza la porta.
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Capitolo 2: Casa di Dio
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Evan LA MIA EREZIONE RIMASE BLOCCATA NEI PANTALONI non appena li tirai su. Fece un male cane. Sentire definire la mia situazione complicata ‘desiderio’ era la cosa più assurda che avessi mai sentito in vita mia. Ma provocò
in me una reazione, penso che dovrei ringraziarla per questo. Cosa ho appena fatto? Le sue guance erano arrossite quando spalancò la porta. Labbra dischiuse e rosse, come se avesse appena finito di scopare e stesse implorando per averne ancora. I suoi capelli erano scompigliati e non perfettamente asciutti. Alcune ciocche le cadevano sulle guance, sul collo, sui seni. Oh Dio, quelle tette. Erano ancora meglio di quanto pensavo potessero essere, e quando cadde nella vasca, il bordo in ceramica sollevò il suo seno proprio come faceva il suo corpetto, questa volta però potevo vedere i suoi piccoli capezzoli rosa fuoriuscire dal bordo. Erano come sarebbero stati se li avessi presi e li avessi spinti in su mentre la scopavo. E poi afferrò il mio cazzo. Lei non sapeva neanche cosa fosse, ma lo aveva afferrato. Muoveva delicatamente la pelle al di sopra della punta come se avesse paura di potergli fare del male. Mordevo il mio labbro per trattenermi dal dirle di stringere più forte. Trattenevo i pugni per evitare di afferrarle la testa e spingerla lungo il mio cazzo. Perché volevo che le sue piccole e carnose labbra si aprissero per lui. Volevo sbatterle le mie palle in faccia, strofinarle il mio cazzo per tutto il corpo, mentre lei mugolava e, senza rendersene conto, implorava per ciò che il suo corpo desiderava di più. Deglutii. Non devi pensarci, mi dissi, ma il mio corpo rifiutò di ascoltare l’avvertimento. Lei mi desiderava. Era ciò che avevo sempre voluto. Era un fottutissimo incubo. Come diamine avrei potuto trattenermi dal pensiero di scopare la sua piccola e stretta fica ogni volta che mi ronzava intorno adesso che sapevo che lo voleva? Scesi le scale di fretta. Il cielo era rosa e viola, come un livido appena formatosi. Il vento mosse la polvere sulla strada sterrata, piegando l’erba verso il tramonto.
Riuscivo a malapena a sentire il rumore dei miei i non appena uscii di casa per raggiungere la chiesa che si trovava alla fine della città. Non pioveva da giorni, e il terreno era secco e duro. Non vidi nessun altro oltre me per strada. Nessuno viveva da questa parte della città, così vicina ai boschi. Molti avevano paura dei barbari, nella totale oscurità. Io non ne avevo. La porta della chiesa aprendosi cigolò. Socchiusi gli occhi e camminai lungo la navata centrale. Allungai le braccia e con la punta delle dita toccai l’estremità di ogni panca non appena salii sull’altare. Qualcuno aveva posto un telo bianco al di sopra di questo. Sul pavimento c’era una fila di candele spente, e sopra, una croce in legno si stagliava davanti le vetrate colorate. Mi inginocchiai, di fronte a Dio, e provai a pensare a qualcosa all’infuori del mio cazzo. “Perchè mi hai fatto questo?” La mia voce era rigida. Accusatoria. Non mi interessava. “Non posso alleviare questo dolore, perché anche solo il sollievo mi avvicina alla mia peccaminosa ossessione. Perché mi hai fatto sentire così, se era tanto sbagliato? Perché mi metti alla prova?” Silenzio. Contrassi le mani in pugni, combattendo la voglia di abbassarmi i pantaloni, afferrare il mio cazzo, e agitarlo velocemente fino a quando non mi fossi interamente svuotato sopra l’altare bianco. Volevo profanarlo. Dio conosceva già la mia debolezza, quindi avrei dovuto essere altrettanto debole di fronte a lui. Afferrai i pantaloni quando sentii un fruscio alle mie spalle. “Chi è?” Urlai, voltandomi velocemente. La mia voce risuonò. Per qualche momento non vi fu alcun rumore, e poi sentii nuovamente il fruscio. “Ti sento,” dissi. “Evan.”
No. Il mio corpo reagì immediatamente a quella voce. Il mio stomaco si contrasse. Il mio cazzo era così duro che pensai potesse esplodere. Non potevo muovermi—non mi fidavo abbastanza di me stesso. Quindi la guardai mentre entrava delle porte aperte della chiesa e camminava lentamente tra le panche. Indossava una delle mie larghe magliette sopra il suo vestito semplice. Non era un buon segno. Adoravo vederla indossare i miei vestiti. “Che ci fai qua? Mi hai seguito?” Il suo volto si rattristò. “Evan.” Digrignai i denti. “Ti avevo detto di non seguirmi.” “Evan, fermati,” implorò. “Per favore, parlami. Ho fatto qualcosa di sbagliato? Perché mi odi?” Io non ti odio. Non riuscii a dirlo. Se lo avessi fatto, avrei detto qualcosa che non potevo confessare. Cose che dovevano rimanere segrete, perché volerle esprimere sarebbe già un peccato. Come potevi dire alla tua migliore amica che ti era piaciuto quando aveva afferrato il tuo cazzo? Che la sua mano gli aderiva perfettamente? Che avresti voluto che andasse oltre il solo massaggio? “Evan, per favore rispondimi.” La gelai con lo sguardo. Perché doveva venire da me proprio adesso, quando ero così disperato? Il mio cazzo si gonfiò nei pantaloni. Stava in uno spazio così ristretto, sembrava che un martello lo stesse colpendo. Ero così dannatamente vicino dal volerlo portare fuori e agitarlo. Diamine, forse non era una brutta idea, magari l’avrebbe fatta scappare via. Oppure no. Non sapevo quale delle due opzioni fosse la peggiore. “Evan, mi stai spaventando.” I miei occhi si restrinsero. “Bene. Dovrei terrorizzarti, ragazzina.”
Afferrò la mia camicia, facendo scucire l’orlo, dandomi una straziante perfetta visuale del solco tra i suoi seni. “Di cosa stai parlando?” La paura nella sua voce mi eccitò. “Ti sto dicendo di andartene adesso.” “E’ per via di quello che ho fatto nella vasca? Mi dispiace,” mugolò. Era proprio davanti a me, aggrappata alle mie braccia. All’inizio pensai che stesse cercando di mantenersi stabile dato che stava tremando, ma non era così, si stava avvicinando a me. Perché ti avvinghi a ciò che ti terrorizza? Mi chiesi. Ma non lo avrei mai chiesto a lei. “Non è per quello che hai fatto nella vasca,” confessai. “E’ a causa mia. Riguardo quello che mi piacerebbe farti. I desideri che non riesco più a sopprimere.” Avvicinai le mie labbra alla sua gola. Lei ansimò. Aveva un odore così buono, come quelle mele che vendeva. La sua pelle non era abbronzata né invecchiata dal sole. Era semplicemente soffice e dolce. Perfetta. “Ti voglio,” Dissi, quasi a me stesso. “Ti voglio con me. Voglio farti mia. Non voglio che nessuno ti tocchi.” La sentii rabbrividire. “Di cosa parli?” Urlò non appena la buttai a terra. “Vattene, e non venirmi a cercare mai più.” “Non posso andarmene quando fai così.” “Ma vorresti?” “No, non voglio.” Le lanciai uno sguardo. “Non capisci quello che dici.” “Non mi interessa! Ti amo, Evan. Perché mi allontani sempre?” Sentii i miei occhi scurirsi, come se fossi drogato—il mio sangue circolare dentro di me, accumulandosi nello stomaco—e il mio cazzo, accrescersi ancora
di più, pulsando mentre lentamente squarciava il mio buonsenso. “Vuoi sapere perché devo allontanarti Sarah?” sussurrai, abbassandomi. Strinsi la camicia che indossava—la mia camicia—e la strappai. Lei urlò. Le sue mani aggrappate ai miei polsi, probabilmente cercando di fermarmi non appena afferrai il vestito e lo strappai via, mostrando quei bellissimi e perfetti seni. Poi, feci quello che avrei voluto fare quando li vidi appoggiati alla vasca da bagno—mi piegai e li misi in bocca. Lei gemette e si dimenò. La sua mano afferrò il mio bicipite, e la sua presa si fece più stretta quando feci ruotare la mia lingua intorno al suo rosa, duro capezzolo. La distesi sul pavimento. La mia coscia scivolò tra le sue gambe non appena le alzai il vestito. Indossava della biancheria intima—uno strato di seta rosa velato, quasi trasparente. Non usciva mai di casa senza. Era una così brava, innocente ragazza. Lei non sapeva cosa stessi pensando quando la toccai, ma il suo corpo si. Poggiai le mani sulle sue mutandine. Era già bagnata e pronta per me. Pianse non appena chiuse le sue cosce, lasciando che la mia mano toccasse il suo clitoride. “E’ questo che volevi, piccola Sarah?” bisbigliai. Il suo corpo tremò. Ogni sua parte era così delicata che sembrava che ogni movimento rapido che fi fosse cruciale per lei. Ma questo non importava. Avevo desiderato il suo corpo troppo a lungo per poterla trattare gentilmente. I suoi occhi sembravano vitrei, come stagni nella notte. Era buio all’interno della chiesa, e silenzioso, sicuro per il suo ansimare. “Hai paura?” Le sue dita affondarono nelle mie spalle. I miei muscoli si contrassero a quel leggero dolore. “Tu sai perché non posso starti accanto al momento,” dissi. “Sai perché dovresti andartene adesso—perché devi lasciarmi.”
Avrei poi detto a me stesso che quello che feci dopo fosse per dimostrare la mia tesi—che sarebbe stato per il suo bene e che io ero stato altruista. Ma in realtà, lo feci solo perché avevo voglia di toccarla. Lentamente, mossi la mia mano su per la sua fica. Era tanto calda e bagnata. Sarebbe semplice infilargli qualche dito, e farla andare in estasi, proprio là, sotto la croce. Una parte di me la voleva in questo modo. Se dovessi andare all’inferno, tanto vale farlo del tutto. Ero ormai lontano dalla redenzione. Dio, la volevo—e Lui poteva vedere, per potermi dare un peso che non sarei riuscito a sostenere. Specialmente non quando lei venne da me offrendomi la sua verginità, profumando di primavera mentre il mondo intero era immerso nell’autunno. “Non stai dicendo nulla,” sussurrai. “Ciò significa che potrò averti? Ti piacciono le cose perverse che faccio al tuo corpo, piccola?” Infilai un dito su per la vagina, fin quando non raggiunsi il clitoride. Si lamentò non appena gli strofinai il dito. Era cosi dannatamente delicata, così sensibile. “Evan,” mugolò. I suoi tacchi affondarono nel pavimento in pietra e si sporse in avanti. Fu probabilmente involontario, ma fece are rapidamente le mie dita dalla fica alla vagina. La sua figa si contrasse spingendo il dito dentro fin quando non colpì il suo imene. Era così stretta. Perfetta. Quei muscoli non ancora allenati stavano già facendo il loro lavoro, tenendosi pronti per il mio cazzo. Mi venne in mente il suo tondo e turgido seno. Anche questo era ancora intatto. Il mio cazzo si contrasse al pensiero di afferrarle i capelli e i seni mentre infilavo il mio cazzo al suo interno. “Sarah, da quando ho memoria, ho sempre voluto fotterti. Ti ho sempre voluta. Capisco che non comprenderai ciò che dico—ma il tuo corpo lo sa. E a meno che non te ne vada adesso, io lo farò.” Respirava pesantemente, il vestito appiccicato al suo corpo dal sudore. Lentamente, posi la domanda che avrebbe marchiato i nostri destini. “Vuoi che ti mostri? Vuoi che io ti possegga?”
***
Sarah LE AUSTERE FIGURE DI ANGELI poste sulle travi della chiesa mi fecero quasi perdere i sensi. La luce fioca del sole ava attraverso le vetrate colorate. Era ancora troppo intensa. Rivelava il mio corpo—un corpo che soffriva a causa del suo tocco proibito e di tutte quelle peccaminose parole da lui dette. Desideravo che fosse notte. Nell’oscurità, avrei potuto nascondere il mio corpo dalla mia e dalla sua vista. Avrei potuto sciogliermi completamente in quei desideri. Avrei accettato anche una maschera. Almeno in quel caso, avrei potuto essere una persona diversa—una donna che avrebbe potuto arrendersi senza giudizi o restrizioni. In quel momento, volevo essere sua. Il mio corpo soffriva. Aveva infilato il dito in quella parte proibita del mio corpo che neanche io osavo toccare. Lui sapeva perfettamente cosa volessi—sapeva come accendere e domare il fuoco della ione dentro di me—come rendere quel lieve dolore ancora più forte e, al tempo stesso, ancora più desiderabile. Desideravo quel paradiso corrotto che mi aveva offerto—quel piacere corretto dal dolore. Volevo che lui mi possedesse. Non potevo dirlo. Questi pensieri decisamente non mi appartenevano. In particolar modo quando ero nella casa di Dio. Lui stava osservando. Lo sapevo, ancora una volta il mio corpo tremò, implorandolo di continuare con quei peccaminosi atti. “Sarah.” La voce di Evan era preoccupata. Anche il suo corpo e suoi occhi lo erano. Erano scuri e non naturali. Ben presto, non ci sarebbe stato più modo di tornare indietro. Non mi importava delle conseguenze. Volevo semplicemente altro. Se non lo avessi avuto, sarei diventata pazza. “Non posso lasciarti,” sussurrai. “Non lo farò. Quindi prendi...ciò che vuoi da me...” Sollevò la mia gamba sinistra, rendendo la mia area proibita ancora più stretta e delicata. “Non sai cosa stai chiedendo.” Chiusi gli occhi. Ecco, avevo trovato l’oscurità di cui avevo bisogno per essere me stessa. Per rispondere onestamente. Per allontanare tutto ciò che si trovava tra noi due, così mi sarei potuta arrendere a quelle sensazioni che crescevano
dentro di me. “Non mi interessa,” dissi, con voce rauca e tremante. “Voglio che tu mi possegga.” Ringhiò e indietreggiò. Per un momento ci fu silenzio. Pensai di essermi immaginata tutto—se non fosse stato per le mie gambe ancora doloranti dove lui mi aveva toccato. “Apri gli occhi,” mi chiese. Lo feci. La mia vista era un poco offuscata. “Adesso, levati il vestito.” Scattai. “Ma non sto indossando altro sotto—” “Toglilo,” mi interruppe. Improvvisamente, avevo paura di discutere. Paura, di attenermi alle sue richieste, ma lo feci. Mi inginocchiai lentamente, presi l’orlo del mio vestito, e lo spostai sopra la testa. Faceva freddo, e il mio corpo reagì immediatamente—il mio stomaco si contrasse, avvicinai le gambe, avevo la pelle d’oca. Il vestito si bloccò sul mio mento mentre lo stavo per togliere, ma forzai la presa, ignorando il graffiare dei bottoni sulla pelle, fin quando non lo tolsi. Poi, lanciai il vestito accanto l’altare. Strinsi le braccia intorno al petto. Le guance erano così calde che mi sentii stordire. “Sono nuda. Adesso?” “Non abbastanza nuda. Togli l’intimo.” La sua voce sembrava più incerta e nervosa. Avrei voluto guardarlo, ma avevo troppa paura. Invece, deglutii. “Non credo...” “Sei stata così audace nel bagno, solo un’ora fa.” Sentii il regolare rumore dei suoi stivali mentre si avvicinava. “Vuoi già andartene, piccola?” “No. Soltanto non penso di poter ...” “Perfetto.” Si inginocchiò di fronte a me guardandomi.
I suoi ochi erano scuri, vitrei. Sembrava eccitato quanto me. “Non mi preoccupa strapparle via,” disse, spingendo una mano sopra la mia lingerie di seta e con l’altra abbassava l’elastico per baciare il mio ventre. Gemetti non appena le mie mani afferrarono i suoi capelli. Cosa avevano le sue labbra per rendermi così? Erano solo labbra. Lo avevo già visto utilizzarle, per parlare. Le avevo anche baciate da piccola. Ci baciavamo spesso. Lui era il principe e io la principessa—e ogni giorno mi salvava, e lo ricompensavo con un bacio. Perché erano così diversi questi baci adesso? “Ti piace, vero?” Bisbigliò, spostando la bocca più in basso, e la mano più in alto. “Non sai neanche cosa sia e già ti piace.” “Io non...” so, stavo per dire, ma non ne ero abbastanza convinta da farlo. Sollevò le sue labbra dalla mia pelle. Mi lamentai per protesta. “Tu menti. Vuoi che ti mostri quanto sei una bugiarda?” Aggrappò le sue mani ai miei fianchi. Le sue dita affondarono nella pelle, con ferocia. “Mi stai facendo male,” dissi a bassa voce. “Ottimo.” Afferrò i miei fianchi e mi sollevò sull’altare. “Cosa stai facendo?” “Ti sto possedendo.” Alzò le mie gambe e ci si posizionò in mezzo. C’era una protuberanza nei suoi pantaloni—proprio dove si stava toccando poco prima— quel punto da dove proveniva la sua brama di sesso. Riuscii a percepire questa sua brama non appena la punta della sua erezione colpì le mie parti intime. Il fatto che si trovasse dietro i pantaloni non cambiò nulla. Sentivo il suo calore. O forse era un calore proveniente da dentro di me, dal mio stomaco, che mi pervadeva. “Ti prego,” Mugolai non appena le sue mani sfiorarono il mio corpo nudo. “Sei così bella,” bisbigliò. “Così bella, che a volte preferirei che tu neanche esistessi. Se soltanto non ti avessi mai vista, né voluta. Gli uomini spesso accusano le donne per i loro peccaminosi desideri, guardando te, capisco il
perché.” Cercai di muovere il collo, di parlare, ma il mio corpo era troppo debole. Dalle mie parti intime scaturivano gioia e felicità, miste a paura, fino a quando non riuscii a pensare. Abbassò la lingerie all’altezza delle anche. Afferrai i suoi polsi cercando di fermarlo, ma mi spinse indietro e si liberò dalla presa. Cercai di coprirmi con le mani, ma le afferrò e le spinse in fuori cosi che fossi totalmente aperta per lui. “Cosa stai facendo?” strillai. “Pensavo volessi farti vedere nella tua totalità, hai cambiato idea? Te ne vuoi andare?” Mi stava dando la possibilità di scappare, un’altra volta. Sapevo che questa sarebbe stata l’ultima. Dovrei andare, dissi a me stessa, ma non ci riuscii, non più. “Non voglio andare,” risposi insicura. I suoi occhi si fecero ancora più scuri. Afferrò i miei fianchi, tenendoli in basso. Le mie cosce si irrigidirono. Spinse il suo corpo contro il mio, fino a quando la cosa strana tra le sue gambe non toccò il mio. “Allora, posso averti.” Aveva il fiato corto, stava per perdere il controllo. “E dopo questa notte non ci saranno più segreti tra noi. Saremo più che migliori amici, o spiriti gemelli, possederò il tuo corpo e non avrai più la possibilità di nasconderti da me.” Nonostante mi avesse liberato, non mi mossi, sapevo che mi avrebbe afferrata di nuovo. Che la sua presa sarebbe stata più dura delle sue parole. Mi sentii in imbarazzo, ma dissi a me stessa di non preoccuparmi, aveva già visto tutto il mio corpo. Sapevo che fosse sbagliato, ma aprii ancora di più le mie gambe non appena infilò la mano nelle mio posto proibito. Sentii un rumore metallico, stava abbassando la cerniera dei suoi pantaloni. Sembrò ancora più grande di quando lo vidi nella vasca. Il mio corpo tremò. In
qualche modo sapevo che era qualcosa che mi preoccupava da tempo. Ciò dal quale mia madre mi aveva sempre protetto, era sbagliato, proibito, peccaminoso. E lui stava per farlo. Ero sul punto di piangere non appena la punta dell’affare che aveva tra le gambe entrò nelle mie parti intime. Lo infilò nel posto dove pochi istanti prima stava la sua mano. “Guardami. Voglio vedere i tuoi occhi mentre ti faccio mia.” Spalancai gli occhi, e nel momento in cui incrociò il mio sguardo, spinse tutto se stesso dentro di me. Urlai non appena il mio corpo si spaccò. All’inizio pensai di andare in mille pezzi, ma non sapevo come ci si sentisse. Era come un coltello, che mi tagliava in due, squarciandomi fino a quando non mi ruppi. Sentii il dolore partire da quel punto ed espandersi in tutta l’area circostante, in tutto il corpo, riempendo le mie vene di linfa e i polmoni di acqua. Ogni battito sembrò un’eternità e ogni respiro come se stessi annegando. Non riuscivo più a guardarlo. Non riuscivo più a guardare me stessa. Quindi piansi non appena fu interamente dentro di me. “Sarah.” La sua voce era dolce e rauca. Ripetè il mio nome come se fosse bellissimo—come se non avesse mai conosciuto l’agonia. Strofinò i pollici sulle mie guance. Ricordai quei pollici, da piccoli li usava per togliere via le lacrime, proprio come fece in quel momento. Adoravo quei pollici “Guardami.” Lo feci. Non potevo negare nulla a Evan. “Vuoi che mi fermi?” Scosse le spalle quando lo disse. Il suo sguardo era perso nel vuoto. Capii che gli risultava difficile fermarsi, e strinsi il mio corpo intorno al suo, intensificando quella sensazione del mio corpo spezzato. Emanò un verso di piacere. Gli piaceva? Gli bastava a soddisfare la sua brama? Era il mio dolore equivalente al piacere che lui sentiva? Chiusi gli occhi. Se fosse stato necessario, avrei preso il suo dolore facendolo diventare mio. Gli avrei dato tutto il mio
corpo per placare la sua brama. Avrei accettato il suo peccato come se fosse il mio. “No,” Bisbigliai, guardando la croce in legno sopra di me. “Fa ciò che vuoi.” Mugolai. “Non riesco a controllarmi.” “Va bene.” “Mi dispiace.” Spinse la testa indietro, afferrando i miei fianchi, spingendo le sue unghia nella mia soffice pelle. Afferrai il suo bicipite non appena lasciò la presa. Per un momento, pensai fosse finita—che potessimo semplicemente stringerci mentre il sudore dei nostri corpi si asciugava. Mi accarezzò il viso con i pollici, e mi disse cose dolci, mentre le mie lacrime scomparivano. Il suo coltello entrò nuovamente dentro di me, squarciando i miei pensieri, il mio corpo. Tornò indietro e poi di nuovo dentro, ancora e ancora, mi misi a piangere, afferrandomi a ciò che mi provocava del male.
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Evan NON AVEVO MAI SENTITO QUALCOSA DI COSI’ caldo, stretto e perfetto. Sì, ero già stato con altre donne, anche se odiavo ammetterlo. Avevo già iniziato a scopare a una giovane, età cercando di dimenticare il mio desiderio per lei. Ma nassuna di loro era come l’immagine che avevo creato di lei nella mia testa, e nessuna di loro poteva essere paragonata a lei in questo momento. Tenne i suoi occhi fissi su di me, per quanto potesse. Si riempirono di dolore e piacere quando spinsi il mio corpo dentre di lei per la prima volta. Ma poi ruppi la barriera che l’aveva tenuta in salvo da me per 18 anni, e si voltò, urlando, mantre io andavo in estasi.
Per anni ho pensato di scoparla. Ogni volta che pronunciasse il mio nome, la immaginavo implorare per il mio cazzo. E poi la sera, quando ero solo, sentendola dormire beatamente nella stanza accanto, pensavo di intrufolarmi nel suo letto e scopare quella fica stretta, fino a farla piangere. Volevo essere la fonte del suo tormento e del suo godimento, e adesso lo ero. Mi apparteneva. Era così stretta che per poco non riuscivo neanche a infilare il mio cazzo. Dovevo spingere forte e veloce e non appena ogni singolo centrimetro del mio cazzo entrava dentro, lei si avvinghiava a me, come se la sua fica cercasse di tirarlo fuori, anche se lo spingeva sempre più dentro. Mi sentii così dannatamente bene. I miei fianchi si scontrarono contro il suo bacino. La sua soffice e stretta fica spinse contro il mio cazzo, come una fottuta professionista. Afferrai la sua gamba e la poggiai dietro il collo, così da ottenere un’angolatura migliore della sua fica e potere andare più in fondo. Scopare più violentemente. Scopai quella puttanella così forte che dovetti spingermi in avanti sul suo soffice corpo, e aggrapparmi alla pala bianca dell’altare così da non cadere. Sbattei contro di lei, perdendo il controllo, fino a quando tutto ciò che esisteva era solo il sapore squisito dei suoi seni. I suoi capezzoli erano duri e rosei. Erano dolci ma al tempo stesso un po’ salati—poi, sapevano di metallo, non appena li presi tra i denti. Il suo ginocchio adesso si trovava sopra la mia spalla, spingendo la sua piccola fica stretta contro il mio cazzo. Afferrai i suoi seducenti e rigidi fianchi, spingendo ancora più dentro, accompagnato dal suono del suo pianto. Evan, continuava a dire, con voce corta e dolce come se fosse una supplica. Con i suoi pugni scombinò il panno bianco dell’altare. Senza volerlo lo tirò dagli angoli, lasciando vedere lo scuro e ben curato legno che vi stava sotto. La croce era fatta dello stesso legno. Dio ci stava guardando mentre io scopavo la sua vergine fica? Sapeva che stavo andando troppo veloce e troppo forte per lei? Riusciva a sentire il suo pianto nel silenzio? La sentiva urlare il mio nome mentre la trascinavo nella mia scura e peccaminosa ossessione? Per questo non avrei mai potuto essere perdonato. Lo capii, non appena le mie gambe iniziarono a dolorare per la troppa forza che utilizzavo spingendo contro il suo corpo. Lo capii non appena digrignai i denti, vedendola godere mentre si
dimenava sotto di me, voltandosi dall’altra parte così che non potessi vedere le sue lacrime. Non se lo meritava. In qualche posto oscuro della mia mente sapevo che era sbagliato. Che mi sarei odiato. Che mi sarei fatto odiare da lei. Tuttavia, la desideravo e volevo che Dio vedesse il mostro che aveva creato. Volevo possedere ogni sua parte fino a quando non sarebbe più riuscita a staccarsi dal mio corpo, così che il mio fantasma infestasse ogni esperienza sessuale avesse mai fatto, fino a quando questo ricordo non fosse diventato un tutt’uno col suo corpo e non sarebbe mai riuscita a provare un piacere fisico senza ricordare questo momento. “Evan.” Il suono della sua voce che pronunciava il mio nome ruppe il mio incantesimo. Fissai i suoi occhi vitrei e mi fermai. Le sue guance erano rosee e bagnate, e i capelli appiccicati ai lati del suo viso. Cercò di coprire i suoi seni con il telo bianco dell’altare. Nonostante tutto ciò era ancora un po’ timida. Sembrava incontaminata, proprio come un angelo. Avevo devastato un angelo. Il mio angelo. “Non devi fermarti,” disse velocemente. “Perché me lo stai lasciando fare?” “Ti amo.” La sua fica si restrinse non appena lo disse e io gemetti, spingendo ancora più in fondo. “Ti piace farlo, vero Evan?” Non potevo rispondere. Non riuscivo neanche a guardarla. I muscoli delle mie gambe si irrigidirono, e il mio cazzo palpitò dal desiderio di entrare con forza dentro di lei come se fosse una fottutissima puttana—come se non mi importasse nulla del suo corpo, ma solo per il mio piacere. Dio, ero orribile. Disgustoso. Non mi meritavo di toccarla. Stavo per tirarmi indietro, ma afferrò le mie braccia, avvicinandomi.
“Se ti piace, non può essere così malvagio,” bisbigliò. “Mi fido di te.” Non dovresti fidarti di me. Ansimai, cercando di combattere la volontà di riaverla. Qualcosa di soffice strofinò sulla mia mascella—le sue labbra. “Ti prego, non ti agitare. Il mio corpo è tuo. Fanne ciò che vuoi. Accetterò qualsiasi cosa mi darai, anche se sarà doloroso.” Affondai le mie dita sul suo corpo, tra le ossa della cassa toracica. Mugolò, ma non mi disse di fermarmi. Afferrai le sue tette, strizzandole e portandole in alto, proprio come avrei voluto fare nella vasca. Le afferrai mentre spingevo in avanti, utilizzandole come manubri per aiutarmi a scopare la sua vergine fica più forte. Non pensai più a nulla, se non alla sensazione della sua fica che si chiudeva attorno al mio cazzo, ancora più stretta del mio pugno. Iniziò ad asciugarsi e spingere più forte. Era ancora meglio asciutta, riuscivo a sentire l’attrito di ogni muscolo della sua fica contro il mio cazzo. Era così spietato, scoparla pesantemente quando non era bagnata, non fece altro che mordere il suo labbro inferiore. Strinsi il tessuto tra le sue mani. Entrambi avevamo i muscoli contratti, in posizione—lei, con le gambe all’indietro e io, con il sedere e le gambe doloranti dal continuo spingere avanti e indietro. Spinsi i miei fianchi contro di lei, scopando tutta la sua verginità, sentivo il mio sperma salire nelle palle. E mi lasciai andare al suo interno. Lo prese. Il mio orgasmo si espanse in tutto il corpo—un incandescente fuoco profano. Mi sentii come se potessi sprigionare luce non appena venni all’interno della sua fica vergine. Crollai su di lei. Il suo petto premeva sulla mia guancia, rigido e soffice. Odorava ancora di dolce, come mele e torta di zucca. Di giovinezza e di felicità. Al tempo stesso il corpo iniziò a tremare sempre più forte, ero spaventato che non riuscisse a reggerlo. Ero stato io a farle questo.
Deglutì e tiro il telo bianco su di sé, coprendosi come se fosse un mantello. “Finito?” Il suo petto vibrò, lievemente, per sua voce lieve. Finito? Me lo aveva veramente chiesto? Che razza di mostro ero? Nessuna donna aveva mai schiettamente detto, finito? Volevano sempre di più. Dicevano qualcosa di sexy. Sussurravano e muovevano le dita sul mio petto. Mi tirai indietro, ritirando il cazzo. Lo lasciai sulla sua coscia. Era ancora duro. Dio, in un minuto avrei probabilmente ripreso a scoparla. Ho sempre avuto il controllo. Sempre. Ma non adesso. No con ciò che più desideravo—non quando importava così tanto. Afferrai le sue spalle. “Mi dispiace tanto, Sarah.” “Non dirlo.” Mosse le sue mani sulle mie braccia, avvolgendole entrambe in quel dannato telo bianco. Lo poggiò sulla mia testa, ricordandomi una di quelle fortezze che farebbe un bambino. Una volta lo avevo fatto io a lei. Una mattina mi ero intrufolato nel suo letto, uno di quei giorni in cui non volevamo andare in chiesa, e poggiai le sue coperte sulle nostre teste. Le avevo detto che quello era il nostro piccolo mondo e che nessuno ci avrebbe mai trovati. Ma ovviamente mamma e papà ci avevano trovati. Ci riuscivano sempre. Non c’era un posto dove potere andare per rimanere soli. Il mondo interferiva sempre. “Sono io quella che dovrebbe essere dispiaciuta, Evan. Non ti avrei dovuto seguire. Se avessi saputo che farlo ti avrebbe reso così, non mi sarei offerta.” La mia vista si offuscò. Stava veramente incolpando se stessa? Perché doveva per forza fare la santa? Mi faceva sentire ancora più in colpa per aver violato il suo posto sacro. Sentii improvvisamente freddo, eccetto i punti in cui le nostre membra si toccavano. Indietreggiai un po’, lasciandola andare. Si sedette e avvolse il telo sulle spalle. “Evan?” Era preoccupata per me. Forse era giusto così. Mi stavo comportando in maniera strana, e riuscivo a malapena a reggermi in piedi. “Qui,” dissi, raccogliendo il
suo vestito dal pavimento. “Indossalo.” Annuì e scese dall’altare. Infilò l’abito dalla testa, e iniziò a chiudere i bottoni. Le sue dita tremavano un po’. Non l’avevo mai vista perdere il controllo—non si lasciava mai distrarre quando era occupata a fare dei piccoli lavori manuali. “Evan, la mia lingerie?” Guardai i pezzi di seta rosa messi da parte. Erano costosi. Carini. Il suo intimo era tutto così, e sì, ero uno di quei pervertiti che frugava nel cassetto della sua migliore amica quando non era in casa, per guardare il suo intimo. Non riuscivo a non farlo. Erano soffici e odoravano di dolce, proprio come lei. Le stavano perfettamente. Non riuscivo a non pensare al fatto che quando ne aveva la possibilà indossava sempre cose del genere—che era sempre frivola, rosa e innocente. Avrei voluto darle un mondo dove esistesse solo questo tipo di roba e viverci con lei. Non ne avevo il permesso. Non prima, e in particolar modo non adesso, ma il mio corpo desiderava averlo. Tutto ciò che avevo sempre bramato era a due i da me. Le circostanze avevano fatto di me un ladro, e mi avevano tentato più volte—i minuti ati a stringerla tra le mie braccia, dove entrambi ci appartenevamo. Quella semplice e perfetta illusione che minacciava di distruggermi. “Non puoi più indossarli,” dissi, prendendo l’intimo. Non erano i suoi pezzi migliori, ma erano comunque belli, rosa e profumavano di dolce. Mi sembrò brutto lasciarla senza. “Ma non sto indossando nulla.” Distolse lo sguardo, arrossendo, come se non potesse uscire senza il suo intimo. Suppongo non potesse farlo. “Nessuno lo saprà,” le dissi, cercando di sorridere. Si strinse tra le braccia. Era così dolce, e tutto ciò che volevo fare era tenerla tra le mie, mi girai verso l’altare. Era rosso. Seguì il mio sguardo, vedendolo anche lei. “Oh no! cosa è successo?”
La fissai a lungo senza rispondere. Eri veramente innocente, pensai. Non ho mai voluto che il mondo ti toccasse. Ma eri già così ingenua senza il mio aiuto. No, lo eri ancora di più di quanto pensassi e, alla fine, sono stato io, che avevo promesso di proteggerti, a farti conoscere queste cose. Si avvicinò a me. “Ho paura, Evan. Non capisco il perché, ma mi sento indolensita e ho freddo.” Mi permisi di abbracciarla. Presto non l’avrei più potuta sfiorare. Ma in questo posto eravamo soli, ero l’unico a poterle dare conforto in questo incubo che avevo creato. “Non ti preoccupare. Fammi vedere le tue gambe.” “Oh, non credo—” “Dai su,” dissi, alzandole la gonna. Fece una smorfia. Mi sentii così disgustato da me stesso che per un momento non riuscii a muovermi. “Non ti preoccupare, non ti faro di nuovo del male.” Mai più. “Non è per questo,” rispose velocemente. “Sono un po’ sconvolta, tutto qui.” Presi l’angolo del telo bianco. “Dobbiamo togliere il sangue dalle nostre gambe. Credo che tu non voglia sporcare anche il tuo vestito.” “Oh, questa cosa vecchia,” mormorò. “Aspetta, cosa stai facendo? Non puoi farlo con quello. Lo rovinerai.” “E’ già sporco.” Iniziò a tremare. “Evan, cosa farai?” Improvvisamente, ebbi la sensazione che non si riferisse soltanto a ciò che avremmo fatto in quel momento, con il telo bianco. Capii che stava parlando di ciò che avremmo fatto una volta tornati a casa, dai suoi genitori. I nostri amici. Domani, e dopo domani, e l’indomani ancora. Fra dieci anni, quando saremo con le nostre nuove famiglie e non insieme, e questa notte sarebbe stato un incubo lontano per lei e per l’unica cosa che fece andare avanti .
Le avevo detto che dopo tutta questa storia non si sarebbe mai dimenticata di me. Che ogni volta che qualcuno l’avrebbe toccata lei avrebbe pensato a me. Ma la verità era che sarebbe stato il contrario. Avevo sigillato questo ricordo nel profondo del mio cuore e ,quando sarei stato solo, chiudendo gli occhi lo avrei lasciato fuoriuscire. Avevo già usato altre donne come rimpiazzo, ma dopo questa notte il fantasma del suo tocco mi avrebbe pervaso ogni qual volta avrei toccato un’altra donna— la pura innocenza, il vero amore, la fiducia perfetta. Un’ingenuità che io avevo distrutto. Un’amore del quale mi ero approfittato. Una fiducia che avevo tradito. “Non ti preoccupare di quel telo,” le dissi. “Ce ne libereremo.” “Che intendi?” “Lo seppellirò nella foresta.” “Non lì, Evan,” disse piangendo, afferrandosi alle mie maniche. “Non la foresta. E’ pericolosa. Potresti essere—” “Non mi allontanerò. Puoi tornare a casa senza di me.” Era meglio tornare a orari diversi. “E la mia lingerie?” Per un istante pensai di tenermela, ma sarebbe stato un souvenir pericoloso. Se questo segreto fosse mai stato scoperto...beh, non volevo nenache pensare alle conseguenze. Questa ione era pericolosa. Non avrei lasciato che le fero del male. Neanche i miei desideri. L’intera storia verrà sepolta. Presi gli indumenti e me ne andai. Sentii i i di Sarah dietro di me. “Ti ho detto di non seguirmi.” Mise le mani dietro la schiena e ondeggiò o dopo o. “Mi dispiace, ma non posso lasciarti, ho paura di tornare a casa sola.” Forse era vero. A volta si comportava come se avesse dieci anni. Mi faceva sentire come un dannato pervertito, tuttavia...per l’ennesima volta, non c’era
niente che mi avrebbe fatto sentire peggio dopo ciò che avevo fatto. “Bene,” borbottai, e mi diressi verso la foresta. Mi guardò scavare. “Sei sicuro che qui vada bene?” Mi fermai, poggiando la pala sul terreno. “Nessuno potrà mai trovarli.” Sospirò pesantemente. “Va bene, Evan.” Dio, era così ingenua. Mi guardava fare qualsiasi cosa. Mi amava ancora. Si fidava ancora di me, dopo tutto quello che era successo. Dovevo riuscire a rompere quella fiducia e l’amore, ma non ero abbastanza forte, perché c’era una parte egoista in me, desiderosa che lei mi amasse ancora. Se fossi una persona migliore—se fossi più forte—le spezzerei nuovamente il cuore. Ma non potevo. Ero troppo debole quando si trattava di lei. Cosa diventeremo? Li bruciai entrambi, assieme. Forse avrei dovuto farlo separatamente, ma si stava facendo tardi e Sarah sembrava avesse freddo. Dopo tutto nessuno veniva mai nella foresta. Presi la pala. “Pronta a tornare?” “Certo.” Sorrise. “Evan, non mi allontanare mai più. Mi sei mancato.” Non dissi niente, continuai a camminare. Inciampò, ma l’afferrai per evitare che cadesse. “Ti amo,” disse. Il mio corpo si bloccò. L’avrei voluta sbattere contro l’albero e dirle che l’amavo e farmi strada nel suo delizioso, dolce e aperto corpo. Ma non sarei riuscito più a farlo. “Andiamo,” dissi. “Meglio cntinuare a camminare.” E tornammo entrambi a casa.
Capitolo 3: Dove lei dorme
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Sarah NON RIUSCIVO A DORMIRE. Strinsi il cuscino vicino la mia testa, cercando di combattere l’impulso di portarlo tra le mie gambe bisognose. Non sapevo se qualcosa del genere avrebbe alleviato o peggiorato la mia febbre. Mamma e papà si sorpresero nel vederci arrivare a casa assieme. Non avevamo ato molto tempo insieme, avevano detto, e poi mamma aveva sgridato Evan per avermi abbandonato soltanto perché stava diventando grande e guardava le altre ragazze. Non mi piaceva il modo in cui diceva guardare le altre ragazze. Mi faceva pensare che Evan fe le stesse cose che aveva fatto a me con quelle donne. Servivano solamente a questo quegli sguardi maliziosi e ammiccamenti? Detestavo pensare che toccasse il luogo proibito di un’altra donna in quel modo. Che potesse aprirsi a un’altra persona. Che qualcun altro lo aiutasse ad attenuare la sua febbre. Ma sapevo che le altre ragazze sentivano un certo ardore nei suoi confronti. Alcune delle mie amiche provavano questa sensazione. Gli piaceva guardarlo zappare nei campi. Adoravano il suo corpo snello, slanciato e i suoi muscoli. Dicevano di volerli toccare, e le loro guance arrossivano quando lo facevano. Sì, infondeva nelle altre ragazze delle scariche di calore. Io non ero niente di speciale. Ma volevo esserlo. Volevo chiedere a mia madre cosa intendesse dire. Volevo dirle che era mio. Ma non potevo farlo. Evan aveva detto che non avrei dovuto raccontare a nessuno
quello che era successo, e anche se lui non lo avesse ammesso, sapevo fosse sbagliato. Peccaminoso. Qualcosa per cui non potrei mai essere perdonata. Avevamo già rovinato l’altare. Quello era un peccato imperdonabile. Avevamo fatto qualcosa nella casa di Dio, qualcosa di molto sbagliato. Lo sapevo. Ne ero consapevole mentre lo stavamo facendo, quando il mio corpo urlò per il dolore e accettai il peccato di Evan. E una parte del mio corpo lo aveva apprezzato— aveva goduto del dolore, della sensazione di essere completamente aperta, di essere così vicina a lui. Mi era piaciuto il modo in cui ansimò. L’espressione tormentata sul suo volto quando si fece strada dentro di me. La brama nei suoi occhi, come se io fossi tutto quello che esiste. Tutto quello che conta. Volevo quello sguardo tutto per me, sempre. Volevo possedere quello sguardo mentre lui possedeva me. In questo modo avevo commesso un peccato molto più grande del suo, che aveva semplicemente alleviato la sua febbre, perché avevo accettato il suo peccato e vi avevo aggiunto il mio desiderio di commetterlo ancora e ancora. Era stata una cena veramente lunga e imbarazzante. Ero così affamata, ma era difficile mangiare. Difficile stare così vicino a Evan. Guardare le sue mani che tenevano la forchetta, o le sua labbra che mangiavano o parlavano. Rcordavo quelle mani sul mio corpo. Le sua labbra sui miei seni. Ricordavo le sue dita che premevano sulla mia pelle, ferendomi. Sì, era perfino difficile sedersi perché ero dolorante e avevo dei lividi a causa delle sue labbra e i suoi denti. Ma tutti i miei peccati erano nascosti sotto il vestito che avevo indossato così tante volte. Quel vestito non doveva significare nulla ma per me, ma adesso era tutto, perché la mia vita era cambiata mentre lo avevo addosso. Tuttavia, Evan era rimasto calmo. E quando mia madre accennò al fatto che qualcosa non andasse, disse semplicemente che non mi ero sentita molto bene, così mi aveva portato fuori per una eggiata. La risposta l’aveva soddisfatta. Mi disse di finire di mangiare velocemente e di andare a letto, e che mi avrebbe raggiunto a breve per controllarmi. Così corsi di sopra dopo cena e mi rannicchiai a letto. Avevo permesso a mia madre di rimboccarmi le coperte e di darmi un bacio sulla guancia. Ma c’era qualcosa che non andava. Questo segreto era tra di noi, adesso.
Un segreto che non avrei mai dovuto rivelare. Un segreto che non avrei mai potuto dimenticare. In quel momento, lontano da Evan, lontano dai miei genitori, non mi sentivo ancora tranquilla o al sicuro. Lui era nella stanza accanto, probabilmente a dormire. Anche i miei genitori stavano dormendo. Mi alzai. Se stava dormendo, non ci sarebbe stato niente di male nel guardarlo, giusto? Non lo avrei turbato. Non lo avrei spaventato. Desideravo soltanto vederlo per qualche secondo. Strisciai verso la mia porta e la aprii. Cigolò. Non appena fui nel corridoio, anche gli assi del pavimento cigolarono. Mi impietrii. Se qualcuno mi avesse visto? Cosa avrei detto? Ma non c’era alcun movimento. Erano tutti nei loro letti, tranne me. Arrivai alla porta di Evan, alzai il pugno ma non bussai. Poggiai le mie labbra sul legno. Lui era dall’altra parte, mentre dormiva. Era lì, e non si rendeva conto del tumulto che mi aveva causato. Quel fastidio stava ancora crescendo dentro di me. Lo sentivo, anche se sapevo di non doverlo fare. E anche se sapevo fosse sbagliato, e che fosse la fonte del mio dolore, lo agognavo comunque. Volevo provare la gioia di essere divisa in due. Di perdermi. Lo volevo, anche se ci avesse distrutto entrambi. Girai il pomello e aprii la porta.
***
Evan STAVO CERCANDO CON TUTTI I MIEI SFORZI di ignorare la più grande erezione che avessi mai avuto. Ero già venuto tre volte dopo cena. Al mio cazzo non sembrava importare. Ogni volta diventava sempre più fottutamente duro.
Sapevo che arrendermi e massaggiarlo fino all’orgasmo non sarebbe servito a niente. Dovevo lasciar perdere. Dimenticarmene. Sì, certo. Faceva male stendermi sulla schiena. Faceva male stendermi su un fianco. Avevo bisogno di scoparla. Di nuovo. Gesù, l’avevo appena fottuta. Era una vergine fino a qualche momento fa, e nonostante tutto, il mio corpo pulsava al pensiero di spalancare la sua porta e prenderla mentre i suoi genitori dormivano nella stanza accanto. Ero patetico. Sentii qualcosa. Diventai di ghiaccio. Dei i. Uno, due, poi niente. I miei occhi erano ancora chiusi, il mio corpo all’erta. No, non poteva essere, pensai, e aspettai di sentire qualcos’altro, ma non ci fu più alcun suono. Dio, cosa avevo che non andava? Adesso avevo le allucinazioni, immaginandola entrare qui? Anche se lo avesse fatto, l’avrei rispedita nella sua camera, dove dovrebbe essere. O almeno era quello che mi dicevo avrei fatto. E poi sentii di nuovo i i. Ma che diavolo? Alzai lo sguardo e la vidi, l’origine della mia miseria, al centro della mia stanza. Indossava una piccola camicia da notte. Il tessuto era così trasparente e sottile che riuscivo a vedere la curva del suo seno. I suoi capezzoli rosa sembravano viola sotto la luce. Erano turgidi. “Evan,” sussurrò. Alle mie orecchie, sembrava un gemito. Oh Dio, non sta succedendo. Per favore dimmi che non sta succedendo. Come diavolo avrei fatto la cosa giusta se lei aveva deciso di presentarsi proprio quando stavo faticando per domare un’erezione violenta? “Tu non sei qui,” bisbigliai. “Evan,” ripeté, come se non mi avesse sentito. Forse non c’era veramente. Forse ero finalmente diventato pazzo. Pazzo a causa della voglia di scoparla con tutta la mia forza. Signore, ero malato. Avevo bisogno di essere abbattuto, e chiunque avesse sentito i miei pensieri sarebbe d’accordo con me.
“Evan,” disse di nuovo, avvicinandosi. Ancora più vicino. Mi spinsi verso il muro, il più possibile lontano da lei. Non lo era particolarmente. Sapevo di dovermi gettare dalla finestra, ma il mio corpo era troppo rigido per potersi muovere di più. Si piegò sul letto. La sua mano toccò la mia, e la pelle d’oca coprì il mio corpo. No, questo decisamente non era un sogno. Non ero così fortunato. “Evan,” disse un’altra volta. Sì, quello era il mio nome. Poi, continuò a constatare l’ovvio. “E’ tardi, e tu sei ancora sveglio.” “Lo sei anche tu,” risposi. Sospirò, poi si alzò. Bene, sta andando via, pensai, ma ancora una volta, non ero abbastanza fortunato. Poggiò il suo sedere curvo proprio sul letto, accanto a me. E Dio, era anche un duro e bellissimo culo. “Non riesco a dormire,” disse. Il mio cazzo pulsò. Per favore, fa che la ragione non sia quella che penso, pregai. Ma lo era. “La mia febbre è tornata,” sussurrò. “Ero così accaldata durante la cena. Stavo soffrendo così tanto da potermi sedere appena, e adesso, anche stare a letto fa male.” Oh Dio, dovevo veramente ascoltare quello che stava dicendo? Non avevo un controllo di me stesso illimitato. Anzi, ne avevo appena, come aveva dimostrato il piccolo episodio di prima. L’avevo appena scopata come una puttana, e adesso era qui, dopo la sua prima volta, indossando in pratica nulla, seduta sul mio letto, toccandomi... quasi... “Evan, non penso che abbiamo eliminato il peccato, prima. E’ ancora qui.”
Di cosa diavolo stava parlando? “Evan,” bisbigliò, voltandosi verso di me, premendo il suo seno contro il mio petto. Okay, questa cosa doveva finire, immediatamente. “Esci fuori dalla mia stanza,” dissi il più gentilmente possibile. Indietreggiò come se l’avessi schiaffeggiata. “Cosa?” “Devi uscire fuori di qui,” dissi con voce stridula. Dio, era così dura, sotto tanti punti di vista. Non riusciva a vedere quanto ce lo avessi duro? Il suo sedere era proprio accanto al mio cazzo, che al momento stava cercando di scappare dai miei pantaloni. “Ho solo pensato, il fastidio...” Afferrai il suo polso. “Hai solo pensato cosa? Che avresti potuto entrare nella stanza di un ragazzo, a notte tarda, e che tutto sarebbe andato bene?” “Non lo so,” balbettò. La fissai. Non doveva più starmi vicino. Non sarebbe mai finita bene. Mai. Avevo bisogno di spaventarla del tutto, e a quanto pareva oggi non c’ero riuscito. “Nessuno ti ha mai detto di non entrare nella stanza di un uomo di notte?” “Beh, sì...” “Sai perché?” la interruppi. Le sue guance arrossirono. Potevo vederle anche con la luce della luna. Se fosse stato giorno, se ci fosse stato il sole, sarebbero state di un meraviglioso tono rosato, adesso. Rosa come le sue mele, i suoi capezzoli, la sua fica... Non potevo farlo. Afferrai i suoi polsi e la spinsi contro il letto, inchiodandola sotto di me. “Che stai facendo?” urlò. Premetti la mia mano contro la sua bocca. “Devi fare silenzio. Nessuno può
trovarti qui, hai capito? Vuoi cacciarci entrambi nei guai?” Scosse la testa. Strattonai il suo braccio e, con le mani ancora sulla sua bocca, la spinsi contro il muro. La mi erezione era proprio contro quel magnifico culo, una mano sulle sue tette e l’altra sulla bocca. “Lo senti?” sussurrai nel suo orecchio. Lei annuì. La sua pelle era così soffice contro le mie labbra. Molto più soffice di queste. “Ci sono mamma e papà nella stanza accanto, che dormono,” bisbigliai. “Non potranno mai sapere quello che è accaduto tra di noi. Mai.” Deglutì. Cercò di muovere la bocca. “No.” La spinsi più forte contro il muro. “Non ti è permesso parlare. Non una parola.” Quando cercò di combattermi, strofinò inconsciamente il suo culo contro il mio cazzo. Sentii i muscoli del suo sedere duro contrarsi contro la punta del mio pene, attraverso i miei sottili pantaloni. Spinsi più a fondo dentro di lei, dimostrandole che per quanto cercasse di tenermi lontano, l’avrei presa comunque. “Vuoi che te lo mostri, ragazzina?” chiesi. L’oscurità che avevo cercato di sopprimere stava facendo capolino, minacciando di consumarmi. No, lo aveva già fatto. Mi piegai e le morsi il collo, forte. Cercò di strillare, ma attutii i suoi mugolii con la mano. Infilai la mano nella mia tasca, uscii fuori il mio fazzoletto e glielo infilai in bocca. Era lo stesso che le davo ogni volta che fosse turbata. Quello che puliva per me ogni giorno. Lo stesso su cui aveva ricamato, con amore, una E all’interno di un cuore. Disse che la E stava per Evan, e che il cuore rappresentasse quanto mi avrebbe amato per sempre. Mi amerai dopo questo, cara Sarah? Mi chiesi mentre le sollevavo il vestito. Piagnucolò quando le mie dita strofinarono la sua pelle nuda, afferrando quel
rigido bellissimo di dietro. “Sai quello che sto per fare, vero? E’ per questo che sei venuta qui? Sei soltanto una puttanella, sotto tutta quell’innocenza? Vuoi essere la mia puttana?” ai le mie mani sui suoi fianchi, poi sopra la sua camicia da notte. La pelle d’oca coprì il suo corpo. Feci scorrere due dita sulla sua fica. I suoi piccoli muscoli stavano già contorcendosi contro di loro, lavorandoli come avrebbero fatto con il mio cazzo a momenti. Urlò non appena li mossi dentro e fuori, per il piacere, la sorpresa, il dolore, o una combinazione di tutti e tre. “Vuoi essere la mia puttanella?” ripetei. Non aveva idea di cosa volesse dire. Lo sapevo, ma aveva capito abbastanza, penso, da intendere cosa le stessi chiedendo. Ruotò la testa all’indietro, mostrandomi i suoi occhi scioccati. Accoltellai la sua fica con le mie dita, poi le uscii. Le leccai, sorridendo quando i suoi occhi si spalancarono ancora di più. “Hai una fica così bagnata. Scommetto che ti lasceresti prendere proprio adesso, contro il muro. Scommetto che verresti soltanto perché ci sono i tuoi genitori accanto. Vuoi assaggiare quanto tu sia già una puttana?” Spinsi le mie dita oltre il fazzoletto, affondandole nella sua bocca. La sua lingua si tirò indietro. Non era abituata al suo sapore dolce, o forse si vergognava soltanto di quanto mi desiderasse. Dannazione, era troppo, vedere le mie dita entrare in quelle labbra carnose. Le immersi giù per la sua gola, la sentii affogarsi, e immaginai il mio cazzo entrare e uscire da quella bocca perfetta. No, dovevo ferirla per farla andare via. Questa cosa non poteva continuare. Se qualcuno lo avesse scoperto... “Quindi, Sarah? Non andare nella stanza di un uomo se non sei pronta,” sogghignai, scendendo dal suo corpo e mettendola in piedi. Ecco, quello avrebbe dovuto spaventarla. Non riuscivo a pensare a una sola donna che avrebbe accettato quel genere di abuso da parte di un uomo. Adesso tutto quello che doveva fare era andare via, prima che perdessi il controllo e fi tutto quello che avevo promesso. “Io... ” la sua voce tremò. Deglutì. Mi voltai, vedendola muovere le dita su
entrambi i lati dei piedi, torcendosi le mani sull’orlo del vestito, facendolo arrivare sopra le ginocchia. “Evan,” disse, combattendo per mantenere la voce ferma. “Voglio essere la tua puttanella.” Non mi guardò quando lo disse. Sembrava sapere, istintivamente, che fosse qualcosa di brutto, qualcosa che non avrebbe dovuto dire, e la mia piccola cara Sarah non faceva mai qualcosa che non fosse giusto. Ne era incapace. Fino ad adesso. Il mio cazzo era così fottutamente duro. Non mi ero accorto di essermi abbassato i pantaloni fin quando non me lo ritrovai tra le mani, pulsante. Camminai verso di lei. Tremò, ma non si ritrasse. Brava Ragazza. Il mio cuore batteva troppo forte, facendo martellare la mia gola. La mia testa. “Mettiti in ginocchio,” le ordinai. Da dove veniva fuori quella voce? Quel desiderio? Non importava—Lo volevo, nonostante sapevo fosse sbagliato, nonostante sapessi fosse impossibile—e lei obbedì. “Così, vuoi essere la mia puttana?” chiesi, strofinando la sua guancia con la mia mano. Chiuse gli occhi e poggiò il suo viso sul mio palmo, baciandolo con le sue soffici, dolci labbra. Non aveva idea di cosa stesse per accadere. A una parte di me piaceva essere colui che glielo avrebbe mostrato; piaceva che lei fosse ignara. E una parte di me voleva spaventarla, non perché fosse la cosa migliore per entrambi, ma perché questa ossessione era tutt’altro che pura. Non ero più un ragazzino, che si accontentava di sorrisi segreti, frutta e fiori. Nemmeno il suo corpo poteva saziarmi. Nemmeno la sua sottomissione ... “Voglio essere qualsiasi cosa tu voglia che io sia,” sussurrò. ai il dito sulle sue labbra. La sua lingua uscì fuori. “Dopo questa notte, rimpiangerai questa scelta.” “No, non lo farò.” “Si, lo farai”, Afferrai il retro della sua testa e la avvicinai al mio cazzo. Le colpì
un occhio e lei sussultò. Alla luce della luna, potevo già vedere una goccia del mio seme brillare sotto le sue ciglia, come se fosse una fata che era stata catturata e costretta a stare sulla terra. Mi guardò, Un’espressione riverente in quei grandi occhi blu, come se fosse stata drogata. Strinsi i suoi capelli in un pugno, e sussultò di nuovo per il dolore. Dovevo fare in modo che non tornasse più da me. Dovevo assicurarmi che questo non accadesse ancora. Perché se lo avesse fatto... avevo paura di quello che avrei fatto. Potevo a malapena contenere questa ossessione, e se avesse continuato a venire da me invece di starmi lontano, non sarebbe mai finita e noi saremmo stati scoperti. Non potevo lasciare che accadesse. “Apri la bocca.” “Perché?” chiese, e io le diedi uno schiaffo sul viso. La mia goccia scintillante si sparse sulla sua guancia, rendendo la pelle viola. “Non puoi parlare. Non puoi emettere un suono. A meno che non ti faccia una domanda.” Lei annuì. “Adesso apri la bocca, così posso scoparti la faccia.” Fece una smorfia, ma obbedì. Mi chiesi se sapesse cosa volesse dire—se lo avesse mai fatto con un altro uomo. Quel sentimento mi trasmise una sensazione di rabbia così forte che per un momento non riuscii a muovermi, non potevo fare altro che guardarla, immaginando un altro cazzo nella sua bocca, quelle labbra e quella bocca che compiacevano un altro uomo, essere la sua piccola puttana. Il mio pugno strinse più forte i suoi capelli. Non notai quanto forte stessi stringendo fin quando non emise un piccolo gemito. “Scusa, non dirò più nulla,” disse di fretta. “Fa soltanto male.” Allentai la presa. Che razza di mostro ero? Non erano affari miei con chi stesse lei. Non potevo tenerla con me. Dopo questa notte, non sarà mai più mia.
Le mie mani tremarono. “Quei suoni ... Puoi farli quando vuoi. Ma non troppo forte. Mamma e papà non possono sentirci.” Annuì. “Tieni la bocca aperta,” dissi, e infilai il mio cazzo dentro. Le sue labbra lo avvolsero come una ventosa. Colpii con forza la punta della sua lingua. “Devi semplicemente succhiarlo, proprio così...” mormorai, chiudendo gli occhi. “agli la lingua attorno, bacialo con le labbra. Continua a baciarlo. Come se stessi succhiando un lecca lecca.” Il riferimento al lecca lecca fece segno. Le sua labbra si spinsero contro il mio cazzo, e lo circondò con la lingua lentamente. Cominciò a leccarlo, con un sorriso, proprio come faceva con le caramelle. Lo prese alla base e lo tenne in alto mentre cominciava a succhiarlo dalla punta. Dio, come se quell’immagine non fosse già abbastanza erotica, non avrei più potuto guardarla mentre mangiava caramelle. La lasciai giocare per qualche altro momento, fin quando il dolore non avrebbe lasciato il mio petto. Volevo questo—questo. Questi dolci, piccoli momenti di esplorazione. Guardarla abituarsi alla mia lunghezza. Introdurla al sesso. Volevo questa gentilezza. Se solo non fosse stata il mio spirito gemello. Se fosse stata una qualsiasi ragazza del paese, avrei potuto amarla con dolcezza. Avrei potuto accettare la sua gentilezza. E avremmo fatto questo senza che nessuno ci dicesse cosa fosse giusto o sbagliato, perché non lo sarebbe stato. Inoltre, non ci sarebbe stato dolore. Ma non valeva la pena pensare a possibilità che non si sarebbero mai avverate. Le afferrai la testa e la avvicinai, fin quando la sua bocca non fu proprio sopra le mie palle. Ne prese una in bocca, circondandola ancora con la lingua. Il piacere mi percorse mentre mi leccava, facendo dei piccoli rumori provenienti dalla sua gola, a causa dello sforzo. Dio, era quasi troppo. Gemetti quando portai la punta del mio pene più in fondo possibile. Stavo cominciando ad addolcirmi. Non potevo farlo. Dovevo essere violento, così che avesse paura di me e mi stesse lontano, perché ogni volta che veniva da me, non
riuscivo a dire di no. Forzai il mio cazzo giù per la sua gola. Si affogò, ma tenne comunque la bocca aperta, cercando di non strozzarsi. I suoi occhi si riempirono di lacrime. Si mischiarono alla mia eccitazione e alla sua saliva, che era uscita dalla sua bocca e stava gocciolando sul suo mento. Cercai di ignorarli—gli intricati, confusi sentimenti in me—e permisi a me stesso di lasciarmi andare all’oscurità che era sempre lì, al di sotto. Cominciai a scopare la sua faccia.
***
Sarah CONTINUAI A TOSSIRE, o meglio cercai di farlo, ma la sua lunghezza era sempre li, bloccando la mia gola. Come avrei respirato? Quella cosa lunga, dura tra le sue gambe continuava ad andare dentro e fuori. Cercai di strofinarla con la lingua come mi aveva detto lui. Cercai di mantenere le mie labbra ferme su di essa. Ma allargava la mia gola. I miei occhi bruciavano quasi come le mie guance e le labbra. Era così difficile tenerla lì come un anello. Il retro della mia testa pungeva mentre lui mi teneva i capelli, costringendomi ad andare avanti e indietro. Le palle sotto la sua lunghezza saltavano sul mio volto, e il suo seme imbrattò il mio labbro inferiore. Tutto di lui sapeva di sale, come la pelle sudata. Presto, tutto quello che riuscii a fare fu tenere la bocca aperta mentre lui si spingeva dentro di me, le sue mani a ogni lato del mio volto. Poi, uscì e mi trascinò sul pavimento. “Appoggia palmi e ginocchia,” ordinò. Lo fissai, la gola mi faceva così male. Era difficile per me capire cosa stesse dicendo— “Adesso.” Mi prese i capelli e premette la mia faccia a terra. “Mettiti a gattoni, come una puttana.”
Mugolai come una puttana mentre facevo quanto mi era stato detto. Gli assi del pavimento cigolarono mentre lui si inginocchiava dietro di me. Le sue mani si mossero sul retro delle mie cosce. Erano bagnate. No, sono io, capii. Ero bagnata, per qualche ragione, e quel fastidio che mi aveva torturato quando entrai nella sua stanza ritornò. Si sparse per tutto il corpo, rendendo i miei arti, il mio stomaco e il mio posto privato doloranti—così tanto da emanare calore. Quando sentii il suo respiro contro la mia pelle, sembrava ghiaccio. “Ricordi cosa sto per farti, non è vero?” Gemetti quando infilò un dito dentro di me. “Non hai risposto alla mia domanda,” mi stuzzicò, pizzicandomi mentre entrava e usciva dal mio posto proibito con il suo dito. Era strano essere così aperti, che lui mi guardasse—che sapesse tutto di me. Il mio corpo era come uno strumento da suonare per lui, e lui sapeva farlo meglio di me, anche se era il mio. Era come se anche i miei più imbarazzanti piaceri segreti appartenessero a lui. “Ricordo,” piagnucolai. Quel dolore mi aveva distrutto. Mi aveva tormentato, tenendomi sveglia con una paura e un bisogno che non comprendevo. Il dolore che soltanto il mio amato Evan poteva darmi. “Sai cosa è questo posto?” Spinse le dita ancora più affondo nel mio posto proibito. Piegò le dita, che colpirono le mie pareti. Per poco non svenni dal piacere. “Questa è la tua fica.” La sua voce era ruvida. Calma. La mia fica, pensai, contorcendomi attorno a lui. Il mondo aveva un tipo di bellezza severo. Adesso avevo un nome per la mia debolezza e il mio piacere. “Sto per scopare la tua fica.” Sussurrò quelle parole nello stesso modo in cui sussurrava dove mamma avesse nascosto il barattolo dei biscotti quando eravamo bambini. Urlai quando ò la sua lunghezza tra le sue gambe, permettendogli di scivolare su e giù la mia area proibita—no, la mia fica. “Sai come si chiama questo? “No,” gemetti.
“Questo è il mio cazzo, e scoperò la tua fica con questo, proprio come ho scopato la tua faccia. Proprio come ti ho scopato in chiesa.” Tremai, ricordando la sensazione di sentirlo muoversi dentro e fuori da me. Posizionò quella cosa alla mia entrata—il suo cazzo sulla mia fica. La mia testa sembrava ronzare mentre ripetevo quelle nuove parole, silenziosamente, nella mia mente. Non osavo pronunciarle. Sembrava troppo audace. Così mi appoggiai indietro sui gomiti, inarcando la mia schiena verso di lui, preparandomi alla sua invasione. Stava per fottermi. Per spezzarmi. Per ... Sbattè il suo cazzo nel profondo della mia fica. Urlai, troppo forte, e cercai di avanzare ma lui mi afferrò i fianchi e li tenne fermi. Non potevo scappare. Le sue dita scavarono nella mia pelle. Avrebbero lasciato dei lividi, o più accuratamente, avrebbero sottolineato quelli che mi aveva fatto prima. Cercai di ruotare i fianchi in avanti ma lui li spinse giù, fin quando le mie ossa e le mie tette non colpirono il pavimento. Il mio stomaco toccò le assi di legno mentre respiravo, rendendo difficile inalare profondamente. Si mise in ginocchio e allargò le gambe, che fecero la stessa cosa con le mie cosce, sembrava che mi stessero dividendo in due. Andava dentro e fuori, esplorando la mia fica con il suo cazzo. “Dannazione, sei bagnata e stretta, puttana,” gemette. “Una così perfetta sgualdrina per il mio cazzo.” Il mio cuore balzò a quell’elogio. Non mi interessava quanto fosse degradante— che fossi sul pavimento, aperta per lui, completamente alla sua mercé. Ero una puttanella perfetta per il suo cazzo. Uscì lentamente da me, dando il tempo alla mia fica di percepire la sua intera lunghezza. Gemetti mentre le mie mani si chiudevano in due pugni. Lui rise. “Ti piace, vero puttana? Se fossimo soli, ti farei urlare.” Cadde sulla mia schiena, poi mise violentemente le mani sul mio viso. C’era qualcosa nelle sue mani—il fazzoletto che aveva gettato per poter scopare la mia faccia. Mi ci aveva soffocato, e il suo persistente, salato, disperato sapore fu sostituito da quello del cotone. I suoi palmi raggiunsero il sedere, strizzandolo mentre lo teneva per terra, così che non potessi muovere la mia fica. E poi, cominciò a scoparmi.
Esatto. Era chiamato così. Scopare. Mi stava scopando—o, per la precisione, la mia fica. Le sue dita si infilzarono nei miei glutei. Il mio volto si muoveva avanti e indietro sul pavimento, irritando la mia pelle e spingendo il fazzoletto più affondo nella mia gola. Cominciai ad affogarmi, proprio come quando aveva scopato la mia faccia, ma lui non se ne accorse. Anche senza nascondere le mie grida, dubito se ne sarebbe accorto, perché mi stava scopando troppo velocemente. “Mamma e papà sono nella stanza accanto a dormire,” mormorò nelle mie orecchie. “Sarebbero disgustati dallo scoprire quanto tu sia troia.” Si fermò per un momento, e proprio oltre il suo pesante respiro, potevo sentire mio padre russare nella camera vicino. La mia fica lo strinse ancora di più. “Ti piace, non è vero, troia? Ti piace essere una sporca puttana?” Il mio torso tremò non appena la sua corta barba sfiorò il retro delle mie spalle. Mi piaceva. Mi piaceva che io fossi la loro brava bambina, nella camera accanto, che veniva scopata silenziosamente. Mi piaceva che fosse il mio spirito gemello a macchiare l’innocenza che avevano cercato di proteggere così duramente. Mi piaceva che l’avesse già presa e che, questa sera a cena, nessuno ne fosse a conoscenza. E adoravo il potere oscuro che avevo su di lui. Mi piaceva il dolore che mi dava—i crampi ai fianchi, il tremendo peso sulle mie ossa, il bruciore nella mi fica. Mi piaceva perché meritavo per averlo tentato—per aver voluto tentarlo. Sì, volevo portarlo giù, nel più profondo del suo peccato, in modo da ricavarne piacere. Forse avevo provato a fare la brava così a lungo perché sapevo di essere cattiva. “Sei la mia puttana. Domani, quando ti guarderai allo specchio, vedrai i segni che ho lasciato sulla tua pelle, e più cercherai di nasconderli al mondo, più ti renderai conto di averli. Il tuo corpo è mio adesso.” Strinsi il suo cazzo più forte. Volevo circondare il suo corpo con il mio, stringendomi a lui il più possibile, perché sapevo che amasse quando la sua puttana era stretta per il suo cazzo. Era quello che faceva in modo mi scoe con violenza. Si schiantò dentro di me, spingendo il mio corpo per terra. La mia cassa toracica
andava a fuoco. Non riuscivo a respirare, non sentivo niente oltre al suo peso, che mi sfiniva, e alla lunghezza del suo cazzo, mentre scopava ritmicamente la mia piccola fica. “Vuoi essere mia?” Chiese con voce ferma. “Sì,” gemetti contro il fazzoletto. Mi chiesi se potesse sentirmi. E parole segrete e più oscure crebbero con me—parole che non avevo la forza di dire e che non avrei osato pronunciare nemmeno se l’avessi avuta. Sì. Voglio essere tua. Ti amo, sempre e per sempre. Accetterò questo dolore e lo trasformerò in piacere.
***
Evan PRIMA, QUELLO STESSO GIORNO, l’avevo scopata sull’altare di Dio. L’avevo presa come se fosse una puttana esperta, invece di una vergine. Avevo usato il suo corpo fin quando non si era infiammato. Ma anche quando era sul pavimento della mia stanza, non l’avevo trattata con più rispetto. Sapevo fosse inesperta—che fosse soltanto la sua seconda volta—e nonostante tutto non sentivo le suppliche della mia parte razionale che mi dicevano di fermarmi. Avevo sigillato le sue labbra mentre la scopavo da dietro, come un animale in calore. Le sue gambe erano tese contro di me, e lo diventavano sempre di più mentre la spingevo giù, costringendola a contrarsi sempre di più contro il mio cazzo. Una guancia era rivolta a me, l’altra era sul pavimento, ma potevo comunque vedere che fosse arrossita. Il bavaglio improvvisato fuoriuscì dalle sue rosse labbra. Le sue palpebre sbattevano mentre cercava di tenerle aperte, così da poter guardare me. Dio, era bellissima. Il mio corpo tremò mentre presi quello morbido, dolce di lei. Non la meritavo. Mi sentivo un ladro, che la rubava ai suoi genitori, forzandola a darmi quello che non dovrebbe mai donare a nessuno. Possedeva quel tipo di bellezza eterea che metteva gli uomini a disagio, come se non potessero toccarla. Anche quando ero dentro di lei mi sentivo così, Come se fosse sempre al di
sopra di me. Oltre me. Il solo pensiero me la fece fottere ancora di più. La afferrai, come se le mie mani la potessero incatenare a questa stanza. Come se la potessi tenere per sempre con me, in segreto—il suo elegante allargarsi dei fianchi, la sua vita sottile, i suoi lunghi, ricci capelli che sembravano d’argento sotto la luce della luna. Sussurrai al suo orecchio, non parole di un amante, ma quelle di un folle delirante e affamato. Parole di possessione e oscurità. Parole di ossessione. Che lei fosse mia nella nostra casa, anche quando i suoi genitori dormivano vicino a noi—che potessi averla in qualsiasi momento avessi desiderato—che sarebbe sempre appartenuta a me. Parole d’illusione. Parole cariche di brama. Parole che non sarebbero mai state vere, per questo mi tormentavano. Odiavo pronunciarle. Non volevo questa ossessione. Il desiderio si unisce alla paura di essere scoperti. Non volevo una relazione proibita. Volevo che lei fosse mia moglie, non questa ragazza ansimante, in lacrime, costretta sotto di me, cercando di darmi piacere a sue spese. Si era veramente trasformato in questo il mio amore? Potevo, ancora, chiamarlo amore? A una parte di me piaceva pensarla come la mia puttana, e non mi importava con tutto me stesso se fosse legata a me a causa della paura, o del dolore, o della vergogna, fin quando lo fosse comunque. Le sue caviglie si attorcigliarono ai miei polpacci mentre la tenevo giù, sul pavimento. Dovresti veramente andar via, pensai mentre le tiravo indietro i capelli. Le sue lacrime avevano lavato via la mia eccitazione. Mi abbassai per baciarla, ma invece le morsi il collo. Sentii il battito del suo cuore accelerare contro la mia lingua mentre spingevo dentro di lei. Batteva più forte di quanto io potessi scopare, e sembrava più forte del cigolio delle assi di legno. “Tu sei mia,” dissi, e nel mio cuore, dissi, voglio che tu sia mia. “Sarai sempre mia.” Solo per adesso, questa notte. Dopo, non ci sarai più Non voglio che tu vada via. Sussultò quando tremai sopra di lei, svuotando il mio seme nella sua fica. Il mio cazzo pulsò dentro di lei quando quel piacere quasi doloroso percorse il mio
corpo. Crollai sopra di lei, spostando da una parte i capelli sulla schiena, prima di appoggiare la mia faccia tra le sue scapole umide. Cercai di immaginare un giorno in cui non sarei dovuto andare via. Ma un momento del genere non poteva durare per sempre, o nemmeno un po’ più a lungo. Ti amo, pensai. “Dovresti andare.” “Non riesco a muovermi con te sopra,” rispose dolcemente. Rotolai giù da lei, sulla mia schiena. Si appoggiò ai gomiti e mi guardò. I suoi capelli ricadevano sulle sue spalle, sul suo volto, nascondendo le sue lacrime. “Ti è piaciuto?” chiesi prima di potermi fermare. “Sì,” disse velocemente. Troppo velocemente. “Non mentirmi.” Le afferrai il braccio, impedendole di alzarsi e andar via, proprio quello che le avevo detto di fare. “Mi è piaciuto.” Disse tremando ... Dio, mi odiavo. “Dovresti stare alla larga da me, Sarah.” Pronunciai il suo nome per mettere un po’ di distanza tra noi. “Non ci si può fidare di me, quando sono attorno a te.” “Non so cosa tu stia dicendo.” “Io penso di si.” Mi guardò e io la lasciai andare. Dopo un momento, raccolse la sua camicia da notte, che era per terra, e la indossò. Si fermò alla porta prima di uscire. “Non l’ho odiato,” sussurrò, poi corse per il corridoio, nell’oscura notte. Non mi fidavo di me stesso, così non la seguii.
Capitolo 4: Lascia che ti tenga con me
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Sarah IO E ROSALIND CAMMINAMMO dal nostro stand al villaggio fino ai terreni. Stavamo andando a guardare i ragazzi a lavoro, così aveva detto. Avremmo portato loro il pranzo. Aveva preparato due sandwich, un po’ di frutta e verdura. Uno avrei dovuto darlo io a Otto. L’altro lei a Evan. “Non sapevo fossi così intima con Evan,” dissi. Arrossì. “Beh, ho un debole per lui. Abbiamo ato un po’ di tempo assieme quest’estate.” Presi il cestino di Otto. Cosa c’era di sbagliato in me? Perché il mio corpo lo stava facendo? Ma non volevo pensarci, sapevo già la rsposta, premetti il cestino contro il mio corpo, cercando di allontanare il problema. Era stata con Evan? Era una troietta? L’aveva toccata allo stesso modo in cui aveva fatto con me? L’aveva posseduta, come aveva fatto con me? Camminammo in silenzio per qualche istante. Notai il suo piccolo sorriso, il modo in cui non si rendeva conto della polvere che il vento le soffiava in faccia, la gioia nei suoi occhi. Per la prima volta, odiai la felicità dalla mia amica. Non volevo che lo fosse—no se era per Evan. “Ci siamo quasi.” Non riusciva a contenere la sua eccitazione. Annuii quasi assente, e guardai avanti. Evan e Otto stavano raggruppando il grano. Muovevano la falce avanti e indietro, i loro muscoli scintillavano al sole. Da dietro, se non facevi casso alla differenza di altezza, sembravano quasi due fratelli. Entrambi avevano gli stessi capelli scuri. Mi chiesi se Rosalind fosse capace di riconoscere Evan da dietro a
prescindere da chi gli fosse intorno. Io ci riuscivo sempre. Il mio corpo lo riconosceva comunque—era costantemente contratto alla sua presenza. Anche dopo ciò che era successo ieri, gli sono sempre stata vicina. Forse anche troppo. Rosalind corse in avanti, e le cadde la cuffia, lasciando i suoi capelli rossi al vento. Era un colore abbastanza carino—il colore delle mele. Mi chiesi se a Evan pie. E se gli avesse ato le dita in mezzo, se li avesse afferrati mentre la scopava in bocca. No, non potevo pensare in questo modo. Il mio cuore martellava nel petto. Stavo diventando pazza. Non avevo prove che avessero fatto quelle cose assieme. Era soltanto frutto della mia immaginazione. Tuttavia, anche se non avessero fatto nulla, non importava. Poteva benissimo corrergli contro. Poteva cadere tra le sue braccia e nessuno avrebbe detto niente. Se lo avessi fatto io ci sarebbero state delle voci sul mio conto, che ero troppo vicina al mio spirito gemello. Non era giusto. Volevo anche io essere in grado di esprimere i mei sentimenti per lui come lo faceva lei. “Evan!” urlò. Poggiò il suo cestino e gli saltò sulla schiena, avvinghiando le sue braccia attorno al suo collo. Evan fece qualche o in avanti, poi si girò e la prese tra le braccia. Sorrise, disse il suo nome, poi guardò in alto e mi vide. La sua faccia si congelò, ma Rosalind non se ne accorse. Continuò a parlare di qualcosa in maniera abbastanza frenetica, si girò prese il cestino e glielo porse. I suoi occhi erano ancora sui miei. Mi gelai, e per un istante sembrò che entrambi fossimo entrati in una diversa linea spazio-temporale, che fossimo noi due da soli, ma separati. Perché il suo sguardo mi riempiva di desiderio e tristezza? Perché sembrava così infelice? “Sarah,” una bassa voce mascolina mi chiamò dalla mia sinistra. Guardai Otto. Era affascinante, in un modo familiare, con degli zigomi forti e una grande bocca. Le ragazze parlavano molto di quella bocca, e di ciò che riusciva a fare, o che sarebbe riuscito a fare. Ho sempre amato i suoi occhi— marrone scuro e dolci—proprio come quelli di Evan. “Ciao Otto.” Lanciai un’occhiata a Evan e presi un respiro profondo. “Ti ho portato il pranzo.”
Evan prese il cestino così forte che sembrava stesse per romperlo. “Grazie, Sarah,” Otto rispose gentilmente, prendendolo. “Ha un buon profumo.” “A dire la verità è stata Rosalind a farlo.” Guardai in basso. Sia Otto che Evan mi stavano fissando, sentii le mie guance andare in fiamme. Otto tocco il mio braccio. “Beh, allora grazie per avermelo portato.” Sentii un trambusto provenire dalla direzione di Evan. “Dai,” borbottò, e Rosalind strillò. Guardai giusto in tempo per vedere che Evan la stava trascinando verso i boschi al limite del terreno. Lei mi guardò e mi fece l’occhiolino prima di sparire con lui. I miei muscoli si irrigidirono. Avrei volute corrergli dietro, ma cosa avrebbe risolto? Se lo avessi fatto, avrebbe significato parlare. Non dovrei essere così impulsiva. Cosa c’era di sbagliato in me? Otto si sedette accanto a me su una palla di fieno. “Hai portato qualcosa per te?” Mossi la mascella e scossi la testa. Non mi fidavo ancora di me stessa da poter proferire parola. “Puoi averne un po’ del mio, se vuoi.” Tirò fuori dal cestino dei panini, del formaggio e del salame. Mi sentii così in colpa quando guardai i sandwich al prosciutto e burro fatti da Rosalind per lui. “Se vuoi io posso mangiare questo e tu quello.” “No, questo va bene.” Otto sorrise. “Grazie mille per avermelo dato.” Non sembrava poi così tanto entusista. Avrei voluto dirglielo, ma il pensiero di farlo mi metteva a disagio, perché mi avrebbe detto che era proprio quello che voleva con il suo bel sorrisino, e non avrei saputo come rispondere. Guardai verso il bosco dove Evan e Rosalind si erano inoltrati. Cosa stavano facendo là? Stavano...no, non potevo pensarci. Serrai i pugni. “C’è qualcosa che ti turba, Sarah?”
Già. Ero qui con Otto. Me ne ero quasi dimenticata. Guardai di nuovo verso il bosco. Mi stava facendo dare di matto. Dovevo saperlo ma...No, non potevo farlo, con lui. Ma potevo permettermi di non farlo? Evan e Rosalind, erano là, a fare... “Otto, posso farti una domanda?” dissi lentamente. Rimase un attimo in silenzio, forse mi stava studiando. Penso lo stessi spaventando. Mi stavo spaventando da sola. “Certo Sarah. Puoi chiedermi qualsiasi cosa.” “Evan e Rosalind. Per caso sono—lei è...” Il mio petto si stava gonfiando. Avevo la vista offuscata. Improvvisamente il calore dietro il mio collo divenne insopportabile. Il vestito si attaccò sulla mia pelle umida, e al di sotto, il mio corpo prudeva e andava a fuoco. “Sarah.” Mi prese dalla schiena. Avrebbe dovuto essere un gesto rassicurante. Sentii un formicolio sulla pelle, era incredibilmente calda. “Otto,” dissi il suo nome così da sentirmi sicura, credo. “Per caso Rosalind è la troietta di Evan?” La sua mano si fermò. “Lui è...loro sono...lui è...voglio dire...la sta scopando in faccia adesso? Sta infilando il suo cazzo nella sua fica?” Silenzio. Rabbrividii. Improvvisamente, tutto il calore che aveva pervaso il mio corpo divenne freddo come il ghiaccio. Sembrò che fosse ata un’eternità prima di rispondere. “Cosa hai detto?” “Hai capito perfettamente,” sussurrai. “Ti prego, non farmelo dire di nuovo.” Ancora silenzio. “Dove hai sentito parole del genere, Sarah?”
Le mie guance arrossirono. Sentii la sua mano chiudersi in un pugno vicino la mia pelle. Alcune ciocche dei miei capelli lunghi rimasero impigliate nel suo pugno. Non lo fece di proposito, ovviamente. Erano appiccicati alla mia schiena e, probabilmente, rimasero attaccati al suo palmo quando mi abbracciò e quando chiuse il pugno vennero un po’ tirati. Quel dolore mi portò in mente alla sera in chiesa, quando Evan aveva spinto il suo cazzo nella mia fica. Quando bisbigliò quelle parole che sapevo di non dovere ripetere. Parole belle e misteriose. Un po’ scioccanti. Quella sera mi chiesi se fossero parole che soltanto noi due conoscevamo, perchè sembravano spiegare perfettamente la fragile, dolorosa e squisita essenza che si era creata tra noi due. Ma era appena andato con un’altra donna, ed io pronunciai quelle parole ad alta voce, a un altro—che ovviamente conosceva il loro significato, e che era arrabbiato che le avessi dette. Di colpo, la magia che quelle parole avevano avuto su di me era sparita, sembravano comuni—anzi, ancora meno, come una cosa bellissima che viene fatta a pezzi e poi con non curanza gettata via. “Sarah, dove hai sentito queste parole?” Ripeté. Rimasi ferma. “Non ne voglio più parlare.” Afferrò il mio polso. “No. Devi dirmi esattamente dove le hai sentite.” “Non voglio.” Abbassai lo sguardo. Sentti un groppo in gola, i miei occhi si prosciugarono. C’era troppa polvere nel terreno. Stava irritando le mie cornee, e mi impediva la vista. Non gli spostai la mano. Non so il perché. Odiavo la sua presa su di me, e in più non potevo muovermi. Sentivo nel mio stomaco una sensazione inquietante e eccitante. “Sarah,” Abbassò il tono di voce. “C’è qualche ragazzo in città che ti da fastidio?” “No, non si tratta di questo.” “Me lo puoi dire. Voglio che tu me lo dica.” “Non era un ragazzo della città.”
Prese un respiro. Strinse ancora di più la presa. “Era una donna?” “No! Otto, niente. Dimentica ciò che ho detto.” Lasciò la presa per un momento. Mi sarei dovuta mettere a correre, ma non lo feci. Invece rimasi là, nella stessa posizione di prima, mentre lui poggiava le mani sulle mie spalle girandomi verso di lui per guardarlo in faccia. “Come diamine faccio a dimenticare che hai detto queste parole?” Il mio labbro inferiore tremò. Fece un o indietro, mollò la presa, e mi prese le mani. “Scusami,” disse. “Non so cosa mi sia preso.” “Tranquillo. Dovrei andare.” Non mi lasciò andare. “Non te ne andrai fin quando non mi avrai detto dove hai sentito quelle cose.” “Non voglio.” La mia voce tremava. Trasalì per un istante, ma si capiva dallo sguardo determinato nei suoi occhi—e dal rimorso che mostravano—che non mi avrebbe lasciato andare fin quando non l’avrei fatto. “Dai dimmelo, Sarah. E’ un ragazzo, vero? Ti ha detto cose che ti mettono a disagio?.” “Fermati,” dissi piangendo. Lui deglutì, e la sua voce si fece dura. “Ha mai fatto qualcosa per metterti a disagio?” “Ho detto basta!” “Sarah, chi è? E’ Joseph?” “No, non è Joseph!” Se avessi avuto le mani libere, le avrei serrate sopra la mia bocca. Avevo appena ammesso di avere sentito quelle parole da qualcuno. No, non solo qualcuno, ma un uomo. La mia mente impazzì non appena gli occhi di Otto si strinsero. “Chi è?” “Non è qualcuno cattivo,” dissi velocemente.
“Questo sarò io a dirlo.” “Non sono affari tuoi!” “Certo che lo sono!” guardò verso gli alberi. “Sai cosa farebbe Evan se sapesse che qualcuno ti parla in questo modo?” “A lui non interessa!” Gli urlai contro. “Diamine, certo che gli interessa! Hai almeno idea del significato di quello che hai detto? Non voglio neanche immaginare dove tu le abbia sentite.” “Allora fammi andare,” lo pregai. Il suo pomo d’Adamo ondeggiò su e giù. “Sarah, dimmelo.” Scossi la testa e feci un o verso le sue braccia. “No. Non ha importanza. Dimentica quello che ho detto. Volevo solo sapere se lui fa queste cose con lei. Se ha detto queste cose...” Non riuscivo più a pensare. Immaginai Evan e Rosalind muoversi tra gli alberi. Sul terreno, con le ginocchia sporche. Lui, che alzava la sua gonna oltre i suoi fianchi. E il suo corpo accettare Evan mentre le antrava dentro. Per scoparla. La sue gambe si erano strette mentre la scopava? Le doleva la fica? Aveva spinto dentro il suo cazzo fino a farle male? Fino a quando le faceva così male da sentirsi in paradiso e da desiderare che non si fermasse mai? L’aveva squarciata in due e poi rimessa a posto? Le aveva sussurrato che era sua, e che lo sarebbe sempre stata? Trattava tutte le ragazze così? Non significavo niente per lui? Mi aggrappai alla camicia di Otto. Aveva mollato la presa quando mi ero avvicinata a lui, e adesso le sue mani erano dietro la mai schiena, trattenendomi a sè. Riuscivo a sentire il suo cuore battere. Mi ricordò quando in chiesa Evan mi si era lanciato addosso. Nella mia mente rividi la sua faccia mentre mi colpiva con forza sull’altare. Rividi lo sguardo riverente nei suoi occhi mentre fissava il mio corpo. Non ero mai stata così esposta a qualcuno. Non da quando ero solo una bambina, e anche quella volta era stato con lui. E mi ero sentita preziosa, sacra perché ero nuda di fronte a lui. Evan, che sapeva tutto di me, che c’era sempre per me.
“Credevo che fossero delle parole speciali. Credevo avessero un significato. Non avevo mai sentito cose del genere. Mi aveva detto che non avrei dovuto riferirle a nessuno. Mi aveva detto che se l’avessi fatto sarebbe andato tutti in frantumi.” Otto mi afferrò con decisione. “Me lo puoi dire, Sarah. Puoi dirmi tutto.” “Non posso. Gli appartengo. Aveva ragione. Ho rovinato tutto.” Il suo cuore iniziò a battere più veloce. “Non appartieni a nessuno se non a te stessa,” Disse fermamente Otto. “Nessuno ti può rovinare. A prescindere da quello che ti fanno, non ti possono fare del male.” “Tu non sai cosa è succeso!” “Penso di avere una certa idea a riguardo,” disse dolcemente. “No, non lo sai!” Lo spinsi e guardai verso i boschi. “Volevo solo sapere se lui ha delle altre puttanelle. Se ha scopato qualcun altro in faccia. Se è nei boschi a scopare la sua faccia in questo momento! A scopare la sua fica con il suo cazzo! Se è...” “Aspetta, Sarah, stai parlando di Evan?” Mi bloccai. I miei occhi si spalancarono e feci un o indietro, con la mano sulla bocca. Otto fece un o in avanti. “Non,” sussurrai. Alsò le sue mani. “Non faro niente che tu non voglia.” Deglutì. “E’ stato Evan a dirti quelle cose.” Non riuscivo a guardarlo. “Ti ha fatto quelle cose, Sarah? Ti ha detto che eri rovinata?” Non riuscivo a muovermi. Non lo guardavo. Fortunatamente, non provò a toccarmi di nuovo. “Non sei rovinata, Sarah,” disse dolcemente. “Forse vorresti andare a casa
adesso.” Gli lanciai uno sguardo. “Che intendi?” “Non sono arrabbiato con te. Penso soltanto che non dovresti essere qui quando tornerà Evan.” “Perché?” “Dobbiamo parlare di alcune cose.” Otto mi diede gli scarti del pranzo che non avevo finito. Quello che mi aveva dato quando mi ero seduta. Il suo pranzo. “Ecco, puoi portarlo con te.” Lo guardai, anche se pensai che non sarei riuscita a mangiarlo. No, dovevo. Era un pranzo squisito. Costoso. Non dovrebbe essere sprecato. “Sei bellissima, Sarah,” disse, non appena mi voltai per andarmene. “E non ha importanza ciò che Evan ti ha detto. Niente in questo mondo può rovinarti. Non appartieni né a lui né a nessun altro.”
***
Evan ROSALIND STAVA PIANGENDO. Me lo sarei dovuto aspettare. Sarei dovuto essere pronto. Ma non riuscivo a sopportare la vista di una donna in lacrime. Faceva a pezzi ogni singola cellula del mio corpo. Non ebbe importanza quanto mi fossi preparato a questo. Mi sentivo ancora un coglione, e ogni parte del mio corpo avrebbe voluto correrle incontro e farla sentire meglio. Ma non ne fui in grado, perché le avrei dato delle false speranze. “Non posso stare più con te. Non posso stare con nessuno. Non è per te. Tu sei bellissima e fantastica, Rosalind.” “Allora chi è?” Piagnucolò. “Hai un’altra ragazza, vero? Chi è?”
Abbassai lo sguardo. Era una domanda alla quale non avrei mai potuto rispondere. E non avevo quell’altra ragazza, non che lo avrebbe saputo o capito. Non aveva importanza quante volte fossi stato con Sarah. O quante volte l’avessi toccata, oppure quanto fossimo vicini. Non l’avrei mai avuta. O almeno non interamente. Lei era per qualcun altro. Dovevo accettarlo, e stare con altre donne non migliorava la situazione. Non l’avrebbe mai fatto. E in tutta sincerità, dopo essere stato con Sarah, non volevo sminuire i nostri sentimenti, o tradire quello che c’era stato, ando del tempo con altre. In particolar modo con qualcuno al quale lei volesse bene, come la sua migliore amica. “E’ per un’altra,” disse dolcemente Rosalind. “Lo vedo nei tuoi occhi.” “Non è come pensi,” dissi. “L’hai scopata?” Il suo tono di voce aumentò. “E’ per questo che non hai mai voluto scopare la mia fica? Perché avevi un’altra?” “Fermati.” Poggiò le mani sul suo petto. Si mossero sopra i bottoni non appena iniziò a sbottonare il vestito, facendo intravedere la sua dolce pelle e il corsetto bianco. Provai ad avvicinarmi, ma aveva già scoperto le spalle. I capezzoli sporgevano dalla parte alta del corsetto, e i suoi sodi seni sembravano così soffici—proprio come immaginavo che fossero. Mi allontanai da lei. “Rimettiti i vestiti.” Rosalind non stava ascoltando. “Ti fa delle cose che io non farei?” “Non c’entra niente.” Si inginocchiò, proprio come aveva fatto la prima volta, e tante altre volte dopo quella. Guardai la sua bocca—Quella bellissima bocca che aveva succhiato il mio cazzo. Il mio cazzo ricordò la sensazione della sua lingua attorno la punta. La sensazione della sua gola mentre lo prendeva tutto in bocca. Era brava a farlo. Le piaceva. Voleva che fosse l’ultimo cazzo che avesse mai succhiato, e che aveva preso spesso in bocca. Le piaceva il sapore del mio sperma, diceva, e le credevo, perché ogni volta che ingoiava poi faceva un sorriso. Le sue mani raggiunsero i miei pantaloni. Indietreggiai con disgusto, anche se
quel disgusto era per me e non per lei. Non era affatto scoraggiata. “Ti ricordi quando hai scopato il mio culo due settimane fa?” Lo ricordai. Non volevo, ma lo feci. Era così stretto, lo avevamo fatto nel ripostiglio dei suoi genitori. Non c’era nessuno a casa, e si era piegata sul tavolo da lavoro di suo padre, e aveva alzato la gonna. Senza dire niente, aveva afferrato il mio cazzo già duro attaverso i pantaloni e lo aveva appoggiato sul suo sedere. Non potevo scopare la sua fica. Lo sapevo. Non voleva avere nessun tipo di casino prima di sposarsi, il quale era un pensiero intelligente, secondo me. Tuttavia aveva detto che mi avrebbe dato il suo culo. Sapevo che non era la sua prima volta. Non era neanche la mia prima volta, ma quel momento sembrò il più intimo che avessi mai avuto con una donna. Forse perché era la migliore amica di Sarah, la cosa più vicina a lei che avessi mai avuto. Forse perché i suoi capelli odoravano di mele. Aveva aperto le sue gambe. L’avevo afferrata dai fianchi entrando da dietro. Il tavolo da lavoro scricchiolava. L’aria sapeva di polvere quando inspirai, ma la sua spalla nuda sapeva di mele. Le mele della mia Sarah. Dovetti mordermi il labbro per non pronunciare il suo nome. E quando sentii il sangue, le baciai il collo e entrai dentro, gentilmente, più delicatamente che potessi. Era come avevo sempre voluto scopare Sarah. Gentilmente. Dolcemente. Per mostrarle il mio amore, e che l’avrei amata più di chiunque altro al mondo. Avevo avvolto le mie braccia attorno al suo corpo aggrappandomi ai suoi seni. Penso che Rosalind fosse sorpresa dalla mia gentilezza. Mi aveva offerto il suo culo, e adesso stavo facendo sesso con lei. Sbatteva i suoi fianchi contro di me. Si lamentava e diceva il mio nome. Eveva detto che per lei andava bene farlo veloce. Che potevo continuare. Volevo lasciarmi andare. Le mie spinte si erano fatte più veloci, e quando andavo indietro restringeva il suo culo, spingenedo il mio cazzo ogni volta che scivolava dentro. E poi mi svuotai al suo interno. Lasciai la presa e appoggiai le mie labbra sul suo collo.
Ti amo, pensai, ma non mi fermai lì. Lo avevo detto. E poi, dopo un po’ di silenzio, aveva detto ti amo anch’io. Rosalind si distese per terra, aprendo le gambe e portando i fianchi in aria. Guardò oltre la sua spalla, i suoi capelli scompigliati, i suoi occhi grandi, le sue soffici labbra e le guance rosse dal pianto. Adesso le sue tette erano fuori dal corsetto, ma erano ancora pressate da questo. Si vedevano le sue spalle nude. “Puoi scoparmi,” bisbigliò. “Puoi fare tutto ciò che vuoi. Se vuoi puoi anche scopare la mia fica. E’ per questo che vuoi lei? Perché ti lascia fare tutto? Lo farò anche io.” “Non posso,” dissi, e rimasi sorpreso realizzando che era proprio così. Una parte di me la voleva ancora. Voleva prendere ciò che lei offriva. Voleva usarla. E quella parte di me mi disgustava al punto da non poter diventare duro quando la guardavo. Era crudele, disgustoso e impulsivo. Non avevo il diritto di fare del male a una brava ragazza. Ma più di tutto non potevo sminuire quello che provavo per Sarah. Sarah si sarebbe sposata. Volevo che lo fe. Ma non volevo che si sentisse come se fosse stata semplicemente usata. Per questo non sarei stato con nessun’altra. Non per molto tempo, forse mai più. Probabilmente sarebbe stato più semplice di quanto pensassi, perché dopo essere stati assieme, anche solo il pensiero di andare con una sostituta mi faceva stare male. Le mani di Rosalind presero la polvere. Appoggiò la testa per terra. Le sue lacrime si mischiarono alla sporcizia, creando del fango sulle sue guance. “Perché hai detto di amarmi?” Non sapevo cosarispondere. “Perché me lo hai detto, Evan? Mi odi veramente così tanto?” “No,” sussurrai. “E’ stato un errore. Non sono buono per te. Non sono buono per nessuno, a dire la verita.” “Non mi interessa se non sei buono. Ti voglio!” Si fece piccola, infilzando le dita nel terreno, grattandolo. “Ti prego, non mi lasciare.”
Mi misi in ginocchio accanto a lei, distogliendo lo sguardo dal suo corpo. Le ombre degli alberi sembravano delle sbarre sulla sua schiena. “Sei bellissima, Rosalind. Non conosco ragazzo in città che non vorrebe stare con te. Che non si prenderebbe cura di te.” “Ma tu no,” disse. “Non sono abbastanza bella?” “Non c’entra niente. Non posso più stare con nessuno.” Quel pensiero era così vicino alla verità che stavo per accettare. Si alzò e avvolse le sue mani sporche intorno al vestito, cercando di pulirsi, ma non fece altro che peggiorare la situazione. “Adesso guardami,” disse ridendo. “La gente penserà che siamo venuti nel bosco per scopare.” “Molte ragazze vanno in giro con le gonne sporche.” Fece qualche o in avanti, dandomi la schiena. “Io sono venuti qua per scopare. Solo che non lo abbiamo fatto. Sembra che sia accaduto. E’ così sciocco.” Prese un respiro profondo. “Chi è, Evan?” Mi venne in mente l’immagine del dolore negli occhi di Sarah mentre guardava tra me e Rosalind. Lei lo sapeva. In quel momento, aveva capito cosa fosse ciò che le avevo sempre impedito di vedere, e si sentì male per sè stessa. E non potevo andare da lei per farla stare meglio. Non potevo rassicurarla. L’unica cosa che potevo fare era proteggerla con il mio silenzio, e la mia incuria. “Non c’è un’altra ragazza per me,” dissi. “Dovresti andare per prima. Io aspetterò un po’.” “Bene. Puoi mangiare il pranzo che ho preparato per te,” disse. “Non credo di poter—” “Io non lo rivoglio,” disse di scatto. E se ne andò, così velocemente che stava per cadere. Credo stesse pensando che, anche se non riuscivo a vedere la sua faccia, mi sarei potuto accorgere che stava piangendo, e non voleva che la vedessi. La guardai andare via, poi mi sedetti e mangiai il sandwich, cercando di riempire il vuoto nel mio cuore con del cibo del quale non potevo sentire il sapore.
***
Evan DOPO CIRCA MEZZ’ORA lasciai i boschi. Erano tutti tornati a lavoro, ma Otto mi stava aspettando, seduto sul fieno, guardando il suolo. Un fremito mi scosse. “Hey. Non dovresti essere ancora qui.” Otto diede un calcio per terra . “Mentre stavamo pranzando, Sarah mi ha fatto delle domande.” Mi sentii congelare. No, non poteva essere. Sarah non avrebbe mai detto niente. Mi tornò in mente il suo sguardo stressato. Quei grandi, imploranti occhi azzurri. Quel labbro tremulo. “Vuoi sapere cosa ha detto?” Non riuscivo a muovermi, a rispondere. “Mi ha chiesto se Rosalind era la tua troietta. Voleva sapere se l’hai scopata.” Sentii il sangue pulsare sul mio viso. “Sembri un po’ pallido, amico,” disse Otto, aspettando. Era un po’ più in alto di me. Era uno degli uomini più grandi del villaggio, e amava Sarah. L’avevo visto andarle dietro per cinque anni. Aveva cercato di nasconderlo, quindi non potevo semplicemente fare a botte con lui, come avrei fatto con gli altri ragazzi, solo perché si preoccupava per lei. Dopo tutto, non avrei mai avuto la meglio su uno come Otto. Non mi era mai ato per la testa, anche perché non mi aveva mai guardato così prima d’ora—occhi scuri, serrati, e in cerca di sangue. Il mio sangue. “Non sembri neanche così sorpreso, o arrabbiato, come dovresti essere se qualche ragazzo dicesse cose del genere alla tua adorata Sarah.” Lo sapeva. Non sapevo se Sarah glielo avesse detto, o se lo supponesse, ma lo
sapeva. Credo che una parte di me già lo sapesse, nel momento in cui lo vidi ancora seduto sul fieno. E ogni cellula del mio corpo lo seppe quando sentii il colpo del suo pugno raggiungere il mio viso. La mia bocca si riempì di metallo non appena i miei denti tagliarono la guancia come un coltello affilato. Feci dei i indietro, sputai del sangue, poi mi fermai. Stare fermo non era proprio la mossa migliore, e poi di nuovo, volevo essere punito per ciò che avevo fatto. Volevo morie. Se fossi morto, non avrei più dovuto affrontare lo sguardo di Sarah. Non l’avrei più macchiata di questa ione tentatrice. Non sarei più stato perseguitato da queste oscure sensazioni che non riuscivo più a combattere. Il mio desiderio avvelenava l’amore che provavo quando la guardavo, e lo trasformava in qualcosa di ossessivo e distruttivo. Otto mi colpì nuovamente sull’altro lato del viso, e mi diede un calcio nello stomaco. Mi lamentai, piegato in due dal dolore, cadendo indietro sul fieno. “Non dirai niente a tua discolpa?” chiese, un piedi sopra di me. Gli lanciai uno sguardo. Aprire gli occhi mi provocò dolore. Non riuscivo a muovermi. Otto afferrò la mia camicia e mi sollevò così che potessimo essere faccia a faccia. “Rispondi alla mia fottuta domanda!” “No.” La mia voce sembrò quella di un bambino. Qualcosa ò negli sguardo di Otto. Qualcosa che non riuscivo a vedere, perché gli occhi mi facevano così male da non poterli tenere aperti. Sembrava che anche il sole mi stesse facendo del male. “Come hai potuto farle questo?” sussurrò. “E’ il tuo spirito gemello.” Ma non siamo imparentati! Avrei voluto urlare, non che importasse a qualcuno in città. Forse l’avrebbero accettato se fossimo stati imparentati. “Pensi che non lo sappia?” Piansi. “Credi che non ci pensassi ogni singolo giorno della mia vita? Pensi che mi svegli ogni mattina senza pensarci? Che non i ogni singolo momento al suo fianco senza saperlo? Ogni istante che vorrei
toccarla ma non posso?” “Ma lo hai fatto.” La sua voce si fece più dolce, ma non meno arrabbiata. “Sì,” sussurrai. “L’ho fatto. L’ho scopata. L’ho fatta diventare la mia troietta.” Otto mi scaraventò per terra e iniziò a dare calci. Dopo avermi dato un colpo allo stomaco, mi piegai dal dolore, ma non feci niente per evitare i suoi colpi. Il dolore era atroce, si diramava in tutto il mio corpo, ero troppo debbole per combatterlo, ma sapevo di meritarlo per aver toccato qualcosa di così bello al quale non avrei mai potuto appartenere. Otto si fermò. “Andrò a casa di Sarah stasera, e chiederò il permesso di sposarla.” Scossi la testa. “Cosa?” “Ovvimente non potete più vivere nella stessa casa. Io la amo. Mi occuperò di —” Non lo lasciai terminare. Non sarei riuscito a sopportare quello che avrebbe detto. Mi ci buttai addosso, dando furiosamente calci e pugni. Riuscii anche a tirarne qualcuno. “Non puoi,” dissi, quando mi trovai sopra di lui, i miei occhi lo fissavano spalancati. “Non osare toccarla, cazzo.” “Perché? Perché appartiene a te? Avresti dovuto ascoltare quelle assurde cose che mi ha detto. Sei un mostro.” Probabilmente lo ero, ma non mi importava. Non potevo lasciare che qualcuno toccasse Sarah. Nessun altro poteva averla. “Stai lontano da lei,” sibilai. Otto mi spostò. “E’ un po’ tardi per fare la parte di quello sconvolto, il migliore amico super protettivo.” “Non capisci niente!” dissi, saltandogli addosso. “Pensi di riuscire a comprendere l’amore? Non ne sai niente. Niente.” Otto scrutò il mio viso. “Non mi piace ammetterlo,” bisbigliò, “Ma vedo che ti preoccupi per lei in modo molto contorto. Non riuscirai a portarla in un mondo come il tuo. Merita di meglio.”
Poggiai la testa sulla sua camicia. Il sangue colava dal mio mento al suo collo, macchiando la sua camicia. “Tu non capisci quanto io...” “Non puoi fare una cosa del genere né a te né a lei,” disse Otto, spingendomi indietro. Si lamentò. “In qualche modo, sapere che ti senti così rende tutto più complicato.” “Lo capisco,” bisbigliai. “Non puoi più starle intorno,” disse con fermezza. “Non farlo. Ti prego. Le starò lontano, ma ti prego non prenderla. Non ancora.” “Sei malato, Evan, e la stai facendo impazzire. Avresti dovuto vedere il modo in cui mi teneva quando pensava a te. Pensavo fosse stata molestata.” Rabbrividii. Era stata molestata. Da me. “La farai impazzire,” ripeté. “Ha bisogno di andare, ha bisogno di vivere lontano da te. Non mi importa ciò che farai, basta che le stia lontano.” Non avevo bisogno che me lo dicesse il mio amico. Lo sapevo già... “Non so cosa ci sia di sbagliato in me,” sussurrai, tenendo il mio viso malmenato tra le mani. C’era sangue ovunque. Anche sul fieno. “Pulisciti. Non puoi andare in giro così,” sussurrò Otto. “E se vuoi rimanere in vita, sta lontano da lei.” “Come dovrei riuscirci se viviamo nella stessa casa?” “Non rimarrà là a lungo,” affermò Otto. “Fino a quell momento, fatti venire in mente qualcosa.”
Capitolo 5: Una volta ancora
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Sarah ERO DI SOPRA, ABBRACCIANDO il mio cuscino sul mio letto, quando sentii la porta aprirsi. Dei i irregolari zoppicarono su per le scale. La porta del bagno colpì il muro e qualcuno aprì il lavandino. Evan, pensai, il mio cuore che batteva forte. Era a casa. Aveva finito di fare quelle cose a Rosalind? Era tornato per questo? Con braccia tremanti, afferrai il cuscino più forte. Chiuse il lavandino, poi niente. Nessun’altro rumore. Non era venuto a parlare con me. Suppongo non avesse bisogno di me, non quando aveva qualcun altro che pensasse alla sua febbre. Premetti i palmi sugli occhi fin quando non vidi spirali verdi e viola, nell’oscurità. Contavo così poco per lui? Mi odiava? Per questo lo aveva fatto? Per questo aveva mischiato quei sentimenti di dolore e piacere, perché voleva tormentarmi? Non mi ero resa conto di essermi alzata fin quando non mi ritrovai in corridoio. Cosa stavo facendo? Non potevo di certo vederlo, non quando aveva appena fatto quelle cose a un’altra persona. Però, non potevo semplicemente starmene lì, cercando di indovinare cosa fosse successo, torturandomi. Volevo sapere come si sentisse. Se contavo così poco, doveva almeno dirmi perché. Entrai nel bagno. “Evan.” Non alzò lo sguardo dal lavandino. “Non ora, Sarah.” Tremai. La scorsa notte, il mio nome era stato colmo di sentimento, ogni volta che lo aveva pronunciato. Adesso, sembrava lo stesse utilizzando per separarci.
Poi, notai che il lavandino era rosa. “Evan,” gridai, affrettandomi verso di lui. Afferrò i bordi del lavabo. “Evan,” sussurrai, sollevandogli il viso con la forza. I suoi occhi erano gonfi e viola. Scorticati. Si era tagliato la palpebra superiore, e il sangue scendeva sul suo volto. Il suo labbro era un disastro. “Cosa ti è successo?” mormorai. “Non importa. Lo meritavo.” Deglutii. “E’ stata Rosalind a farti questo?” Rise. “No, non lei.” Afferrò le mie mani, ma non mi lasciò andare. “Devi andare via.” “Perché?” Chiuse gli occhi e si portò i miei palmi sul volto. “Perché non posso più farlo.” “Fare cosa?” “Starti accanto senza toccarti.” Finalmente, lasciò cadere le mie mani. “Suppongo non avrà più importanza, presto,” sussurrò e poi andò verso la porta. Lo seguii. “Di cosa stai parlando?” Chiesi con il fiato corto, mentre cercavo di seguire il suo o veloce per le scale. Sbatté la porta e la chiuse a chiave. “Evan,” urlai, colpendo la porta con i pugni. “Non mi seguire,” fu la sua risposta smorzata. Scossi la testa e corsi verso la porta sul retro. Sapevo dove stesse andando. C’era un solo posto in quella direzione. A meno che, non intendesse andare nel bosco. Dio, speravo di no. Corsi, a piedi nudi, ignorando le punture delle pietre nei talloni. Stavano sanguinando—ne ero sicura—e la cosa mi rallentò. Ero stata così stupida a non prendere un paio di scarpe. Ero troppo lontana per poter tornare indietro. Dovevo
andare da lui. Dovevo raggiungerlo. Si stava facendo buio. Era ato la maggior parte del giorno. La gente sarebbe tornata presto a casa. Inciampai sulla porta del capanno e la aprii. “Evan,” mugolai, con quel poco fiato che mi era rimasto. Era lì, proprio come pensavo, al centro della piccola stanza. Era vicino alla chiesa. Vicino al luogo in cui avevamo fatto tutte quelle cose che avrebbero cambiato la nostra vita per sempre e irrevocabilmente. Sussultai non appena feci un o avanti. La polvere bruciava le ferrite ai miei piedi. Erano veramente a pezzi. Fortunatamente non stavo lasciando macchie di sangue per tutto il pavimento. Avrei odiato pulire. dopo. “Ti avevo detto di non venire,” affermò. Mi morsi la lingua e feci un altro doloroso o in avanti. “Perché vieni sempre quando ti dico di non farlo? Perché non riesci a lasciarmi da solo?” “Perché non posso,” risposi, circondandolo con le mie braccia, appoggiando la testa al centro della sua schiena. Potevo sentire i muscoli contrarsi sotto la maglietta. Sospirò. “Verrà per te, questa sera.” Mi ci volle un momento per capire che stesse parlando con me. Sollevai il viso dalle sue spalle. “Chi?” Sorrise, o almeno, pensai lo fece. Fu un suono corto, secco, privo di piacere o divertimento. “Otto. Sta venendo a prenderti.” Il mio corpo diventò di ghiaccio. “Per portarmi dove?” Evan si voltò e mi afferrò i polsi. “Tu dove pensi?” Fece un o avanti. Cominciai a cadere, e lui mi afferrò i fianchi e mi spinse sopra il tavolo alla fine della stanza. Li lasciò un attimo per allargarmi le gambe. Erano ancora doloranti per il trattamento che avevano ricevuto la scorsa notte.
Inspirai profondamente. Sembrò non notarlo, o non gli importava. Una volta separate, si posizionò tra di loro. “Sai dove siamo, Sarah?” chiese, con il fiato corto. Guardai nei suoi occhi scuri. Lo sembravano ancora di più, adesso che il sole stava calando. Più scuri perché eravamo nel capanno, senza nemmeno una candela per illuminarlo. La Chiesa era stata così scura, silenziosa. “Il capanno,” sussurrai. “Esatto,” disse, infilando una mano sotto il mio vestito. Sentii la sua pressione sulle mutandine di seta, spingendole sulla mia pelle, sempre più vicino all’area proibita. No, non si chiamava così—meglio, stava strofinando la seta sulla mia fica. “Tuttavia, questo posto non è semplicemente il capanno” iniziò. “Questo è il posto in cui porto tutte le mie puttane. Questo è il posto in cui le scopo.” La mia fica cominciò a fare male. La nausea crebbe nel mio stomaco. Lo aveva fatto con altre ragazze. Non ero speciale. Allora, perché il mio corpo era percorso da un fremito? Perché desideravo quel dolore che soltanto lui poteva darmi? Quel dolore che era bellissimo, a volte lieve, ma che mi bruciava sempre. Lo odiavo per questo. Odiavo sentirmi in questo modo quando ... Tirò giù la mia lingerie, esponendo la mia fica all’aria fredda. “Non hai una risposta per quello?” mormorò. La sua testa era vicino le mie cosce, e sentii il suo respiro sull’estremità della mia fica. Gemetti. “Ti piace essere la mia puttana? E’ per questo che mi hai seguito qui, anche se ti ho pregato di fermarti?” Le mie mani tremarono. Raccolsi i suoi capelli nel mio pugno perché dovevo afferrare qualcosa, e il mio corpo non sembrava abbastanza reale da poter essere utilizzato. Sotto il suo tocco, era come se non appartenessi a me stessa—ma soltanto a lui. Quei sentimenti eterei si stavano già spandendo attraverso me, partendo dal mio centro fino ad arrivare ai miei arti, rendendomi debole. Non importava che non fossi speciale, lo sentivo ugualmente. “Voglio sempre essere con te,” ammisi.
Lui sollevò lo sguardo, oltre la parte superiore del mio corpo, puntando ai miei occhi, e l’espressione che vidi mi strinse il cuore. Non era un dolore piacevole— non somigliava per niente alla sensazione che sentivo quando mi toccava. Al contrario, fu come se qualcuno avesse tirato una corda di violino dal mio cuore fino al mio stomaco con troppo forza e si fosse spezzata. Non sembrava umano, non completamente, non con il viso consumato. Sembrava più un’orrenda creatura della foresta. Il genere che spaventava le ragazzine. Il genere che appare in tutte le storie e da cui ti dicono di stare lontano. Guardò in basso. “Ti sta prendendo.” Di nuovo, quelle enigmatiche parole. “Ma non gli permetterò di averti, non del tutto.” Si alzò e spinse il mio stomaco giù, poi aprì nuovamente il davanti del mio vestito. Questa volta non provai a fermarlo, anche se avrei dovuto. Adesso che sapevo di non essere speciale, il piacere che percorse il mio corpo fu vuoto. Feci del mio meglio per impedire alle mie guance di arrossire. Strinsi i pugni, così da non nascondere la pelle esposta. Evan saltò sul tavolo, sopra di me. I suoi fianchi coprirono i miei. Piantò i suoi gomiti su entrambi i lati delle mie spalle, poi sussurrò vicino il mio orecchio, “Ti marcherò, così se cercherà di prenderti—se proverà ad amarti—vedrà me, sulla tua pelle. Saprà che sei mia, e che non può averti. Che non può portarti via da me.” La sua voce si spezzò. Stava respirando troppo velocemente. Sembrava impazzito, un folle, come qualcuno che era stato spinto troppo oltre e avesse dimenticato chi fosse. Il mio corpo andò nel panico. Il cuore batteva troppo velocemente, e nonostante tutto ero ancora sotto di lui. Per qualche ragione, guardare alla sua spaventosa e tremenda espressione mi ricordò il mio amore per lui. Ricordai la sua dolcezza, la sua gentilezza, quei sentimenti che nessun arco di tempo avrebbe potuto cancellare. Quei sentimenti che sarebbero stati per sempre con me, non importa cosa sarebbe accaduto. Si abbassò sul mio corpo. Il dolore colpì il mio collo, quando mi morse. Urlai e lui mi mise la mano sulla bocca. “Silenzio,” sussurrò mentre si mosse più in basso, sul mio seno. Ne prese uno in bocca, e morse e succhiò. Le dita dei miei piedi si arricciarono e sussultai, cercando di non emettere suono, mentre lui continuava a succhiare. “Brava ragazza,” disse. Guardai giù. C’era un segno viola sulla mia pelle—ce
n’era uno anche sul mio collo?—e ne stava facendo un altro, proprio adesso con la sua bocca, sull’altro seno? Spostò la mano sul mio mento, poi sul collo. Fece un po’ di pressione, soffocandomi leggermente, mentre alzava di più la mia gonna. Poi, spostò le mie mutandine e forzò il suo cazzo dentro di me. La mi fica si contrasse attorno a lui mentre mi penetrava, come se stesse cercando contemporaneamente di respingerlo e accettarlo. Portai i fianchi in alto e lui li afferrò con una presa brutale, tenendoli sul tavolo mentre mi trafiggeva. “Non lasciarmi, Sarah,” pregò, afferrando i miei capelli, costringendomi a guardarlo. “Non andare da lui.” “Va bene,” dissi, capendo a malapena quello che stesse dicendo, ma sentendo di dover dire qualcosa per evitare che quello sguardo folle nei suoi occhi lo consumasse. Odiavo vederlo lì. Odiavo vederlo così, come se potesse spezzarsi, come se il mondo lo avesse abbandonato. Io non lo farei mai, pensai, mentre cominciai a gemere. Lui grugnì sopra di me. Il suo stomaco sul mio, Il suo sudore che si incollava al mio vestito. Mi costrinse a guardarlo sul volto—a guardare il dolore nei suoi occhi e le ferite che diventavano lividi. Urlai e mi avvinghiai a lui. Il tavolo su cui eravamo sbatteva così forte e così rapidamente contro il muro che pensai si rompesse. “Non ti lascerò,” promisi. Quelle parole lo rovinarono. Cominciò a muoversi più velocemente. Con più violenza. Una scheggia si insinuò nella mia guancia. Mise una mano sulla mia bocca, spingendola più in fondo nella mia pelle. Diedi un morso, sentii il sapore del sangue. Quel piacere quasi doloroso cominciò a crescere dentro di me, rafforzandosi a ogni spinta, fin quando non ce la feci più. Le altre ragazze non importavano. Ero la sua piccola puttana, non contava quanto lo odiassi—quanto lo amassi. Urlai tra le sue braccia, la mia fica che si contorceva attorno il suo cazzo. E poi sentii il suo profondo gemito mentre mi penetrava una volta ancora. “Sarah,” sussurrò, con le mani sul mio seno, finalmente tranquillo. “Ti amo,” dissi, ando le mie dita tra i suoi capelli.
“Sarebbe meglio se non lo fi,” disse. “Sarebbe meglio se ti odiassi.” “Non dirlo.” Non potrei sopportarlo. Mi circondò con le sue braccia e mi tenne stretta. “Non importa quello che proviamo. Ti prenderanno Sarah. Ti ucciderebbero se sapessero—” Chiusi gli occhi. “Non pensare a cose del genere, in questo momento.” E poi, sentimmo un urlo. Evan scattò in piedi, le sue gambe erano imprigionate tra la mia biancheria e il mio corpo esposto, quindi non poteva muoversi. Al contrario, cadde in avanti, la sua schiena sopra di me, il suo cazzo che scivolava sulla mia pancia. Cercai di farmi indietro, ma le mie mutandine si incastrarono tra le sue gambe e fui catapultata in avanti, sbattendo la mia già dolorante fica contro le sue cosce. Urlai, ed Evan mi coprì la bocca con la mano, cercando di raccogliere il mio vestito e coprirmi i seni. C’erano tre donne alla porta, e quattro uomini. Una di loro era Rosalind. Non osava incontrare il mio sguardo. Indietreggiò verso la porta, mettendosi il volto tra le mani, con le spalle che le tremavano. Cosa stava succedendo? Perché erano qui? Come avevano ... Uno degli uomini—il pastore della chiesa—si avvicinò e mi indicò con un dito. “Abominio,” sibilò. Evan alzò una gamba e poi l’altra, liberandosi dalla mia biancheria intima. Incespicò in avanti. “Non è come sembra.” Gli oscuri occhi del pastore si fermarono su di me. “Afferratela.” “Non capite,” Evan affermò, bloccando la strada agli uomini, con il suo corpo. “Ho usato la forza su di lei. Sarah è innocente.” Gli altri due uomini esitarono. “Guardate il suo collo! Ha il marchio del demonio!” urlò il pastore.
“E’ soltanto un succhiotto che le ho fatto io, fottuto vecchio! No, fermatevi!” Evan disse, spingendosi contro gli uomini mentre cercavano di andare avanti. “C’è qualche modo di parlare—” “Corri Sarah!” Evan urlò e attaccò i due uomini più giovani. Lo feci, nonostante mi fece sentire una codarda lasciarlo lì per salvarmi. Comunque, si dimostrò una mossa inutile, e una che non avrei dovuto compiere. Almeno, avrei avuto la possibilità di combattere al suo fianco. Non mi sarei sentita una traditrice durante i nostri ultimi momenti insieme. I miei piedi erano ancora nudi, e avevo dei brutti tagli e lividi. Corsi alla fine del capanno, cadendo subito dopo, urlando, non appena i miei piedi colpirono il pavimento. Non raggiunsi nemmeno la porta. Alcuni secondi dopo sentii una stretta presa sul mio braccio e fui scaraventata indietro, contro un corpo freddo e ossuto. Cercai di liberarmi, ma era troppo forte. Quell’uomo odorava di tabacco, pane e metallo. Il pastore. Sapevo fosse lui ancora prima di vederlo. Era l’unico a mancare dall’oribile scena di fronte a me—Evan, per terra, che veniva preso a calci dagli altri tre uomini, la mia migliore amica, si nascondeva all’angolo, mentre le altre ragazze mi fissavano con un misto di paura ed eccitazione. “Jacob, da questa parte,” il pastore disse. Uno dei ragazzi che comprava mele da me ogni giorno, fu al mio fianco e afferrò le mie mani, legandole dietro la mia schiena. “Imbavaglia, così non può maledirci.” Il pastore ordinò. “Di cosa sta parlando?” strillai. “Jacob, non puoi credere a questa storia! Non sono cattiva!” Jacob esitò. “Non lasciare che il demonio si insinui nel tuo cuore!” il pastore gridò. “Fermati, per favore, mi stai facendo male,” Piagnucolai quando gli occhi di Jacob si fecero duri e freddi. Poi, mi zittì con un bavaglio.
Evan si lamentò, ancora per terra. “Sarah,” sussurrò. “Vi sbagliate. Lei non ha niente a che fare con questa storia. Sono stato io—” Il pastore fece tacere il mio Evan con un calcio sul viso. “Imprigionatelo fino quando la cerimonia non sarà finita,” disse il pastore prima di rivolgersi a Rosalind. “Hai fatto bene, figliola, a dirmi che uno dei nostri stesse peccando.” “Non ne avevo idea...” Rosalind sussurrò, le sue spalle tremavano ancora. “Ovviamente. Chi potrebbe concepire così tanto male?” Il pastore si girò verso l’uomo che mi teneva. Il mio cuore batteva all’impazzata, e il mio corpo era freddo. “Portala alla chiesa.”
Capitolo 6: Nei Boschi
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Evan MI AVEVANO RINCHIUSO nella prigione della città. Odorava ancora dell’ubriacone che c’era stato per ultimo—probabilmente fino alla notte scorsa, dato il vomito ancora appiccicato a terra. Cercai di respirare lentamente per evitare i forti dolori alle costole. Avevo pisciato sangue prima, non era un buon segno, ma non era qualcosa alla quale potevo pensare. Unii dei pezzi di paglia cercando di aprire la serratura. Avevo cercato qualcosa di metallo, ma non avevo trovato nulla. Non ero affatto bravo a forzare le serrature, e non era per niente efficace provarci con della paglia, ma non potevo arrendermi. Avrebbero ucciso la donna che amavo. Dovevo salvarla. Desiderai di essere abbastanza piccolo da poter are tra le sbarre che mi rinchiudevano. Per un momento credetti di potercela fare, mentre spingevo la mia testa tra le sbarre sempre più forte. Mi stavo facendo sopraffare dal delirio. Avevo già le allucinazioni, pensavo che lei fosse qui con me, mentre mi sdraiavo per terra quando mi avevano portato dentro la cella. Ma non era così, non ci avrebbero mai rinchiusi assieme. Lei era da qualche altra parte. In chiesa. E l’avrebbero bruciata viva. La serratura tintinnò. Il mio cuore ebbe un sobbalzo. Spinsi la porta. Non potevo muovermi. Diedi dei colpi di spalla alla porta, calciando con i piedi, senza fare caso al
dolore che si irradiava dentro di me. Perché mi ero arreso? Perché non l’avevo semplicemente mandata via? Perché doveva sempre seguirmi? Perché doveva sempre essere così gentile? Perché l’amavo? Se l’avessi semplicemente ignorata, sarebbe ancora viva. Se fossi riuscito a odiarla, sarebbe ancora in vita. Si stava facendo sempre più buio. Non mi avevano neanche lasciato una candela, quindi sarei rimasto solo stasera, col mio corpo a pezzi, il pavimento in pietra, e l’odore del vomito di qualcun altro. Fortunatamente avevo delle emorraggie interne e sarei morto presto. Avrei preferito buciare insieme a lei. Avrei volute stringerla mentre le fiamme ci consumavano. No, le avrei spezzato il collo non appena avrebbero appiccato il fuoco, e l’avrei stretta a me, affrontando il dolore e la condanna per il nostro peccato da solo. Era, e sarebbe per sempre stato, il mio peccato. Non aveva fatto altro che seguirmi quando ero arrabbiato, cercando di alleviare il mio dolore. Nella sala di sotto, sentii una porta scricchiolare. “Sarah,” chiamai il suo nome, anche se il mio subconscio sapeva che non poteva essere lei. “Evan?” Bene, quel tono baritono non era di certo Sarah. Era una voce che non avrei voluto riascoltare. “Spero la raggiungerai presto, Otto,” ammisi. Pronunciare quelle parole mi devastò—mi uccise il pensiero che un altro uomo all’infuori di me l’avrebbe toccata—ma se l’avesse presa, quanto meno sarebbe stata ancora qui. “Spero di riuscirci.” Tirò fuori una chiave dalla sua tasca. Alzarmi risultò doloroso, appoggiandomi alle sbarre. “Cos’è quella?” “Ti sto facendo uscire,” rispose velocemente. “Cosa?” “E poi la salveremo.” Il cuore iniziò a battermi in gola. “Sarah,” bisbigliai.
Otto sospirò. “Ti prenderei a calci, ma mi sa che sei già stato maltrattato a sufficienza, e non voglio mandarti nella tomba fin quando lei non sarà libera. Vieni o rimani. Non ti aspetterò, né ti trasporterò.” Mi sforzai per stare in piedi, trasalendo ad ogni o. Lo seguii fuori la porta, nell’oscurità, attraverso le luci rosse della chiesa.
***
Sarah STRINSI LE GINOCCHIA al petto, cercando di ignorare le schegge nei piedi e nella schiena. Me le feci cercando di aprire la cassa. Ne avevo un po’ anche sulle mani, avevo provato anche graffiando. Ma era difficile non pensarci quando la cassa in legno tagliò il mio soffice e indolensito corpo premendo contro le vecchie ferrite come delle barre d’acciaio. Da molto lontano, li sentivo muoversi e urlare. Assomigliava a una cantilena, e il mio cuore batteva a un ritmo crudele e spaventoso. Non riuscivo a vedere niente al buio. Mi avevano chiusa nella cassa, e avevano chiuso la porta dei sotterranei della chiesa. Poi si erano spostati al piano di sopra per iniziare la cerimonia. Non ne sapevo molto a riguardo. Solo che avessero bisogno di legna e fuoco. No, sapevo abbastanza. Era solo che la mia testa cercava di ignorare la realtà dei fatti. Mi avrebbero bruciato viva. L’unica cosa che mi consolava era che Evan non fosse qui. Lui sarebbe riuscito a sopravvivere. Non volevano lui. Ero l’unica a essere considerata una strega—io, che l’avevo corrotto, e avevano ragione. C’era qualcosa nella mia presenza che rendeva Evan nervoso, e quando mi aveva implorato di andare io ero rimasta. Volevo essere l’ogetto della sua oscura ossessione. Volevo il suo dolore e il suo tormento tutto per me. Volevo esserne la causa, e l’unica cosa in grado di alleviarla. Volevo trasportarlo in un mondo separato dall’oscurità che si nascondeva nei nostri cuori.
Forse ero una strega. Le ragazze innocenti non pensavano come me. Non desideravano i propri spiriti gemelli. Non sentivano quel dolore delirante quando le chiamavano troiette. Non spalancavano le gambe quando venivano sbattute a terra, restringendo le loro fiche per il cazzo del loro spirito gemello. Non rimanevano in silenzio quando loro le scopavano, così che i loro genitori, non le sentissero mentre dormivano beatamente nella stanza accanto. Non volevano essere le troiette di qualcuno. No, non ero affatto una ragazza innocente. Avevo sempre desiderato Evan. Possederlo. Tenerlo stretto a me. Essere l’unica donna che lo guardava. E non importava a chi avessi fatto del male per ottenerlo. Avrei ignorato l’amore di Otto. Avrei rubato il mio spirito gemello alla mia migliore amica. L’avrei seguito fin quando non avesse delirato quanto me, fin quando non avesse perso la ragione, e l’avrei forzato ad affrontare l’ossessione che in qualche modo si era insinuata tra di noi. Avrei lasciato tutto in qualsiasi momento—me ne sarei dovuta andare, ma non l’ho fatto, e adesso non ci rimaneva che soffrire. Non appena venni gettata nell’oscurità piansi. Adesso non più, delle lacrime mi si erano asciugate sul viso, lasciando una strana sensazione, facendo diventare i miei occhi gonfi e rossi come le mie mani sanguinanti. Ma da quel momento in poi cercai di farmi forza. Avrei affrontato il dolore delle fiamme facendolo mio. Avrei sacrificato il mio corpo per lui. Per l’ennesima volta avrei trasformato quel dolore in piacere, fin quando non avessi assorbito tutto il peccato e lui sarebbe rimasto in vita. Perché Evan sarebbe rimasto in vita. Doveva. Tutto ciò che volevo per lui era la felicità. Sentii la serratura scricchiolare. Stava arrivando il momento. Anche se non vedevo nulla, chiusi gli occhi. Mi concentrai sul sapore di ogni respiro. Sulla sensazione del mio corpo mentre respiravo. Questa routine di semplici gesti, sembrò quasi sacra. Presto, prendendo un respiro, avrei sentito l’odore del fumo, e il calore delle fiamme squarciare i miei polmoni prima di averle sul mio corpo. Avrei avuto paura di respirare lentamente—troppa paura di cercare conforto in qualcosa di così semplice, o di ricordare di quanto fosse fantastico. La porta si aprì. Il cuore mi saltò in gola, battè così forte che sembrava che anche l’oscurità
avesse un battito. Due sagome si avvicinarono, una era abbastanza alta da coprire l’altra, che non si reggeva bene e strisciava i piedi. “Sarah.” Sentii la voce non appena la sagoma trasandata cadde sul pavimento. “Sei qua? Sei tu?” Ero troppo sorpresa per rispondere. Stavo avendo le allucinazioni? Ero già morta, e mi trovavo in paradiso? Se era vero, perché lui era qui? “Ci sei?” chiese nuovamente la voce, con un tono più alto e disperato. La sagoma più grande sollevò l’apertura. “E’ qua. Ha solo paura,” disse dolcemente. “Otto,” sussurrai, afferrando le braccia che mi avevano appena pescato. Mi venne un groppo in gola. Non riuscivo a pronunciare l’altro nome—Il nome della persona alla quale avevo fatto del male. Il nome di colui che amavo. Evan mi abbracciò—o almeno, abbracciò Otto, che aveva un braccio intorno a me. “Sei salva,” bisbigliò. “Non per molto. Dobbiamo andare nei boschi,” ci ricordò Otto. Mi fece scendere, e ci precipitammo verso la porta—o almeno, loro lo fecero, io zoppicavo dietro di loro. “Sarah, sei ferita?” Chiese Evan. Odiavo il tono duro della sua voce. “Non indosso le scarpe,” spiegai. “Sali,” disse Otto, accovacciandosi. “Dovrei essere io a portarla,” pretese Evan. “Riesci a malapena a camminare,” rispose Otto. Era vero. Giù all’entrata, qualcuno aveva una candela, e anche se la luce era un po’ fioca, riuscivo a vedere il volto di Evan. La sua camicia era lacerata, e al di sotto si intravedevano dei lividi sulla sua pelle, neri, e del sangue asciutto. Cosa gli avevano fatto? “Evan,” sussurrai, avvicinandomi a lui. “Mi dispiace.
Non credevo che—” “Dobbiamo andare,” interruppe Otto. Saltai su e mi portò sulla sua schiena. Mi ricordò i giri a cavalcioni che facevo con Evan in estate, sulla strada sterrata verso casa. A quei tempi, avrei strillato e chiuso gli occhi e lui mi avrebbe chiamato stupida e... Percepivo il calore proveniredal fuoco, le urla, il loro imprecare. Non avevo mai avuto così tanta paura in vita mia, ma non osavo farmi sentire. Mi aggrappai al collo di Otto. Fu soltanto quando mi diede un colpo sull’avambraccio che mi resi conto che lo stavo strozzando. Ci movemmo silenziosamente nel retro della chiesa. Eravamo così vicini alle persone. Sarebbero riusciti a prendermi in qualsiasi momento. Qualcuno avrebbe potuto are di là e vederci. Avanzavamo in direzione dei boschi. Se ci avessero visti o sentiti, sarebbe stata la fine. La foresta ci avrebbe coperto, ma eravamo entrambi feriti. Evan non era in grado di correre, e Otto non era agevolato dalla mia presenza sulle sue spalle. Non saremmo stati abbastanza veloci per sfuggire a quella folla di gente. Se ci avessero visto, mi avrebbe dovuto fare scendere, ed io e Evan saremmo stati in balia della loro foga... Avrei dovuto chiudere gli occhi. Guardare da un’altra parte. Ma non ci riuscivo. Guardai il fuoco. Il falò prendeva vita nel cielo, ma non era lì che mi avrebbero bruciata. Mi avrebbero legata ad un palo, a qualche metro di distanza, e poi gli avrebbero dato fuoco. Non avrebbe perso subito fuoco, e tutti in città avrebbero visto—tutte quelle persone che avevo definito come amici, come vicini, come... L’intensità del calore diminuiva. Eravamo nel bosco, ma non eravamo ancora in salvo. Otto avanzò, e lentamente le luce del fuoco venne rimpiazzata dalle ombre. Erano entrambi in silenzio. Si sentiva il battito del mio cuore—era ancora più rumoroso dei i e dello spezzarsi dei rametti. Credevo che le persone sarebbero riuscite a sentirlo—che il mio cuore ci avrebbe fatto scoprire. Camminammo per circa cinque minuti. Forse trenta. E poi sentii qualcosa di fronte a noi, muoversi tra Ii legni secchi. Stavo quasi per cadere dalla schiena di Otto. Gli morsi la spalla, per evitare di
urlare. “Otto?” disse la piccola voce. Ero scioccata. “Rosalind?” Esclamai, lo dissi ad alta voce, per le circostanze. Mi zittirono tutti. Rosalind deglutì. Si poteva vedere il contorno del suo piccolo naso, illuminato dal riflesso della luna. Aveva dei cestini. Due. “Ero preoccupata che non arrivaste più, che vi avrebbero preso,” disse velocemente. “Io...” ditolse lo sguardo. “Mi dispiace, Sarah. Non credevo fossi tu. Volevo solo che lui provasse vergogna, e fare spaventare la ragazza che stava con lui. Non ho mai pensato che potessi essere tu. Io volevo solo...” Si voltò. Otto sospirò, e per un istante ci fu un totale silenzio. Cosa avrei dovuto dirle? Si capiva dal tono della sua voce che stava male. Che non voleva accadesse niente di tutto ciò. Che una parte di lei mi odiava, perché avevo preso la persona che amava. Era comprensibile. Una parte di me aveva odiato lei. E forse l’avrebbe odiata per sempre. “Ti ho portato le scarpe.” Si piegò. “Avrei dovute darle a Otto, ma me ne sono dimenticata, e poi ho ricordato che quando ti avevano trovato nel capanno non indossavi niente ai piedi, e...” Rosalind si era ricordata quel particolare. Era un ottima osservatrice. Proprio un ottima amica. E io ero stupida e meschina a odiarla. Otto mi fece scendere e misi le scarpe ai piedi pieni di vesciche. Non avrebbero alleviato tutto il dolore, ma erano già qualcosa. “C’è una scorta di medicinali in un cestino,” continuò, “e un po’ di cibo nell’altro. Otto mi ha detto che per un periodo vi dovrete nascondere nei boschi, prima di poter tornare.” Il mio cuore sprofondò quando Evan pronunciò le parole che più temevo di ascoltare. “Non credo che torneremo.”
“Certo che lo farete,” rispose lei, “Quando le acque si saranno calmate.” Eravamo tutti in silenzio. “Dobbiamo andare,” disse Otto. “Ma ti rivedrò, giusto?” Non sapevo se Rosalind stesse parlando con me o con Evan. Strinsi forte la mano di Evan, e lui strinse la mia. “Mi dispiace,” disse. Rosalind abbassò lo sguardo. “Va bene. Sono stupida. Stiamo perdendo tempo. Volevo solo...” deglutì. “Mi mancherete, vi ho voluto veramente bene.” Improvvisamente, si mise in punta di piedi e diede un bacio a Evan sulla guancia. Poi distolse nuovamente lo sguardo. “Non dimenticate il cibo,” disse. “Andrò da questa parte, cercando di confondere i vostri i.” Io e Evan non proferimmo parola, cosa si poteva dire? Addio sembrava precipotoso, troppo informale. Dirle che le volevamo bene sarebbe stato un tradimento per ciò che lei provava per noi, ci eravamo ormai scelti tra tanti, e questo la feriva. Con un groppo in gola, vidi la mia migliore amica scomparire nella notte. “Pronta?” Chiese Otto. Volevo chiedergli per quanto avrebbe proseguito con noi e se avrebbe abbandonato anche lui il villaggio. Volevo sapere se un giorno saremmo mai tornati. Non sapevo nulla del nostro piano, se ne avevamo uno. E poi sentimmo uno sparo. Si sentivano urla, rumori di i che correvano. “Stanno arrivando,” disse Otto. Afferrò i cestini, mi prese la mano e cominciammo a correre. Non importava più fare silenzio. Otto mi trascinava con se e Evan cercava di mantenere il o. Avevamo il fiato pesante, io e Evan eravamo peggio di Otto. Sentivo i dolori alle gambe. Ogni movimento era un’agonia mentre muovevo i muscoli che erano stati colpiti nella cassa. Il dolore mi stave uccidendo. Mi
morsi la lingua cercando di non urlare. Ogni volta che inciampavo, Evan era pronto a prendermi dai fianchi mentre Otto ci trascinava in avanti. Li rallentavo. I ragazzi non lo avrebbero detto, ma sapevo che era così. Anche Evan, per quanto fosse ridotto male, riusciva a essere più veloce di me. E poi le urla si fecero più vicine. Con la coda dell’occhio vidi qualcosa scintillare. Una torcia. Quanto era distante? Mi si offuscò la vista. Non riuscivo a pensare...Andai nel panico. Evan e Otto si scambiarono uno sguardo. “Prendila,” disse Evan. “Tornerò indietro e cercherò di rallentarli.” “No!” urlai. “Non appena ti vedranno, ti uccideranno. Sapranno che sei stato tu ad aiutarmi a fuggire.” “Andrà tutto bene,” strinse i denti Evan. Capivo che stava mentendo. Che stava cercando di fare il duro per allontanarmi. Otto mi afferrò. “Lasciami andare,” dissi, colpendogli le braccia. “Smettila di fare la bambina. Vuoi morire?” Chiese Evan. No volevo. Certo che no. Ma sapevo, nel profondo del mio cuore, che se Evan se ne fosse andato adesso, non lo avrei più rivisto, e il pensiero di perderlo era peggio della morte. “Se non mi fai scendere, urlerò e tutti sapranno dove siamo.” Otto lasciò la presa. “Stai mentendo,” disse Evan. Lo guardai. “Mettimi alla prova.” Otto mi fece scendere. “Lo ami, Sarah? Vuoi stare con lui? Ti renderebbe felice?” Evan indicò le luci a distanza. “Non abbiamo tempo per questo!” “Appunto, non ne abbiamo,” rispose Otto. Mi afferrò dalla spalle e mi diede un bacio in fronte. “Prenditi cura di lei, Evan.” Sentii il suo petto vibrare per la sua
voce. “Se le farai del male, ti ucciderò.” E se ne andò, voltandosi e iniziando a correre, come se non avesse voluto vedere ciò che accadeva alle sue spalle. Evan fece un lieve respiro e mi prese la mano, spingendomi nella direzione opposta a quella di Otto e degli omini con le luci. Ci movemmo a zigzag nella foresta. Ognuno di noi aveva un cestino, Evan i medicinali, io il cibo. Cercai di non pensare a quello che ci stavamo lasciando alle spalle. Il mio letto nel quale non avrei più dormito. Il sorriso gentile di mia madre, e il silenzio comprensivo di mio padre. Erano con gli altri? Lo sapevano? O erano assieme, distrutti, a pregare per la nostra salvezza nella loro stanza? Avevano compreso il mio amore per lui? L’avrebbero mai capito? Probabilmente non lo avrei mai saputo. Non li avrei mai più rivisti. Non ci rimaneva che continuarea correre. Evan iniziò a rallentare. La sua presa era quasi assente. E poi crollò. Spostai il suo corpo sotto un tronco, e mi sdraiai sopra di lui. “Evan, stai bene?” Poggiò la sua bocca sul mio collo. “Sei stupida. Perché non sei andata con lui?” “Non potevo lasciarti.” “Avresti dovuto farlo.” “Ti amo.” Mi strinse a se, come se la sua vita dipendesse da ciò. “Non posso continuare. Dovresti andare.” “No,” sussurrai. “Ti prego Sarah. Fallo per me.” “No!” “Sarah—” “Ho detto di no!” Sentivo il suo battito veloce sotto la mia guancia. “Ho già detto che non sarei andata, e non lo farò. Non ti lascerò mai più. Ti amo.”
Le sue mani si mossero lentamente sulla mia schiena. “Sei proprio stupida,” sussurrò, e poi le sue mani si fermarono. “Evan?” Nessuna risposta. “Evan?” dissi disperata, alzandomi. Era ancora fermo. Neanche il suo petto si muoveva. Poggiai le dita sul suo collo. C’era ancora polso. Era solo svenuto. Era ferito e...e io ero stupida, ancora più stupida di quanto mi avesse prima definito, perché stavo sul suo corpo malconcio. Mi misi di lato. Non osai toccarlo, se non solo la sua mano. Non volevo fargli altro male. Cercai di rimanere in silenzio, di farmi piccola. Chiusi gli occhi immaginando di essere muschio che cresceva sotto il tronco. Il muschio non sente le urla infuriate degli uomini. Il muschio non sente i loro i avvicinarsi. Al muschio non interessa. Tuttavia, anche se ci provai, non riuscii ad espellere la paura dal mio cuore. Guardai in alto e vidi il pastore sogghignare mentre puntava la torcia su di me, avvertendo la massa di facce distorte della mia posizione, per poi svegliarmi al freddo, tremando nel fango, con il corpo di Evan senza sensi accanto a me. Eravamo ancora vivi, entrambi, anche se soltanto per pochi istanti. Forse se fossimo rimasti lì abbastanza a lungo il resto del mondo si sarebbe dimenticato di noi. Ma poi sentii un animale muoversi tra l’erba, un gufo che si appoggiava su un ramo, o i i di un uomo mentre si muoveva tra gli alberi. L’adrenalina si diramava nel mio corpo, trasformando ogni ombra in una sagoma umana. Avevo i brividi, mi mordevo il labbro, ma non emisi suono. L’unica cosa che potevo fare—la cosa migliore che avrei potuto fare—era rimanere lì in silenzio e aspettare che assero.
Capitolo 7: Primo Mattino
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Sarah ERA UMIDO QUANDO MI SVEGLIAI, e buio. La Foresta Oscura era sempre così nera da non riuscire a vedere il cielo. Comunque, alcune luci dorate filtravano dalla tettoia di rami, illuminando un mondo che era bello, decadente e freddo. “Sei sveglia.” Guardai accanto a me e vidi il volto del mio Evan. Entrambi i suoi occhi erano neri. Il suo labbro era contuso. C’erano delle ferite profonde sulle sue guance e sul collo, e ancora più preoccupante, alcune più profonde sul suo corpo. “Evan,” mugolai. Guardarlo scaturiva un dolore al petto e aumentava quello alle mani e agli arti. Si abbassò e prese la mia mano con tenerezza. Non riusciva a chiuderla del tutto. “Non riesco a credere che tu sia qui.” Deglutii, stringendo la sua mano rotta e gonfia. “Per quanto tempo mi hai guardato dormire?” “Non lo so.” Mi rivolse un sorriso assonnato. “Suppongo a lungo.” “Hai sentito qualcosa?” “Penso siano andati via.” Per un momento, distolsi lo sguardo e tremai. Desiderai non averlo fatto. Immediatamente, l’oscurità riempì il suo sguardo ed entrambi ricordammo cosa ci eravamo lasciati alle spalle.
“Mi dispiace Sarah.” “Va tutto bene.” “No, invece. Non avrei mai dovuto toccarti, ma ... ” si avvicinò. “Sono felice che tu sia qui,” sussurrò mentre poggiò, con gentilezza, le sue labbra sulle mie. Percorse il mio braccio con la sua mano, ma non ruppe il bacio. Le sue labbra erano carnose e soffici, convincendo le mie ad aprirsi mentre una sorta di calore mi riempiva. Era così diverso dal bisogno animalesco che mi aveva pervaso quando avevamo scopato in chiesa, nella sua stanza, e nel capanno, ma era comunque struggente. Era differente—delicato come una foglia che germoglia, e faceva formicolare il mio corpo rendendolo nuovo, fin quando non dimenticai la freddezza della foresta e quello che avevamo lasciato. “Cosa era quello?” mormorai, senza respiro. “Baciare. Sai, quello che fa un ragazzo quando vuole corteggiare la ragazza che ama.” Ingoiai. “Non penso dovremmo farlo. Tu sei ferito—” Rise, e quel suono era spensierato e pieno di felicità. Mi ricordò come fosse quando eravamo bambini. “Non sarò mai tanto ferito.” Indirizzò le mie mani sul suo petto, sulla sua maglietta. Penso volesse che la togliessi. Scossi la testa. “Non voglio ferirti.” “Non lo farai. Puoi farmi tutto quello che vuoi, e non farà male. Te lo prometto.” Il mio corpo cominciò a tremare. “Allora vieni qui.” Posizionai il suo corpo sopra il mio, e gli tolsi lentamente i pantaloni mentre lui faceva la stessa cosa con la maglietta. C’erano ferite su tutto il suo torso, scure e spesse come il cielo in tempesta. Quasi le toccai, poi mi fermai perché ero stata io la causa di tutto quello. Mi accarezzò una guancia. “Non fare quella faccia Sarah.”
“Come posso non farlo? Guarda cosa ti hanno fatto per colpa mia.” “No, non lo è stata. Niente lo è stato. E’ stata tutta colpa mia.” Mi allargò lentamente le cosce, e mi preparai per il dolore che stava per arrivare. Ma non lo fece. “Sono stato orribile con te,” disse. “Non mi sono dato il permesso di amarti, e non volevo che tu mi amassi. Volevo allontanarti e punirmi. Volevo che l’odio nei tuoi confronti fosse più del desiderio, così non avrei dovuto affrontarlo. Niente di tutto questo importa, ormai.” Afferrò il mio ginocchio. Faceva il solletico, e io sorrisi. “Così va meglio.” Abbassò la testa tra le mie cosce, lasciando una scia di baci finché non raggiunse la mia fica. Mi baciò anche lì. Lentamente, premette le sue labbra sulla punta della mia vagina, e il familiare fastidio tornò. Questa volta ci fu solo gentilezza—così tanta che credetti di non poterla sopportare. Percepii ogni esitazione, ogni respiro, ogni movimento. Mi toccò a malapena, e tuttavia fu più intenso di quando mi aveva penetrato con le sue dita. Strinsi i suoi capelli mentre circondava la mia fica con la sua lingua e si spingeva dentro. Avvicinai i fianchi al suo volto. La punta del suo naso toccò la parte superiore della mia fica e io urlai dal piacere. “Hai un sapore così dolce,” disse, spostando la testa. Infilò un dito nelle mie profondità, e la mia fica lo avvolse. Lo estrasse e se lo ò sulle labbra. “E tu?” la mia voce era tesa e rauca. Il suo sguardo vacillò. “Mi vuoi ancora?” “Certamente. Io ti desidero sempre.” Spostai la mia mano sulle sue mutande. Il suo cazzo era già duro e lo afferrai, spingendolo verso di me. Il respiro di Evan era forte e irregolare. I suoi occhi si appannarono, e quella familiare brama prese possesso di lui mentre penetrava la mia fica. Si fece strada all’interno, fino al punto più profondo. Mi circondò con le sue braccia mentre
urlai. Poi, cominciò a muoversi lentamente—facendo l’amore con me, così lo chiamò. Le sue mani afferrarono le mie e le tenne sopra la testa. Mi baciò con la stessa tenerezza sul mento, sul collo e sui miei seni. Portai le gambe indietro, poi le avvolsi attorno a lui. Bloccai le mie caviglie sulla sua schiena, spingendolo di più dentro di me, come se non volessi che rimuovesse il suo cazzo. Probabilmente era così. Nonostante cercai di mantenerlo calmo, i suoi fianchi ruotarono contro i miei, impalandomi sul terreno della foresta. Il suo odore, un po’ salato e scuro come il terreno ricoperto di muschio, riempì i miei polmoni mentre urlavo il suo nome. Non attutì la mia voce. Sembrava piacergli—come lo pregassi di andare più veloce. Gli piaceva uscire il suo cazzo da me, lentamente, prima di accontentarmi e spingerlo di nuovo dentro. Finalmente, non ce la feci più. “Vieni di nuovo per me Sarah. Lasciati andare.” Obbedii, tremando sotto di lui. Quel dolore sempre più grande e dolce fuoriuscì dal mio corpo. Le sue mani lasciarono andare i miei polsi e afferrarono i miei fianchi, penetrando più velocemente. Scavai la sua schiena con le mie unghia, avvicinandolo di più a me. Inspirò, chiuse gli occhi, e crollò, gemendo nel mio orecchio. Lo baciò e rimase dentro di me. Mi piaceva—era come se fossimo una sola persona, come se niente potesse separarci. “Voglio rimanere così per sempre,” sussurrai. “Anche io e adesso possiamo.” I miei occhi si restrinsero. “Che intendi?” “Perché qui, fuori dal villaggio, nessuno ci conosce, quindi non siamo più spiriti gemelli. Sono soltanto un uomo che ti ama—che vuole are il resto della sua vita con te.” Le sue parole erano come una droga. Il mio corpo era frastornato e stupendamente stanco, e la mia gola stretta. Per un momento, non potei fare altro
che ascoltare il silenzio della foresta. “Veramente?” Si alzò appoggiandosi sui gomiti, sorridendo. “Veramente. Nessuno conosce il nostro segreto, quindi non ne abbiamo più uno da mantenere. Tutto quello che conosceranno sarà il nostro amore.” Poi strinse le mie dita tra le sue, baciandole uno per uno. “Non permetterò che nessun altro ti faccia del male,” promise. Appoggiai la mia testa sulla sua spalla, vicino il suo cuore, e ascoltai il suo ritmo calmo, mentre il calore del suo corpo cacciava via il gelo.
Incontra Virginia
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Virginia Locke scrive sulle persone al loro meglio e al loro peggio, e delle tante sfaccettature dell’amore e dell’ossessione. Attualmente risiede in un vecchio appartamento in mattoni, con il suo burbero gatto, accanto al suo ristorante di taco preferito. Giura sia una bellissima coincidenza e non la ragione per cui si sia trasferita proprio li, ma nessuno le crede. Contatta Virginia http://www.virginialocke.com
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